EMIL CIORAN


MECCANISMO DELL'UTOPIA

STORIA E UTOPIA

ADELPHI


LAURETO RODONI
IN MEMORIAM EMIL CIORAN
(I. SENZA PERTUGI - nº VI SALVIFICHE BUFERE)

***
CIORAN SU SCRIVI COM

I - II


Qualunque sia la grande città dove il caso mi porta, mi meraviglio che non vi si scatenino tutti i giorni sommosse, massacri, una carneficina inaudita, un disordine da fine del mondo. Come possono coesistere tanti uomini in uno spazio così ridotto, senza distruggersi, senza odiarsi mortalmente? Per la verità si odiano, ma non sono all'altezza del loro odio. Questa mediocrità, questa impotenza salva la società, ne assicura la durata e la stabilità. Di tanto in tanto vi si produce qualche scossa di cui i nostri istinti approfittano; poi, continuiamo a guardarci negli occhi come se nulla fosse accaduto e a coabitare senza sbranarci troppo manifestamente. Tutto rientra nell'ordine, nella calma della ferocia, altrettanto temibile, in ultima istanza, del caos che l'aveva interrotta.
Ma mi meraviglio ancora di più che, essendo la società quella che è, qualcuno si sia sforzato di concepirne un'altra, del tutto diversa. Da dove può provenire tanta ingenuità, o tanta follia? La domanda sarà normale e banale quanto si vuole, ma la curiosità che mi ha indotto a porla ha, in compenso, la scusa di essere malsana.
In cerca di nuove prove, e proprio nel momento in cui disperavo di trovarne, ebbi l'idea di buttarmi sulla letteratura utopistica, di consultarne i «capolavori», di impregnarmene, di crogiolarmi in essi. Con mia grande soddisfazione, trovai di che saziare il mio desiderio di penitenza, il mio appetito di mortificazione. Quale pacchia passare alcuni mesi a censire i sogni di un avvenire migliore, di una società «ideale», a consumare l'illeggibile! Aggiungo subito che questa letteratura ributtante è ricca di insegnamenti e che, a frequentarla, non si perde del tutto il proprio tempo. Vi si distingue fin dal principio il ruolo (fecondo o funesto, come meglio piace) che svolge, nella genesi degli avvenimenti, non la felicità, ma l'idea di felicità, idea che spiega come mai, dato che l'età del ferro è coestensiva alla storia, ogni epoca si metta a divagare sull'età dell'oro. Se si mettesse termine a queste divagazioni, ne seguirebbe una stasi totale. Agiamo soltanto sotto il fascino dell'impossibile: quanto dire che una società incapace di generare un'utopia e di votarvisi è minacciata di sclerosi e di rovina. La saggezza, che nulla affascina, raccomanda la felicità data, esistente; l'uomo la rifiuta, e soltanto questo rifiuto ne fa un animale storico, voglio dire un amatore di felicità immaginata.

«Presto sarà la fine di tutto; e vi saranno un nuovo cielo e una nuova terra», leggiamo nell'Apocalisse. Eliminate il cielo, conservate soltanto la «nuova terra» e avrete il segreto e la formula dei sistemi utopistici; per maggior precisione, bisognerebbe forse sostituire «città» a «terra», ma è solo un particolare; ciò che conta è la prospettiva di un nuovo avvento, la febbre di un'attesa essenziale, parusia degradata, modernizzata, da cui nascono questi sistemi, così cari ai diseredati. La miseria è effettivamente il grande ausilio dell'utopista, la materia su cui lavora, la sostanza di cui nutre i suoi pensieri, la provvidenza delle sue ossessioni. Senza di essa, rimarrebbe disoccupato; ma la miseria lo occupa, lo attira o lo molesta, a seconda che sia povero o ricco; d'altra parte, essa non può fare a meno di lui, ha bisogno di questo teorico, di questo fanatico dell'avvenire, tanto più che essa stessa, come meditazione interminabile sulla possibilità di sfuggire al suo proprio presente, non riuscirebbe a sopportarne la desolazione, senza l'ossessione di un'altra terra. Ne dubitate? È perché non siete giunti all'indigenza totale. Se vi perverrete, vedrete che più sarete al verde, e più spenderete il vostro tempo e la vostra energia nel riformare tutto, coll'immaginazione, dunque in pura perdita. Non penso soltanto alle istituzioni, creazioni dell'uomo - queste, beninteso, le condannerete immediatamente e senza appello - ma agli oggetti, a tutti gli oggetti, anche i più insignificanti. Non potendoli accettare tali e quali, vorreste imporre a essi le vostre leggi e i vostri capricci, fare a loro spese opera di legislatore o di tiranno, vorreste, ancora, intervenire nella vita degli elementi per modificarne la fisionomia e la struttura. L'aria vi irrita: si: cambi! Anche la pietra. E così pure il regno vegetale, e l'uomo. Scendere, oltre le basi dell'essere, fino ai fondamenti del caos, per impadronirsene, per stabilirvisi! Quando non hai un soldo in tasca, ti agiti, vaneggi, sogni di possedere tutto, e questo tutto, finché dura la frenesia, lo possiedi davvero, sei pari a Dio, ma nessuno se ne accorge, neanche Dio, neanche tu. Il delirio dei miserabili è generatore di avvenimenti, fonte di storia: una folla di esagitati che vogliono un altro mondo, quaggiù e subito. Sono loro che ispirano le utopie, è per loro che si scrivono. Ma utopia, ricordiamocelo, significa da nessuna parte.
E dove sarebbero queste città, che il male non sfiora, in cui si benedice il lavoro e nessuno teme la morte? Vi si sarebbe costretti a una felicità fatta di idilli geometrici, di estasi regolamentate, di mille meraviglie ripugnanti, quali necessariamente presenta lo spettacolo di un mondo perfetto, di un mondo fabbricato. Con risibile meticolosità, Campanella ci descrive i Solariani immuni da «gotta, reumatismi, catarro, sciatica, coliche, idropisia, flatuosità»... Tutto abbonda nella Città del Sole, «perché ognuno tiene a distinguersi in ciò che fa. Il capo preposto a ogni cosa è chiamato: Re... Donne e uomini, divisi in brigate, si danno al lavoro, senza mai infrangere gli ordini dei loro re, e senza mai mostrarsi stanchi, come faremmo noi. Essi guardano ai loro capi come a padri o a fratelli maggiori». - Si ritroveranno le stesse insulsaggini nelle opere del genere, particolarmente in quelle di un Cabet, di un Fourier o di un Morris, tutte sprovviste di quella punta di acredine, così necessaria alle opere, letterarie o d'altro genere.
Per concepire una vera utopia, per dipingere con convinzione il quadro della società ideale, ci vuole una certa dose di ingenuità, anzi di scempiaggine, che, se troppo evidente, finisce con l'esasperare il lettore. Le sole utopie leggibili sono quelle false, quelle che, scritte per gioco, divertimento o misantropia, prefigurano o evocano i Viaggi di Gulliver, bibbia dell'uomo disingannato, quintessenza di visioni non chimeriche, utopia senza speranza. Con i suoi sarcasmi, Swift ha smaliziato un genere fino al punto di distruggerlo.

È più facile confezionare un'utopia che un'apocalisse? L'una e l'altra hanno i loro principi e le loro banalità. La prima, i cui luoghi comuni si accordano meglio con i nostri istinti profondi, ha dato origine a una letteratura assai più abbondante che non la seconda. Non è dato a tutti di contare sopra una catastrofe cosmica, né di gradire il linguaggio e la maniera in cui la si annuncia e proclama. Ma chi ne ammette l'idea e l'approva leggerà, nei Vangeli, col trasporto del vizio, le espressioni e i clichés che si imporranno a Patmos: «... il cielo si oscurerà, la luna non avrà il suo chiarore, gli astri cadranno..., tutte le tribù della terra si lamenteranno..., non passerà questa generazione prima che tutte queste cose accadano». - Questo presentimento dell'inaudito, di un avvenimento capitale, quest'attesa cruciale può trasformarsi in illusione, e sarà la speranza di un paradiso sulla terra o altrove; oppure in ansia, e sarà la visione di un Peggio ideale, di un cataclisma voluttuosamente temuto.
«... e dalla sua bocca esce una spada aguzza per colpire le nazioni». Convenzioni dell'orrore, stereotipi, senz'altro. San Giovanni doveva cadervi, dal momento che optava per questo splendido gergo, parata di crolli, preferibile, tutto sommato, alle descrizioni di isole e di città in cui una felicità impersonale ti soffoca, in cui l'«armonia universale» ti stringe e ti stritola. I sogni dell'utopia si sono per la maggior parte realizzati, ma in uno spirito del tutto diverso da quello in cui li aveva concepiti; ciò che per essa era perfezione, per noi è tara; le sue chimere sono le nostre disgrazie. Il tipo di società che l'utopia immagina su un tono lirico ci appare, all'atto pratico, intollerabile. Si giudichi dal seguente esempio del Voyage en Icarie: «Duemilacinquecento ragazze (modiste) lavorano in un atelier, alcune sedute, altre in piedi, quasi tutte attraenti... L'abitudine che ogni operaia ha di fare la stessa cosa raddoppia ancora la rapidità del lavoro, unendovi la perfezione. Le più eleganti parures nascono a migliaia ogni mattina dalle mani delle loro belle creatrici». Elucubrazioni del genere dipendono da debolezza mentale o da cattivo gusto. Eppure, materialmente, Cabet ha visto giusto; si è ingannato soltanto sull'essenziale. Completamente ignaro della distanza che separa essere e produrre (
noi non esistiamo, nel pieno senso della parola, se non al di fuori di ciò che facciamo, al di là dei nostri atti), egli non poteva scoprire la fatalità inerente a ogni forma di lavoro, artigianale, industriale o d'altro genere. La cosa che colpisce di più nei racconti utopistici è la mancanza di fiuto, d'istinto psicologico. I loro personaggi sono automi, finzioni o simboli: nessuno è vero, nessuno supera la condizione di fantoccio, di idea smarrita in mezzo a un universo senza punti di riferimento. I bambini stessi vi diventano irriconoscibili. Nello «stato societario» di Fourier essi sono talmente puri che ignorano perfino la tentazione di rubare, di «prendere una mela dall'albero». Ma un bambino che non ruba non è un bambino. A che pro creare una società di marionette? Io raccomando la descrizione del Falansterio come il più efficace degli emetici.
Ponendosi agli antipodi di un La Rochefoucauld, l'inventore di utopie è un moralista che scorge in noi solamente disinteresse, appetito di sacrificio, abnegazione. Esangue, perfetto e nullo, folgorato dal Bene, privo di peccati e di vizi, senza spessore né contorni, in nessun modo iniziato all'esistenza, all'arte di arrossire di sé, di variare le proprie vergogne e i propri supplizi, egli non sospetta il piacere che ci ispira l'accasciamento dei nostri simili, l'impazienza con la quale attendiamo e seguiamo la loro caduta. Quest'impazienza e questo piacere possono, all'occasione, derivare da una curiosità apprezzabile e non comportare nulla di diabolico. Finché un essere si eleva, prospera, avanza, non si sa chi è, perché, dal momento che l'ascesa lo allontana da se stesso, egli manca di realtà, non è. Parimenti, non si conosce se stessi se non da quando si incomincia a decadere, da quando ogni riuscita, a livello degli interessi umani, si rivela impossibile: disfatta chiaroveggente per mezzo della quale, entrando in possesso del proprio essere, ci si dissocia dal torpore universale. Per afferrare meglio il decadimento proprio o quello altrui bisogna passare attraverso il male e, se occorre, immergervisi: come farlo in queste città e in queste isole dove il male è escluso per principio e per ragion di Stato? Le tenebre vi sono vietate; vi è ammessa solamente la luce. Nessuna traccia di dualismo: l'utopia è per essenza antimanichea. Ostile all'anomalia, al deforme, all'irregolare, essa tende al consolidamento dell'omogeneo, del tipo, della ripetizione e dell'ortodossia.
Ma la vita è rottura, eresia, deroga alle norme della materia. E l'uomo, in rapporto alla vita, è eresia di secondo grado, vittoria dell'individuale, del capriccio, apparizione aberrante, animale scismatico che la società - massa di mostri addormentati - mira a ricondurre sulla retta via. Eretico per eccellenza, solitudine incarnata, infrazione all'ordine universale, il mostro risvegliato si compiace della propria eccezione, si isola nei suoi onerosi privilegi e paga in durata ciò che guadagna rispetto ai suoi «simili»: più se ne distingue, e più sarà, insieme, pericoloso e fragile, perché turba la pace degli altri e si crea, in mezzo alla città, uno statuto di indesiderabile al prezzo della propria longevità.
«Le nostre speranze nella condizione futura della specie umana si possono ridurre a questi tre punti importanti: la distruzione della disuguaglianza fra le nazioni, i progressi dell'uguaglianza in uno stesso popolo, infine il perfezionamento. dell'uomo» (Condorcet).
Fedele alla descrizione di città reali, la storia, che constata dappertutto e sempre il fallimento piuttosto che il compimento delle nostre speranze, non ha ratificato nessuna di tali previsioni. Per i Tacito non esiste una Roma ideale.
Mettendo al bando l'irrazionale e l'irreparabile, l'utopia si oppone inoltre alla tragedia, parossismo e quintessenza della storia. In una città perfetta ogni conflitto cesserebbe; le volontà vi sarebbero strozzate, placate o rese miracolosamente convergenti; vi regnerebbe soltanto l'unità, senza l'ingrediente del caso o della contraddizione. L'utopia è un miscuglio di razionalismo puerile e di angelismo secolarizzato.
Siamo affogati nel male. Non che tutti i nostri atti siano cattivi; ma, quando capita di commetterne di buoni, ne soffriamo per aver contrastato i nostri impulsi spontanei: la pratica della virtù si riduce a un esercizio di penitenza all'apprendistato della macerazione. Angelo decaduto mutato in demiurgo, Satana, preposto alla Creazione, si erge davanti a Dio e si rivela, quaggiù, più a suo agio e perfino più potente di lui; lungi dall'essere un usurpatore, egli è il nostro padrone, sovrano legittimo che la spunterebbe sull'Altissimo, se l'universo fosse ridotto all'uomo. Abbiamo dunque il coraggio di riconoscere da chi dipendiamo!
Le grandi religioni non hanno sbagliato su questo punto: ciò che Màra offre a Buddha, Arimane a Zoroastro, il Tentatore a Gesù, è la terra e la supremazia sulla terra, realtà che è effettivamente in potere del Principe del mondo. E voler instaurare un regno nuovo, utopia generalizzata o impero universale, significa fare il suo gioco, cooperare alla sua impresa e perfezionarla perché ciò che egli desidera sopra ogni cosa è che ci compromettiamo con lui e che al suo contatto ci distogliamo dalla luce, dal rimpianto della nostra antica felicità.

Chiuso da cinquemila anni, il paradiso si riaprì, secondo San Giovanni Crisostomo, nel momento in cui spirò Cristo; il ladrone poté così entrarvi, seguito da Adamo, finalmente rimpatriato, e da un numero ristretto di giusti che vegetavano agli inferi attendendo l' ora della redenzione».
Tutto fa credere che il paradiso sia nuovamente sprangato e che lo sarà ancora per molto tempo. Nessuno può forzarne l'ingresso: i pochi privilegiati che lo godono vi si sono senz'altro barricati, secondo un sistema di cui hanno potuto osservare sulla terra i prodigi. Questo paradiso ha l'aria di essere il vero: nei momenti di più profondo abbattimento, pensiamo a esso e in esso vorremmo dissolverci. Un subitaneo impulso ci spinge e ci sprofonda dentro: vogliamo riguadagnare, in un attimo, ciò che da sempre abbiamo perduto e rimediare d'un tratto alla colpa di essere nati? Niente svela il senso metafisico della nostalgia meglio della sua impossibilità di coincidere con un momento qualsiasi del tempo; perciò essa cerca consolazione in un passato remoto, immemorabile, refrattario ai secoli e come anteriore al divenire. Il male di cui soffre - effetto di una rottura che risale alle origini - le impedisce di proiettare l'età dell'oro nel futuro; ciò che concepisce naturalmente è l'antico, il primordiale, cui aspira meno per deliziarvisi che per dileguarvisi, per deporvi il fardello della coscienza. Se torna alla sorgente dei tempi è per ritrovarvi il paradiso vero, oggetto dei propri rimpianti. Tutto all'opposto, la nostalgia da cui procede il paradiso di quaggiù sarà priva proprio della dimensione del rimpianto: capovolta, falsata e impura, tesa verso il futuro, obnubilata dal «progresso», replica temporale, metamorfosi grottesca del paradiso originario. Contagio? Automatismo? Questa metamorfosi ha finito col prodursi in ognuno di noi. Per amore o per forza, puntiamo sull'avvenire, ne facciamo una panacea e, assimilandolo alla nascita di un tutt'altro tempo all'interno del tempo stesso, lo consideriamo come una durata inesauribile e tuttavia conclusa, come una storia atemporale. Contraddizione in termini, inerente alla speranza di un nuovo regno, di una vittoria dell'insolubile in seno al divenire. I nostri sogni di un mondo migliore si fondano su un'impossibilità teorica. C'è da stupirsi se, per giustificarli, bisogna ricorrere a paradossi solidi?

Finché il cristianesimo appagava gli animi, l'utopia non poteva sedurli; da quando esso incominciò a deluderli, l'utopia cercò di conquistarli e di insediarvisi. Vi si era dedicata già ai tempi del Rinascimento, ma non doveva riuscirci che due secoli più tardi, in un'epoca di superstizioni «illuminate». Così nacque l'Avvenire, visione di una felicità irrevocabile, di un paradiso guidato, in cui il caso non ha posto e la minima fantasia appare come un'eresia o una provocazione. Farne la descrizione significherebbe entrare nei particolari dell'inimmaginabile. L'idea stessa di una città ideale è una sofferenza per la ragione, un'impresa che onora il cuore e squalifica l'intelletto. (Come mai un Platone poté condiscendervi? Egli è l'antenato, stavo per dimenticarlo, di tutte queste aberrazioni, riprese e aggravate da Tommaso Moro, il fondatore delle illusioni moderne). Edificare una società in cui, secondo un'etichetta terrificante, i nostri atti sono catalogati e regolati, e, per una carità spinta fino all'indecenza, ci si interesserà ai nostri pensieri più riposti, significa trasferire le angosce dell'inferno nell'età dell'oro o creare, col concorso del diavolo, un'istituzione filantropica. Solariani, Utopiani, Armoniani - i loro nomi spaventevoli assomigliano alla loro sorte, incubo che attende anche noi, in quanto noi stessi l'abbiamo eretto a ideale.
Per magnificare i vantaggi del lavoro, le utopie dovevano fare il rovescio della Genesi. Su questo punto in particolare, esse sono l'espressione di un'umanità sprofondata nella fatica, fiera di compiacersi delle conseguenze della caduta, la più grave delle quali resta l'ossessione del rendimento. Le stigmate di una razza che ama il «sudore della fronte», che ne fa un segno di nobiltà, che si agita e pena esultando, noi le portiamo con orgoglio e ostentazione; da qui l'orrore che ispira, a noialtri reprobi, l'eletto che rifiuta di darsi da fare, o di eccellere in un campo qualsiasi. Del rifiuto per cui lo rimproveriamo è capace solamente chi conserva il ricordo di una felicità immemorabile. Spaesato in mezzo ai suoi simili, egli è come loro e tuttavia non può comunicare con loro; da qualunque lato guardi, non si sente di qui; tutto ciò che vi discerne gli sembra usurpazione: il fatto stesso di portare un nome... Le sue imprese falliscono, egli vi si lancia senza crederci: simulacri dai quali lo distoglie l'immagine precisa di un altro mondo. Una volta cacciato dal paradiso, l'uomo, perché non ci pensasse più e non ne soffrisse, ottenne in compenso la facoltà di volere, di tendere all'atto, di inabissarvisi con entusiasmo, con brio. Ma l'abulico, nel suo distacco, nella sua inerzia soprannaturale quale sforzo potrebbe fare, a quale oggetto potrebbe dedicarsi? Niente lo impegna a uscire dalla sua assenza. E tuttavia neppure lui sfugge completamente alla comune maledizione: si esaurisce in un rimpianto, e vi prodiga più energia di quanta non ne impieghiamo noi in tutte le nostre imprese.

Quando Cristo affermava che il «regno di Dio» non è né «qui» né «là», ma dentro di noi, condannava in anticipo le costruzioni utopistiche, per le quali ogni «regno» è necessariamente esterno, senza alcun rapporto con il nostro «io» profondo o con la nostra salvezza individuale. Esse hanno a tal punto inciso su di noi che aspettiamo la nostra liberazione dal di fuori, dal corso delle cose o dal cammino delle collettività. Così si sarebbe delineato il Senso della storia, la cui voga doveva soppiantare quella del Progresso, senza aggiungervi nulla di nuovo. Bisognava tuttavia buttare tra i rifiuti non un concetto, ma una delle sue traduzioni verbali, di cui si era abusato. In materia ideologica, non sarebbe facile rinnovarsi senza l'aiuto dei sinonimi.
Per quanto diversi siano i suoi travestimenti, l'idea di perfettibilità è penetrata nel nostro costume: vi sottoscrive anche chi la mette in causa. Che la storia si svolga e niente più, indipendentemente da una direzione determinata, da uno scopo, nessuno vuole riconoscerlo. «Uno scopo, essa ne ha uno, vi corre incontro, lo ha virtualmente raggiunto», proclamano i nostri desideri e le nostre dottrine. Più un'idea sarà carica di promesse immediate, e più avrà la probabilità di trionfare. Incapaci di trovare il «regno di Dio» in se stessi, o piuttosto troppo scaltri per volervelo cercare, i cristiani lo hanno collocato nel divenire: hanno pervertito un insegnamento allo scopo di garantirne la riuscita. Del resto, Cristo stesso alimentò l'equivoco: da un lato, rispondendo alle insinuazioni dei farisei, predicava un regno interiore, sottratto al tempo; dall'altro, dichiarava ai suoi discepoli che, essendo prossima la salvezza, avrebbero assistito, loro e la «generazione presente», alla consumazione di tutte le cose. Avendo capito che gli uomini accettavano il martirio per una chimera, ma non per una verità, egli si è adeguato alla loro debolezza. Se avesse agito diversamente avrebbe compromesso la propria opera. Ma ciò che in lui era concessione o tattica è negli utopisti postulato o passione.
Un gran passo in avanti fu compiuto il giorno in cui gli uomini capirono che, per potersi tormentare meglio a vicenda, bisognava radunarsi, organizzarsi in società. A dar credito alle utopie, vi sarebbero riusciti soltanto a metà; esse si propongono dunque di aiutarli, di offrir loro un ambiente appropriato all'esercizio di una felicità completa, pur pretendendo, in compenso, che gli uomini abdichino alla loro libertà o, se la mantengono, che se ne servano unicamente per gridare la loro gioia in mezzo alle sofferenze che s'infliggono a gara. Questo sembra il senso della sollecitudine infernale che le utopie manifestano verso gli uomini. In queste condizioni, come non prospettare un'utopia a rovescio, una liquidazione del bene infimo e del male immenso inerenti all'esistenza di qualunque ordine sociale?
Il progetto è allettante, la tentazione irresistibile. Ma con quale mezzo porre fine a una così vasta quantità di anomalie? Ci vorrebbe qualche cosa di paragonabile al solvente universale ricercato dagli alchimisti, del quale valutare l'efficacia non sui metalli, ma sulle istituzioni. In attesa che se ne trovi la formula, notiamo di sfuggita che, per i loro lati positivi, l'alchimia e l'utopia si congiungono: inseguendo, in campi eterogenei, un sogno di trasmutazione affine, se non identico, l'una sfida l'irriducibile nella natura, l'altra l'irriducibile nella storia. Ed è da uno stesso vizio di pensiero o da una stessa speranza che procedono l'elisir di vita e la città ideale.

Come una nazione, per distinguersi dalle altre, per umiliarle e schiacciarle, o semplicemente per acquistare una fisionomia unica, ha bisogno di un'idea insensata che la guidi e le proponga fini incommensurabili con le sue capacità reali, così una società si evolve e si afferma soltanto se le si suggeriscono o le si inculcano ideali sproporzionati a ciò che essa è. L'utopia assolve nella vita delle collettività la funzione assegnata all'idea di missione nella vita dei popoli. Le ideologie sono il sottoprodotto, si direbbe l'espressione volgare, delle visioni messianiche o utopistiche.
In se stessa un'ideologia non è né buona né cattiva. Tutto dipende dal momento in cui la si adotta. Il comunismo, ad esempio, agisce su una nazione virile come uno stimolante; la spinge in avanti e ne favorisce l'espansione; su una nazione vacillante la sua influenza potrebbe essere meno felice. Né vero né falso, esso precipita certi processi, e non per causa sua, ma per mezzo suo la Russia ha acquistato il vigore attuale. Svolgerebbe la stessa funzione, una volta insediato nel resto dell'Europa? Vi rappresenterebbe un principio di rinnovamento? Piacerebbe sperano; in ogni caso, la domanda comporta soltanto una risposta indiretta, arbitraria, ispirata da analogie di ordine storico. Si rifletta sugli effetti del cristianesimo ai suoi inizi: esso diede un colpo fatale alla società antica, la paralizzò e la finì; in compenso, fu una benedizione per i barbari, i cui istinti si esasperarono al suo contatto. Lungi dal rigenerare un mondo decrepito, esso non rigenerò se non i rigenerati. Allo stesso modo, il comunismo sarà la salvezza, nell'immediato, soltanto di coloro che sono già salvi; non potrà recare una speranza concreta ai moribondi, ancor meno rianimare dei cadaveri.

Dopo aver denunciato gli aspetti ridicoli dell'utopia, veniamo ai suoi meriti e, poiché gli uomini si adattano così bene allo stato sociale e ne distinguono a fatica il male immanente, facciamo come loro, associamoci alla loro incoscienza.
Le utopie non saranno mai lodate abbastanza per aver denunciato i misfatti della proprietà, l'orrore che rappresenta, le calamità di cui è causa. Piccolo o grande, il proprietario è macchiato, corrotto nella sua essenza: la sua corruzione si riflette sul minimo oggetto che tocca o si appropria. Se si minaccia la sua «fortuna», se lo si spoglia di essa, egli sarà costretto a una presa di coscienza di cui normalmente non è capace. Perché riprenda un'apparenza umana, perché riacquisti la sua «anima», bisogna che si rovini e che acconsenta alla propria rovina. La rivoluzione lo aiuterà: restituendolo alla sua nudità primitiva, lo annulla nell'immediato e lo salva nell'assoluto, perché essa libera, interiormente s'intende, quegli stessi che colpisce per primi, i possidenti. Li riclassifica, ridà loro l'antica dimensione e li riconduce verso i valori che hanno tradito. Ma prima ancora di avere il mezzo o l'occasione per colpirli, alimenta in loro una paura salutare: turba il loro sonno, nutre i loro incubi, e l'incubo è l'inizio del risveglio metafisico.
La rivoluzione si rivela dunque utile in quanto agente di distruzione; fosse pure nefasta, una cosa la riscatterebbe sempre: essa soltanto sa di quale sorta di terrore servirsi per scuotere questo mondo di proprietari, il più atroce dei mondi possibili. Ogni forma di possesso (non dobbiamo temere di insistervi!) degrada, avvilisce, lusinga il mostro assopito nel fondo di ognuno di noi. Disporre anche soltanto di una scopa, considerare qualsiasi cosa come proprio bene, significa partecipare all'indegnità generale. Che fierezza scoprire che nulla ti appartiene, che rivelazione! Ti ritenevi l'ultimo degli uomini ed ecco che, d'un tratto, sorpreso e come illuminato dalla tua miseria, non ne soffri più; al contrario, ne trai motivo di vanto. E tutto quello che desideri ancora è di essere privo di tutto come un santo o un alienato.
Quando non se ne può più dei valori tradizionali, ci si orienta necessariamente verso l'ideologia che li nega. Ed essa seduce molto più per la sua forza di negazione che non per le sue formule positive. Volere lo sconvolgimento dell'ordine sociale significa attraversare una crisi più o meno segnata da temi comunisti.
Ciò è vero oggi, come lo fu ieri e lo sarà ancora domani. Tutto avviene come se, dal Rinascimento in poi, gli animi fossero stati attratti, in superficie, dal liberalismo e, in profondità, dal comunismo, il quale, lungi dall'essere un prodotto di circostanza, un accidente storico, è l'erede dei sistemi utopistici e il beneficiano di un lungo lavoro sotterraneo; dapprima capriccio o scisma, esso avrebbe in seguito assunto il carattere di un destino e di un'ortodossia. Attualmente, le coscienze possono manifestarsi soltanto in due forme di rivolta: comunista e anticomunista. Tuttavia, come non accorgersi che l'anticomunismo equivale a una fede rabbiosa, inorridita, nell'avvenire del comunismo?
Quando suona l'ora di un'ideologia, tutto concorre al suo successo, perfino i suoi nemici; né la polemica né la polizia potranno arrestarne l'espansione o ritardarne la vittoria; essa vuole e può realizzarsi, incarnarsi; ma più vi si avvicina, e più corre il rischio di esaurirsi; instaurata, si svuoterà del suo contenuto ideale, estenuerà le sue risorse per degenerare, alla fine, in chiacchiera o in spauracchio, compromettendo le promesse di salvezza di cui disponeva.
Lo sviluppo riservato al comunismo dipende dal modo in cui spenderà le sue riserve di utopia. Finché ne disporrà, tenterà inevitabilmente tutte le società che non ne avranno fatto l'esperienza; arretrando qui, avanzando là, investito di virtù che nessun'altra ideologia detiene, farà il giro del globo, sostituendosi alle religioni defunte o vacillanti, e proponendo dovunque alle folle moderne un assoluto degno del loro nulla.
Considerato in sé, esso appare come l'unica realtà cui si possa ancora sottoscrivere, se si conserva anche un solo briciolo di illusione sull'avvenire: ecco perché, in gradi diversi, siamo tutti comunisti... Ma non è forse una speculazione sterile giudicare una dottrina al di fuori delle anomalie inerenti alla sua realizzazione pratica? L'uomo attenderà sempre l'avvento della giustizia; e, affinché trionfi, rinuncerà alla libertà, per poi rimpiangerla. Qualunque cosa egli faccia, l'impasse insidia i suoi atti e i suoi pensieri, come se la giustizia fosse non il termine, ma il punto di partenza, la condizione e la chiave. Non c'è forma sociale nuova che sia in grado di salvaguardare i vantaggi della vecchia: una somma pressappoco uguale di inconvenienti si riscontra in tutti i tipi di società. Equilibrio maledetto, ristagno irrimediabile, di cui soffrono ugualmente gli individui e le collettività. Le teorie non possono farci nulla, dato che il fondo della storia è impermeabile alle dottrine che ne segnano l'apparenza. L'èra cristiana fu tutt'altra cosa dal cristianesimo; l'èra comunista, a sua volta, non potrebbe evocare il comunismo come tale. Non esiste evento naturalmente cristiano o naturalmente comunista.

Se l'utopia è l'illusione ipostatizzata, il comunisino, spingendosi ancora oltre, sarà l'illusione decretata, imposta: una sfida lanciata all'onnipresenza del male, un ottimismo obbligatorio. Difficilmente vi si adatterà colui che, a furia di esperienze e di prove, vive nell'ebbrezza della delusione e, sull'esempio del redattore della Genesi, è restio ad associare l'età dell'oro al divenire. Non che disprezzi i maniaci del «progresso indefinito» e i loro sforzi per far trionfare quaggiù la giustizia; ma, per sua disgrazia, sa che la giustizia è un'impossibilità materiale, un grandioso nonsenso, l'unico ideale di cui si possa affermare con certezza che non si realizzerà mai, e contro il quale la natura e la società sembrano aver mobilitato tutte le loro leggi.
Questi contrasti, questi conflitti non sono propri esclusivamente di un solitario. Con maggiore o minore intensità, li proviamo anche noialtri: non ci capita forse di desiderare la distruzione di questa nostra società, pur conoscendo le delusioni che ci riserva quella che la sostituirà? Uno sconvolgimento totale, fosse pure inutile, una rivoluzione senza fede è tutto ciò che si può ancora sperare in un'epoca in cui più nessuno ha abbastanza candore per essere un vero rivoluzionario. Quando, in preda alla frenesia dell'intelletto, ci si abbandona a quella del caos, si reagisce come un forsennato in possesso delle proprie facoltà, come un folle superiore alla propria follia, o come un dio che, in un accesso di rabbia lucida, si compiacesse di polverizzare sia la sua opera sia il suo essere.
I nostri sogni sull'avvenire sono ormai inseparabili dai nostri terrori. La letteratura utopistica era insorta, ai suoi inizi, contro il Medio Evo, contro l'alta stima in cui esso teneva l'inferno e contro il gusto che professava per le visioni da fine del mondo. Si direbbe che i sistemi così rassicuranti di un Campanella e di un Tommaso Moro fossero concepiti al solo fine di screditare le allucinazioni di una santa Ildegarda. Oggi, riconciliati col terribile, assistiamo a una contaminazione dell'utopia con l'apocalisse: la «nuova terra» che ci si annuncia assume sempre più la figura di un nuovo inferno. Ma, quest'inferno, noi lo attendiamo, ci facciamo anzi un dovere di accelerarne l'avvento. I due generi, l'utopistico e l'apocalittico, che ci sembrano così dissimili, si fondono, stingono adesso l'uno nell'altro per formarne un terzo, meravigliosamente adatto a rispecchiare la sorta di realtà che ci minaccia e alla quale diremo tuttavia di sì, un sì corretto e senza illusioni. Sarà il nostro modo di essere irreprensibili davanti alla fatalità.