Globalizzare la colpa

di Giovanni Rotiroti

 

Leggendo: S. Givone, Eros / etos, Torino, Einaudi, 2000; R. Farneti, Il canone moderno. Filosofia politica e genealogia, Torino, Bollati Boringhieri, 2001; A. Laignel-Lavastine, Cioran, Eliade, Ionesco: l'oubli du fascisme, Paris, PUF, 2002;T. Nathan, Non siamo soli al mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 2003; A. Giovagnoli, Storia e globalizzazione, Roma-Bari, Laterza, 2003.

Il faut d'abord être coupable. Anche quando non c'è positiva imputazione di colpa? Sì, bisognerebbe rispondere (tragicamente).
La colpa è nel cuore del vivente. Che, di per sé, è innocente. Doppiamente innocente. Ma doppiamente incolpato, anzi, "maledetto". Il vivente è innocente in quanto nuda vita, vita esposta alla morte, vita che non chiede se non di essere lasciata vivere. Ma il vivente è innocente anche in quanto vita immediata, vita che è quella che è e quindi non è chiamata a rispondere a un principio di ordine superiore.1

Niente potrà togliermi dalla mente che questo mondo sia il frutto di un dio tenebroso di cui io prolungo l'ombra, e che sia mio compito esaurire le conseguenze della maledizione sospesa su di lui, e sull'opera sua.

La psicanalisi sarà un giorno totalmente screditata, su questo non c'è dubbio. Eppure, avrà distrutto i nostri ultimi resti d'ingenuità. Dopo la psicanalisi, non si potrà mai più essere innocenti.2

"Faut-il brûler Emil Cioran?". "Au lecteur en disposer. Nous restons pour notre part convaincue que notre histoire culturelle commune, d'Est en Ouest, a davantage à gagner qu'à perdre d'un tel détour".3 Certo. Bisogna bruciare l'opera di Cioran, perché, dopo Auschwitz, il pensatore transilvano, dalla sua mansarda parigina, non si vuole riconoscere colpevole, non rinnega il fatto di essere il complice storico del male assoluto (non solo banale). Almeno così lascia intendere la sentenza del libro su Cioran emessa da Alexandra Laignel-Lavastine.
Come non essere d'accordo con la studiosa francese? Il giovane Cioran, dopo il suo debutto editoriale, All'apice della disperazione,4 poco più che ventenne, si è fatto ammaliare dalle parate naziste sulle strade della Baviera e abbindolare dalla Guardia di ferro xenofoba in patria. Cioran è complice, forse, inconsapevole, nel millennio scorso, del male assoluto e quindi anche di Auschwitz. È un uomo colpevole che si vuole incolpevole, e che ancora nel 1964 annota nei suoi Cahiers:

Penso ai miei "errori" passati, e non posso rammaricarmene. Significherebbe calpestare la mia giovinezza, e non voglio assolutamente farlo. Gli entusiasmi di un tempo mi venivano dalla vitalità, dal desiderio di scandalo e di provocazione, da una volontà di efficacia nonostante il mio nichilismo di allora. - La cosa migliore che possiamo fare è accettare il nostro passato; oppure non pensarci più, considerarlo morto e sepolto.5

Senza imputazione, allora, alcuna libertà. Alcuni suoi scritti giovanili, tuttavia, lo inchiodano senza appello. La colpa ricade doppiamente sul soggetto. A nulla è valso, tutto questo tempo, seppellire i documenti che provano la sua colpevolezza nel cimitero della Biblioteca Nazionale di Bucarest, dispersi tra le tantissime riviste del periodo interbellico. Questi cadaveri viventi sono stati riesumati, purtroppo solo in parte. Nessuno si azzarda a pubblicarli integralmente. Perché?
Nel 1935 in un articolo su "Vremea" - riporta la Laignel-Lavastine - Cioran scriveva: "quando ne va del nostro destino e della nostra missione, bisogna saper rinunciare alla propria libertà, una libertà che, buona oggi, potrebbe esserci fatale domani".6 Sempre su "Vremea" in un altro articolo del 1934 si legge: "Non c'è uomo politico nel mondo di oggi che mi ispiri una simpatia e una ammirazione più grande di Hitler [...]. La mistica del Führer in Germania è pienamente giustificata. [...] I suoi discorsi sono attraversati da un pathos e una frenesia che solo uno spirito profetico può raggiungere. [...] Il merito di Hitler è di aver affascinato lo spirito critico di tutta una nazione. [...] ha destato una passione di fuoco nelle lotte politiche e dinamizzato con un soffio messianico un campo intero di valori che il razionalismo democratico aveva reso piatto e triviale".7 Come rimanere indifferenti davanti alle schegge di queste parole impazzite soprattutto dopo Auschwitz?
In Romania il lavoro di Z. Ornea aveva egregiamente chiarito le responsabilità politiche di un'intera generazione di giovani intellettuali, fra cui Mircea Eliade, Noica, Cioran. Eugène Ionesco era stato giustamente scagionato.8 Il libro della Laignel-Lavastine include tuttavia anche il suo nome sulla lista degli imputati. La studiosa francese non è la sola a essersi ingaggiata seriamente in questa inquisitoria. Molti altri studi, in questi ultimi anni, a proposito del controverso impegno politico di Cioran tra le due guerre in Romania, hanno contribuito a stigmatizzare il biasimo sociale sullo scrittore, gridato l'allarme sociale e hanno mostrato la volontarietà morale e politica dell'agire sconsiderato e colpevole dell'uomo. Allora perché non consegnare al macero della storia gli scritti del giovane filosofo transilvano, visto che sono segnati definitivamente dal male e dalla colpevolezza? Gli spettri hanno questo vizio: una volta che si riesumano parzialmente i cadaveri dal cimitero delle biblioteche, difficilmente si lasciano addomesticare o ricacciare nella fossa. È necessario disseppellirli integralmente, scovarli tutti se è possibile. E una volta che sono stati fatti emergere dal loro oblio, dal loro sonno di morte, è buona norma lasciarli andare, liberi di vagare, dar loro una parvenza di vita. Non c'è niente da temere. Se saranno veramente spettri, alla prima luce dell'alba, si dilegueranno, altrimenti si vedrà che sono solo dei poveri diavoli. Chi ha ancora paura degli spettri, degli inquietanti revenants dopo l'orrore di Auschwitz?
Cioran è colpevole. Non ci sono attenuanti. Partire dalle radici rimosse di un pensiero (storicamente, moralmente, metafisicamente...) colpevole, ricreare un dialogo impossibile con alcuni articoli del giovane Cioran, nel clima di "Criterion" prima della "diaspora" degli intellettuali, consentirà di interrogarsi nuovamente, "sine ira et cum studio", sul "caso Cioran", permetterà forse un "nuovo" ascolto della sua opera. Entrando faticosamente in relazione con la scrittura si chiamerà in causa il pensiero critico, le letture, e anche la "malattia", sia pure nei suoi impercettibili confini e percorsi fatali. Insomma, consentirà, si spera, di far emergere i tratti etici del soggetto.

La colpa, dicono gli specialisti, è un termine religioso, morale e giuridico controverso.9 La colpa non è estinguibile, permane come debito, esige una pena e una espiazione attraverso la quale, si spera, ci si possa definitivamente liberare dal male. Paolo di Tarso circoscriveva la colpa nel campo del peccato, essendo una trasgressione a un imperativo divino. Il senso di colpa si collega a un divieto. Forse con il fatto stesso di esistere l'uomo si considera colpevole a seguito di qualche indicibile violenza commessa di fronte alla legge. Ma esiste una volontarietà nelle azioni che inneschi il dispositivo della colpa? Solo il lessico giuridico sembra contemplare il nesso colpa-volontarietà. In ambito socio-politico la colpa è legata all'aggressività e al potere di fare il male e il cristianesimo ha contribuito a mettere in rilievo la responsabilità personale e l'individualizzazione della colpa. Con l'avvento della psicanalisi, più che la "deresponsabilizzazione" del soggetto, vittima delle sofferenze spirituali, Freud introduce la dimensione tragica della colpevolezza incolpevole originata da un'autorità interiore che è l'"angoscia morale", matrice del "senso di colpa". Dopo un'ipotesi intuitivamente filo-genetica sull' "origine" della colpa e l'ingenerarsi della coscienza morale in Totem e tabù, il senso di colpa nel Disagio della civiltà viene tematizzato nella pulsione di morte e rimanda a un'autodistruttività o eterodistruttività nell'ambito dei fenomeni più marcatamente psicopatologici. Ma la questione della colpa in Freud, con buona pace di tutti, non si può ridurre a questo.10
La caduta nel tempo, Il funesto demiurgo e alcuni capitoli di Storia e utopia del pensatore transilvano affondano la prospettiva nell'immaginario della colpa legato all'esperienza religiosa e all'origine etica del male dopo il "silenzio di Dio" su Auschwitz. Funestamente Cioran si scaglia contro l'universalizzazione della colpa e l'interiorizzazione di un castigo che operano come dei normalizzatori sociali, che anestetizzano la sofferenza e rimuovono il risentimento. I suoi testi interrogano la colpa nel contesto biblico che la vuole come rottura di un'alleanza con Dio. Cioran vede che la colpa non è più destino ma è trasformata in un processo di interiorizzazione. La sua scrittura sembra rivoltarsi. Dio ha fallito, anche Lui è colpevole.11 La creazione è minata al suo interno dal male. Che posto c'è per l'essere e per il bene quando il male è attivo nel mondo? Dio è incapace di predilezione per le creature e non riesce a dar conto della sproporzione tra le colpe e le sofferenze che ineriscono nella vita degli umani. Paradigma assiologico di Cioran, sin dagli scritti giovanili, è Giobbe nel cui libro la sofferenza non viene affatto giustificata dalla punizione, e quindi dalla colpa. Dio e l'uomo falliscono e rimangono tragicamente sconfitti dal male insito nella creazione.12 La tragedia dell'uomo è la tragedia di Dio. A Cioran non rimane che confessarlo amaramente e con sdegno. Impiega per dirla con Ricoeur il "linguaggio della confessione",13 una confessione sfrontata, amara, disperata e per molti tratti anche ironica. Ma quale parola può dirsi di fronte al silenzio di Dio e alla sofferenza del soggetto? Ci sono forse parole per la colpa, parole per far emergere un male sommerso ma forse sin troppo visibile? Cioran, come Giobbe, fatica a trovare i suoi capi di imputazione, rifiuta lo scandalo originario che si attua tra il male e la colpa. Dopo Auschwitz egli tenterà in una scrittura colpevolmente innocente, nel "linguaggio della confessione", di portare alla luce il male orribile agli occhi del mondo seppure con la forza disperata e la dignità prostrata di un negato pentimento, incapace di rimediare alle debolezze della teodicea. Il suo è un fermo no che vacilla di fronte all'ipotesi di redenzione o di riscatto. Sin dai suoi primissimi testi, come Agostino di Ippona, si interroga sulla colpa e sul peccato originale, affronta la fenomenologia del male, sorveglia i vissuti di sofferenza, registra i flagelli interiori, anche se talvolta si lascia cullare dalla tentazione disincantata dell'estasi, dell'eros e della musica, fatue "illusioni". Nei suoi primissimi articoli si affida alla filosofia: "Se non altro, la filosofia mi ha aiutato a teorizzare i miei malesseri, a trasporli in formule, a trovarne l'equivalente astratto, convenzionale, comune, a svuotarli, impoverirli, rendermeli sopportabili".14
Il metodo della confessione assunto sin dalla giovinezza scava impietosamente la coscienza, la violenta destinandola alla verità della caduta. Cioran si avvale della consulenza di Kierkegaard, da subito, per la conoscenza del dolore e della disperazione; e anche se la libertà emergente dall'ossessiva frequentazione della colpa gli potrebbe offrire l'idea di una possibile emancipazione, egli la sottopone al vaglio serrato e impaziente della scrittura, la destruttura, annienta lo stesso semantismo nel suo fondamento abissale e la restituisce ad una delle tante forme di "illusione". Il suo nichilismo scettico è quasi assoluto. Il soffio mortale di Qohelet fa sentire la sua voce. Anche la libertà è sottoposta al suo no, alla sua negazione di secondo grado, alla sua ennesima privazione di fondamento. Lo scotto che paga è in termini di vita, di sofferenza psichica oltre che di dolore (la precoce depressione lo tormenta, l'insonnia lo tiene desto, questo stato gli nega qualsiasi libertà se non quella di leggere accanitamente e di scrivere nella possibilità di un'impossibile terapia). La vita per essere autenticamente tale deve purificarsi dal crogiolo di avversità e dal male, deve scegliere di cancellarsi, di farsi non-vita, nell'isolamento e nella solitudine morale, tra le ferite vive del cuore.
Il tragico della non scelta di Cioran è comunque per il soggetto una scelta di libertà.15 È il suo tratto etico. Vivere è attraversare il male della vita nella figura del tempo, della storia e della scrittura. La vera libertà di Cioran è di decidere di non scegliere per la libertà.16 Di qui il tragico, l'aporia, ma soprattutto il doloroso paradosso di abbracciare una lucida follia. Di qui l'orgoglio per lo scacco, il fallimento, la frenesia della prova. Il soggetto dolorante, che è figura anch'essa segnata dal male e dalla colpa, non rinuncia mai a se stesso, ma vediamo che progressivamente si svuota, si purifica ed opera la sua desoggettivazione nella scrittura. Il prezzo che paga è la tortura della coscienza, una sorta di accanimento, un crogiolarsi che rimanda per il soggetto alla grande questione del godimento. Per far ciò si avvale di un'altra guida, Nietzsche, con il quale compie il lungo e inaugurale tirocinio di vivisezione della coscienza. Nella Genealogia della morale l'origine del sentimento di colpa dimora nella "cattiva coscienza", emblema rovesciato della tradizione platonico-cristiana. La rivolta alla coscienza approda a "un delirio della volontà nella crudeltà psichica". Di qui la decisione per l'espiazione gratuita, per la non ammissione di una colpa personale, di un ressentiment inestinguibile. E poi fa capolino anche Freud. C'è la "psicologia russa" come la definisce Cioran in una lettera ad un amico: Dostoevskij, ma anche l'amato Chestov, radicalizzano il problema della colpa all'interno di una cornice pur sempre cristiana. La colpa accomuna tutti gli uomini ne I Fratelli Karamazov, soprattutto nelle situazioni criminose, nella morte e nella follia, ma in Cioran non traspare la solidarietà universale nella colpa, perché la banalità sociale non si può eludere, perché il male e la sofferenza permangono attivi anche nel quotidiano dell'esistenza. Non ultima, in chiave kierkegaardiana, la lettura di Essere e tempo di Heidegger rinforza la sua convinzione sul fondamento infondato di un essere colpevoli originario, colpevoli per il solo fatto di esistere, per l'orrendo inconveniente di essere nati. Nel Funesto demiurgo Cioran scriverà:

La carne ha tradito la materia; il malessere che essa prova, che essa subisce, è il suo castigo. In genere, l'animato, fa la figura del colpevole nei confronti dell'inerte; la vita è uno stato di colpevolezza, tanto più grave in quanto nessuno ne prende realmente coscienza. Ma una colpa che è coestesa all'individuo, una colpa che pesa su di lui a sua insaputa, che è il prezzo da pagare per la sua promozione all'esistenza separata, per il misfatto commesso contro la creazione indivisa, questa colpa che, per essere inconscia, non è per questo meno reale e sa bene come farsi largo tra le pene della creatura.17

Queste parole invitano al silenzio. La colpa è indicibile, ma si può, si deve scrivere. Il lutto, la zona di ombra, la soglia del confine si infrangono sulla muta roccia biologica, sull'"inerte", la "materia" tradita. La scrittura della "carne" fa l'esperienza col suo altro e qui risuona afono l'urlo dello spossessamento. La storia di un uomo e della sua malattia mortale si staglia sotto il cupo sfondo della colpa. Cioran è colpevole, certo, ma con un irresponsabile frammento di fatalità. Auschwitz lo inchioda a "mille miglia" da Parigi. Le fantasie incolpevoli del giovane filosofo sono diventate colpevolmente realtà. Il filo conduttore della lettura di Cioran, a partire dal primo libro Al culmine della disperazione e da alcuni scritti giovanili che lo annunciano, sarà la ripetizione: una ripetizione impura, stanca, impaziente, straziata, che introdurrà nel tempo dello smarrimento, del naufragio, della lacerazione soggettiva, e della cancellazione. Essa avrà nell'ascolto della "confessione" l'unico appiglio per una scrittura che non potrà mai più riparare.

Dopo Auschwitz non siamo più gli stessi. Il male è nella creazione, ripete ossessivamente Cioran. Il male non è più privazione del bene. Il male ricade sul soggetto. E con il male la sua libertà. È questo il micidiale tratto etico: dike contro dike. Cosa fare allora? Nessuna giustificazione è più possibile. Si constata tragicamente che si usa male il bene. E allora? Non possiamo più pretendere di abbracciare logiche salvifiche? Il male è. Il male usa bene il male. Impossibile pretendere di espellerlo. Ciò che possiamo auspicare, invece, è di non poterci più permettere di essere "ingenui", "innocenti", scrive Cioran. Cuori vigili, critici, sempre all'erta. Essere sempre all'altezza del proprio cuore. Dopo Auschwitz siamo tutti colpevoli. E la nostra colpevolezza ci fa sprofondare nel silenzio, in mancanza di risposte certe, nell'assenza tragica e abissale di ogni sicuro fondamento. Nuda vita.18 Con chi prendersela allora? Contro chi puntare il dito. È terribile. Non c'è più nessuno che si faccia per noi garante. Allora ci affidiamo al mondo delle risposte fornite dal sistema ideazionale vigente, "globalizzante", pronte per l'uso. Bisogna prevenire il male. Trovare subito un rimedio. Fare qualcosa. È orribile il male. È ansiogeno il male. È osceno il male. Non possiamo più permettere che ciò avvenga di nuovo. Non possiamo più sopportare soltanto l'idea di un altro Auschwitz. Ci si affida allora al fantasma pedagogico del "prevenire è meglio che curare". In tutta sicurezza si ricomincia a bruciare i libri a fin di bene, si ristabiliscono le censure e le autocensure, e ancora più terribile, ci si denuncia o ci si autodenuncia, in un incessante tam tam mediatico fatto di allusioni, in un grottesco balletto di marionette che si sporgono sull'orlo dell'abisso. Ci si affida sempre di più a qualcun altro che pretende di sapere che il male poi non è così banale. Il male è monotono, usa sempre gli stessi trucchi. Come se il male fosse visibile, possa essere sempre facilmente indicato, additato. Sta lì, non lo vedete, è visibilissimo. Sta sempre fuori di noi. Come se il male si lasciasse doverosamente imbrigliare da queste logiche di dominio. Questo usare bene il male è ancora più osceno. Il soggetto viene fatto fuori, è espulso da tutti i discorsi edificanti che indicano la sicura strada della salvezza. Come se il male si lasciasse semplicemente incapsulare e la redenzione non riguardasse più il discorso della promessa. È duro vivere nella colpa. È più facile recitare il mea culpa. Allora cosa ha aspettato Cioran a dire il suo mea culpa, perché non ha fatto l'atto di contrizione pubblica? Semplicemente perché non c'è più nessuno in grado di rimettere per lui i suoi peccati. Siamo piombati nuovamente da soli nella colpa. Di nuovo liberi nella colpa e liberamente colpevoli. La remissione delle colpe non può più avvenire da nessuna parte. Forse c'è già stata e non ce ne siamo ancora accorti. Nessun altro può mai più assolvere. Nessuno ha più questo diritto. Nuda vita. L'altro ti può solo ascoltare nel più cupo silenzio. Dopo Auschwitz, né l'uomo né Dio si sono più riavuti. Da allora si continua a brancolare nel buio all'altezza del proprio cuore. Il soggetto vigila perché è più colpevole e più libero di prima, ma resta irrimediabilmente da solo, non ha più appigli. Cioran è morto e sepolto. Questa è la verità. La scrittura è la testimonianza più viva del suo transito nella storia d'occidente, prima e dopo Auschwitz.

In questo particolare frangente storico, attraversato da continue turbolenze, le esigenze sovranazionali e l'estendersi delle comunicazioni, delle relazioni commerciali, finanziarie, sembrerebbero tutte concorrere a superare le idee tradizionali di nazione, coscienza di popolo, patria eccetera. Inoltre, le guerre nel mondo, i flussi di persone che lambiscono ininterrottamente l'Europa, ci portano a pensare che si stia preparando un nuovo assetto mondiale.19 In questo senso, il passato che ritorna e non muore, le differenti memorie culturali, i molteplici linguaggi possono far paura, creare nuova angoscia. In tale contesto il discorso della tecnica sembra offrire valide garanzie, certezze, risposte a tutto. Si assiste tuttavia a un pericoloso livellamento del pensiero. È come se il pensiero venisse normalizzato. Il discorso tecnologico della globalizzazione, per esorcizzare le inquietudini che mettono radicalmente in discussione gli schemi e i modi ossificati di rappresentare la realtà, evoca gli spettri storici del male, gli spettri del nazionalismo, del totalitarismo e del fascismo, come se questi fantasmi già non ci appartenessero, non veicolassero abbastanza le nostre modalità conoscitive, relazionali e di pensiero. Invece di comprendere realmente e in maniera problematica questi aspetti inquietanti, non solo fantasmatici, che fanno sempre scandalo ai nostri occhi, si evita per timore o mala fede di affrontarli con un pensiero problematico, domandante, che si assuma l'arduo compito etico dell'accoglienza, dell'autenticità, dell'ascolto. Piuttosto che fare i conti con un pensiero critico, faticoso, che si interroga (tragicamente), sopporta il paradosso, tenta di abitare le distanze senza irrigidirsi nell'aporia, si preferisce ricorrere al clamore terroristico, all'allarme sociale. Non se ne vuole più sapere del pensiero, veramente aperto, pronto ad interrogare seriamente se stesso e l'inquietante alterità che ci mette radicalmente in gioco. Evitare di compiere il duro ma proficuo lavoro del ripetitivo, l'incessante scandaglio critico del pensiero, eludere l'insanabilità tragica e affidarsi invece a un pensiero monolitico (globale) che pretende di detenere tutte le risposte sul mondo credendo di aver fatto, una volta per tutte, i propri conti con Auschwitz, significa di fatto evitare di capire la retorica, la semantica di certe idee che in Europa si sono veramente manifestate, hanno preso piede, l'hanno devastata. Rimuovere questo, come si tenta da più parti di fare, installando la logica fantasmatica dello "spettro", come ha mirabilmente mostrato Jacques Derrida, significa precludere l'ascolto di altre coscienze, altre identità, altri patrimoni culturali e per noi non considerare questo tratto di storia europea come il luogo di un confronto, davvero problematico, aperto alla complessità, e sede di un incontro-scontro micidiale.20 Quanto viene costruito senza solide fondamenta è destinato a non durare. Rinunciare alla conoscenza delle idee, alla storia, alla cultura, alla memoria della Romania attraverso i suoi emblematici scrittori, trascurando gli intrecci, le connessioni, le reciproche influenze che si sono prodotte proprio in quell'Europa, tra le due guerre, significa immunizzare le nuove generazioni al pensiero, non creare le premesse per la gioia di capire e per l'esercizio critico dell'ascolto. Non coltivare le radici e le memorie culturali dei popoli, soprattutto senza una prospettiva contestualizzata e responsabile, che abbia saputo chiudere i propri conti con i fantasmi, i revenants spettrali, equivarrebbe a non fornire più gli strumenti per capire se stessi e gli altri. Perché ciò si renda ancora possibile, non c'è che una via: la vigile e critica attenzione per il discorso dell'altro. Dell'altro assolutamente altro. Non solo la sua denuncia quando fa scandalo, ma l'impegno decisivo di sporgersi sul baratro di quell'orrore, ascoltarlo, senza per questo volerlo a tutti i costi comprendere, ridurlo cioè a oggetto. Il male non si lascia ridurre a oggetto, lo si può solo ascoltare nel silenzio delle passioni, e con molto studio.

1 S. Givone, Eros / etos, Torino, Einaudi, 2000, p. 80
2 E. Cioran, Il funesto demiurgo, Milano, Adelphi, 1986, p. 123. Tutte le citazioni di Emil Cioran, tradotte in italiano, sono state controllate sull'edizione E. M. Cioran, Oeuvres, Paris, Quarto Gallimard, 1995.
3 A. Laignel-Lavastine, Cioran, Eliade, Ionesco: l'oubli du fascisme, Paris, PUF, 2002, pp. 506-507.
4 Il titolo romeno del libro è Pe culmile disper(rii (1934), in francese Sur les cimes du déséspoir (1990), la traduzione italiana cui si farà d'ora in poi riferimento è E. Cioran, Al culmine della disperazione, Milano, Adelphi, 1998.
5 E. Cioran, Quaderni 1957-1972, Milano, Adelphi, 2001, p. 229. Tutte le citazioni di Emil Cioran, tradotte in italiano, dai Quaderni sono state controllate sull'edizione E. M. Cioran, Cahiers 1957-1972, Paris, Gallimard, 1997.
6. A. Laignel-Lavastine, Cioran, Eliade, Ionesco: l'oubli du fascisme, cit., p. 131.
7 Ivi, pp. 134-135.
8 Si veda Z. Ornea, Anii Treizeci. Extrema Dreapt( Româneasc(, Bucarest, Editura Funda(iei Culturale Române, 1995.
9 Si veda a questo proposito P. P. Portinaro alla voce Colpa, in I concetti del male, a cura di P. P. Portinaro, Torino, Einaudi, 2002, pp. 53-67.
10 Sulla questione della colpa si vedano tre bei libri di taglio filosofico: A. Caracciolo, Nichilismo ed etica, Genova, il melangolo, 1983; G. Moretto, Giustificazione e interrogazione. Giobbe nella filosofia, Napoli, Guida Editori, 1991; P. Colonnello, La questione della colpa tra filosofia dell'esistenza ed ermeneutica, Napoli, Loffredo, 1995.
11 "L'idea della colpevolezza di Dio non è un'idea gratuita, ma necessaria e perfettamente compatibile con quella di onnipotenza: essa sola conferisce qualche intellegibilità allo svolgimento storico, a tutto ciò che contiene di mostruoso, d'insensato e di derisorio. Attribuire all'autore del divenire la purezza e la bontà, è rinunciare a comprendere la maggioranza degli eventi e singolarmente il più importante: la Creazione. Dio non poteva spogliarsi dell'influenza del male, molla degli atti, agente indispensabile per chiunque, esasperato di riposare in sé, aspira ad uscire da sé stesso, per diffondersi e avvilirsi nel tempo [...]. Il combattimento tra i due principi, buono e cattivo, si dibatte a tutti i livelli dell'esistenza, eternità compresa. Siamo tuffati nell'avventura della Creazione [...], senza "fini morali", e forse senza significato; e benché l'idea e l'iniziativa spettino a Dio, non sapremo volergliene, tanto è grande ai nostri occhi il suo prestigio di primo colpevole. Facendo di noi suoi complici, ci associò a questo immenso movimento di solidarietà nel male, che sostiene e rende ferma la confusione universale". Cioran, Essai sur la pensée réactionnaire, (1957), Paris, Fata Morgana, 1977, p. 26.
12 Sul pensiero tragico nella pubblicistica giovanile di E. Cioran si veda più avanti l'Appendice.
13 P. Ricoeur scrive: "con la confessione la coscienza di colpa è portata nella luce della parola, e con la confessione l'uomo rimane parola fin nell'esperienza della sua assurdità, della sua sofferenza, della sua angoscia". Finitudine e colpa, Bologna, Il Mulino, 1970, pp. 56-57.
14 E. Cioran, Quaderni, cit., p. 659.
15 "È follia immaginare che la verità risieda nella scelta, quando ogni presa di posizione equivale a un disprezzo della verità. Per nostra disgrazia, scelta, presa di posizione è una fatalità alla quale nessuno sfugge; ognuno di noi deve optare per una non-realtà, per un errore, convinti come siamo che, come malati, come febbricitanti: i nostri assensi, le nostre adesioni sono altrettanti sintomi allarmanti". Cioran, Essais sur la pensée réactionnaire, cit., pp. 17-18.
16 "Meglio essere uno schiavo e poter adorare la divinità prescelta, che essere 'libero' e avere di fronte a sé una sola e identica varietà del divino. Libertà è diritto alla differenza; essendo pluralità, essa postula lo sbriciolamento (éparpillement) dell'assoluto, il suo dissolversi in un pulviscolo di verità ugualmente giustificate e provvisorie". E. Cioran, Il funesto demiurgo, cit., p. 40 (Ed. francese E. M. Cioran, Oeuvres, Paris, Gallimard, 1995, p. 1186).
17 Ivi, p. 59.
18 Oltre a S. Givone, Eros/ ethos, cit. si vedano i libri di G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995; Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri, 1998; Stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.
19 Sulla globalizzazione si vedano tre libri interessanti da angolazioni (storico-filosofico-scientifico-sociali) differenti: R. Farneti, Il canone moderno. Filosofia politica e genealogia, Torino, Bollati Boringhieri, 2001; T. Nathan, Non siamo soli al mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 2003; A. Giovagnoli, Storia e globalizzazione, Roma-Bari, Laterza, 2003.
20 Si veda J. Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1994.

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