SERGIO SABLICH

ALLA RICERCA DELLA PAROLA

BUSONI - SCHÖNBERG - DALLAPICCOLA


O, beten, beten! wo, wo die Worte finden?
(F. Busoni, Doktor Faust)

O Wort, du Wort, das mir fehlt!
(A. Schoenberg, Moses und Aron)

Trovar potessi il nome,
pronunciar la parola
che chiarisca a me stesso
così ansioso cercare;
che giustifichi questa
mia vita, il lungo errare,
che rassereni l'ora
che rapida s'invola.
(Luigi Dallapiccola, Ulisse)

È sempre difficile non credere alle coincidenze, soprattutto quando esse ci appaiono, più che casuali, rivelatrici. Tre fra le più importanti, impegnate opere del Novecento -
Doktor Faust di Ferruccio Busoni, Moses und Aron di Arnold Schoenberg, Ulisse di Luigi Dallapiccola si concludono (due addirittura senza finire) nel punto di concentrazione massima del materiale musicale ed espressivo, nel momento in cui il protagonista, divenuto il simbolo di tutta l'opera e ancor più di tutta la personalità creatrice dell'autore, si interroga angosciato nella solitudine di un monologo per trovar risposta alla ricerca, fattasi finalmente esplicita, dell'ultima e definitiva «parola». Ricordiamo quelle situazioni e quei momenti.

Faust, disilluso e tormentato dalla coscienza, dopo l'apparizione della Duchessa che gli ha affidato il bambino morto, tenta invano di avvicinarsi a Dio e di trovar rifugio nella chiesa: l'ombra del soldato armato, fratello di Margherita, un'ombra partorita dalla sua mente malata e piena d'incubi, lo respinge. Raccogliendo le ultime forze, si trascina allora col bambino in braccio fin sui gradini del crocifisso, per pregare: «O, beten, beten! wo, wo die Worte finden?» (Oh, pregare, pregare! dove, dove trovare le parole?). Su questo ennesimo punto interrogativo di Faust, alla battuta 489 dell'ultimo quadro, la partitura del Doktor Faust rimase, come è noto, incompiuta, e così fu trovata alla morte di Busoni: nella sua stanza, celata in un cassetto chiuso a chiave.

Altrettanto impressionante la situazione in Schoenberg.
Moses, dopo il drammatico colloquio con Aron nella quinta scena dell'atto secondo, sconfitto e abbandonato da colui che avrebbe dovuto render viva in immagine l'«idea», vede con assoluta evidenza che l'immenso compito affidatogli da Dio non è stato risolto. Rimasto solo, prorompe in una delle più disperate invocazioni che la storia dell'opera ricordi: «So habe ich mir ein Bild gemacht, falsch wie ein Bild nur sein kann! So bin ich geschlagen! ... O Wort, du Wort, das mir fehlt!» (Dunque mi sono fatto un'immagine, falsa come soltanto un'immagine può essere! Dunque sono sconfitto!... O Parola, Parola, tu, che mi manchi!). Come Busoni, anche Schoenberg non finì più la sua opera, interrompendola per sempre su questa angosciata invocazione di Moses: e nonostante che gli restassero ancora non due, ma quasi vent'anni di vita. Conosciamo il testo che Schoenberg aveva preparato per il terzo atto di Moses und Aron e conosciamo anche alcune precise ragioni che vorrebbero chiarirci perché la musica del terzo atto non sia mai stata composta. In realtà, l'opera, in quanto tale, era in sé praticamente finita con la disperata invocazione del protagonista.

Infine,
Ulisse. Nell'ultima scena (Epilogo) dell'opera dallapiccoliana, Ulisse è solo sul mare aperto, in una notte stellata. Non ha ritrovato in Itaca la pace che bramava; la profezia di Tiresia si è avverata: è tornato nuovamente sul mare. Egli, professatosi e riconosciuto come «Nessuno» in forza di un'astuzia che si è rivolta contro di lui, facendolo dubitare di se stesso, si interroga ancora una volta sulla sua perduta identità e sulla ragione dell'angoscia che internamente lo rode: «Un uomo sono, un uomo che ha guardato / il mondo nelle foggie più diverse / e che intorno si vede sorger, muti, / con occhi interroganti, mille visi, / mentre nell'alma le memorie farsi / sembran più dense e dolorose». Dallapiccola, senza dubbio con chiara consapevolezza, fa poi parlare Ulisse come Faust: «Quanto e cosa appresi? Fole. / Dopo fatiche inani, / briciole di sapere, vani / balbettamenti, sillabe soltanto / mi son rimaste invece di parole». Alzando gli occhi per contemplare le stelle, Ulisse sembra adesso, nel silenzio e nell'assoluta solitudine, comprenderle sotto nuova luce: «V'ho mirate: soffrii pene infinite / intorno a me cercando / quanto mi manca: la Parola, il Nome».
È la parola che gli manca, è il nome che non sa dire: «Trovar potessi il nome, / pronunciar la parola / che chiarisca a me stesso / così ansioso cercare; / che giustifichi questa / mia vita, il lungo errare, / che rassereni l'ora / che rapida s'invola. / Guardare, meravigliarsi, / e tornar a guardare. / Ancora: tormentarmi / per comprendere il vero». Sembra ormai rassegnato a continuare le sue peregrinazioni e a trascinare seco le catene del « Guardare, meravigliarsi, / e tornar a guardare » quando, esattamente nell'ultimo verso, quasi per improvvisa illuminazione, intuisce in sé e pronuncia la parola: «Signore!». Calmato, può dunque dire a se stesso: «Non più soli sono il mio cuore e il mare». E l'opera, misticamente, finisce. [
In calce alla partitura, Dallapiccola ha apposto, a guisa di P.S., questa citazione di Sant'Agostino: «Fecisti nos ad te et inquietum est cot nostrum, donec requiescat in te» (Sancti Aurelii Augustini Confessionum, Liber I, Caput I). Si veda anche: L. Dallapiccola, Nascita di un libretto d'opera, in «Appunti Incontri Meditazioni», Milano, Suvini Zerboni, 1970, pagg. 171-87 (poi in Parole e musica, Milano, Il Saggiatore, 1980).]

Sia pure su piani diversi e con diversa intensità, le tre opere racchiudono un profondo carattere allegorico originato da una situazione comune e rispecchiato simbolicamente dalla convergenza dei tre monologhi verso uno stesso punto culminante: la ricerca, infine espressamente rivelata nella solitudine della autointerrogazione, della «parola», diviene ricerca dell'identità, riscatto dalla condizione esistenziale di solitudine e di inadeguatezza dell'uomo nel mondo da un lato, affermazione di una missione che dia senso e valore, attraverso la testimonianza artistica, alla vita, dall'altro. La ricerca della parola è dunque metaforicamente ricerca dell'identità, segno di un significato mancante: e identicamente essa coincide con il tentativo di stabilire un colloquio diretto con Dio, con l'essere primo trascendente e assoluto, al fine di giungere a conoscere e a spiegare il perché dell'esistenza.

In
Ulisse la salvezza dalla solitudine e dall'impotenza è data dall'illuminazione della fede, nella raggiunta certezza del Nome che calma e rasserena; si compie così quell'approdo mistico, reso da Dallapiccola con straordinaria simbologia musicale, che segna il superamento (ma quanto definitivo?) dell'angoscia tutta interiore di Ulisse. All'estremo opposto, Moses und Aron rappresenta il momento più avanzato e radicale di questa lacerante crisi di identità, vissuta da Moses (e autobiograficamente da Schoenberg stesso) nel dissidio irrisolto fra purezza del pensiero e traduzione dell'idea in immagine e azione: tema grandioso, tanto profondamente radicato negli aspri conflitti della religiosità di Schoenberg quanto rivelatore, traslatamente, di risonanze assai più intrinseche alla sua personalità di artista del Novecento. Giacché nella evidenza della mancanza della parola l'ultima invocazione di Moses esprime non già una generica impossibilità di cogliere e dar forma a un pensiero inesprimibile e irraffigurabile, bensì, molto più tragicamente, l'ambiguità e l'impotenza del linguaggio sia empirico che ideologico (e dunque anche del linguaggio musicale nella sua totalità) a contatto con la realtà delle forme e con il mondo degli uomini. Con la sua incomunicabilità e incompiutezza musicale (il testo del terzo atto scioglie il dilemma in modo affatto estrinseco), Moses und Aron segna un atto di morte nella storia del teatro musicale: esso è la rappresentazione più drammatica e paradigmatica dello scacco storico inferto dalla coscienza critica del Novecento al linguaggio e alla forma intesi come veicoli di definizione e di comunicazione, mezzi totalizzanti di esperienze divenute ormai contraddittorie e inconciliabili.

E Busoni? Il fatto che il Doktor Faust, la sua opera più autenticamente autobiografica, sia rimasto incompiuto proprio all'apice della scena finale, là dove
Faust doveva superare lo stadio della coscienza e della volontà pura per attingere alle forze soprannaturali capaci di fargli compiere l'atto mistico della creazione simbolicamente eterna (quell'atto che soltanto Ulisse realizza pronunciando il Nome), costituisce, con la sua dolorosa sconfitta, un esplicito annuncio della crisi contemporanea dell'uomo alla ricerca della parola e dell'identità.

in questo senso che l'opera lirica, genere musicale giunto all'ultima fase del suo sviluppo onusto di tradizioni gloriose e di contraddittorie innovazioni, incarna fino in fondo la tensione irrisolta della crisi artistica del nostro secolo e fornisce quasi un paradigma della situazione dell'arte contemporanea: la perdita del futuro come dimensione ontologica dell'esistenza umana, quindi l'impossibilità di qualsiasi certezza finale, divengono sinonimi di solitudine, di dubbio, di disfatta, di incompletezza. Ogni opera che tenti di uscire da questo circolo chiuso proponendo un riscatto o un superamento, sembra destinata alla sconfitta: così è non soltanto per Busoni e Schoenberg, ma anche per Berg e perfino per Puccini, per quanto in contesti assai diversi. Ma ancor più importante è notare come questa crisi finisca per investire e traumatizzare la stessa forma dell'opera e con essa il linguaggio musicale nel suo complesso. Ritrovare la ragion d'essere dell'opera, dopo la tabula rasa di Wagner e la conclusione del periodo antico, settecentesco, e di quello epico, ottocentesco, della storia del melodramma; ritrovare in essa e per essa una forma e un linguaggio capaci di totalità e compiutezza, questi furono i veri problemi di Busoni e, dopo di lui, dei musicisti più aperti e consapevoli del nostro secolo. Per tappe progressive egli se ne avvicinò al cuore; con Arlecchino e Turandot toccò il vertice della ricomposizione del dissidio ormai latente, mediando il recupero dell'antico con la critica moderna all'opera come genere cristallizzato ed esausto: con ironico distacco, talora appena venato da un riso doloroso, smascherò la mitologia del teatro naturalista e sentimentale, opponendogli un nuovo tipo di teatro musicale, irreale e fantastico, magico e fiabesco. Al Doktor Faust sarebbe toccato il compito di fondare l'opera del futuro, facendosi carico di un messaggio simbolico e universale da affidare alle generazioni venture. Il piano ambizioso, lungamente meditato, minuziosamente costruito e generosamente spiegato fin nei dettagli, vacillò nel momento in cui alla musica sarebbe toccato, «esprimendo l'inesprimibile», di chiudere e ricomporre il circolo. L'ultimo tratto, anziché colmarsi, divenne un abisso smisurato: come rendere in termini musicali il messaggio finale dell'opera, come ridare a un linguaggio musicale frantumato e devastato quell'identità e quel valore universali che esso aveva ormai perduto? In un attimo, tutta la vita e tutta l'opera di una vita dovettero passare davanti agli occhi di Busoni. Finire il Doktor Faust divenne per lui un'ossessione, una pena. Per tutta la sua esistenza aveva tentato di ricostruire un mondo linguistico e stilistico che riuscisse a garantire con la propria compiutezza organica una oggettività assoluta, abolendo barriere e convenzioni, norme e limitazioni; ed ora, alle soglie della fine, gli veniva a mancare quell'ultima parola che potesse condensare in un unico simbolo, chiaro e significante, tutta la sua ricerca: una parola che divenisse musica, musica spiritualizzata e trascendente, sinonimo di identità e totalità assolute.
S'incagliò, e non seppe più venirne fuori. Nel momento dell'angoscia, come già tante altre volte aveva fatto, cercò di rivolgersi ai suoi numi tutelari, detentori luminosi della perfezione classica. Gli appunti che ci restano dell'ultima scena parlano inequivocabilmente di un ritorno ad armonie tonali, velate e trasfigurate, a figure musicali più semplici e quasi riduttive rispetto alla grande complessità strutturale dell'opera; ancor più, essi sono pieni di tormentati tentativi di costruire una melodia assoluta, quale Busoni l'intendeva e l'aveva non soltanto teorizzata: un simbolo universale, appunto, in sé compiuto linguisticamente per l'atto mistico affidato a Faust. Forse fu la malattia a impedirgli di trovare una soluzione di questo genere; forse si rassegnò prima, non riscontrando in quei tentativi qualcosa che fosse in grado di realizzare il suo proposito, che era quello di dare all'opera anche in termini musicali una conclusione di assoluta evidenza e a tutti comprensibile in quanto tale. Una cosa era certa: piuttosto che accontentarsi di una soluzione purchessia, avrebbe lasciato l'opera incompiuta. Altri avrebbero chiuso il cerchio un giorno.
Ma fu così che il significato ultimo dell'opera mutò. Senza la parola magica che compia la catarsi, l'utopico sogno di riscatto teso a restaurare in un ripiegamento umanistico l'identità dell'uomo e del mondo rimane privo di musica, ossia, nel contesto dell'opera, lettera morta; e, per contrasto, l'ultima battuta detta da Mefistofele-Guardiano notturno dà alla vicenda di Faust gli accenti di un dramma interiore indecifrabile e irrisolto, di portata enormemente più ampia, quasi tragica. Dallapiccola, ravvisandovi connotati emblematici della condizione di solitudine e di dubbio propria dell'epoca contemporanea, ha rivendicato per primo al Doktor Faust quei caratteri di dolorosa attualità che, negandosi alla Verklärung della tradizione operistica, lo fanno entrare in modo diretto nel vivo del labirinto del teatro musicale novecentesco:

Ben altra la situazione del Doktor Faust di Busoni.
Solitudine anche qui, alla base di tutto (e non è certo il famulus Wagner - più tardi Rector Magnificus - che possa essere all'altezza di un colloquio con lui!): la stessa evocazione delle forze degli Inferi altro non è che un tentativo di comunicare con qualcuno, visto che con gli esseri umani aveva cessato di comunicare.
La partita si risolve in perdita: ciò che Faust si era proposto non è stato realizzato. Non rimane, dunque, altro che la morte. Dopo l'ultima apparizione degli Studenti di Cracovia, ecco il protagonista lieto di morire.
Vorbei, endlich vorbei! Frei liegt der Weg, willkommen, Du meines Abends letzter Gang! (Finita, finalmente finita! La via è libera, benvenuta tu, ultima tappa della mia sera!).
Faust ci lascerà un testamento spirituale; altri continueranno la sua opera.
Tutto deve continuare. Il Doktor Faust non conclude. Prova ne sia l'interrogativo di Mefistofele-Guardia Notturna che chiude l'opera:
Sollte dieser Mann verunglückt sein?
Se pensiamo che stia parlando la Guardia Notturna, la domanda potrebbe alludere semplicemente a un infortunio di cui l'uomo, che giace sulla strada, sarebbe stato vittima; se immaginiamo che parli Mefistofele, sentiremo affiorare in quel «verunglückt» l'idea della perdizione: il demonio si domanda se quell'uomo possa esser dannato.
Nessuna certezza, più.
Il dubbio è entrato nel Teatro d'Opera.

[L. Dallapiccola, Appunti sull'opera contemporanea (1960), in «Appunti Incontri Meditazioni», cit., pag. 63 (Parole e musica, cit., pag. 118)]

Che solitudine e dubbio siano dunque i parametri ultimi dell'identità, l'ultima inafferrabile «parola» lasciataci da Busoni?

Thomas Mann, molti anni dopo, in un romanzo che significativamente si intitola Doktor Faustus, avrebbe scelto la figura di un musicista per definire la tragica condizione dell'artista nell'epoca contemporanea. Di Adrian Leverkühn e delle sue opere, espressione idealmente paradigmatica della catastrofe vissuta nel nostro secolo dalla civiltà europea e in essa in particolare dalla musica, Busoni e il Doktor Faust non sono che progenitori lontani, appena un presagio dell'addensarsi di quei rivolgimenti immani. Poiché, a differenza di molti altri, Busoni non provò l'orrore dell'incapacità di creare, l'avvicinarsi implacabile della sterilità, la disperazione dell'isolamento e dell'impotenza; fino a un certo punto, riuscì a dettare le leggi del suo mondo, in im generoso e caparbio solipsismo: semplicemente, volendo salire alla sommità dei cieli, finì per ritrovarsi sull'orlo dell'abisso infernale. Tentare il diavolo, aveva scritto una volta, scherzando ma non poi troppo, sempre molto pericoloso: soprattutto e a maggior ragione per chi, come lui, aveva fatto della misura, dell'equilibrio, dei bei sogni di bellezza e di conciliazione, dell'ironico distacco e del misticismo magico, le proprie leggi.
Nonostante il triste commiato, l'epigrafe che suggella la vita e l'opera di Busoni non è negativa, ma ancora in fondo lieta: «lo sguardo lieto» prima della tragedia già intuita. Afferma ancora Dallapiccola:

Busoni sapeva che un uomo, per quanto grande sia, non può portare che un piccolissimo contributo alla costruzione del mondo. Desiderando la musica del futuro, incoraggiando i giovani a cercare e a cercarla, egli ha fatto ciò che dovrebbe essere il compito definitivo dell'artista, di colui «che guida la gioventù» del Maestro. [L. Dallapiccola, Pensieri su Busoni, in Parole e musica cit., pag. 298.]

Anche quando in vita il compito minacciò di schiacciarlo, a quelle generazioni future non volle tramandare la testimonianza di una previsione fin troppo facile, ma la speranza e la fede in nuove vittorie dello spirito umano, realizzate attraverso la Musica, e capaci di sopravvivere alla disfatta.