Elena
Tonolo Castor et Pollux: una tragedia in musica |
Elena Tonolo
Castor et Pollux: una
tragedia in musica
1.
Nel Settecento l'equivalente francese dell'opera seria italiana (seria nel senso
di aulica, eroica, nei personaggi e nelle situazioni) è la tragédie en musique.
Dietro a questa equivalenza si nascondono però due realtà musicali,
drammaturgiche e produttive profondamente diverse, delle quali bisogna essere
consapevoli per apprezzare appieno questo genere solo recentemente rivalutato.
È una differenza intenzionale e sottolineata: quando nel 1672 Luigi XIV
istituì l'Académie Royale de Musique (l'Opéra) affidandola alla totale
responsabilità del sovrintendente alla musica della camera reale Jean-Baptiste
Lully (1632-1687), il suo fine dichiarato fu quello di promuovere la nascita di
un'opera specificamente francese da contrapporre con orgoglio a quella italiana.
Questo gesto, volitivo e autoritario, ebbe un tale successo che nel Settecento
la Francia rappresentò l'unica eccezione in un panorama europeo dominato
dall'opera seria. A Venezia, Napoli, Roma, ma anche a Vienna, Dresda, Londra,
Madrid, San Pietroburgo, si cantava in italiano, sui libretti di Zeno e di
Metastasio. A Parigi si cantava rigorosamente in francese, su libretti di
Quinault, Danchet, Cahusac.
Una delle principali
caratteristiche della programmazione dell'Académie Royale de Musique, che la
differenziava profondamente da quella dei teatri italiani, era l'esistenza del
repertorio. Mentre in Italia un'opera non rimaneva in cartellone per più di una
stagione, a Parigi le tragédies en musique più fortunate venivano riprese di
anno in anno. L'Armide di Lully, composta nel 1686, continuò ad essere eseguita
fino al 1766; Thésée, del 1675, fino al 1779.
La stessa cosa accadde con le opere dei successori di Lully, e, ovviamente, con
quelle di Jean-Philippe Rameau (1683-1764), che a partire dagli anni 30 si
affermò come il più importante compositore lirico di Francia. Il suo Castor et
Pollux, considerato dai contemporanei come "il capolavoro dell'opera
francese", ebbe, fra il 1737 e il 1785, ben 254 rappresentazioni.
Un'altra caratteristica
importante del sistema di produzione operistico francese era la sua totale
centralizzazione. Mentre ogni città d'Europa che fosse dotata di un teatro,
grande o piccolo, pubblico o di corte, poteva commissionare e produrre una nuova
opera, in Francia l'Académie Royale de Musique di Parigi aveva, per privilegio
reale, il monopolio della creazione di nuove tragédies en musique. L'attenzione
di tutta la Francia era dunque concentrata sull'attività di quel teatro: un
periodico importante come il "Mercure de France" ne rendeva conto
regolarmente in dettagliate recensioni che analizzavano minutamente i libretti,
le musiche e i fastosi allestimenti.
Parigi era anche il centro dell'attività editoriale francese: naturale dunque
che (a differenza dall'Italia dove la diffusione delle musiche avveniva
perlopiù attraverso copie manoscritte di singole arie particolarmente
fortunate) le partiture delle opere più acclamate venissero date alle stampe e
circolassero in questa veste fra gli appassionati e i musicisti di provincia. In
queste edizioni l'opera veniva in genere riprodotta integralmente, senza tagli,
ma in una versione "da camera", eseguibile in un salon da un gruppo
ridotto di musicisti e di cantanti. Nel caso di Castor et Pollux Rameau stesso
si fece editore della propria partitura, che era infatti acquistabile "à
Paris, chez l'Auteur, Rue des Bons Enfans".
In una versione da camera vanno
evidentemente persi due aspetti fondamentali della tragédie en musique: la
sontuosità sonora di un'orchestra e di un coro, quelli dell'Académie Royale de
Musique, davvero imponenti (un'ottantina fra strumenti e voci), e la
spettacolare ricchezza di una scenografia strabiliante, tipicamente barocca,
piena di macchine sceniche e di colori.
Queste perdite consentono però di dare un risalto ancora maggiore ad un terzo
elemento fondamentale per l'opera francese: l'alta qualità del testo
letterario. La definizione tragédie en musique rimanda infatti chiaramente al
grande modello della tragedia parlata di Corneille e di Racine: gli stessi
principi di coerenza logica e psicologica e di verosimiglianza sono alla base di
entrambe. Mentre nei casi più estremi dell'opera seria italiana il libretto
diventava un puro pretesto per l'esibizione di virtuosismi canori, nella
tragédie en musique francese la compattezza dell'azione teatrale era una
condizione irrinunciabile che determinava potentemente la messa in musica.
Ciò indica anche che bisogna fare attenzione a non porsi di fronte all'opera
francese del Settecento nell'atteggiamento in cui ci si pone di fronte all'opera
ottocentesca. In quest'ultima il pubblico può al limite ignorare totalmente il
testo del libretto e lasciarsi guidare, nella sua comprensione della vicenda,
dall'aspetto sonoro e dall'aspetto visivo, coadiuvati solo da alcune
"parole sceniche" strategicamente piazzate. Nella tragédie en musique
al contrario un intendimento il più dettagliato possibile del testo letterario,
simile a quello necessario nel teatro di parola, è fondamentale.
E il valore letterario dei libretti era un punto d'orgoglio dell'opera francese
del Settecento. Quello di Castor et Pollux in particolare era considerato come
"uno dei migliori che siano stati scritti dopo Quinault".
L'importanza attribuita
nell'opera francese a una comprensione continua e sottile del testo letterario
ne determina fortemente anche le strutture musicali.
Il principio fondamentale è quello della continuità, in decisa antitesi col
principio del contrasto tipico dell'opera seria italiana. La drammaturgia di
quest'ultima è infatti basata sull'accentuazione della dialettica fra i
recitativi - messi in musica in modo molto scarno ed elementare, al fine di
esporre e far avanzare rapidamente l'azione, in dialoghi serrati - e le arie
solistiche, in cui la dinamica drammatica cede il passo all'espressione statica
dei sentimenti dei personaggi e l'interesse degli spettatori si concentra sulla
musica e sul canto. Questa dualità implica nell'atteggiamento del pubblico
un'alternanza di attenzione (durante le arie) e distensione (durante i
recitativi, visti semplicemente come momenti di transizione da un'aria
all'altra, data la poca importanza attribuita alla comprensione puntuale del
testo).
Nella tragédie en musique al contrario prevale il principio della continuità.
Dialoghi e monologhi, momenti di prevalenza dell'azione e momenti di prevalenza
della riflessione si susseguono senza che delle cesure musicali ne marchino
violentemente i confini. L'impegno e la complessità della musica, volta sempre
a mettere in valore tutte le sfumature del testo letterario, non varia molto dai
recitativi, incredibilmente espressivi e cantabili, alle arie (le più
formalmente complesse sono chiamate "monologhi"), in cui comunque in
nessun caso la pregnanza declamatoria viene sacrificata a un principio astratto
di simmetria e bellezza musicale. In più fra recitativi e "monologhi"
ci sono tutta una serie di forme intermedie - recitativi misurati, recitativi
accompagnati, piccole arie di qualche decina di battute - che rendono ancor più
fluidi e indefinibili i passaggi. In definitiva si potrebbe dire che le scene
dell'opera francese sono costituite da un unico espressivissimo recitativo che
di tanto in tanto, secondo le evoluzioni del testo, si addensa in forme più
liriche e più costruite.
La dialettica attenzione/distensione esiste certo anche qui, ma si esplica su
una scala ben più vasta: quella del singolo atto. Ogni atto è infatti
costituito da una serie di scene e da un "divertimento" danzato, in
cui la tensione drammatica momentaneamente si allenta e la musica prende
l'iniziativa nella gestione della forma. La presenza del divertimento è
necessaria per controbilanciare l'alto livello di concentrazione - del tutto
simile a quello del teatro di parola - richiesto al pubblico nel corso delle
scene vere e proprie; è pure dunque, paradossalmente, un mezzo potente per
garantirne il coinvolgimento.
In conclusione è molto
importante per gustare appieno una tragédie en musique affrontarla con la
stessa concentrazione e la stessa attenzione al testo che si userebbe per il
teatro di parola: il testo fungerà allora da guida alle più sottili sfumature
dei valori anche musicali. L'atteggiamento contrario di aspettare passivamente
l'insorgenza di una forma musicale che si imponga autonomamente all'attenzione,
indipendentemente dalla situazione drammatica, porta invece al misconoscimento
di alcune delle qualità più profonde di questo genere intenso ed affascinante.
2.
Jean-Philippe Rameau, il maggior compositore francese del Settecento, nacque a
Digione nel 1683. Per i primi cinquant'anni della sua vita si dedicò
principalmente alla musica strumentale (particolare fortuna ebbero i tre libri
di Pièces de clavecin) e alla teoria musicale: il Traité de l'harmonie
réduite à ses principes naturels fu il primo di una serie di scritti teorici
innovativi che lo avvicinarono - fino alla rottura, consumatasi nel corso degli
anni Cinquanta - al milieu dei philosophes illuministi.
Solo negli anni trenta si accostò all'opera, e fu subito capolavoro: Hippolyte
et Aricie, presentata all'Académie Royale de Musique nel 1733, provocò enormi
polemiche ed enormi entusiasmi e fu la prima di una trentina di composizioni
liriche (tragédies en musique, opéras-ballets, actes de ballet) rappresentate
con grande successo all'Académie Royale de Musique o al teatro di corte di
Versailles.
L'elemento nuovo introdotto da Rameau nell'opera francese era la ricchezza
inaudita della sua musica. Pur rimanendo fedele alla tradizione francese di
valorizzazione del testo letterario, Rameau aprofittò del suo genio di teorico
e di compositore strumentale per rinnovare totalmente lo stile musicale
dell'opera lulliana, mettendo al servizio dell'espressione drammatica tutte le
risorse di un linguaggio armonico e di una scrittura orchestrale
straordinariamente raffinati e complessi.
Jean-Philippe Rameau morì a Parigi nel 1764. Nel corso della solenne cerimonia
funebre nella chiesa di Saint-Eustache, i musicisti dell'Académie Royale de
Musique eseguirono con commozione il grande coro dei funerali di Castore nel
secondo atto di Castor et Pollux: "Que tout gémisse, que tout
s'unisse".
Castor et Pollux è la seconda
tragédie en musique di Rameau, scritta su un libretto di Pierre-Joseph Bernard
(soprannominato Gentil-Bernard da Voltaire per l'amabilità del suo stile).
Presentata all'Académie Royale de Musique il 24 ottobre 1737, ottenne
immediatamente un discreto successo (ventuno rappresentazioni in due mesi), ma
non fu ripresa che diciassette anni dopo, l'11 gennaio 1754, in una seconda
versione notevolmente rimaneggiata. La ripresa cadde nel pieno di un'accesa
polemica fra sostenitori della musica italiana e sostenitori della musica
francese (la cosiddetta querelle des Bouffons), e il suo successo fu tale che la
troupe italiana che era stata la pietra dello scandalo fu obbligata a lasciare
Parigi alla fine di febbraio: Castor et Pollux divenne così, emblematicamente,
"il capolavoro dell'opera francese".
Le differenze fra la prima e la seconda versione riguardano soprattutto il
taglio drammatico dell'opera, che nella seconda è più canonico ma anche più
limpido ed equilibrato. Il fascino della prima versione sta nella sensibilissima
analisi del tormento di Polluce, lacerato dal dilemma amore (per Telaira) /
amicizia (per Castore). Il fascino della seconda sta invece nella coerenza con
cui sono costruiti i rapporti fra i personaggi, e nella profondità filosofica
con cui sono trattati i temi dell'amicizia, del dolore dell'assenza, e della
vanità del piacere. Dal punto di vista musicale tutto il primo atto fu composto
ex-novo nel 1754, così come numerose danze e soprattutto l'inno all'amicizia di
Polluce del terzo atto, "Présent des dieux", che sostituì il
monologo angosciato "Nature, amour, qui partagez mon cœur" della
versione del 1737.
Al centro dell'azione vi sono due
coppie di gemelli: Castore e Polluce da un lato, Telaira e Febe dall'altro. I
due fratelli sono innamorati della stessa donna: Telaira. Le due sorelle, dello
stesso uomo: Castore. Mentre però fra Telaira e Febe vige un rapporto di accesa
rivalità, produttrice di morte (nel tentativo di allontanare Telaira dal
palazzo, Febe scatena un combattimento in cui Castore resta ucciso), Castore e
Polluce sono legati da una solida e tenera amicizia, produttrice di vita
(Polluce riuscirà a resuscitare il fratello e ad ottenere per entrambi
l'immortalità: tutta la vicenda costituisce una favola eziologica sulla
costellazione dei Gemelli).
L'amicizia è appunto il tema principale dell'opera, ed è molto interessante
osservare come proprio grazie ad essa la versione da camera riesca a dare una
nuova più profonda dimensione al principio della verosimiglianza del
meraviglioso che la soppressione dello sfarzo musicale e scenografico avrebbe a
prima vista dovuto annullare.
Come si è accennato sopra, una tragédie en musique si basa sugli stessi
principi, incluso quello di verosimiglianza, di una tragedia parlata classica.
Sembra un'affermazione paradossale, perché apparentemente nulla è più
inverosimile di un personaggio che si esprime cantando. La cosa diventa però
comprensibile se si pensa che il mondo rappresentato è un mondo mitologico,
popolato da dei, eroi mitici, furie infernali e piaceri celesti, che, chi lo sa,
magari si esprimono proprio cantando e danzando: è la "verosimiglianza del
meraviglioso", che spiega e giustifica anche le sontuose scenografie
barocche, ricche di macchine strabilianti (dei che scendono dal cielo, furie che
si levano nell'aria), che costituivano uno dei vanti principali dell'Académie
Royale de Musique.
Una versione da camera è ovviamente obbligata a minimizzare questo aspetto, ma
proprio per questo ha l'opportunità di mettere ancor più in risalto il
meraviglioso interiore, etico-filosofico, che sta al fondo dell'azione. Polluce
non è solo un buon amico: è "il dio dell'amicizia", come dice
Telaira nel secondo atto. Il suo sentimento è dunque sublime, puro, ai limiti
dell'umano. Per Castore rinuncia alla vita, all'immortalità, all'amore di
Telaira, e tutto con la piena dolorosa coscienza della sua rinuncia ma anche con
la dolce consapevolezza di riceverne in cambio un piacere più grande.
Emblematico è a questo proposito un articolo comparso sul "Journal
encyclopédique" del 1778, che commentava un passaggio dell'inno
all'amicizia del terzo atto ("Présent des dieux"):
Si è detto che il termine "fiamme" non era adatto che all'amore, e per nulla all'amicizia. Sì, certo, se si pensa all'amicizia comune; ma questa passione tutta celeste delle anime grandi, questo legame puro che univa Castore e Polluce [...], chiede forse delle espressioni più deboli di quelle dell'amore? [...] Polluce, che deve essere il "dio dell'amicizia", è fatto per dare l'idea più alta di questa virtù, per trovarvi una felicità che l'amore non avrebbe potuto dargli.
Il secondo motivo sviluppato
nell'opera è quello del dolore dell'assenza. Già nella mitologia antica (la
fonte diretta del libretto sono i Fasti di Ovidio) è questo uno dei temi
centrali della leggenda: Polluce, disperato per la morte del fratello, supplica
Giove di rendergli la vita. L'ottiene, ma a patto di prendere il suo posto nel
regno dei morti. Sui protagonisti sembra di fatto pesare una condanna alla
separazione, all'assenza della persona amata, che si esprime in tre scene
centrali dell'opera: il lutto di Telaira nel secondo atto (coro "Que tout
gémisse" e monologo "Tristes apprêts"), la preghiera di Polluce
a Giove nel terzo ("Ma voix, puissant maître du monde"; emblematica
è la definizione che Giove dà di Polluce alla fine della scena: "un dieu
qui soupire"), la solitudine di Castore agli inferi nel quarto (monologo
"Séjour de l'éternelle paix"). E nel quinto atto, dopo il deux ex
machina che introduce il lieto fine, i personaggi cantano un minuscolo e
commoventissimo duetto sulle parole "Ô dieux, ne nous séparez pas!".
Infine vi è il tema del piacere, così caro alla cultura del Settecento.
Polluce in cielo nel terzo atto, Castore ai campi elisi nel quarto, assistono ai
divertimenti dei Piaceri celesti e delle Ombre beate, che cercano di vincere la
loro tristezza offrendo loro delle gioie non turbate dalla sofferenza del
desiderio: "Plus de plaisirs que de désirs" dice Ebe a Polluce;
"Les plaisirs les plus aimables naissent plutôt que leurs vœux" dice
l'Ombra beata a Castore. Polluce, che è un dio (figlio di Giove e di Leda), li
guarda sorridendo: "Charmants Plaisirs, que voulez vous de moi?". Sa
che non è quella la vera felicità. Castore invece è un uomo (figlio di
Tindaro e di Leda), esita (come esiterà nel quinto atto, di fronte alle
suppliche di Telaira), forse sta per cedere; ma l'agitazione provocata
dall'arrivo di Polluce lo scuote, e gli fa misurare la vanità di quella
felicità incompleta e illusoria a confronto con l'intensità struggente delle
passioni umane.
3.
Introdotte da una sinfonia alla francese (una pomposa introduzione in ritmo
puntato seguita da un fugato rapido e leggero) e da un breve ritornello
strumentale, le prime tre scene dell'atto I, che contengono l'esposizione
dell'intrigo amoroso, sono un magnifico esempio della ricchezza del dialogo
nella tragédie en musique: il recitativo semplice - accompagnato dal solo basso
continuo - esprime ogni inflessione del discorso per condensarsi di tanto in
tanto in recitativo accompagnato ("Filles du dieu du jour"), monologo
("Eclatez, mes justes regrets"), o piccola aria ("Quand j'ai pour
cet adieu"; "Dans ces yeux, maîtres de mon sort").
L'arrivo di Polluce, che cede Telaira a Castore, introduce la festa di nozze: è
l'occasione per il divertimento, composto da alcune danze e dall'arietta di
Castore "Quel bonheur règne dans mon âme". All'inizio della seconda
parte dell'arietta, le parole "Des mains de l'amitié" sono cantate su
una piccola frase musicale che tornerà ancora nell'opera per esprimere la
profondità del sentimento che lega i due fratelli.
Una brusca transizione armonica annuncia il combattimento, fuori scena,
interrotto improvvisamente dall'annuncio della morte di Castore: l'improvviso
passaggio dal modo maggiore al modo minore e dal ritmo ternario al ritmo binario
crea un effetto di immobilizzazione temporale che dura fino al momento in cui
l'invocazione "Pollux, vengez-nous!" rilancia i "rumori di
guerra" dell'entr'acte.
L'atto II presenta tre momenti di identificazione collettiva collegati da due
scene di dialogo. Il primo è quello dei funerali di Castore, e comprende i due
brani più celebri dell'opera: il coro "Que tout gémisse" e il
monologo di Telaira "Tristes apprêts", in cui la melodia, enunciata
nel preludio strumentale, è ripresa dalla voce con una tensione declamatoria
che ne deforma la quadratura fino a spezzarla alle parole "Non, je ne
verrai plus".
Il secondo, dopo il dialogo Telaira-Febe, propone una marcia guerriera
efficacemente "spartana" e un coro, "Que l'enfer
applaudisse", caratterizzato dal contrasto fra una frase dinamica e
aggressiva, in maggiore, e una immobile, in minore.
Polluce, rimasto solo con Telaira, le promette di renderle Castore, e l'atto si
conclude con il divertimento che celebra la vittoria sul nemico. Nella Mitologia
di Natale Conti, una delle fonti di Bernard, si leggeva: "Polluce istituì
una sorta di danza [...] in cui i giovani danzavano tutti armati". Di qui
l'idea di un "combattimento figurato" che riprendesse in modo
stilizzato la battaglia del primo atto.
L'atto III è quello dell'amicizia fraterna di Polluce, triste per la mancanza
di Castore e determinato a salvarlo. Lo apre l'inno all'amicizia "Présent
des dieux": dalle armonie tese e dissonanti del magnifico preludio
strumentale, si schiude, insieme serena e sofferta, la calda linea melodica di
Polluce, "dieu de l'amitié".
Segue l'invocazione di Polluce a Giove, che utilizza un procedimento tipico del
recitativo francese: la creazione di una forma attraverso la ripetizione di un
verso retoricamente significativo. Qui il verso è "Ô mon père, écoute
mes vœux", ispirato a un passaggio dei Fasti di Ovidio: "cum
"mea" dixisti "percipe verba, pater"".
Infine l'atto si conclude con il divertimento dei Piaceri celesti, che tentano
invano di dissuadere Polluce dal sacrificare la sua vita. La predominanza delle
tonalità minori e il ritorno del tema enunciato da Castore nell'arietta
dell'atto I danno a tutto l'episodio un colore unitario e raccolto, sensuale e
malinconico insieme.
Il primo quadro dell'atto IV si svolge davanti all'entrata degli inferi, in
contrasto marcato con la scena precedente e con la successiva. È l'ultima
manifestazione del furore di Febe, che si esprime nell'aria con coro "Esprits,
soutiens de mon pouvoir" e nell'elettrizzante trio con coro "Sortez,
sortez d'esclavage", caratterizzati da un ritmo fiero e da vigorose
figurazioni di arpeggi.
Nel secondo quadro Castore è nei campi elisi, tormentato dalla nostalgia. Il
suo monologo, "Séjour de l'éternelle paix", in cui il moto perpetuo
dell'orchestra si fonde organicamente con la linea melodica della parte vocale,
è uno dei vertici della scrittura musicale di Rameau. Le ombre beate cercano di
distrarlo con le loro danze e i loro giochi: il divertimento, gaio e dolcissimo,
è costituito da una gavotta e da un passepied, interrotto bruscamente (con
bell'effetto drammatico) dall'arrivo di Polluce.
La fine dell'atto è dominata dalla scena del tenero incontro fra i due
fratelli. Il dialogo, quasi tutto in recitativo semplice, è articolato in
quattro sezioni marcate dalla struttura tonale. La prima, in la maggiore,
presenta il commovente abbraccio fra i gemelli ("Chère ombre, paraissez")
e la gioia ottimista dell'ignaro Castore. Il passaggio improvviso a fa diesis
minore ("Par ton supplice, ô ciel") inaugura la gara di generosità:
repliche serrate, melodia tesa e cromatica, armonia che modula senza sosta fino
a tornare a la maggiore. Nessuno dei due vuole accettare il sacrificio
dell'altro. A questo punto - terza sezione - Polluce sfodera l'argomento forte:
"Télaïre t'attend", in la minore. Castore vacilla. Alla sua linea
melodica contorta e sofferente Polluce risponde con fermezza, per concludere
affettuosamente: "Et c'est ton rival qui t'en prie". A questo punto
Castore cede: il suo "Oui", in la maggiore, apre l'ultima sezione del
dialogo, in recitativo accompagnato. Cede. Ma per un giorno solo. Poi tornerà
agli inferi per liberare Polluce.
L'atto V inizia con un toccante preludio orchestrale, che riprende il tema
dell'arietta del primo atto: di nuovo Castore è riunito a Telaira "des
mains de l'amitié". Ma c'è la promessa. Il dialogo di addio fra i due
amanti fa pendant con quello del primo atto: di tanto in tanto il recitativo si
addensa improvvisamente in piccole forme melodiche, la più straordinaria delle
quali emerge alle parole "Pourquoi vous dérober à des transports si doux",
in cui il coro amplifica l'angoscia di Telaira in un inatteso passaggio
imitativo.
Improvvisamente il dialogo è interrotto da paurosi rombi di tuono, seguiti in
modo altrettanto teatrale dalla "sinfonia melodiosa" che accompagna la
discesa di Giove.
I tre personaggi sono infine riuniti, e l'opera si conclude con una grande
ciaccona (il divertimento finale) che accompagna la nascita della costellazione
dei Gemelli, simbolo immortale "d'une amitié si pure et d'un amour si
tendre".