IVAN SERGEEVIC TURGENEV

WIKIPEDIA

PADRI E FIGLI

VERSIONE CARTACEA GARZANTI

Traduzione di Margherita Crepax



I

«Allora, Pëtr, non si vedono ancora?», domandava il 20 maggio 1859 uscendo senza cappello sui gradini dell'albergo di posta sulla strada di *** un signore sui quarant'anni con un cappotto stretto e impolverato e dei pantaloni a scacchi, rivolto al suo cameriere, un ragazzo dalla peluria bionda sul mento e dagli occhi piccoli e ottusi.
Il cameriere, nel quale tutto, l'orecchino di turchese, i capelli tinti e impomatati, il modo di muoversi aggraziato, tutto indicava la sua appartenenza alla nuova generazione dei camerieri evoluti, guardò compiacente la strada e rispose:
«Nossignore, non si vedono».
«Non si vedono?», ripeté il signore.
«Non si vedono», rispose per la seconda volta il cameriere. Il signore sospirò e si sedette su una panchina. Presentiamolo ai lettori, mentre sta seduto, con una gamba ripiegata sotto di sé, guardando pensieroso la strada.
Si chiama Nikolàj Petròviè Kirsànov. A quindici verste dall'albergo possiede una bella tenuta di duecento anime, oppure, come dice lui stesso da quando ha diviso la sua proprietà con i contadini e ha avviato una «masseria», di duemila ettari. Suo padre, generale nella guerra del 1812, era un russo semianalfabeta, rozzo, ma non cattivo; aveva faticato tutta la vita, prima al comando di una brigata poi di una divisione, e aveva sempre vissuto in provincia, dove, in virtù del suo grado, rivestiva un ruolo di una certa importanza. Nikolàj Petròviè era nato nel sud della Russia, come il fratello maggiore, Pàvel, di cui si parlerà più avanti, ed era stato educato fino ai quattordici anni in casa, circondato da istitutori di scarso valore e da aiutanti disinvolti e servili al tempo stesso. Sua madre, della famiglia Koljàzin, si chiamava da ragazza Agathe e da generalessa Agafoklèja Kuz'mìnišna Kirsànova e apparteneva al numero delle «madri-comandanti». Portava cuffie ridondanti di nastri e abiti di seta frusciante, in chiesa si avvicinava per prima alla croce, parlava ad alta voce e molto, la mattina si faceva fare il baciamano dai bambini e la sera li benediceva; in una parola, faceva i suoi comodi. In qualità di figlio di un generale Nikolàj Petròviè, benché non solo non si distinguesse per l'audacia e si fosse, anzi, guadagnato il soprannome di vigliacchetto, avrebbe dovuto, come il fratello, intraprendere la carriera militare, ma proprio il giorno in cui arrivò la notizia della sua destinazione, si ruppe una gamba e, dopo aver passato due mesi a letto, rimase leggermente zoppo per tutta la vita. Il padre rinunciò per lui alla carriera militare e lo avviò a quella civile. A diciott'anni lo portò a Pietroburgo e lo iscrisse all'università. Il fratello, a quell'epoca, divenne ufficiale della guardia. I due giovani andarono ad abitare nello stesso appartamento sorvegliati a distanza da uno zio di secondo grado della madre. Il padre tornò alla sua divisione e alla sua consorte e solo ogni tanto mandava ai figli grandi «in-quarto» di carta grigia coperti di svolazzi da scrivano e firmati «Pëtr Kirsànov, generale-maggiore» tra eleganti ghirigori. Nel 1835 Nikolàj Petròviè si laureò e nello stesso anno il generale Kirsànov, messo a riposo per una rivista mal riuscita, venne a vivere a Pietroburgo con la moglie. Affittò una casa vicino al giardino di Tauride e si iscrisse a un club inglese, ma improvvisamente morì di mal di cuore. Agafoklèja Kuz'mìnišna lo seguì poco dopo: non era riuscita ad abituarsi al ritmo della capitale; la nostalgia della vita di campagna l'aveva consumata. Nel frattempo Nikolàj Petròviè si era innamorato, con non poco dispiacere dei genitori, della figlia dell'impiegato Prepolovènskij, un tempo suo padrone di casa. La ragazza era graziosa e, come si dice, istruita: leggeva sulle riviste le rubriche scientifiche. Nikolàj Petròviè la sposò non appena si fu concluso il periodo di lutto e, lasciato il ministero degli appannaggi, dove era entrato perché il padre lo aveva fatto raccomandare, cominciò un'esistenza di beatitudine con la sua Màša prima in una casetta vicino all'Istituto forestale, poi in città, in un piccolo e grazioso appartamento con una scala pulita e un salotto non ben riscaldato, e alla fine in campagna, dove si stabilirono definitivamente e dove, dopo poco, nacque il loro figlio Arkàdij. Vivevano felici e in pace. Non si separavano quasi mai, leggevano insieme, suonavano a quattro mani, cantavano duetti; lei seminava fiori e curava il pollaio, lui solo di rado andava a caccia e in generale si occupava dell'azienda, intanto anche Arkàdij cresceva, felice e in pace. Dieci anni passarono come un sogno. Nel 1847 la moglie di Kirsànov morì. Nikolàj Petròviè non riusciva a vincere il dolore, invecchiò in poche settimane, decise di andare all'estero per distrarsi un poco... ma era il 1848, e dovette, suo malgrado, tornare in campagna. Dopo un periodo di inattività, cominciò a occuparsi delle riforme agrarie. Nel 1855 iscrisse il figlio all'università e trascorse con lui tre inverni a Pietroburgo, senza mai uscire di casa e cercando invece di conoscere i compagni di Arkàdij. L'ultimo inverno non aveva potuto lasciare la campagna ed ecco perché lo vediamo, nel mese di maggio del 1859, ormai decisamente invecchiato, più grasso e un po' curvo, aspettare il figlio che, come lui una volta, si è appena laureato.
Il cameriere, per riservatezza o forse per non restare sotto gli occhi del padrone, andò a fumare la pipa nell'atrio dell'albergo. Nikolàj Petròviè abbassò la testa e cominciò a guardare i gradini consumati lungo i quali passeggiava con sussiego un grosso pulcino screziato pestando sul legno le sue grosse zampe gialle mentre una gatta tutta sporca lo fissava, ostile, restando accoccolata sul parapetto. Il sole era alto, dall'atrio semibuio dell'albergo veniva un profumo tiepido di pane di segala. Nikolàj Petròviè sognava: Mio figlio... laureato... Arkàša... queste parole continuavano a risuonare nella sua mente. Provava a pensare ad altro e di nuovo eccole ritornare. Ricordava la moglie... «Non ha aspettato!», sussurrò con tristezza... Un colombo grigioazzurro volò sopra la strada e andò a bere in una pozzanghera vicino al pozzo. Nikolàj Petròviè si mise a guardarlo, ma il suo udito coglieva già il fragore delle ruote che si avvicinavano.
«Forse arrivano», disse il cameriere, uscendo sul portone. Nikolàj Petròviè si alzò di scatto e strinse gli occhi per guardare meglio la strada. Apparve una carrozza tirata da tre cavalli di posta; nella carrozza intravvide la visiera di un berretto studentesco e i noti contorni del caro viso...
«Arkàša! Arkàša!», gridò Kirsànov, e corse agitando le braccia... Pochi istanti dopo premeva già le sue labbra contro la guancia imberbe, impolverata e accaldata del giovane laureato.

II

«Lascia che mi scuota di dosso la polvere, papàša», diceva Arkàdij, con la voce resa rauca dal viaggio, ma giovane e sonora, rispondendo allegramente alle carezze di suo padre, «ti sporcherò tutto».
«Non fa niente, non importa», rispondeva Nikolàj Petròviè con un sorriso affettuoso e, con la mano, dava qualche colpetto leggero sul bavero del cappotto del figlio e sul proprio soprabito. Si scostò e aggiunse: «Fatti guardare!». Poi si diresse in fretta verso l'albergo. «Ecco», disse, «siamo qui... presto, i cavalli!».
Nikolàj Petròviè era molto più animato di suo figlio, sembrava confuso e quasi intimidito. Arkàdij lo chiamò: «Papà, vorrei presentarti il mio carissimo amico Bazàrov, ti ho parlato di lui tante volte per lettera. È stato così gentile da accettare di essere nostro ospite per un po'».
Nikolàj Petròviè tornò subito sui suoi passi e si avvicinò a un giovane molto alto, vestito con una lunga palandrana ornata di nappe, che era sceso in quel momento dalla carrozza, e strinse forte la mano arrossata, senza guanto, che non gli era stata tesa subito.
«Sono lietissimo di conoscerla», disse Nikolàj Petròviè, «e la ringrazio per la sua buona risoluzione di venirci a fare visita; spero che... posso chiederle il suo nome?».
«Evgènij Vasìl'ev», rispose Bazàrov, con una voce indolente ma virile e, nell'abbassare il bavero della palandrana, mostrò a Nikolàj Petròviè il suo viso lungo e magro, con la fronte spaziosa, il naso largo alla radice e affilato sulla punta, gli occhi grandi e quasi verdi, le fedine lunghe color sabbia; un viso animato da un sorriso calmo che esprimeva intelligenza e fiducia in se stesso.
«Spero, carissimo Evgènij Vasìl'eviè, che non si annoierà da noi», disse Nikolàj Petròviè.
Bazàrov mosse appena le labbra sottili, ma non rispose, si limitò a sollevare il berretto. Aveva capelli biondo scuro, folti e lunghi, che tuttavia non nascondevano la fronte, alta e sporgente.
«Che ne dici, Arkàdij», rispose Nikolàj Petròviè, rivolto al figlio, «facciamo attaccare subito i cavalli, o prima volete riposare?».
«Ci riposeremo a casa, papà, fai attaccare i cavalli».
«Subito, subito», si affrettò a rispondere il padre e, rivolto al servo, aggiunse: «Hai sentito Pëtr? Dai gli ordini, fratello, presto!».
Pëtr, che nella sua qualità di servo evoluto non si era avvicinato a baciare la mano del giovane padrone, ma gli si era inchinato da lontano, sparì di nuovo nel portone.
«Sono venuto col calesse, ma c'è un tiro a tre anche per la tua carrozza», diceva, tutto affannato, Nikolàj Petròviè, mentre Arkàdij beveva l'acqua da una piccola brocca di ferro che gli aveva portato il padrone dell'albergo; Bazàrov, intanto, aveva acceso la pipa e si era avvicinato al postiglione che stava attaccando i cavalli. «Il calesse, però, ha solo due posti e non so come il tuo amico...».
«Verrà con la carrozza», lo interruppe, a bassa voce, Arkàdij, «non preoccuparti per lui, è un buonissimo ragazzo, molto semplice, vedrai».
Il cocchiere di Nikolàj Petròviè condusse i cavalli.
«Svelto, barbaccia», disse Bazàrov, rivolto al postiglione.
«Hai sentito, Mitjùcha», osservò l'altro postiglione con le mani nelle tasche posteriori del cappotto di montone, «come ti ha chiamato il signore? Barbaccia! Ed è vero».
Mitjùcha non rispose, scosse il berretto e tolse le redini al cavallo di testa, che era tutto sudato.
«Via, ragazzi, sbrigatevi, date una mano», esclamò Nikolàj Petròviè, «vi darò una mancia!».
In pochi minuti i cavalli vennero attaccati, padre e figlio sedettero sul calesse e Pëtr si mise a cassetta, Bazàrov salì sulla carrozza, appoggiò la testa al cuscino di cuoio, e calesse e carrozza partirono.

III

«E così ormai sei laureato e torni a casa», disse Nikolàj Petròviè, e ora accarezzava una spalla ora un ginocchio di Arkàdij. Finalmente!».
«E lo zio? Sta bene?», chiese Arkàdij che, nonostante provasse una gioia sincera e quasi puerile, avrebbe voluto che la conversazione fosse meno commossa e un po' più usuale.
«Sta bene. Voleva venirti incontro anche lui, poi, non so perché, ha cambiato idea».
«Hai aspettato molto?».
«Eh sì, quasi cinque ore».
«Povero papàša».
Arkàdij si voltò, con un gesto spontaneo e vivace, e baciò rumorosamente suo padre su una guancia. Nikolàj Petròviè sorrise.
«Vedrai che bel cavallo ti ho preparato! E ho fatto anche mettere la tappezzeria in camera tua».
«C'è una camera per Bazàrov?».
«La troveremo».
«Ti prego, papà, trattalo con affetto, non so dirti quanto mi sia cara la sua amicizia».
«È da poco che lo conosci, vero?».
«Sì, da poco».
«Ecco perché non l'ho visto l'inverno scorso. Che cosa studia?».
«La sua materia sono le scienze naturali, ma sa tante altre cose. L'anno prossimo vuol dare gli esami per diventare medico».
«Ah, frequenta la facoltà di medicina», disse Nikolàj Petròviè, e poi tacque per un momento. «Pëtr, non sono i nostri contadini, quelli?», aggiunse indicando la campagna.
Pëtr diede un'occhiata nella direzione indicata dal padrone. Alcuni carri, trainati da cavalli a briglia sciolta correvano lungo una strada stretta. Su ogni carro c'erano uno o due contadini, col cappotto di montone sbottonato.
«Sì, signore», rispose Pëtr.
«Dove vanno? In città?».
«Sì, sembra che vadano proprio in città. All'osteria», disse Pëtr con disprezzo, e si chinò verso il cocchiere a cercare la sua approvazione, ma il cocchiere non si mosse, era un uomo all'antica, che non condivideva le idee nuove.
«Quest'anno i contadini mi danno molte noie», proseguì Nikolàj Petròviè, rivolto al figlio. «Non pagano il canone, ma che cosa ci posso fare?».
«E dei salariati sei contento?».
«Sì», rispose Nikolàj Petròviè, a denti stretti, «ma si fanno montare la testa, questo è il guaio, sono svogliati e rovinano gli attrezzi. Però hanno arato abbastanza bene. Ci vuol pazienza, miglioreranno col tempo. Ma, adesso, Arkàdij, t'interessi della campagna?».
«Non c'è ombra, peccato!», osservò Arkàdij, senza rispondere all'ultima domanda.
«Sul lato della casa che dà verso nord ho fatto mettere una tenda sul balcone, così ora si può pranzare all'aperto».
«Sembrerà troppo una villa... ma non è questo che importa. Che aria buona c'è! Che profumo! In nessun altro posto al mondo mi sembra che ci sia tanto profumo. Anche il cielo...».
Arkàdij s'interruppe, si diede una rapida occhiata alle spalle e tacque.
«Sei nato qui», disse Nikolàj Petròviè, «ed è naturale che tutto ti sembri particolarmente bello».
«No, papà, non importa dove si è nati».
«Però...».
«Credimi, non importa dove si è nati».
Nikolàj Petròviè guardò il figlio con la coda dell'occhio e il calesse percorse mezza versta prima che riprendessero a parlare.
«Non mi ricordo se te l'ho scritto», disse infine Nikolàj Petròviè, «ma la tua cara njanja Egòrovna è morta».
«Davvero? Poverina! E Prokòf'iè è vivo?».
«Sì, ed è sempre lui. Brontola come prima. Non troverai molti cambiamenti a Mar'ìno».
«Hai sempre lo stesso fattore?».
«No, il fattore l'ho sostituito. Ho deciso di non tenere più i servi affrancati che erano già con noi, o almeno di non affidargli lavori di responsabilità». (Arkàdij indicò con gli occhi Pëtr.) «Il est libre en effet», osservò a bassa voce Nikolàj Petròviè, «ma è un cameriere. Ora ho un fattore che appartiene alla piccola borghesia, sembra abbastanza bravo. Gli ho assegnato uno stipendio di duecentocinquanta rubli all'anno. Del resto», concluse Nikolàj Petròviè passandosi una mano sulla fronte e sulle sopracciglia, come faceva quando era turbato da qualche preoccupazione, «ti ho detto che non troverai niente di cambiato a Mar'ìno... ma, forse, non è del tutto esatto... credo che sia mio dovere avvertirti, anche se...», s'interruppe e proseguì in francese. «Credo che un rigido moralista giudicherebbe inopportuna la mia sincerità, ma prima di tutto non è una cosa che si possa tener nascosta e poi tu sai che ho sempre avuto i miei principi per quanto riguarda i rapporti tra padre e figlio. Tu hai, in ogni caso, il diritto di giudicarmi. Alla mia età... Insomma, quella ragazza della quale avrai forse già sentito parlare...».
«Fèneèka?», disse Arkàdij con disinvoltura.
Nikolàj Petròviè arrossì. «Non nominarla ad alta voce, per favore. Beh, sì... ora vive con me... l'ho sistemata in casa... c'erano due stanzette libere. Si può ancora cambiare...».
«Ma no, perché?».
«Avremo ospite il tuo amico... è imbarazzante...».
«Non devi preoccuparti per Bazàrov, è al di sopra di queste cose».
«Ma anche, per te... purtroppo il padiglione è in cattive condizioni...».
«Ti prego, papà», l'interruppe Arkàdij, «mi sembra che tu ti voglia giustificare, non ti vergogni?».
«È vero, mi devo vergognare», rispose Nikolàj Petròviè, arrossendo ancora di più.
«Basta, per carità, basta», Arkàdij sorrise affettuosamente.
Di che cosa si vuol giustificare, pensò tra sé e provò una tenerezza indulgente per quel padre così mite e buono e, insieme, un oscuro senso di superiorità. «Basta, per piacere», ripeté, deliziandosi involontariamente del proprio spirito libero e spregiudicato.
Nikolàj Petròviè lo guardò attraverso le dita della mano, che seguitava a passarsi sulla fronte, e sentì una fitta al cuore, ma ne attribuì la responsabilità solo a se stesso.
«Ecco, si vedono già i nostri campi», disse, dopo un lungo silenzio.
«E quello davanti a noi non è il nostro bosco?».
«Sì, è il nostro, ma l'ho venduto. Quest'anno lo abbatteranno».
«Perché l'hai venduto?».
«Avevo bisogno di denaro, e poi questa terra tocca ai contadini».
«Che non ti pagano il canone».
«È un altro discorso. Prima o poi pagheranno».
«Peccato per il bosco», osservò Arkàdij, guardandosi intorno.
I luoghi che attraversavano non si sarebbero potuti definire ameni. Una distesa sconfinata di campi si perdeva fino all'orizzonte, ora leggermente in salita ora in discesa, a tratti apparivano piccoli boschi o si aprivano burroni coperti di cespugli radi, bassi, così tipici che, guardandoli, si pensava subito alle antiche carte di Caterina II. S'incontravano anche brevi fiumi dalle sponde erbose; piccoli stagni con le chiuse malandate; villaggi di casupole basse con i tetti scuri, spesso semidistrutti dal vento; capannoni per la trebbiatura sbilenchi, con le pareti di rami secchi intrecciati e la porta come una bocca spalancata sulle aie deserte; chiesette di mattoni con l'intonaco scrostato, o di legno, con le croci storte e, accanto, il cimitero lasciato nell'abbandono. Arkàdij si sentiva, a poco a poco, stringere il cuore.
I contadini che incontravano, quasi a confermare il suo stato d'animo, avevano abiti stracciati, i loro cavalli erano macilenti e i salici ai lati della strada, con i rami spezzati e la corteccia lacera, sembravano mendicanti cenciosi; mucche magre, denutrite, col pelo ispido, brucavano avidamente l'erba lungo i fossi e sembrava che fossero sfuggite in quel momento a micidiali, misteriosi artigli. Lo spettacolo miserando di quegli animali stremati richiamava alla mente, in quella bella giornata di primavera, il fantasma bianco, sconsolato, senza fine, dell'inverno, con le tormente, il gelo, la neve...
No, pensava Arkàdij, non è ricca questa regione, non c'è abbondanza né operosità, non si deve lasciarla così, sono necessarie delle riforme... ma come fare, da dove cominciare? Intorno ad Arkàdij, assorto in queste meditazioni, la primavera rivendicava i suoi diritti. Tutto, intorno, brillava di un verde dorato, ondeggiava mollemente a perdita d'occhio, riluceva sotto l'alitare tranquillo di un vento tiepido: gli alberi, i cespugli, l'erba. Le allodole diffondevano il loro interminabile trillo vibrante, i vanni ora gridavano, volando bassi sui prati, ora saltavano silenziosi da una zolla all'altra; le cornacchie grige spiccavano, scure, nel verde tenero del grano ancora basso, sparivano nella segala che cominciava a diventare bianca e solo a tratti le loro testoline sbucavano tra i vapori di quelle onde.
Arkàdij guardava, guardava, e a poco a poco i suoi pensieri si disperdevano e lo abbandonavano.
Si tolse il cappotto e si rivolse a suo padre con un'espressione così allegra e infantile che Nikolàj Petròviè l'abbracciò di nuovo.
«Siamo quasi arrivati», disse. «Dalla cima di quella collinetta si vedrà già la nostra casa. Staremo bene insieme io e te, Arkàdij. Se vorrai, potrai aiutarmi a dirigere i lavori della campagna. Dovremo imparare a conoscerci, a capirci, vero?».
«Certo!», esclamò Arkàdij. «Ma che bella giornata!».
«È per il tuo arrivo, anima mia, che la primavera si mostra in tutto il suo splendore. Io penso come Pùškin. Ti ricordi dell'Evgènij Onègin?

Com'è triste per me la tua comparsa
Primavera, stagione dell'amore!
Quale...».

«Arkàdij!», dalla carrozza arrivò la voce di Bazàrov. «Mandami un fiammifero, devo accendere la pipa».
Nikolàj Petròviè tacque e Arkàdij, che l'aveva ascoltato stupito, ma compiaciuto, si affrettò a togliersi di tasca una scatoletta d'argento con i fiammiferi e la diede a Pëtr perché la portasse a Bazàrov.
«Vuoi un sigaro?», gridò di nuovo Bazàrov.
«Sì, dammelo», rispose Arkàdij.
Pëtr tornò e gli diede, insieme alla scatoletta, un grosso sigaro nero che Arkàdij accese subito, diffondendo attorno a sé un odore acre di tabacco forte e stagionato. Nikolàj Petròviè, che non aveva mai fumato in vita sua, fu costretto, con discrezione per non mortificare il figlio, a voltare la testa dall'altra parte.
Un quarto d'ora più tardi le due vetture si fermavano davanti alla scala di una casa di legno, nuova, dipinta di grigio, con il tetto di ferro rosso. Era Mar'ìno, detta anche Nòvaja Slobòdka, villaggio nuovo, oppure, come dicevano i contadini, Pobìlij Chùtor, La Masseria dei Diseredati.

IV

Non fu una folla di servi ad andare incontro ai signori sulla scala, ma una bambina di dodici anni, seguita da un ragazzo che somigliava molto a Pëtr e indossava una giacca da cameriere grigia, con i bottoni bianchi che portavano impresso lo stemma della casa. Era il servo di Pàvel Petròviè Kirsànov.
In silenzio, aprì lo sportello del calesse e staccò la coperta di cuoio della carrozza.
Nikolàj Petròviè, il figlio e Bazàrov attraversarono una sala buia e quasi vuota, mentre da una porta si intravvedeva per un attimo il viso di una giovane donna, e si diressero nel salotto, arredato secondo un gusto moderno.
Nikolàj Petròviè si tolse il cappello e si passò una mano tra i capelli.
«Eccoci finalmente a casa, ora l'essenziale è cenare e andare a riposare».
«L'idea di una cena non è sbagliata», disse Bazàrov e, stiracchiandosi, si mise a sedere sul divano.
«Certo, certo, ceneremo subito», Nikolàj Petròviè, senza una ragione apparente, si mise a battere i piedi per terra. «Ecco Prokòf'iè».
Era entrato un uomo sulla sessantina, con i capelli bianchi, la carnagione scura, che portava una finanziera marrone coi bottoni di rame e un fazzoletto rosa al collo. Sorrise, scoprendo i denti, accostò le labbra alla mano di Arkàdij, s'inchinò all'ospite e si ritirò accanto alla porta, con le mani incrociate dietro la schiena.
«Finalmente è arrivato, eh, Prokòf'iè», disse Nikolàj Petròviè. «Come lo trovi?».
«Benissimo», rispose il vecchio e sorrise di nuovo, poi aggrottò le sopracciglia folte e disse in tono invitante: «Devo dare ordine di apparecchiare?».
«Sì, sì, ti prego. Non vuole prima andare in camera sua, Evgènij Vasìl'eviè?».
«No, grazie, non è necessario», rispose Bazàrov. «Basta che qualcuno porti di là la mia valigia e questa gabbanella», concluse, togliendosi la palandrana.
«Molto bene. Prokòf'iè, prendi il soprabito del signore», disse Nikolàj Petròviè. (Prokòf'iè, perplesso, prese con entrambe le mani «la gabbanella» di Bazàrov e, tenendola alta sopra la testa, si allontanò in punta di piedi.) «E tu, Arkàdij, non vuoi andare un momento in camera tua?».
«Sì, devo rimettermi un po' in ordine». Arkàdij si avviò alla porta, ma in quel momento entrò in salotto un uomo di statura media, vestito di un completo scuro, all'inglese, con una cravatta sottile, alla moda, e stivaletti di vernice nera: era Pàvel Petròviè Kirsànov. Dimostrava circa quarantacinque anni, i suoi capelli grigi, tagliati corti, avevano i riflessi scuri dell'argento nuovo e il suo viso nervoso ma senza rughe, estremamente regolare e nitido, come se fosse stato modellato con un bulino sottile e leggero, portava le tracce di una straordinaria bellezza. Soprattutto gli occhi erano belli, luminosi, neri, a mandorla. Tutta la figura dello zio di Arkàdij, elegante e aristocratica, aveva mantenuto una snellezza giovanile e quel particolare slancio che di solito si perde dopo i vent'anni.
Pàvel Petroviè si tolse dalla tasca dei calzoni la bella mano dalle unghie lunghe e rosee, resa ancora più bella dal candore del polsino abbottonato con un unico grosso opale, e la porse al nipote.
Dopo lo shake-hands europeo, lo baciò tre volte, alla russa, gli sfiorò per tre volte la guancia con i suoi baffi profumati.
«Bentornato!», disse.
Nikolàj Petròviè gli presentò Bazàrov. Pàvel Petròviè inchinò leggermente la sua figura snella e gli sorrise, ma non gli diede la mano, anzi se la rimise in tasca.
«Pensavo già che per oggi non sareste arrivati», disse con voce gradevole, mostrando i suoi bellissimi denti e dondolandosi impercettibilmente sui tacchi, con le spalle inclinate, in un atteggiamento garbato. «C'è stato qualche incidente lungo la strada?».
«No, nessun incidente», rispose Arkàdij, «abbiamo solo impiegato più tempo del previsto e così ora abbiamo una gran fame. Di' a Prokof'iè di far presto, papaša; io torno subito».
«Aspettami, vengo anch'io!», esclamò Bazàrov, alzandosi improvvisamente dal divano.
Uscirono.
«Chi è?», chiese Pàvel Petròviè.
«Un amico di Arkàša, che lo giudica molto intelligente».
«Sarà nostro ospite?».
«Sì».
«Un giovanotto con tutti quei capelli?».
«Ma sì...».
Pàvel Petròviè tamburellò con le dita sul tavolo. «Arkàdij s'est dégourdi», osservò. «Sono contento che sia tornato».
A cena parlarono poco. Bazàrov soprattutto restò quasi sempre zitto e, in compenso, mangiò molto. Nikolàj Petròviè raccontò qualche episodio di quella che chiamava la sua vita di masseria, discusse delle riforme che il governo avrebbe presto emanato, dei comitati, dei deputati, della necessità di introdurre l'uso delle macchine agricole e così via. Pàvel Petròviè camminava su e giù per la sala da pranzo (non cenava mai), beveva qualche sorso di vino rosso e interveniva ogni tanto con una parola, o meglio con una esclamazione, «ah», «oh», «ehm». Arkàdij raccontò le novità di Pietroburgo, ma si sentiva a disagio, come può capitare a un giovane che torna dove fino a poco prima era considerato un bambino. Allungava senza necessità il proprio discorso, evitava la parola «papà» e arrivò perfino a sostituirla con un «padre», sia pure pronunciato tra i denti, si versava con troppa disinvoltura più vino di quanto desiderasse e lo beveva tutto. Prokòf'iè non smetteva di osservarlo, muovendo appena le labbra. Dopo cena tutti si separarono subito.
«È un eccentrico tuo zio», disse Bazàrov. Era seduto vicino al letto di Arkàdij e mordicchiava una pipa corta. «Con che eleganza si veste in campagna! E che unghie! Unghie da esposizione!».
«È vero, ma tu non puoi sapere», rispose Arkàdij, «che ai suoi tempi è stato un rubacuori. Un giorno o l'altro ti racconterò la sua storia. Era molto bello, faceva perder la testa alle donne».
«Ah, ecco! Allora è un'abitudine. Peccato che qui non ci sia da conquistare nessuno. L'ho guardato bene, ha dei colletti eccezionali, sembrano di marmo, e con che cura si tiene rasato il mento! Non ti sembra, nell'insieme, molto ridicolo?».
«Forse, ma ti assicuro che è una brava persona».
«Un reperto archeologico. Tuo padre, invece, è molto simpatico. Potrebbe fare a meno di recitare versi e credo che capisca ben poco dei lavori dei campi, ma è un buon uomo».
«È un uomo d'oro».
«Ti sei accorto che è un po' timido?».
Arkàdij fece segno di sì con la testa, come se non sapesse di essere timido anche lui.
«Sono straordinari questi vecchi romantici, assecondano il loro sistema nervoso fino a rendersi irritanti... e a quel punto l'equilibrio non si recupera più. Ora però ti saluto, in camera mia la porta non si chiude, ma c'è un lavabo all'inglese. È un'iniziativa da incoraggiare, questa dei lavabi all'inglese... rappresentano il progresso».
Bazàrov se ne andò e Arkàdij si sentì pervadere da un senso di gioia. Era bello addormentarsi nella casa paterna, in un letto ben noto, sotto una coperta lavorata da mani amate, forse le mani della njanja, carezzevoli, buone instancabili. Arkàdij ripensò alla Egòrovna, sospirò e pregò che fosse in cielo. Per sé non pregava mai.
Lui e Bazàrov si addormentarono presto, ma gli altri, in casa, restarono svegli ancora a lungo. Il ritorno del figlio aveva reso inquieto Nikolàj Petròviè. Andò a letto, ma non spense le candele e, con la testa appoggiata al palmo della mano, rimase a lungo assorto nei suoi pensieri. Suo fratello si trattenne fin dopo la mezzanotte nello studio, seduto su un'ampia, comoda poltrona di Gambs davanti al caminetto nel quale bruciava lentamente il carbon fossile. Non si era tolto i vestiti, aveva solo sostituito gli stivaletti di vernice con un paio di pantofole cinesi rosse. Teneva in mano l'ultimo numero del «Galignani's Messenger», ma non leggeva, guardava nel camino una tremula fiamma azzurrognola che, a tratti, si affievoliva o avvampava... Dio sa dove vagassero i suoi pensieri, certo non solo nel passato: il suo viso aveva un'espressione intensa e triste, diversa da quella di chi si è abbandonato ai ricordi.
In una stanzetta in fondo alla casa, seduta su un baule, una giovane donna, Fèneèka, vestita con un corpetto azzurro e un fazzoletto bianco sui capelli scuri, riposava, assorta e, di quando in quando, tendeva l'orecchio e guardava la porta aperta, di là dalla quale si vedeva un lettino e si sentiva il respiro tranquillo di un bambino addormentato.

V

La mattina dopo, Bazàrov si svegliò prima degli altri e uscì di casa. Eh, pensò, guardandosi intorno, non si può dire che sia un bel posticino...
Quando Nikolàj Petròviè aveva diviso la terra con i suoi contadini aveva dovuto assegnare alla nuova casa padronale quattro ettari di terra nuda e piatta. Aveva costruito la casa, i depositi e la masseria, tracciato i confini del giardino, scavato uno stagno e due pozzi, ma gli alberi giovani attecchivano male, l'acqua raccolta nello stagno era poca e quella dei pozzi aveva un sapore salmastro. Solo il pergolato di serenelle e acacie, dove qualche volta venivano serviti il tè o il pranzo, era cresciuto abbastanza bene.
Bazàrov percorse in pochi minuti tutti i vialetti del giardino, entrò nel cortile e nella scuderia, chiacchierò con due ragazzetti che facevano parte della servitù e andò con loro a caccia di ranocchi in uno stagno distante una versta da casa.
«Mi dici che cosa te ne fai dei ranocchi, signore?», chiese uno dei due ragazzi.
«Sì», rispose Bazàrov, che aveva il dono di conquistare la fiducia delle persone semplici sebbene non le trattasse con benevolenza ma con indifferenza. «Le squarto e guardo che cosa hanno dentro e così, poiché anche io e te siamo dei ranocchi, con l'unica differenza che camminiamo su due gambe, vengo anche a sapere che cosa c'è dentro di noi».
«Perché lo vuoi sapere?».
«Per non sbagliarmi se ti ammalerai e dovrò curarti».
«Allora sei un dottore?».
«Sì».
«Vàs'ka, hai sentito? Il signore dice che io e te siamo uguali ai ranocchi. Bello, eh?».
«Io ho paura dei ranocchi», rispose Vàs'ka, che era scalzo, aveva sette anni, la testa bianca come il lino e una casacchina grigia col colletto rigido.
«Perché? Mordono?».
«Su, entrate in acqua, filosofi!», esclamò Bazàrov.

Intanto anche Nikolàj Petròviè si era alzato ed era andato da Arkàdij. L'aveva trovato già pronto e, insieme, erano usciti sulla terrazza; all'ombra della tenda, vicino alla balaustra, sul tavolo, tra grandi mazzi di serenelle, bolliva il samovar. Subito comparve la bambina che il giorno prima era scesa incontro ai nuovi arrivati.
«Fedòs'ja Nikolàevna», disse, con una voce sottile, «non si sente bene e non può venire, mi ha ordinato di chiedervi se desiderate versarvi il tè da soli o se deve mandarvi Dunjàša».
«Lo verserò io», rispose in fretta Nikolàj Petròviè. «Tu, Arkàdij, come lo prendi il tè, con la panna o col limone?».
«Con la panna», rispose Arkàdij e, dopo un attimo di silenzio, aggiunse in tono interrogativo: «Papà...?».
Nikolàj Petròviè lo guardò, incerto. «Dimmi».
Arkàdij abbassò gli occhi.
«Forse ti sembrerò indiscreto, ma la sincerità con la quale mi hai parlato ieri mi incoraggia a essere altrettanto sincero. Non te ne avrai a male?».
«Ti ascolto».
«Ecco, tu mi dai il coraggio di chiederti se... se Fen... se lei non viene a versare il tè perché ci sono io».
Nikolàj Petròviè voltò appena appena la testa.
«Forse sì», disse infine. «Pensa che... sì, si vergogna».
Arkàdij rivolse a suo padre un rapido sguardo.
«Non deve vergognarsi. Prima di tutto tu sai come la penso io», Arkàdij provò un gran piacere nel pronunciare queste parole, «e inoltre non vorrei mai che, a causa mia, cambiassero la tua vita e le tue abitudini. Sono sicuro che non puoi aver fatto una scelta sbagliata; se le hai permesso di vivere con te, sotto lo stesso tetto, è perché lo merita; in ogni caso un figlio non può giudicare il padre e tanto meno io potrei giudicare un padre che non ha mai ostacolato la mia libertà». Arkàdij aveva cominciato a parlare con voce tremante, si sentiva generoso e, nello stesso tempo, capiva che stava impartendo una lezione di morale a suo padre, ma poiché ci si rincuora sempre nell'ascoltare se stessi, riuscì a trovare alla fine un accento fermo e quasi enfatico.
«Grazie, Arkàša», rispose Nikolàj Petròviè con voce atona e si passò di nuovo la mano sulle sopracciglia e sulla fronte. «Le tue supposizioni sono giuste. Certo, se questa ragazza non avesse meritato... Non si tratta di un capriccio. Mi è difficile parlarne con te, ma puoi capire che non sarebbe stato semplice per lei venire qui ora che ci sei tu, soprattutto il giorno del tuo arrivo».
«Allora andrò io da lei!», esclamò Arkàdij e, tutto pervaso da sentimenti generosi, si alzò di scatto. «Le spiegherò che non ha nessun motivo di vergognarsi di me».
Anche Nikolàj Petròviè si alzò in piedi.
«Arkàdij», disse, «ti prego... Non puoi... La... Non ti ho ancora avvertito che...».
Ma Arkàdij non l'ascoltava più e si allontanò di corsa. Nikolàj Petròviè lo seguì con lo sguardo, poi si lasciò cadere su una sedia, in preda all'angoscia. Il cuore gli batteva forte... Sarebbe impossibile dire se in quel momento pensasse alla inevitabile particolarità dei suoi futuri rapporti con il figlio o se ritenesse che sarebbe stato più rispettoso, da parte di Arkàdij, non interessarsi affatto a quell'argomento o se, infine, non si rimproverasse la propria debolezza; tutti questi sentimenti si agitavano in lui come impressioni confuse, ma il rossore non spariva dal suo viso e il cuore seguitava a battergli forte.
Si udirono dei passi affrettati e Arkàdij tornò sulla terrazza.
«Abbiamo fatto conoscenza, padre!», esclamò e aveva in viso una dolce e affettuosa espressione di trionfo. «Fedòs'ja Nikolàevna si sente davvero poco bene oggi e verrà solo più tardi. Ma perché non mi hai detto che ho un fratello? Sarei andato a baciarlo ieri sera, come ho fatto ora».
Nikolàj Petròviè avrebbe voluto rispondergli, alzarsi, stringerlo a sé... Arkàdij gli buttò le braccia al collo.
Si udì alle loro spalle la voce di Pàvel Petròviè.
«Ma che cosa vedo, vi abbracciate di nuovo!».
Padre e figlio furono entrambi contenti di vederlo comparire proprio in quel momento: ci sono situazioni commoventi dalle quali si vorrebbe uscire il più presto possibile.
«Ti pare strano?», disse allegramente Nikolàj Petròviè. «Erano secoli che aspettavo che Arkàša tornasse. Da ieri non smetto di guardarlo e ancora non mi basta».
«Non mi pare strano», osservò Pàvel Petròviè, «anzi, vorrei riabbracciarlo anch'io».
Arkàdij si avvicinò allo zio e sentì ancora i suoi baffi profumati sfiorargli le guance. Pàvel Petròviè si sedette a tavola. Indossava un elegante completo da mattina di stile inglese e sulla testa gli spiccava un piccolo fez. Quel fez e la cravatta sottile, annodata con negligenza, erano concessioni alla libertà della vita di campagna, ma il colletto duro della camicia, sia pure non bianca ma colorata, come si usa la mattina, bloccava, con la consueta rigidezza, il suo mento ben rasato.
«Dov'è il tuo nuovo amico?», chiese ad Arkàdij.
«Non è in casa, è abituato ad alzarsi presto la mattina e a uscire. Meglio non badargli molto, non gli piacciono le cerimonie».
«Già, si vede subito». Pàvel Petròviè si mise, senza fretta, a spalmare il burro sul pane. «Sarà nostro ospite per molto tempo?».
«Non so. Si è fermato da noi prima di andare da suo padre».
«Dove abita suo padre?».
«Nel nostro governatorato. Ha una piccola proprietà a circa ottanta verste da qui. Era un medico militare».
«Ah, ecco perché mi chiedevo dove avevo già sentito questo cognome. Non c'era, Nikolàj, un medico che si chiamava Bazàrov nella divisione di nostro padre?».
«Mi pare di sì».
«E quel medico è il padre dell'amico di Arkàdij. Ma», Pàvel Petròviè storse le labbra, «il signor Bazàrov che cosa fa, che cos'è?».
«Che cos'è Bazàrov?», Arkàdij sorrise. «Vuole che glielo dica, zio?».
«Sì, mi piacerebbe saperlo, mio caro nipote».
«Bazàrov è un nichilista».
«Come?», chiese Nikolàj Petròviè, mentre Pàvel Petròviè rimaneva immobile, con in mano il coltello sul quale aveva infilato un pezzetto di burro.
«È un nichilista», ripeté Arkàdij.
«Nichilista», rifletté Nikolàj Petròviè, «viene dal latino nihil, cioè niente, per quanto ne so io, quindi un nichilista... non crede a niente?».
«O piuttosto non rispetta niente», disse Pàvel Petròviè e tornò a occuparsi del suo burro.
«Un nichilista si pone di fronte a ogni cosa con un atteggiamento critico», osservò Arkàdij.
«E non è lo stesso?», chiese Pàvel Petròviè.
«No, non è lo stesso. Il nichilista non s'inchina davanti all'autorità di nessuno e non accetta nessun principio, anche se si tratta di un pricipio cui tutti obbediscono».
«E ti sembra che sia un bene?», lo interruppe Pàvel Petròviè.
«Per alcuni sì e per altri no, zio».
«Ah, è così! Vedo che non si tratta di una questione di nostra competenza. Noi siamo all'antica e crediamo che senza principi» (Pàvel Petròviè dava a questa parola un suono dolce, alla francese, mentre Arkàdij la pronunciava con durezza, calcando la voce), «senza principi in cui credere non si può muovere un passo, non si può nemmeno respirare... Vous avez changé tout cela, che Dio vi conceda la salute e magari anche il grado di generale e noi ci limiteremo ad ammirarvi, signori... come si dice?».
«Nichilisti», rispose Arkàdij, scandendo le sillabe.
«Sì, prima c'erano gli hegeliani e adesso ci sono i nichilisti. Vedremo se riuscirete a vivere nel nulla, nel vuoto. Ma adesso, Nikolàj Petròviè, fratello, è ora che io beva il mio cacao. Suona il campanello».
Nikolàj Petròviè suonò il campanello e gridò: «Dunjàša!».
Ma invece di Dunjàša uscì sulla terrazza Fèneèka. Aveva ventitré anni, la carnagione bianca e morbida, gli occhi e i capelli scuri, la bocca fresca, piena, come quella di un bambino, le mani piccole e delicate. Portava un vestitino di cotone, molto in ordine, e sulle spalle rotonde un fazzoletto nuovo, azzurro. Aveva in mano una tazza di cacao, la posò davanti a Pàvel Petròviè e, intimidita, arrossì; il sangue giovanile diffuse un'ondata scarlatta sotto la pelle sottile del suo bel viso. Con gli occhi bassi, restò ferma vicino alla tavola, tenendovi appoggiate le punte delle dita. Sembrava che si vergognasse di trovarsi lì, ma che nello stesso tempo sentisse di averne il diritto.
Pàvel Petròviè aggrottò le sopracciglia. Nikolàj Petròviè era imbarazzato.
«Buongiorno, Fèneèka», mormorò, con le labbra strette.
«Buongiorno», rispose lei, con voce leggera ma ferma, diede un'occhiata in tralice ad Arkàdij, che le sorrideva amichevolmente, e uscì in silenzio. Camminava dondolandosi un po', ma le si addiceva.
Per qualche minuto sulla terrazza regnò il silenzio. Pàvel Petròviè beveva il suo cacao, poi, improvvisamente alzò la testa.
«Ecco il signor nichilista», disse sottovoce.
Bazàrov, infatti, si avvicinava, attraverso il giardino, calpestando le aiuole. Aveva il soprabito e i calzoni inzaccherati, una pianta di palude attorcigliata attorno al suo cappello tondo e, in una mano, un sacchetto nel quale si agitava qualcosa di vivo. Si avvicinò alla terrazza e, con un cenno del capo, disse:
«Buongiorno, signori, chiedo scusa se ho fatto tardi per il tè. Vi raggiungo subito, prima devo sistemare queste prigioniere».
«Che cos'ha lì dentro, sanguisughe?», chiese Pàvel Petròviè.
«No, rane».
«Le mangia o le alleva?».
«Mi servono per fare degli esperimenti», rispose Bazàrov con indifferenza, ed entrò in casa.
«Adesso si metterà a sezionarle», disse Pàvel Petròviè. «Non crede nei principi, ma crede nelle rane».
Arkàdij guardò lo zio con commiserazione e Nikolàj Petròviè scrollò le spalle di nascosto. Pàvel Petròviè capì che la sua osservazione era stata inopportuna e si mise a parlare della masseria e del nuovo fattore che, il giorno prima, era venuto a lamentarsi del bracciante Fomà che «svicolava» ed era troppo indisciplinato. «È un Esopo», gli aveva detto tra l'altro, «ha fatto brutte figure dappertutto, si ferma ora qua ora là e improvvisamente, senza ragione, se ne va».

VI

Bazàrov ritornò, si sedette a tavola e cominciò a bere in fretta il tè. Tutti e due i fratelli lo guardavano in silenzio, mentre Arkàdij sbirciava ora il padre ora lo zio.
«È andato lontano?», chiese finalmente Nikolàj Petròviè.
«C'è una piccola palude vicino al boschetto delle tremule. Ho fatto alzare almeno cinque beccaccini. Potresti ucciderli, Arkàdij».
«Lei non va a caccia?».
«No».
«Si occupa di fisica, esattamente?», domandò a sua volta Pàvel Petròviè.
«Di fisica, sì, e, in generale, di scienze naturali».
«Dicono che i germanici abbiano fatto grandi progressi in questo campo negli ultimi tempi».
«Sì, i tedeschi sono i nostri maestri», rispose con noncuranza Bazàrov.
Pàvel Petròviè aveva usato la parola germanici, invece di tedeschi, con ironia, ma nessuno se n'era accorto.
«Ha un'opinione così alta dei tedeschi?», domandò ancora con studiata gentilezza. Cominciava a provare una segreta irritazione. La sua natura aristocratica era turbata dalla perfetta disinvoltura di Bazàrov. Il figlio del medico non solo non arrossiva, ma rispondeva a scatti e svogliatamente, e nel tono della sua voce c'era qualcosa di rozzo, quasi di insolente.
«I loro scienziati sono bravi».
«Sì, sì. E degli scienziati russi, probabilmente, lei non ha un'opinione così lusinghiera?».
«Credo di no».
«Lodevolissimo esempio di abnegazione», commentò Pàvel Petròviè, con il busto eretto e buttando indietro la testa. «Ma perché Arkàdij Nicolàiè ci ha appena detto che lei non riconosce nessuna autorità? Non crede nel valore dell'autorità?».
«Ma perché dovrei riconoscere un'autorità? E in quale valore dovrei credere? Se mi parlano di fatti concreti io mi trovo d'accordo. Ecco tutto».
«E i tedeschi parlano solo di cose concrete?», domandò Pàvel Petròviè e il suo viso assunse un'espressione così indifferente e distaccata come se si fosse innalzato al di sopra dei presenti e si trovasse ora oltre le nuvole.
«Non tutti», rispose Bazàrov con un breve sbadiglio. Era chiaro che non aveva voglia di continuare a discutere.
Pàvel Petròviè lanciò un'occhiata ad Arkàdij come per dirgli, gentile il tuo amico, bisogna ammetterlo.
«Per quanto mi riguarda», riprese, non senza sforzo, «io sono un peccatore e ai tedeschi non voglio bene. Non parliamo dei tedeschi russi: si sa che gente sono, ma anche i tedeschi tedeschi non mi sono simpatici. Una volta ancora ancora, quando avevano Šiller o Ghette... A mio fratello piacciono molto... Ma adesso ci sono solo chimici e materialisti...».
«Un bravo chimico è venti volte più utile di qualsiasi poeta», lo interruppe Bazàrov.
«Ah, ecco», proseguì Pàvel Petròviè, sollevando appena le sopracciglia come se si stesse addormentando, «lei, quindi, non riconosce il valore dell'arte?».
«L'arte di far soldi e far scomparire le emorroidi!», esclamò Bazàrov con un risolino sprezzante.
«Va bene. Va bene. Se le piace fare questi scherzi... Insomma lei rinnega tutto, ammettiamolo. Crede solo nella scienza?».
«Le ho già detto che non credo in niente; e che cos'è la scienza, la scienza in generale? Esistono le scienze come esistono i mestieri e i diversi gradi nella società; ma la scienza in generale non esiste affatto».
«Molto bene. E nei confronti delle altre convinzioni comuni al genere umano ha lo stesso atteggiamento negativo?».
«Che cos'è, un interrogatorio?».
Pàvel Petròviè impallidì leggermente... Nikolàj Petròviè ritenne doveroso intromettersi nella conversazione.
«Un giorno approfondiremo insieme questo argomento, caro Evgènij Vasìl'iè, lei ci dirà la sua opinione e noi le diremo la nostra. Per quanto mi riguarda, sono molto contento che lei si occupi di scienze naturali. Ho sentito che Liebig ha fatto straordinarie scoperte sulla concimazione dei campi. Lei mi potrà aiutare nei miei lavori di agronomia. Potrà darmi qualche buon consiglio».
«Sono ai suoi ordini, Nikolàj Petròviè, ma abbiamo molta strada da fare prima di arrivare a Liebig; bisogna imparare l'alfabeto prima di prender in mano il libro, e noi siamo solo all'inizio».
Sei proprio un nichilista, tu, pensò Nikolàj Petròviè. «Mi permetta, però, di ricorrere a lei se si presenterà l'occasione», aggiunse a voce alta. «E adesso, fratello, penso che per noi sia venuto il momento di andare a fare una chiacchierata con il fattore».
Pàvel Petròviè si alzò.
«Sì», disse senza guardare nessuno, «è una disgrazia essere vissuti cinque anni così, in campagna, lontano dalle grandi menti. Si diventa proprio stupidi. Cerchi di non dimenticare quel che ti hanno insegnato, e poi, guarda! Scopri che sono tutte sciocchezze e ti senti dire che le persone serie non se ne occupano più e che tu sei uno sciocco arretrato. Che fare! È evidente che i giovani sono molto più intelligenti di noi».
Pàvel Petròviè girò lentamente sui tacchi e lentamente uscì; Nikolàj Petròviè si avviò dietro a lui.
«Ma è sempre così?», domandò freddamente Bazàrov ad Arkàdij appena la porta si chiuse alla spalle dei due fratelli.
«Evgènij, sei stato troppo aspro con lui. L'hai offeso».
«Ma sì, adesso dovrei anche viziarli questi aristocratici di provincia! Non hanno che amor proprio, abitudini da rubacuori, fatuità. Che tuo zio continui le sue imprese a Pietroburgo se questa è la sua vocazione... Mah, dopotutto, che Dio sia con lui! Ho trovato un esemplare abbastanza raro di scarabeo acquatico, un Dytiscus marginatus, sai? Te lo farò vedere».
«Avevo promesso di raccontarti la sua storia», cominciò Arkàdij.
«La storia dello scarabeo?».
«Basta, Evgènij. La storia di mio zio. Capiresti che non è la persona che credi e che merita di essere compatito, più che deriso».
«Non discuto; ma perché ti sta tanto a cuore?».
«Bisogna essere giusti, Evgènij».
«Da che cosa lo deduci?».
«Ascolta...».
E Arkàdij gli raccontò la storia dello zio. Il lettore la troverà nel capitolo che segue.

VII

Pàvel Petròviè Kirsànov era stato educato dapprima in casa, come il fratello minore Nikolàj, e poi al Corpo dei paggi. Fin da piccolo si era distinto per la sua bellezza eccezionale; in più era sicuro di sé, un po' sprezzante e collerico, ma in maniera divertente: non poteva non piacere. Appena fu promosso ufficiale cominciò a farsi vedere ovunque. Lo portavano tutti in palmo di mano e lui stesso si viziava, posava perfino, ma anche questo gli si addiceva. Le donne perdevano la testa, gli uomini lo definivano fatuo e segretamente lo invidiavano. Abitava nello stesso appartamento con il fratello cui voleva sinceramente bene, per quanto non gli somigliasse affatto. Nikolàj Petròviè zoppicava leggermente, aveva lineamenti minuti, gradevoli, ma un po' tristi, occhi neri piccoli e capelli morbidi e radi; era pigro, ma amava la lettura e temeva la vita di società. Pàvel Petròviè non passava mai la sera in casa, era celebre per il suo coraggio e la sua agilità (aveva diffuso la moda della ginnastica tra la gioventù elegante), e aveva letto in tutto cinque o sei libri francesi. A ventotto anni era già capitano e lo attendeva una brillante carriera. Poi, d'un tratto, cambiò tutto.
A quel tempo nella società pietroburghese appariva ogni tanto una donna, che tuttora non è stata dimenticata, la principessa R. Aveva un marito beneducato e istruito, ma un po' stupido, e non aveva bambini. Improvvisamente se ne andava all'estero e improvvisamente tornava in Russia, conduceva insomma una vita strana. Aveva fama di essere una spensierata civetta e si abbandonava con slancio a ogni tipo di divertimento, ballava fino all'esaurimento delle forze, rideva e scherzava con i giovani che riceveva prima di pranzo nella penombra del suo salotto, ma di notte piangeva e pregava senza trovare pace e spesso fino alla mattina si aggirava nella stanza torcendosi le mani tormentosamente, oppure se ne stava seduta, pallida e fredda, al salterio. Il giorno sorgeva e lei di nuovo si trasformava in una dama mondana, di nuovo usciva in carrozza, rideva, chiacchierava e si gettava letteralmente incontro a tutto quello che poteva procurarle il seppur minimo sollievo. Era straordinariamente ben fatta, una treccia color oro, pesante come l'oro, le arrivava fin oltre le ginocchia; ma nessuno l'avrebbe definita una bellezza, in tutto il suo viso non c'era niente di eccezionale all'infuori degli occhi, anzi non gli occhi che erano piccoli e grigi, ma lo sguardo, rapido e profondo, spensierato fino all'ardimento, pensoso fino alla malinconia, uno sguardo enigmatico. Una luce speciale lo illuminava anche quando la lingua balbettava le più vuote sciocchezze. Si vestiva con ricercatezza. Pàvel Petròviè la conobbe a un ballo, ballarono una mazurca, durante la quale lei non disse una sola parola sensata, e se ne innamorò appassionatamente.
Abituato alle vittorie, anche in quel caso raggiunse subito il suo scopo, ma la facilità di quel trionfo non lo raffreddò. Al contrario il suo attaccamento divenne ancora più torturante e più forte, c'era in lei, anche quando si dava incondizionatamente, un segreto sospirato e irraggiungibile che nessuno riusciva a penetrare. Che cosa si annidasse nella sua anima, Dio solo sapeva. Sembrava che fosse in potere di forze misteriose a lei stessa sconosciute, che facevano di lei quel che volevano e alla capricciosa volontà delle quali la sua limitata intelligenza non poteva opporsi. La sua condotta presentava una serie di incongruenze; le uniche lettere che avrebbero potuto destare i legittimi sospetti di suo marito, le aveva scritte a un uomo che le era quasi estraneo, il suo amore suscitava tristezza, non appena aveva fatto la sua scelta smetteva di ridere e di scherzare e guardava e ascoltava il suo innamorato come se non lo comprendesse. Talvolta, quasi sempre all'improvviso, questa perplessità si trasformava in un freddo orrore; il suo volto assumeva un'espressione morta e folle; si chiudeva in camera e la cameriera poteva sentire, mettendo l'orecchio contro la serratura, i suoi sordi singhiozzi. Più volte, tornando a casa dopo un convegno d'amore, Kirsànov sentiva quella collera amara e lacerante che invade il cuore dopo un definitivo insuccesso. Che cosa voglio ancora? Si domandava e il cuore gli si stringeva. Un giorno le regalò un anello con una sfinge incisa su una pietra.
«Che cos'è?», domandò lei. «Una sfinge?».
«Sì, è una sfinge, come lei».
«Come me?», chiese e levò lentamente su di lui il suo sguardo enigmatico. «Lo sa che è molto lusinghiero?», soggiunse con un sorriso impercettibile mentre i suoi occhi continuavano a guardarlo con la stessa espressione strana.
Se Pàvel Petròviè era stato infelice quando la principessa lo amava, quando si raffreddò nei suoi confronti, e accadde abbastanza presto, per poco non impazzì. Si tormentava, era geloso e non le dava tregua, si trascinava dietro a lei dappertutto. Esasperata da quella persecuzione continua, la principessa partì per l'estero. Pàvel Petròviè, senza ascoltare le preghiere degli amici, e le esortazioni dei superiori, chiese il congedo e la seguì; per quattro anni visse in diversi paesi per rincorrerla o per cercare di perderla di vista; si vergognava di se stesso, sdegnato dalla propria pusillanimità... ma niente poteva aiutarlo. L'immagine della principessa, incomprensibile, quasi insensata, ma affascinante, era penetrata troppo profondamente nella sua anima. A Baden, non si sa come, rinnovò con lei il legame di un tempo. Sembrava che non lo avesse mai amato tanto... ma dopo un mese era già tutto finito: il fuoco si era acceso per l'ultima volta e si era spento per sempre. Presentendo l'inevitabile separazione, Pàvel Petròviè cercò di conservare almeno un legame di amicizia, come se l'amicizia con una donna del genere fosse possibile... Di nascosto lei partì da Baden e da allora continuò a sfuggirlo. Pàvel Petròviè tornò in Russia e tentò di riprendere la vita di una volta, ma non riusciva a ritrovare il proprio equilibrio. Come intossicato, vagava da un luogo all'altro, usciva e manteneva tutte le abitudini della vita mondana; poté gloriarsi ancora di due o tre conquiste, ma non si aspettava ormai niente di particolare da se stesso e nemmeno dagli altri e aveva perso completamente la passata intraprendenza. Cominciò a invecchiare, gli vennero i capelli grigi; passare le serate al club, annoiandosi e lagnandosi, o discutendo senza partecipazione insieme ad altri scapoli, diventò per lui un'esigenza, che è, come si sa, un cattivo segno. Al matrimonio naturalmente non pensava. Passarono così dieci anni, improduttivi, infruttuosi e veloci, paurosamente veloci. Da nessuna parte il tempo passa in fretta come in Russia; in prigione, si dice, passa più in fretta. Un giorno, mentre pranzava al club, Pàvel Petròviè, fu informato della morte delle principessa R. Era morta a Parigi, quasi pazza. Pàvel Petròviè si alzò da tavola e si mise a camminare nelle stanze del club, fermandosi come inebetito vicino ai tavoli da gioco, ma non tornò a casa prima del solito. Dopo qualche tempo ricevette un pacchetto indirizzato a suo nome, che conteneva l'anello che aveva regalato alla principessa. Lei aveva tracciato sulla sfinge un segno a forma di croce e aveva lasciato scritto che nella croce c'era la soluzione dell'enigma.
Questo accadeva al principio del 1848, quando Nikolàj Petròviè, rimasto vedovo, era arrivato a Pietroburgo. Pàvel Petròviè non vedeva il fratello quasi dal tempo in cui si era trasferito in campagna. Il matrimonio di Nikolàj Petròviè aveva coinciso con i primissimi giorni della sua conoscenza con la principessa. Tornato dall'estero, Pàvel Petròviè era andato dal fratello con l'intenzione di fermarsi un paio di mesi e rallegrarsi della sua felicità ma dopo una settimana era ripartito. La differenza della condizione dei due fratelli era troppo grande. Nel '48 questa differenza si attenuò: Nikolàj Petròviè aveva perso la moglie, Pàvel Petròviè i suoi ricordi perché dopo la morte della principessa aveva cercato di non pensare più a lei. Ma, mentre a Nikolàj rimaneva il senso di una vita giusta e un figlio che diventava grande vicino a lui, Pàvel Petròviè, al contrario, scapolo e solo, era entrato in quell'età confusa di rimpianti simili a speranze e di speranze simili a rimpianti, quando la giovinezza è passata e la vecchiaia non c'è ancora.
Quell'età era più difficile per Pàvel Petròviè che per chiunque altro; aver perso il suo passato, per lui, era stato come perdere tutto.
«Non ti chiedo di venire adesso a Mar'ìno», gli disse una volta Nikolàj Petròviè (aveva chiamato la sua proprietà così in onore della moglie), «perché ti annoiavi anche quando era viva la mia povera moglie e adesso penso che moriresti d'angoscia».
«Ero ancora sciocco e irrequieto allora», rispose Pàvel Petròviè. «Adesso sono più calmo, se non più savio e sono pronto, se tu vuoi, a trasferirmi da te per sempre».
Invece di rispondere Nikolàj Petròviè lo abbracciò, ma passò un anno e mezzo prima che Pàvel Petròviè decidesse di attuare il suo progetto. Una volta poi stabilitosi in campagna, non se ne allontanò nemmeno in quei tre inverni che Nikolàj trascorse a Pietroburgo con il figlio. Leggeva molto, soprattutto in inglese, in generale tutta la sua vita era improntata al gusto anglosassone, si incontrava raramente con i vicini e lasciava la proprietà solo per le riunioni elettorali durante le quali stava quasi sempre in silenzio, limitandosi, ma soltanto di rado, a provocare e spaventare i vecchi proprietari con le sue uscite da liberale, senza mescolarsi con quelli della nuova generazione. Gli uni e gli altri ritenevano che fosse troppo altezzoso, ma lo rispettavano per l'impeccabilità dei suoi modi aristocratici e per gli echi delle sue conquiste: perché si vestiva con eleganza e perché sceglieva sempre la camera più bella nell'albergo migliore; perché amava la buona tavola e una volta aveva pranzato con Wellington da Luigi Filippo; lo rispettavano perché portava sempre con sé un nécessaire di vero argento e una vasca da bagno portatile; perché da lui emanavano sempre profumi speciali, di una eccezionale «bontà»; perché giocava magistralmente al whist e perdeva sempre; infine lo rispettavano per la sua irreprensibile rettitudine. Le signore lo giudicavano affascinante e malinconico, ma Pàvel Petròviè non frequentava le signore.
«Vedi, Evgènij», disse Arkàdij concludendo il suo racconto, «come giudichi ingiustamente lo zio! E non parlo di quante volte ha aiutato papà, affidandogli tutti i suoi soldi. La proprietà, forse non lo sai, non è divisa tra loro, ma lui è contento di aiutare chiunque e intercede sempre a favore dei contadini; è vero che quando parla con loro storce la bocca e annusa l'acqua di Colonia...».
«È un problema noto, una reazione nervosa», lo interruppe Bazàrov.
«Può darsi, ma ha un cuore buonissimo! E non è affatto stupido. Mi ha dato molti consigli utili... soprattutto... soprattutto sulle donne». «Ah! Si è scottato e adesso soffia sul piatto degli altri, chiaro!».
«Insomma», proseguì Arkàdij, «è profondamente infelice, credimi, è un errore disprezzarlo».
«Ma chi lo disprezza? Io dico, però, che un uomo che punta tutta la sua vita sulla carta dell'amore femminile e, quando perde questa carta, si inacidisce e si lascia andare al punto da non essere più capace di fare niente, non è più un uomo, ma solo un essere di sesso maschile. Dici che è infelice e lo saprai meglio di me, ma è chiaro che non si è ancora liberato completamente della sua follia. Sono convinto che si consideri intelligente perché legge il "Galignani" e una volta al mese salva un contadino da una punizione».
«Ma pensa a come è stato educato, al tempo in cui è vissuto...».
«L'educazione? Un uomo deve sapersi educare da solo, come me per esempio... E il tempo? Perché io dovrei dipendere dal tempo in cui vivo? Meglio che sia il tempo a dipendere da me. No, fratello, è solo dissolutezza, vanità! E quali sono queste misteriose relazioni che esistono tra l'uomo e la donna? Noi fisiologi sappiamo quali sono. Studia l'anatomia dell'occhio, e vedrai da che cosa dipende quello che tu definisci uno sguardo enigmatico! Romanticismo, sciocchezze, marciume, arte. Andiamo piuttosto a guardare lo scarabeo».
I due amici andarono nella stanza di Bazàrov, dove aveva già fatto in tempo a diffondersi un odore da sala operatoria misto a quello di un tabacco scadente.

VIII

Pàvel Petròviè non partecipò a lungo alla conversazione del fratello con il fattore, un uomo alto e magro con una voce dolce da tisico e con uno sguardo furbo, che a tutte le osservazioni di Nikolàj Petròviè rispondeva: «Per carità, naturalmente», e cercava di presentare i contadini come ladri e ubriaconi. L'azienda, che era stata da poco organizzata secondo i sistemi moderni, cigolava come una ruota senz'olio, scricchiolava come un mobile fatto in casa con del legno giovane. Nikolàj Petròviè non si affliggeva, ma sospirava e diventava pensieroso, capiva che senza denaro l'impresa non sarebbe andata avanti, ma di denaro non ne aveva quasi più. Arkàdij aveva detto la verità, Pàvel Petròviè aveva aiutato più di una volta il fratello; vedendolo che si dava da fare, che si rompeva la testa cercando una soluzione ai suoi problemi, si avvicinava lentamente alla finestra e infilate le mani nelle tasche, borbottava tra i denti: «Mais je puis vous donner de l'argent», e gli dava del denaro; ma quel giorno anche lui non ne aveva e preferì allontanarsi. Quelle discussioni lo intristivano, gli sembrava sempre che Nikolàj Petròviè, nonostante il suo zelo e il suo amore per il lavoro, non si comportasse come doveva, anche se non avrebbe saputo dire in che cosa consistesse il suo errore. Non ha sufficiente senso pratico, ragionava tra sé, si lascia imbrogliare. Al contrario, Nikolàj Petròviè aveva un'altissima opinione del senso pratico di suo fratello e si consigliava sempre con lui.
«Io sono una persona mite, debole», diceva, «sono sempre stato in quest'angolo sperduto, mentre tu hai vissuto in mezzo alla gente, la conosci, hai lo sguardo del falco». Pàvel Petròviè invece di rispondere gli voltava le spalle ma non lo contraddiceva.
Lasciato Nikolàj Petròviè nello studio, si diresse lungo il corridoio che divideva la parte anteriore della casa da quella posteriore, arrivò davanti a una porticina bassa, si fermò a riflettere un attimo, si tirò i baffi e bussò.
«Chi è? Avanti», risuonò la voce di Fèneèka.
«Sono io», disse Pàvel Petròviè e aprì la porta.
Fèneèka, che era seduta con il bambino in braccio, saltò subito su dalla seggiola, diede il bambino a una ragazza perché lo portasse in un'altra stanza e si aggiustò in fretta il fazzoletto che aveva al collo.
«Mi scusi se la disturbo», cominciò Pàvel Petròviè senza guardarla, «volevo soltanto chiederle... oggi mi pare che mandino qualcuno in città... mi faccia comperare del tè verde».
«Va bene, quanto vuole che ne comperiamo?».
«Mezza libbra sarà sufficiente, credo. Sono stati fatti dei cambiamenti», aggiunse, gettando intorno uno sguardo rapido che sfiorò anche il viso di Fèneèka. «Le tende», disse vedendo che lei non capiva.
«Sì, le tende; Nikolàj Petròviè me le ha favorite; ma è tanto che ci sono».
«Ma anch'io è da molto tempo che non vengo da lei. Adesso si sta molto bene qui».
«Grazie alla bontà di Nikolàj Petròviè», sussurrò Fèneèka.
«Sta meglio qui che nel piccolo padiglione di prima?», domandò Pàvel Petròviè educatamente, ma senza un sorriso.
«Certo, meglio».
«Chi hanno messo al suo posto?».
«Adesso ci sono le lavandaie».
«Ah!».
Tacque. Adesso se ne andrà, pensava Fèneèka, ma Pàvel Petròviè non usciva e lei gli stava davanti, immobile, muovendo solo debolmente le dita.
«Perché ha fatto portar via il bambino?», disse alla fine Pàvel Petròviè. «Mi piacciono i bambini: me lo faccia vedere».
Fèneèka arrossì tutta per l'imbarazzo e la gioia. Aveva paura di Pàvel Petròviè che non parlava quasi mai con lei.
«Dunjàša», chiamò, «porti Mìtja». (Fèneèka dava del lei a tutti in casa.) «Anzi no, aspetti; bisogna mettergli il vestitino». Fèneèka si diresse verso la porta.
«Ma è lo stesso», osservò Pàvel Petròviè.
«Torno subito», rispose Fèneèka e uscì in fretta.
Pàvel Petròviè rimase solo e questa volta si guardò intorno con molta attenzione. La stanzetta piccola e bassa dove si trovava era molto pulita e accogliente. Si sentiva un odore di pavimento verniciato di fresco, di camomilla e di melissa. Lungo le pareti c'erano delle sedie con lo schienale a forma di lira che erano state comperate dal defunto generale, al tempo della campagna di Polonia, in un angolo c'era un lettino sotto un baldacchino di velo, di fianco a un baule con i rinforzi di ferro e il coperchio a volta. Nell'angolo opposto ardeva una piccola lampada davanti a una grande immagine scura di Nicola il Taumaturgo; un piccolo uovo di porcellana dipinta era appeso a un nastro rosso sul petto del santo, agganciato all'aureola. Sulle finestre, i barattoli con la marmellata dell'anno prima riflettevano, accuratamente sigillati, una luce verde. Sui coperchi di carta la stessa Fèneèka aveva scritto a grandi lettere «uvaspina». A Nikolàj Petròviè piaceva molto quella marmellata.
La gabbietta di un lucherino dalla coda corta era appesa al soffitto con una lunga funicella; l'uccellino cinguettava e saltava senza sosta e la gabbia dondolava e tremava: sul pavimento cadevano i semi di canapa con un leggero picchiettio. Sulla parete, sopra un piccolo cassettone, erano appese delle fotografie piuttosto brutte di Nikolàj Petròviè in diversi atteggiamenti, che erano state fatte da un artista di passaggio, e una fotografia decisamente mal riuscita di Fèneèka: un viso senz'occhi che sorrideva forzatamente in una cornicetta scura, non si distingueva altro; sopra Fèneèka, il generale Ermòlov, con un corto mantello, guardava in lontananza, accigliato e minaccioso, le montagne del Caucaso, sulla fronte gli pendeva una scarpetta di seta portaspilli.
Erano passati circa cinque minuti, dalla camera accanto si sentivano fruscii e mormorii.
Pàvel Petròviè prese dal cassettone un libro macchiato di unto, un volume scompagnato degli Strel'zy di Masàlskij e ne sfogliò alcune pagine... La porta si aprì ed entrò Fèneèka con Mìtja in braccio. Gli aveva messo una camicina rossa con il collo orlato di passamaneria, gli aveva pettinato i capelli sottili e gli aveva pulito la faccia: il bambino respirava rumorosamente, si slanciava e protendeva le braccine come fanno tutti i bambini sani; ma la camicina elegante, evidentemente, lo aveva colpito e tutto il suo corpicino paffuto esprimeva soddisfazione. Anche Fèneèka si era pettinata e si era sistemata meglio il fazzoletto, ma avrebbe potuto rimanere com'era. Perché non c'è niente di più incantevole al mondo di una giovane e bella madre con in braccio un bambino sano.
«Che bambinone», disse compiacente Pàvel Petròviè, e con l'unghia lunga dell'indice fece il solletico sul doppio mento di Mìtja, il bambino guardò il lucherino e rise.
«È lo zio», disse Fèneèka, chinandosi verso di lui e scuotendolo leggermente; Dunjàša intanto, silenziosamente, posava sulla finestra una candela mangiafumo mettendovi sotto una moneta.
«Quanti mesi ha?», chiese Pàvel Petròviè.
«Sei mesi, tra poco sette, il giorno undici».
«Non sono otto, Fedòs'ja Nikolàevna?», si intromise, arrossendo Dunjàša.
«Ma no, sette; non posso sbagliarmi!». Il bambino si mise di nuovo a ridere, fissò il baule e improvvisamente afferrò il naso e la bocca della mamma con tutte e cinque le dita.
«Birichino», disse Fèneèka, senza allontanare il viso.
«Somiglia a mio fratello».
E a chi deve assomigliare, pensò Fèneèka.
«Sì, c'è un'indubbia somiglianza», continuò come tra sé Pàvel Petròviè e guardò Fèneèka attentamente, quasi con tristezza.
«È lo zio», ripeté lei, ormai in un sussurro.
«Ah, Pàvel! Eccoti!», risuonò improvvisamente la voce di Nikolàj Petròviè.
Pàvel Petròviè si voltò in fretta e corrugò la fronte, ma il fratello lo guardò così allegramente e con tanta gratitudine che non poté fare a meno di rispondergli con un sorriso.
«Hai proprio un bel ragazzetto», disse e guardò l'orologio. «Sono passato di qui per via del tè...», e con un'espressione improvvisamente indifferente uscì subito dalla stanza.
«È venuto lui da solo?», domandò a Fèneèka Nikolàj Petròviè.
«Da solo; ha bussato ed è entrato».
«E Arkàdij non è più venuto?».
«No. Non devo trasferirmi nel padiglione, Nikolàj Petròviè?».
«Perché?».
«Penso che forse sarebbe meglio, per un primo tempo».
«No... no», disse Nikolàj Petròviè, esitando, e si passò una mano sulla fronte. «Bisognava farlo prima... Ciao piccolino», disse poi animandosi improvvisamente e, avvicinatosi al bambino, lo baciò su una guancia; poi si piegò un poco e avvicinò le labbra alla mano di Fèneèka, bianca come il latte sulla camicina rossa di Mìtja.
«Nikolàj Petròviè! Che cosa fa?», balbettò lei e abbassò gli occhi, poi piano li alzò... Aveva un'espressione deliziosa quando guardava di sottecchi, ridendo piano, affettuosamente, e un po' scioccamente.

Nikolàj Petròviè aveva conosciuto Fèneèka un giorno, circa tre anni prima, quando aveva dovuto trascorrere la notte nell'albergo di posta di una lontana città del distretto ed era stato piacevolmente colpito dalla pulizia della stanza che gli avevano assegnato, e dalla fresca biancheria del letto. Che la padrona sia tedesca? gli era venuto in mente, ma la padrona era russa, una donna di circa cinquant'anni, accurata nel vestire, con un bel viso intelligente e un modo di parlare posato. Aveva chiacchierato con lei mentre beveva il tè e gli era piaciuta molto. Le aveva detto che si era appena trasferito nella nuova casa e che, non volendo tenere presso di sé dei servi, cercava personale salariato; la padrona dell'albergo, dal canto suo, si era lamentata che i viaggiatori che si fermavano in città erano pochi e che i tempi erano difficili. Nikolàj Petròviè le aveva proposto allora di andare a lavorare da lui in qualità di governante e lei aveva accettato.
Il marito era morto da molto tempo e l'aveva lasciata sola con una figlia, Fèneèka. Dopo due settimane Arìna Sàvišna (così si chiamava la nuova governante) arrivò con la figlia a Mar'ìno, e si stabilì nel piccolo padiglione. La scelta di Nikolàj Petròviè risultò felice. Arìna portò l'ordine in casa. Di Fèneèka, che aveva allora compiuto diciassette anni, nessuno parlava e pochi la vedevano: viveva tranquillamente, modestamente, e solo la domenica, in chiesa, Nikolàj Petròviè vedeva, un po' in disparte, il suo piccolo profilo bianco e sottile. Passò così più di un anno.
Una mattina Arìna comparve nel suo studio e, inchinandosi profondamente, come d'abitudine, gli chiese se poteva soccorrere la figlia alla quale una scintilla della stufa era finita in un occhio. Nikolàj Petròviè, come tutti coloro che amano la vita domestica, si interessava di medicina e si era procurato una piccola farmacia omeopatica, e ordinò subito ad Arìna di portargli l'infortunata. Quando seppe che il padrone la chiamava, Fèneèka si spaventò, ma seguì la madre. Nikolàj Petròviè la condusse vicino alla finestra e le prese la testa con entrambe le mani. Esaminato con cura l'occhio arrossato e infiammato le prescrisse un impacco che le preparò subito lui stesso e, strappato a strisce il proprio fazzoletto, le mostrò come doveva applicarlo. Fèneèka lo ascoltò e stava per uscire, quando la madre le disse: «Bacia la mano al padrone, sciocchina». Nikolàj Petròviè non le porse la mano e, turbato, le baciò la testa china, sulla scriminatura. L'occhio di Fèneèka guarì in fretta ma l'impressione che lei aveva prodotto in Nikolàj Petròviè non passò così presto. Aveva sempre in mente quel viso puro e soave timorosamente levato verso di lui; sentiva sotto le palme delle mani i capelli morbidi, vedeva le labbra innocenti, leggermente socchiuse e i denti umidi che splendevano al sole come perle. Cominciò a guardarla con maggiore attenzione in chiesa, provò a parlarle.
Da principio lei lo evitava, e una volta, prima di sera, avendolo incontrato in un campo di grano, lungo uno stretto sentiero che si era formato perché vi si passava spesso, saltò nelle alte e folte messi invase dalla gramigna e dai fiordalisi, per non farsi vedere. Nikolàj Petròviè vide la sua testina attraverso una rete dorata di spighe, da dove lei lo spiava, come un animaletto, e con tono affettuoso le gridò:
«Ehi, Fèneèka! Io non mordo».
«Buongiorno», mormorò lei senza uscire dal suo rifugio.
A poco a poco cominciò ad abituarsi a lui, ma arrossiva sempre in sua presenza, quando all'improvviso Arìna morì di colera. Che cosa sarebbe successo di Fèneèka? Aveva ereditato da sua madre l'amore per l'ordine, la ragionevolezza e la serietà, ma era molto giovane, molto sola, e anche Nikolàj Petròviè per parte sua era così buono e così modesto... Non c'è bisogno di raccontare altro...
«Così, mio fratello è venuto a trovarti?», domandò Nikolàj Petròviè. «Ha bussato ed è entrato?».
«Sì».
«Bene. Dammi Mìtja, lo faccio volare un po'».
E Nikolàj Petròviè cominciò a lanciare in aria il bambino fin quasi al soffitto, con grande divertimento del piccolo e con non poca apprensione della madre che a ogni volo tendeva le braccia verso le gambine tutte scoperte. Pàvel Petròviè, invece, tornò nel suo elegante studio con le pareti rivestite di una bella tappezzeria dal colore ricercato, le pistole e le armi appese sullo sfondo di un tappeto persiano variopinto, i mobili di noce ricoperti di velluto verde scuro, l'antica libreria renaissance di quercia, le statuette di bronzo sul magnifico scrittoio, il camino... Si buttò sul divano, incrociò le braccia sotto la testa e restò immobile guardando il soffitto quasi con disperazione.
Forse perché voleva nascondere anche ai muri quel che esprimeva il suo viso o forse per qualche altra ragione, si alzò, tirò le pesanti tende delle finestre e di nuovo si distese sul divano.

IX

Quel giorno anche Bazàrov conobbe Fèneèka. Passeggiava in giardino con Arkàdij e gli spiegava perché certi alberi, soprattutto delle piccole querce, non avessero attecchito.
«Bisogna piantare altri piccoli pioppi argentei e abeti e aggiungere terra grassa. Il pergolato ha preso bene perché l'acacia e la tremula sono brave persone e non hanno bisogno di cure. Ma qui c'è qualcuno».
Sotto il pergolato c'era Fèneèka con Dunjàša e Mìtja. Bazàrov si fermò, mentre Arkàdij faceva un cenno di saluto a Fèneèka, come un vecchio amico.
«Chi è?», domandò Bazàrov, quando furono più lontani. «Com'è bellina!».
«Ma chi?».
«È ovvio: ce n'è una sola bellina».
Arkàdij, non senza imbarazzo, gli spiegò in poche parole chi fosse Fèneèka.
«Ah, tuo padre non ha cattivo gusto! Mi piace, tuo padre, eh sì! Bravo bravo! Comunque devo conoscerla», e così dicende, Bazàrov tornò verso il pergolato.
«Evgènij!», gli gridò dietro, spaventato, Arkàdij. «Stai attento, per piacere».
«Non ti preoccupare, siamo gente aperta noi, gente che ha vissuto in città».
Avvicinandosi a Fèneèka si tolse il berretto.
«Permetta che mi presenti», cominciò inchinandosi educatamente. «Sono un amico di Arkàdij Nikolàiè e un uomo pacifico».
Fèneèka si alzò dalla panchina e lo guardò in silenzio.
«Che bambino stupendo!», continuò Bazàrov. «Non si preoccupi, non ho ancora fatto il malocchio a nessuno. Perché ha le guance così rosse? Gli stanno spuntando i dentini?».
«Sì», rispose Fèneèka, «ne ha già quattro e adesso le gengive sono di nuovo gonfie».
«Mi faccia vedere... no, non abbia paura, sono un dottore».
Bazàrov prese in braccio il bambino che, con meraviglia di Fèneèka e di Dunjàša, non mostrò di essere né contrariato né spaventato.
«Sì, sì... niente, è tutto a posto: avrà dei denti forti! Se ci fosse qualcosa di nuovo, me lo dica. E lei, sta bene?».
«Sto bene, grazie a Dio».
«Grazie a Dio, la salute prima di tutto. E lei?», aggiunse Bazàrov rivolto a Dunjàša.
Dunjàša, che era austera in casa e ridanciana fuori, gli sbuffò in faccia invece di rispondergli.
«Benissimo. Eccole il suo piccolo Ercole».
Fèneèka si prese in braccio il bambino.
«Com'è stato tranquillo con lei», disse a mezza voce.
«Tutti i bambini stanno buoni con me, conosco il trucco».
«I bambini sentono chi gli vuol bene», osservò Dunjàša.
«Questo è certo», confermò Fèneèka, «Mìtja non va volentieri in braccio a chiunque».
«E in braccio a me?», domandò Arkàdij che, dopo esser rimasto per un po' in disparte, si era avvicinato al pergolato. Fece per attirare a sé Mìtja che buttò la testa indietro e cominciò a pigolare con grande imbarazzo di Fèneèka.
«Un'altra volta, quando mi conoscerà meglio», disse con condiscendenza Arkàdij e i due amici si allontanarono.
«Come si chiama?», domandò Bazàrov.
«Fèneèka... Fedòs'ja».
«Ma il patronimico? Bisogna sapere anche il patronimico».
«Nikolàevna».
«Bene. Mi piace perché non si è mostrata a disagio. Un altro forse la giudicherebbe male proprio per questo. Ma è una sciocchezza. Per che cosa dovrebbe essere a disagio. È una madre, ha ragione lei».
«Lei sì», osservò Arkàdij, «ma mio padre...».
«Anche lui ha ragione», lo interruppe Bazàrov.
«No, secondo me no».
«Forse non ti fa piacere che ci sia un nuovo erede».
«Non ti vergogni di attribuirmi questi pensieri!», si accalorò Arkàdji. «Non è da questo punto di vista che trovo papà ingiusto; penso che dovrebbe sposarla».
«Ehi! Che generosità!», disse calmo Bazàrov. «Per te il matrimonio ha ancora un significato, non me l'aspettavo».
Fecero qualche passo in silenzio.
«Ho visto tutta la tenuta di tuo padre», riprese Bazàrov. «Il bestiame è in cattive condizioni, i cavalli sono stremati, le costruzioni malandate, i lavoranti smidollati e il fattore o è un cretino o un mascalzone, non ho ancora capito bene».
«Sei severo oggi, Evgènij Vasil'eviè».
«E i bravi contadini continuano a imbrogliare tuo padre. Hai mai sentito quel proverbio: "Il contadino russo, se vuole, si pappa anche Dio"?».
«Comincio a dar ragione allo zio: hai una pessima opinione dei russi».
«E allora? Il solo merito dei russi è di avere un orribile concetto di sé. Quel che importa è che due volte due fa quattro. Tutto il resto sono sciocchezze».
«Anche la natura è una sciocchezza?», disse Arkàdij guardando pensoso in lontananza i campi variopinti illuminati dolcemente dal sole che cominciava a calare.
«Anche la natura è una sciocchezza nel senso in cui tu la intendi. La natura non è un tempio, ma un laboratorio, e l'uomo è un operaio».
Proprio in quel momento volarono fino a loro dalla casa le note lente di un violoncello. Qualcuno suonava con sentimento, ma con mano inesperta, L'attesa di Schubert e la melodia si riversava come miele nell'aria.
«Che cos'è?», chiese stupito Bazàrov.
«È papà».
«Tuo padre suona il violoncello?».
«Sì».
«Ma quanti anni ha tuo padre?».
«Quarantaquattro».
Bazàrov improvvisamente scoppiò a ridere.
«E perché ridi?».
«Ma ti prego! Un uomo di quarantaquattro anni, un pater familias nel distretto di..., suona il violoncello».
Bazàrov continuò a sghignazzare, ma Arkàdij che pure venerava il suo maestro, questa volta non sorrise neppure.

X

Passarono circa due settimane. La vita a Mar'ìno seguiva il suo corso: Arkàdij oziava, Bazàrov lavorava. Tutti in casa si erano abituati alle sue maniere noncuranti, al suo modo di parlare laconico e frammentario. Fèneèka in particolare aveva acquistato familiarità con lui al punto che una notte lo aveva fatto svegliare perché Mìtja aveva le convulsioni, lui era andato e, secondo la sua abitudine, un po' scherzando un po' sbadigliando, era rimasto da lei due ore e aveva curato il bambino. Pàvel Petròviè odiava Bazàrov con tutta l'anima: lo considerava superbo, sfrontato, cinico e plebeo; sospettava che Bazàrov non gli portasse rispetto e che addirittura lo disprezzasse, lui, Pàvel Kirsànov! Nikolàj Petròviè aveva un po' paura del giovane «nichilista» e dubitava che la sua influenza potesse essere utile ad Arkàdij, ma lo ascoltava volentieri e spesso rimaneva a osservare i suoi esperimenti fisici e chimici. Bazàrov passava intere ore al microscopio che aveva portato con sé. La servitù gli si era affezionata nonostante i suoi scherzi: sentivano che era un loro fratello, non un signore. Dunjàša gli lanciava risolini e occhiate significative passandogli vicino di corsa come una piccola quaglia; anche Pëtr, vanitoso e stupido, con la fronte sempre corrugata, e l'unico merito di avere maniere garbate, saper leggere sillabando, e spazzolare con cura la giacca, sorrideva e si illuminava quando Bazàrov gli si rivolgeva; i bambini poi correvano dietro al «dottore» come cagnolini. Solo a Prokòf'iè, che non si sentiva meno aristocratico di Pàvel Petròviè, non piaceva Bazàrov, a tavola gli porgeva le vivande con un'espressione torva, lo chiamava «scorticatore di ranocchi» e «farabutto» e insisteva nel dire che, con quelle basette, la sua faccia somigliava al muso di un maiale dentro un cespuglio.
Arrivarono i più bei giorni dell'anno, i primi giorni di giugno. Il tempo era meraviglioso; per la verità da lontano si sentivano ancora gli echi minacciosi del colera, ma gli abitanti di quel governatorato si erano ormai abituati alle sue visite. Bazàrov si alzava presto e camminava per due o tre verste, non passeggiava, non poteva tollerare le passeggiate senza scopo, ma raccoglieva erbe e insetti. Qualche volta portava con sé Arkàdij. Sulla via del ritorno di solito tra di loro si accendeva una discussione, e, di solito, Arkàdij ne usciva sconfitto per quanto parlasse di più del suo compagno.
Un giorno si attardarono più del solito. Nikolàj Petròviè uscì in giardino per andar loro incontro e, vicino al pergolato, udì i passi veloci e le voci dei due giovani, che camminavano dall'altro lato e non potevano vederlo.
«Tu non conosci abbastanza mio padre», diceva Arkàdij.
Nikolàj Petròviè si nascose.
«Tuo padre è un bravo ragazzo», ribatté Bazàrov, «ma ha una mentalità arretrata. La sua canzoncina l'ha già cantata».
Nikolàj Petròviè tese l'orecchio...
Arkàdij non diceva niente. Il «bravo ragazzo dalla mentalità arretrata» rimase due minuti immobile e poi si diresse lentamente verso casa.
«L'altro giorno, l'ho visto che leggeva Pùškin», continuò nel frattempo Bazàrov. «Spiegagli, per piacere, che non va bene. Non è un bambino: è tempo che abbandoni certe stupidaggini. Come si può desiderare di essere dei romantici ai nostri giorni! Dagli qualcosa di serio da leggere».
«Che cosa?».
«Mah, penso, Stoff und Kraft di Büchner, per cominciare».
«Sì, lo penso anch'io», approvò Arkàdij, «Stoff und Kraft è scritto in una forma divulgativa».
Quel giorno, dopo pranzo, Nikolàj Petròviè era seduto nello studio del fratello:
«E così, noi due», gli diceva, «siamo persone arretrate, che hanno già cantato la loro canzone. E allora? Forse Bazàrov ha ragione, ma lo confesso, una cosa mi dispiace: io speravo di poter stare adesso insieme ad Arkàdij come a un amico, essergli vicino, invece pare che io sia rimasto indietro, e lui sia andato avanti e che non possiamo capirci».
«Perché è andato avanti? E in che cosa è così diverso da noi adesso?», esclamò insofferente Pàvel Petròviè. «Tutte cose che gli ha messo in testa il signor nichilista. Non lo sopporto, il dottorino; per me è solo un ciarlatano. Sono sicuro che con tutte le sue rane non è andato molto lontano nemmeno in fisica».
«No, questo non puoi dirlo: Bazàrov è intelligente e sa molte cose».
«Ha una presunzione disgustosa», ribatté Pàvel Petròviè.
«Sì, è presuntuoso. Ma non se ne può fare a meno, sembra; solo non riesco a capire una cosa. Io faccio di tutto per non rimanere indietro: ho sistemato i contadini e per il mio modo di condurre l'azienda in tutto il governatorato mi chiamano "rosso", leggo, studio, cerco in tutto di adeguarmi alle esigenze moderne, e loro dicono che la mia canzoncina è finita. E purtroppo comincio a pensare che sia vero».
«Perché?».
«Ecco perché: oggi stavo leggendo Pùškin... Gli zingari. Tutt'a un tratto Arkàdij mi si è avvicinato e, in silenzio, con aria compassionevole, piano piano, come a un bambino, mi ha tolto di mano il libro e me ne ha messo davanti un altro, tedesco... mi ha sorriso e se n'è andato. E si è portato via Pùškin».
«Ah! E che libro ti ha dato?».
«Questo».
E Nikolàj Petròviè tirò fuori dalla tasca della giacca la nona edizione del famigerato opuscolo di Büchner.
Pàvel Petròviè se lo rigirò tra le mani.
«Hm! Arkàdij Nikolàeviè si preoccupa della tua istruzione. Allora, hai provato a leggerlo?».
«Ho provato».
«Ebbene?».
«O io sono stupido o sono tutte sciocchezze. Probabilmente io sono stupido».
«Ma il tedesco te lo ricordi?».
«Sì, lo capisco».
Pàvel Petròviè si rigirò ancora il libretto tra le mani e guardò di sottecchi il fratello. Tacquero entrambi.
«A proposito», riprese Nikolàj Petròviè, volendo evidentemente cambiare discorso, «ho ricevuto una lettera da Koljàzin».
«Da Matvèj Il'ìè?».
«Sì. È arrivato a *** per fare un'ispezione del governatorato. È diventato importante adesso e siccome siamo suoi parenti ci vuole vedere e ci invita con Arkàdij in città».
«Ci vai?», chiese Pàvel Petròviè.
«No, e tu?».
«No, non ci vado. Non ho nessuna voglia di fare cinquanta verste per arrivare fin là. Mathieu si vuol mostrare a noi in tutta la sua gloria. Vada al diavolo! Riceverà gli onori di tutto il governatorato, potrà cavarsela anche senza di noi. E poi, consigliere segreto, capirai! Se io avessi continuato la carriera militare, con stupida perseveranza, adesso sarei sicuramente generale. E poi noi siamo arretrati».
«Sì, è ora di ordinare la tomba e di incrociare la mani sul petto», disse con un sospiro Nikolàj Petròviè.
«Io non mi arrenderò così in fretta», borbottò suo fratello. «Ci sarà un altro scontro con il giovane medico, lo sento».
Lo scontro avvenne quella stessa sera, all'ora del tè.
Pàvel Petròviè scese in salotto già pronto alla battaglia, irritato e deciso. Aspettava solo un pretesto per slanciarsi sul nemico; ma il pretesto per molto non si presentò. Bazàrov parlava sempre poco in presenza dei due «vecchi Kirsànov» (li chiamava così), quella sera poi non si sentiva nello spirito giusto e beveva in silenzio una tazza di tè dietro l'altra. Pàvel Petròviè ardeva per l'impazienza e i suoi desideri alla fine si avverarono.
Il discorso cadde su uno dei possidenti vicini.
«Una carogna, un aristocraticuccio», disse con indifferenza Bazàrov, che lo aveva conosciuto a Pietroburgo.
«Permetta che le domandi», cominciò Pàvel Petròviè con le labbra tremanti, «se secondo il suo modo di vedere, le parole "carogna" e "aristocratico" hanno lo stesso significato».
«Io ho detto: "aristocraticuccio"», ribatté Bazàrov, inghiottendo pigramente un sorso di tè.
«Infatti. Ma io ritengo che lei abbia la stessa opinione degli aristocratici e degli aristocraticucci, e giudico mio dovere informarla che non condivido quest'opinione. Ho l'ardire di affermare che tutti conoscono le mie idee liberali e il mio amore per il progresso, ma proprio per questo io rispetto gli aristocratici, quelli autentici. Si ricordi, egregio signore» (a queste parole Bazàrov alzò gli occhi su Pàvel Petròviè), «si ricordi, egregio signore», ripeté con accanimento, «che gli aristocratici inglesi non vengono mai meno ai loro diritti e per questo rispettano quelli degli altri; pretendono che vengano osservati i doveri nei propri confronti e osservano, per questo, i doveri propri. L'aristocrazia ha reso l'Inghilterra libera e libera la mantiene».
«È una storia che ho già sentita molte volte», replicò Bazàrov, «ma che cosa vuole dimostrare?».
«Con qvesto voglio dimostrare, egregio signore» (Pàvel Petròviè quando si arrabbiava diceva intenzionalmente «qvesto» e «qvello», anche se sapeva benissimo che non era la pronuncia corretta. Questa stravaganza era un ricordo dei tempi di Alessandro, quando le persone importanti, nelle rare occasioni in cui parlavano la lingua materna, dicevano «qvesto» oppure «chesto» come per dimostrare che erano veri russi, ma che avevano il diritto di trasgredire le regole della scuola), «con qvesto voglio dimostrare che senza il senso della propria dignità, senza il rispetto verso se stessi, e nell'aristocratico questi sentimenti sono molto sviluppati, non ci può essere un solido fondamento per il bene sociale... le bien public... l'edificio sociale. La personalità, egregio signore, ecco quel che conta; la personalità umana deve essere forte come la roccia, perché deve sorreggere tutto. So perfettamente, per esempio, che lei si compiace di trovare ridicole le mie abitudini, il mio abbigliamento, la mia accuratezza insomma, ma anche queste cose derivano dal rispetto verso di sé, dal senso del dovere, sì, sì, dal dovere. Io vivo in campagna, lontano dal mondo, ma non mi lascio andare perché rispetto in me l'uomo».
«Mi scusi, Pàvel Petròviè», intervenne Bazàrov, «lei rispetta se stesso e intanto sta seduto con le braccia incrociate; che vantaggio ne ricava il bien public? Se lei non rispettasse se stesso, sarebbe la stessa cosa».
Pàvel Petròviè impallidì.
«È un'altra questione, io non ho nessun dovere di spiegarle perché sto seduto con le braccia incrociate come lei si è degnato di esprimersi. Io voglio solo dire che lo spirito aristocratico è un principio e adesso possono vivere senza principi solo persone vuote e immorali. L'ho detto ad Arkàdij il giorno dopo il suo arrivo e lo ripeto a lei oggi. Non è vero, Nikolàj?».
Nikolàj Petròviè fece cenno di sì con la testa.
«Aristocrazia, liberalismo, progresso, principi», diceva, intanto Bazàrov, «quante parole straniere e inutili! All'uomo russo non servono nemmeno se gliele regalano».
«E che cosa gli serve, secondo la sua opinione? A sentir lei noi ci troviamo fuori dall'umanità, fuori dalle sue leggi. Ma, mi scusi, la logica della storia esige...».
«E a che cosa ci serve la logica! Possiamo farne a meno».
«Come?».
«Così. Io spero che lei non abbia bisogno della logica per mettersi in bocca un pezzo di pane, quando ha fame. Siamo molto lontani da queste astrazioni!».
Pàvel Petròviè agitò le braccia.
«Non la capisco più. Lei offende il popolo russo. Non capisco come sia possibile non riconoscere i principi, le regole! In forza di che cosa agite, allora?».
«Le ho già detto, caro zio, che noi non riconosciamo l'autorità», intervenne Arkàdij.
«Noi agiamo in forza di ciò che riteniamo utile», disse Bazàrov. «Adesso più utile di ogni altra cosa è la negazione, e noi neghiamo».
«Tutto?».
«Tutto».
«Come? Non solo l'arte, la poesia... ma... fa paura dirlo...».
«Tutto», ripeté Bazàrov con una calma assoluta.
Pàvel Petròviè lo fissò, non si aspettava tanto, Arkàdij quasi arrossì per la soddisfazione.
«Ma, mi permetta», intervenne Nikolàj Petròviè, «voi negate tutto o, per usare una parola più esatta, distruggete tutto... Invece, bisogna anche costruire».
«Non è compito nostro... Prima bisogna sgombrare lo spazio».
«La condizione attuale del popolo lo esige», aggiunse con sussiego Arkàdij, «dobbiamo rispondere a queste esigenze, non abbiamo diritto di assecondare il nostro personale egoismo».
Quest'ultima frase, evidentemente, non piacque a Bazàrov. Era filosofica, romantica, perché Bazàrov chiamava romanticismo anche la filosofia: ma non ritenne necessario correggere il giovane discepolo.
«No, no!», esclamò con impeto improvviso Pàvel Petròviè, «io non voglio credere che voi, signori, conosciate bene il popolo russo, che voi siate gli esponenti delle sue necessità, delle sue aspirazioni! No, il popolo russo non è come voi immaginate. Ha un sacro rispetto delle tradizioni, è un popolo patriarcale che non può vivere senza la fede...».
«Non discuto», lo interruppe Bazàrov, «mi dichiaro anzi d'accordo. In questo lei ha ragione».
«E se ho ragione...».
«Questo però non dimostra niente lo stesso».
«Non dimostra proprio niente», ripeté Arkàdij con la convinzione di un esperto giocatore di scacchi che ha prevenuto una pericolosa mossa dell'avversario e quindi si sente tranquillo.
«Come non dimostra niente?», borbottò stupito Pàvel Petròviè. «Allora andate contro il vostro popolo?».
«E se anche fosse?», proruppe Bazàrov. «Se il popolo pensa che quando c'è il temporale il profeta Elia passa in cielo con il suo carro, io devo essere d'accordo? E poi, se il popolo è russo, non sono russo anch'io?».
«No, lei non lo è, dopo quel che ha detto adesso».
«Mio nonno arava la terra», rispose con fierezza Bazàrov. «Chieda a uno dei vostri contadini, chi di noi, me o lei, sente di più come un connazionale. Lei non sa nemmeno come parlare a un contadino».
«Lei gli parla e lo disprezza, però».
«Sì, se merita il disprezzo! Lei critica il mio modo di pensare, ma chi le ha detto che sia casuale, e che invece non sia stato provocato esattamente da quello spirito nazionale per il quale lei si batte tanto?».
«Ma allora, i nichilisti sarebbero indispensabili?».
«Indispensabili o no, non sta a noi dirlo. Anche lei non si considera inutile».
Nikolàj Petròviè si alzò in piedi: «Signori, signori, niente riferimenti personali, per piacere!».
Pàvel Petròviè sorrise e, posatagli una mano sulla spalla, lo fece sedere di nuovo.
«Non aver paura», disse, «non mi lascerò trascinare, proprio grazie a quella dignità che il signor... il signor dottore deride così duramente. Mi scusi, lei», continuò rivolto a Bazàrov, «lei, forse, pensa che il vostro insegnamento sia una novità? Si sbaglia. Il materialismo che propagandate è stato già più volte di moda e si è sempre rivelato privo di sostanza...».
«Materialismo. Di nuovo una parola che non ci appartiene!», lo interruppe Bazàrov. Cominciava a perdere la calma e il suo viso era diventato color rame, volgare. «Prima di tutto noi non propagandiamo niente; non è nelle nostre abitudini».
«Che cosa fate allora?».
«Prima, fino a poco tempo fa, dicevamo che i nostri funzionari sono corrotti, che non abbiamo strade, scambi commerciali, tribunali giusti».
«Ma sì, siete degli smascheratori, mi sembra che si dica così, e con molte delle vostre denunce concordo anch'io, ma...».
«E poi abbiamo scoperto che chiacchierare, chiacchierare sempre delle nostre piaghe non serve a niente, porta solo alla banalità e al dogmatismo, abbiamo visto che anche coloro che fanno professione di intelligenza, i progressisti e i pubblici accusatori, non riescono in niente, abbiamo capito che ci stavamo occupando di cose assurde, parlavamo di arte e di creazione incosciente, del parlamentarismo e dell'avvocatura, e il diavolo sa di cos'altro, quando è solo questione di pane quotidiano, quando la superstizione più elementare ci soffoca, quando tutte le nostre società per azioni falliscono soltanto perché mancano gli uomini onesti, quando la stessa libertà per la quale il governo si dà tanto da fare non ci sarà utile, perché i nostri contadini sono contenti di derubare se stessi pur di andare ad annebbiarsi la mente all'osteria».
«Così, vi siete convinti e avete deciso di non dedicarvi a niente nemmeno voi».
«E abbiamo deciso di non dedicarci a niente», ripeté Bazàrov e si incupì; era indispettito con se stesso per aver parlato tanto davanti a quel signore.
«E di ingiuriare soltanto».
«Sì, di ingiuriare».
«E questo si chiama nichilismo?».
«E questo si chiama nichilismo», ripeté di nuovo Bazàrov, questa volta con particolare arroganza.
Pàvel Petròviè socchiuse leggermente gli occhi.
«Ah, è così!», disse con voce stranamente calma. «Il nichilismo deve porre rimedio a tutti i mali e voi siete i nostri liberatori e i nostri eroi. Ma allora, perché insultate gli altri, anche gli smascheratori? Non sono chiacchiere anche le vostre come quelle di tutti?».
«Possiamo essere colpevoli di tutto, ma non di questo», disse tra i denti Bazàrov.
«E allora? Agite, forse? Vi preparate ad agire?».
Bazàrov non rispose. Pàvel Petròviè trasalì ma si riprese subito.
«Hm...! Agire, distruggere...», continuò. «Ma come si può distruggere, senza sapere nemmeno il perché».
«Noi distruggiamo perché siamo una forza», disse Arkàdij.
Pàvel Petròviè guardò suo nipote e sorrise.
«Sì, la forza non rende conto a nessuno», continuò Arkàdij sporgendo il petto in fuori.
«Disgraziato!», gridò Pàvel Petròviè, che non era assolutamente più in grado di contenersi, «se almeno capissi quello di cui ti fai sostenitore in Russia con la tua squallida sentenza! È una cosa che farebbe perdere la pazienza a un santo! La forza! Il selvaggio calmucco e il mongolo hanno la forza, e a che serve? A noi sta a cuore la civiltà, sì, sì, egregio signore, la civiltà e i suoi frutti. E non mi venite a dire che sono cose senza significato. Il più misero degli artisti, un barbouilleur qualsiasi, un suonatore ambulante che prende cinque copeche per sera sono più utili di voi, perché rappresentano la civiltà e non la rozza forza mongola! Pensate di essere all'avanguardia, ma il vostro posto è una tenda calmucca! La forza! Ricordatevi, miei forti signori, che siete quattro in tutto, gli altri sono milioni e vi impediranno di calpestare le loro santissime convinzioni, e vi sconfiggeranno!».
«Peggio per loro», disse Bazàrov. «Ma non è poi tanto sicuro che siamo così pochi come pensa lei».
«Davvero? Pensate sul serio di farcela con un intero popolo?».
«Una candela da una copeca ha incendiato Mosca», rispose Bazàrov.
«Ah, è così. Prima un orgoglio quasi satanico e poi lo scherno. Ecco che cosa attira la gioventù, ecco come si conquista il cuore inesperto dei ragazzini. Uno di loro è seduto vicino a lei, l'adora quasi. Lo guardi!» (Arkàdij si voltò dall'altra parte, accigliato). «E questo contagio si è già diffuso. Mi hanno detto che a Roma i nostri pittori non entrano in Vaticano. Giudicano Raffaello un idiota, perché è un'autorità, e mentre loro sono tristemente privi di energia e di creatività la loro fantasia non va oltre la Fanciulla alla fontana, e anche la fanciulla è dipinta malissimo. Ma secondo lei sono bravi, no?».
«Secondo me», ribatté Bazàrov, «Raffaello non vale un soldo e gli altri non sono meglio di lui».
«Bravo! Bravo! Ascolta, Arkàdij..., ecco come si devono esprimere i giovani moderni! E perché non dovrebbero ascoltarvi? Prima dovevano studiare, non volevano sembrare ignoranti e così si davano da fare controvoglia. Invece adesso basta che dicano: "Tutto è assurdo!". E il gioco è fatto. I giovani sono felici perché prima erano semplicemente imbecilli e adesso sono nichilisti».
«Il lodevole sentimento della propria dignità l'ha tradita», osservò imperturbabile Bazàrov mentre Arkàdij li guardava con le guance in fiamme e gli occhi scintillanti. «La nostra discussione è andata troppo lontano... È meglio troncarla. Mi troverò d'accordo con lei», aggiunse alzandosi, «quando mi citerà almeno una istituzione della vita contemporanea, familiare o sociale, che non meriti una totale e spietata negazione».
«Milioni di queste istituzioni posso citarle», esclamò Pàvel Petròviè, «milioni! Per esempio, la comunità contadina».
Un sorriso freddo increspò le labbra di Bazàrov.
«Della comunità contadina è meglio che parli con suo fratello che sta sperimentando adesso che cosa siano la comunità contadina, la responsabilità collettiva, la lotta contro l'alcolismo e cosette del genere».
«Allora la famiglia, quella dei contadini!», gridò Pàvel Petròviè.
«Ritengo che sia meglio per lei non approfondire questo problema. Non ha mai sentito parlare di incesto? Mi ascolti, Pàvel Petròviè, si prenda due giorni di tempo, è difficile che possa trovare qualcosa subito. Esamini tutti i nostri strati sociali, ci rifletta per bene, intanto io e Arkàdij...».
«Disprezzerete tutto», continuò Pàvel Petròviè.
«No, sezioneremo le rane. Andiamo Arkàdij; arrivederci signori».
Uscirono e i due fratelli rimasero soli: dapprima si guardarono semplicemente l'un l'altro.
«Ecco», esordì alla fine Pàvel Petròviè, «ecco la gioventù d'oggi! Eccoli, i nostri eredi!».
«Eredi», ripeté con un sorriso triste Nikolàj Petròviè. Aveva ascoltato tutta la conversazione sulle spine e solo di sfuggita, penosamente, aveva guardato Arkàdij. «Sai, mi ricordo che una volta avevo litigato con la mamma: lei gridava e non mi voleva ascoltare... Alla fine io le ho detto che non mi poteva capire perché appartenevamo a due generazioni diverse. Lei si era offesa moltissimo e io avevo pensato che non c'era niente da fare, la pillola era amara ma andava ingoiata. Ecco, adesso è il nostro turno, i nostri eredi ci possono dire che non siamo della loro generazione e noi dobbiamo ingoiare l'amara pillola».
«Tu sei esageratamente buono e modesto», obiettò Pàvel Petròviè, «io, invece, sono sicuro che io e te siamo molto più nel giusto di questi signorini, anche se, forse, ci esprimiamo con un linguaggio antiquato, vieilli, e non abbiamo la loro arrogante sicurezza. E come sono musoni questi giovani d'oggi! Se gli domandi che vino preferiscono, bianco o rosso, "d'abitudine bevo solo il rosso!", ti rispondono con voce di basso e con un'aria d'importanza come se tutto il mondo li stesse guardando».
«Ancora tè?», disse Fèneèka, facendo capolino dalla porta: non aveva voluto entrare in salotto finché si erano sentite le voci che discutevano.
«No, puoi far portar via il samovar», rispose Nikolàj Petròviè e si alzò per andarle incontro. Pàvel Petròviè gli disse bruscamente: «Bon soir», e andò nel suo studio.

XI

Mezz'ora dopo Nikolàj Petròviè uscì per andare in giardino sotto il suo caro pergolato. Lo assalirono pensieri tristi. Per la prima volta aveva sentito con chiarezza la sua distanza dal figlio e aveva il presentimento che sarebbe diventata ogni giorno più grande. Erano stati quindi inutili quelle intere giornate d'inverno che aveva trascorso a Pietroburgo leggendo gli ultimissimi libri; inutilmente aveva ascoltato le conversazioni dei giovani, inutilmente si era rallegrato quando era riuscito a dire anche la sua parola nei loro animati discorsi. Mio fratello dice che ho ragione, pensava, e, al di là di qualsiasi amor proprio, anche a me sembra che loro siano più lontani di noi dalla verità, e nello stesso tempo sento che hanno qualcosa che a noi manca, un senso di superiorità... La giovinezza, forse? No, non è solo la giovinezza. La loro superiorità, forse, consiste nel non aver tutti quei modi e quelle abitudini da signori che abbiamo noi.
Nikolàj Petròviè abbassò la testa e si passò una mano sul viso. Ma rifiutare la poesia, pensò di nuovo, non sentire l'arte, la natura...
Si guardò intorno, come se volesse capire come si poteva non amare la natura. Era già sera; il sole si nascondeva dietro il boschetto di tremule, a mezza versta dal giardino, l'ombra si stendeva senza fine attraverso i campi immobili. Un contadino cavalcava al trotto un cavallino bianco, lungo il sentiero stretto e buio che costeggiava il bosco; nonostante fosse nell'ombra, era ben visibile, fino alla toppa che aveva sulla spalla, e le zampe del cavallino balenavano graziose nel buio. I raggi del sole penetravano nel bosco e, attraverso il folto, circondavano i tronchi delle tremule di una luce così calda che sembravano quasi tronchi di pino e le foglie diventavano azzurre, mentre il cielo blu chiaro si innalzava appena imporporato dal tramonto. In alto volavano le rondini, il vento si era completamente quietato; api ritardatarie ronzavano pigre e sonnolente tra i fiori delle serenelle; moscerini in colonna affollavano un ramo che si protendeva solitario. Che bellezza, Dio mio! pensò Nikolàj Petròviè e gli salirono alle labbra i versi che amava tanto, gli tornò in mente Arkàdij e Stoff und Kraft e tacque, ma rimase seduto, abbandonandosi ancora al gioco triste e consolatorio dei pensieri solitari. Gli piaceva sognare un po'; la vita di campagna aveva sviluppato in lui questa propensione. Molto tempo prima aveva vagato con la mente allo stesso modo, aspettando il figlio all'albergo di posta, e da allora c'era già stato un cambiamento, si erano già chiariti dei rapporti allora ancora confusi, eh sì!
Gli tornò di nuovo in mente la moglie morta, ma non come l'aveva conosciuta nel corso di tutti quegli anni, non come una brava e buona padrona di casa, ma come quand'era una ragazza giovane con la vita sottile e lo sguardo innocente e interrogativo, con la treccia saldamente fissata sul collo infantile. Si ricordò di quando l'aveva vista la prima volta. Era ancora studente. L'aveva incontrata sulle scale della casa dove abitava e l'aveva urtata senza accorgersi, si era voltato per scusarsi, ma era stato soltanto capace di borbottare: «Pardon, monsieur», lei aveva chinato la testa, aveva riso piano, e, d'un tratto, come se si fosse spaventata, era scappata via, ma alla svolta della scala gli aveva lanciato una occhiata veloce, aveva assunto un contegno serio ed era arrossita. Poi le prime timide visite, le mezze parole e i mezzi sorrisi, l'incertezza, la malinconia e gli slanci e alla fine quella gioia anelante... Dov'era fuggito tutto questo? Era diventata sua moglie, lui era felice come pochi sulla terra... Ma, pensò, quei dolci primi momenti, perché non vivono una vita eterna, immortale?
Non cercava di chiarire a se stesso il proprio pensiero, ma sentiva che avrebbe voluto trattenere quel tempo beato con qualcosa di più forte che non la memoria; avrebbe voluto sentire ancora la vicinanza della sua Marija, sentire il suo calore e il suo respiro e gli sembrava già...
«Nikolàj Petròviè», si udì lì vicino la voce di Fèneèka, «Nikolàj Petròviè, non la vedo, dov'è?».
Trasalì. Non provò dolore né vergogna... Non ammetteva nemmeno la possibilità di un confronto tra la moglie e Fèneèka. Gli dispiacque soltanto che lei lo avesse cercato. La sua voce gli aveva di colpo ricordato i suo capelli grigi, la sua vecchiaia, il suo presente...
Il mondo incantato che lo aveva appena accolto sorgendo dalle nebbiose onde del passato, oscillò e scomparve.
«Sono qui», rispose, «adesso arrivo, vai». Eccoli i modi da signore, pensò un attimo. Fèneèka guardò verso di lui sotto il pergolato e scomparve, mentre Nikolàj Petròviè notava con stupore che la notte era arrivata mentre lui fantasticava. Era tutto buio e silenzioso intorno e il viso di Fèneèka gli era scivolato vicino, piccolo e pallido. Si alzò e avrebbe voluto rientrare in casa; ma non riusciva a calmare il suo cuore commosso e cominciò a camminare piano per il giardino, guardando pensosamente la terra sotto i suoi piedi o levando lo sguardo al cielo dove già brulicavano e ammiccavano le stelle. Camminò molto fin quasi a stancarsi, ma non riuscì a placare quell'inquietudine confusa, malinconica e piena di interrogativi. Come avrebbe riso di lui Bazàrov se avesse saputo quel che gli accadeva! Anche Arkàdij lo avrebbe condannato. Un uomo di quarantaquattro anni, un agronomo, un proprietario terriero, con le lacrime agli occhi, lacrime senza ragione, era cento volte peggio del violoncello.
Nikolàj Petròviè continuava a camminare e non si decideva a rientrare in casa, in quel nido quieto e accogliente che così amichevolmente guardava verso di lui da tutte le finestre illuminate; non aveva la forza di separarsi dal buio, dal giardino, dalla sensazione dell'aria fresca sul viso e da quella tristezza, da quell'inquietudine...
Dove il sentiero svoltava gli venne incontro Pàvel Petròviè.
«Che cosa c'è?», domandò a Nikolàj Petròviè, «Sei pallido come un fantasma; non stai bene; perché non vai a dormire?».
Nikolàj Petròviè gli spiegò con poche parole il suo stato d'animo e si allontanò. Arrivato in fondo al giardino anche Pàvel Petròviè diventò pensieroso e levò gli occhi al cielo. Ma i suoi bellissimi occhi scuri non riflettevano niente fuorché la luce delle stelle. Non era un romantico e la sua anima squisitamente arida e ostinata di misantropo alla francese, non sapeva sognare...
«Sai cosa?», disse quella stessa sera Bazàrov ad Arkàdij. «Mi è venuta in mente un'idea magnifica. Tuo padre oggi ha detto di aver ricevuto un invito da quel vostro parente così importante. Lui non ci va, andiamoci noi a ***; quel signore ha invitato anche te. Hai visto qui che aria tira, così invece ci divertiamo, vediamo la città. Stiamo via cinque o sei giorni, e basta».
«E poi torni qui?».
«No, devo passare da mio padre. Sai che sta solo a trenta verste da *** e non lo vedo da molto, anche mia madre; bisogna consolare i vecchietti, sono buoni, soprattutto mio padre: è divertentissimo. Hanno solo me».
«E starai molto da loro?».
«Non credo. Mi annoierò».
«Ti fermerai da noi al ritorno?».
«Non so... vedrò. Allora? Si va?».
«Vediamo», rispose pigramente Arkàdij.
Era contentissimo della proposta di Bazàrov ma pensò di dover nascondere il suo entusiasmo. Non per niente era un nichilista! Il giorno dopo partirono per ***. La gioventù di Mar'ìno si rattristò per la loro partenza; Dunjàša pianse perfino un po'... ma i vecchi si sentirono sollevati.

XII

La città dove erano diretti i nostri amici era sotto la giurisdizione di un governatore giovane, progressista e dispotico come succede molto spesso in Russia. Durante il primo anno della sua carica era riuscito a litigare non solo con il maresciallo della nobiltà, un capitano in seconda di cavalleria a riposo, allevatore di cavalli e molto ospitale, ma anche con i propri funzionari. Alla fine c'erano state discordie di proporzioni tali che il ministero a Pietroburgo aveva ritenuto necessario mandare una persona di fiducia con il compito di esaminare la questione. La scelta delle autorità era caduta su Matvèj Il'ìè Koljàzin, il figlio di quel Koljàzin che aveva fatto un tempo da tutore ai fratelli Kirsànov. Anche Matvèj Il'ìè apparteneva al gruppo dei «giovani», cioè aveva da poco compiuto quarant'anni, ma mirava già a diventare un uomo di stato e a entrambi i lati del petto portava una stella. Una, veramente, era di un paese straniero e poco importante. Come il governatore che era venuto a giudicare, si considerava un progressista e, pur essendo già importante, non somigliava alla maggior parte delle persone importanti. Aveva un'altissima opinione di sé, la sua ambizione non conosceva limiti, ma si comportava con semplicità, guardava gli altri con aria di approvazione, li ascoltava con condiscendenza e rideva così bonariamente che, sulle prime, poteva parere perfino un «bravo ragazzo». Nelle occasioni importanti sapeva, tuttavia, come si dice, gettar polvere negli occhi. «L'energia è necessaria», diceva allora, «l'énergie est la première qualité d'un homme d'état», ma con tutto questo, di solito, si lasciava intrappolare e bastava che un funzionario fosse un po' esperto che già faceva di lui quel che voleva. Matvèj Il'ìè citava con grande rispetto Guizot e cercava di convincere tutti che lui non apparteneva al numero dei burocrati abitudinari e arretrati, che non privava della sua attenzione nessun avvenimento sociale... Tutte le espressioni di questo genere gli erano ben note. Seguiva perfino, seppur con negligente superiorità, lo sviluppo della letteratura moderna: con l'atteggiamento di un uomo adulto che, incontrando per la strada un corteo di ragazzi, si unisce per un po' a loro. In sostanza Matvèj Il'ìè non era molto diverso da quegli uomini di stato del tempo di Alessandro che prima di prender parte a una serata dalla signora Svèèina, che viveva allora a Pietroburgo, leggevano la mattina una pagina di Condillac. Solo i modi erano diversi in lui, più moderni. Era un abile cortigiano, un gran furbacchione e niente altro; di questioni burocratiche non si intendeva, intelligente non era, ma sapeva manovrare i suoi affari e nessuno poteva più fermarlo: questo era l'essenziale.
Matvèj Il'ìè accolse Arkàdij con la benevolenza di un dignitario illuminato, anzi con giocosità. Tuttavia si stupì che i parenti che aveva invitato fossero rimasti invece in campagna. «È sempre stato un tipo strano il tuo papà», osservò, giocherellando con i nastri della sua magnifica veste da camera e, all'improvviso, rivolgendosi a un giovane funzionario con un'uniforme severissimamente abbottonata, esclamò preoccupato: «Come?». Il giovane, al quale per il prolungato silenzio si erano incollate le labbra, si alzò e guardò perplesso il proprio superiore. Ma, essendo riuscito a mettere in imbarazzo un sottoposto, Matvèj Il'ìè non gli prestava già più attenzione. I nostri dignitari amano mettere in imbarazzo i loro sottoposti, e i mezzi che usano per raggiungere questo scopo sono vari. Il sistema seguente è molto diffuso, is quite a favourite, come dicono gli inglesi: il dignitario improvvisamente smette di capire le parole più semplici, finge di essere sordo. Domanda per esempio: «Che giorno è oggi?». Rispettosissimamente gli rispondono: «Oggi è venerdì, vostra ec...c...c...cellenza». E lui ripete nervosamente: «Ah? Cosa? Che cos'è? Che cosa dice?». «Oggi è venerdì, vostra ec...c...c...cellenza». E ancora: «Come? Cosa? Venerdì? Quale venerdì?». Allora il sottoposto: «Venerdì, vostra ec...c...c...cellenza, il giorno della settimana». E il dignitario: «Pensi di dover insegnare a me quali sono i giorni della settimana?».
Matvèj Il'ìè era pur sempre un dignitario, anche se si considerava un liberale.
«Ti consiglio, amico mio, di andare a far visita al governatore», disse ad Arkàdij, «capisci, se lo consiglio non è perché condivida le antiche concezioni che imponevano di ossequiare le autorità, ma solo perché il governatore è una persona perbene, e poi tu, probabilmente, desideri conoscere la società di qui... non sei un orso, spero? Il governatore dopodomani darà un grande ballo».
«Lei ci sarà?», domandò Arkàdij.
«Il ballo è per me», disse Matvèj Il'ìè quasi come se gli dispiacesse. «Tu balli?».
«Ballo, ma male».
«Peccato. Qui ci sono ragazze molto graziose e per un uomo giovane è una vergogna non ballare. Di nuovo dico questo non in forza delle antiche concezioni; non penso che l'intelligenza debba trovarsi nei piedi, ma anche il byronismo è ridicolo, il a fait son temps».
«Ma zio, non è affatto per byronismo...».
«Ti farò conoscere le signore di qui, ti terrò sotto la mia ala», lo interruppe Matvèj Il'ìè e rise soddisfatto. «Ci starai caldo, sai».
Entrò un servitore e annunziò l'arrivo del presidente del demanio, un vecchio dagli occhi dolci e dalle labbra grinzose che amava terribilmente la natura, soprattutto nei giorni d'estate quando, secondo le sue parole, «le apine prendono dai fiorellini le loro piccole mance quotidiane...». Arkàdij se ne andò.
Trovò Bazàrov alla locanda dove si erano fermati e cercò a lungo di convincerlo ad andare dal governatore.
«Non c'è niente da fare», disse Bazàrov alla fine. «Quando si è in ballo bisogna ballare. Siamo venuti per vedere i possidenti e allora guardiamoli!».
Il governatore accolse i due giovani gentilmente, ma non li fece sedere e lui stesso non si sedette. Era sempre indaffarato e aveva sempre fretta; fin dal mattino indossava una uniforme attillata e una cravatta straordinariamente rigida, non riusciva mai a finire di mangiare o di bere per dare ordini in tutte le direzioni. Nel governatorato gli avevano dato il soprannome di Bourdaloue, non volendo alludere al famoso predicatore francese, ma a quel torbido intruglio detto burdà. Invitò Kirsànov e Bazàrov al ballo e dopo due minuti li invitò una seconda volta prendendoli per fratelli e chiamandoli Kajsàrov.
I due amici stavano tornando all'albergo quando d'un tratto da una delle carrozze scoperte che passavano di lì saltò giù un uomo piccolo di statura con una giubba ungherese da slavofilo che gridando: «Evgènij Vasìl'eviè!», si slanciò su Bazàrov.
«Ah è lei, Herr Sìtnikov», disse Bazàrov continuando a camminare lungo il marciapiede, «come mai qui?».
«S'immagini, per puro caso», rispose Sìtnikov, e, voltandosi verso la carrozza, agitò quattro o cinque volte la mano e gridò: «Vieni dietro a noi, vieni! Mio padre ha degli affari qui», continuò superando con un salto un fossatello, «e così mi ha chiesto... Ho saputo oggi del suo arrivo e sono già stato da lei». (E infatti, tornando nella loro stanza all'albergo, trovarono un biglietto con gli angoli ripiegati e con il nome di Sìtnikov, da un lato in francese e dall'altro in caratteri slavi.) «Spero che non siate stati dal governatore!».
«Non lo speri, stiamo uscendo adesso da casa sua».
«Ah! In questo caso ci andrò anch'io... Evgènij Vasìl'eviè mi presenti il suo... il...».
«Sìtnikov, Kirsànov», farfugliò Bazàrov senza fermarsi.
«Molto lusingato», cominciò Sìtnikov, avanzando al loro fianco, sorridendo e togliendosi i guanti eccessivamente eleganti. Ho sentito molto... Sono un vecchio amico di Evgènij Vasìl'eviè, posso dire di essere un suo discepolo. Gli sono debitore della mia rinascita...».
Arkàdij guardò il discepolo di Bazàrov.
Il suo viso curato, dai tratti minuti ma gradevoli, aveva un'espressione inquieta e ottusa, gli occhi piccoli e infossati avevano uno sguardo fisso e inquieto e anche la sua risata era inquieta, spezzata, legnosa.
«Lei non mi crederà», continuò, «ma quando davanti a me Evgènij Vasìl'eviè, per la prima volta, ha detto che non bisogna riconoscere l'autorità, io ho provato un tale entusiasmo... come se mi si fossero aperti gli occhi! Ecco, ho pensato, finalmente ho trovato un uomo! A proposito, Evgènij Vasìl'eviè, deve assolutamente andare da una signora che vive qui e che è sicuramente in grado di capire le sue idee e che gradirebbe la sua visita come un'autentica festa; forse ne ha sentito parlare?».
«Chi è?», chiese controvoglia Bazàrov.
«La Kùkšina, Eudoxie, Evdòksija Kùkšina. Una natura meravigliosa, emancipée nel vero senso della parola, una donna all'avanguardia. Anzi, andiamoci adesso tutti insieme. Abita qui a due passi. Faremo colazione da lei. Non avete ancora fatto colazione?».
«Non ancora».
«Benissimo. Lei, vede, si è separata dal marito e non dipende da nessuno».
«È bella?», lo interruppe Bazàrov.
«N...no, non si può dir bella».
«E allora perché diavolo ci vuol portare da lei?».
«Sempre spiritoso... Ci offrirà una bottiglia di champagne».
«Ah ecco! Adesso si vede la persona pratica. A proposito, suo padre è sempre negli appalti?».
«Sì negli appalti», rispose in fretta Sìtnikov con una risata stridula. «Allora si va?».
«Non so, davvero».
«Volevi guardare la gente, vai», osservò a mezzavoce Arkàdij.
«E lei, signor Kirsànov?», insisté Sìtnikov. «Venga anche lei, senza di lei non andremo».
«Ma come facciamo ad arrivare all'improvviso tutti insieme?».
«Non fa niente! La Kùkšina è una persona straordinaria».
«Ci sarà la bottiglia di champagne?».
«Tre!», esclamò Sìtnikov. «Garantisco io!».
«Con che cosa?».
«Con la mia testa».
«Sarebbe meglio con la borsa del papà. Comunque andiamo».

XIII

La piccola casa padronale, di stile moscovita, nella quale viveva Avdòt'ja Nikìtišna (o Evdòksija) Kùkšina, si trovava in una delle strade che erano bruciate nell'ultimo incendio della città. Si sa che le città dei nostri governatorati bruciano ogni cinque anni. Sulla porta, sopra un biglietto da visita appeso storto, sporgeva un campanello. In anticamera, i visitatori furono accolti da una via di mezzo tra una cameriera e una dama di compagnia con la cuffia, chiaro indizio delle aspirazioni progressiste della padrona di casa.
Sìtnikov domandò se Avdòt'ja Nikìtišna fosse in casa.
«È lei, Victor?», disse una voce sottile dalla stanza accanto. «Entri».
La signora con la cuffia sparì immediatamente.
«Non sono solo», disse Sìtnikov, buttando spavaldamente a terra la sua giubba ungherese, sotto la quale indossava qualcosa di simile a uno spolverino o a un soprabito a sacco.
I tre giovani entrarono. La stanza somigliava più a uno studio che a un salotto. Carte, lettere, voluminose riviste russe, per la maggior parte intonse, giacevano sui tavoli impolverati; dappertutto spuntavano mozziconi di sigarette. Su un divano di pelle nera era semisdraiata una signora ancora giovane, bionda e un po' scapigliata, con un vestito di seta non molto in ordine, grossi braccialetti intorno alle braccia corte e un fazzolettino di pizzo sulla testa. Si alzò dal divano e, tirandosi con noncuranza sulle spalle una cappa di velluto foderata di ermellino ingiallito, disse pigramente: «Buongiorno, Victor», e strinse la mano di Sìtnikov.
«Bazàrov, Kirsànov», Sìtnikov presentò gli amici parlando a scatti, per imitare Bazàrov.
«Benvenuti», rispose la Kùkšina e, fissando Bazàrov con i suoi occhi rotondi, in mezzo ai quali spuntava, isolato e rosso, un minuscolo nasino all'insù, aggiunse: «Io la conosco», e strinse la mano anche a lui.
Bazàrov corrugò la fronte. Nella piccola e scialba figura della donna emancipata non c'era niente di brutto, ma il suo sguardo suscitava un'impressione sgradevole. Veniva voglia di chiederle: «Che cos'hai? Hai fame? Ti annoi? Oppure ti vergogni?». Anche lei, come Sìtnikov, si rodeva eternamente nell'anima. Parlava e si muoveva con disinvoltura e, nello stesso tempo, in modo impacciato; inoltre, qualunque cosa facesse, sembrava che non fosse quello che veramente voleva fare, ma che, come dicono i bambini, lo facesse «apposta», cioè senza semplicità, senza naturalezza.
«Sì, sì, la conosco, Bazàrov», ripeté. (Aveva l'abitudine, propria a molte signore sia provinciali sia moscovite, di chiamare gli uomini per cognome fin dal primo incontro.) «Volete un sigaro?».
«Sì, un bel sigaro», rispose Sìtnikov, che si era già sdraiato su una poltrona, con le gambe accavallate. «Ci dia anche qualcosa da mangiare. Abbiamo una fame terribile, ci faccia portare anche un bottiglia di champagne».
«Sibarita!», disse Evdòksija e rise. (Quando rideva le si scoprivano le gengive.) «Non è vero, Bazàrov, che è un sibarita?».
«Io amo le comodità della vita», ribatté con sussiego Sìtnikov «ma questo non mi vieta di essere un liberale».
«Non è vero, lo vieta, lo vieta!», esclamò Evdòksija e, tuttavia, ordinò alla cameriera di preparare la colazione e lo champagne.
«Che cosa ne pensa?», aggiunse, rivolta a Bazàrov. «Sono certa che lei condivide la mia opinione».
«Ma no», rispose Bazàrov, «un pezzo di carne vale più di un pezzo di pane anche dal punto di vista chimico».
«Lei si occupa di chimica? È la mia passione, ho anche inventato un mastice».
«Un mastice? Lei?».
«Sì, io. E sa a quale scopo? Per aggiustare le testine delle bambole. Anch'io sono una persona pratica. Ma non ho ancora perfezionato la mia invenzione, devo consultare ancora il Liebig. A proposito, ha letto l'articolo di Kisljakòv sul lavoro femminile, pubblicato sulle "Moskòvskie vèdomosti"? Lo legga, la prego. La interessa la questione femminile? E il problema della scuola? Di che cosa si occupa il suo amico? Come si chiama?».
La signora Kùkšina lasciava cadere le sue domande una dietro l'altra con molle noncuranza, senza aspettare le risposte, come fanno i bambini viziati con le loro balie.
«Mi chiamo Arkàdij Nikolàiè Kirsànov», disse Arkàdij, «e non mi occupo di niente».
Evdòksija scoppiò a ridere.
«Questa è carina! Non fuma? Victor, sa che sono arrabbiata con lei?».
«Perché?».
«Lei, ho sentito dire, ha cominciato di nuovo a tessere le lodi di George Sand. Una donna superata e niente di più! Come la si può paragonare a Emerson? Non ha nessuna idea sul problema dell'educazione, né sulla fisiologia né su nient'altro. Sono sicura che non ha nemmeno mai sentito parlare dell'embriologia, e invece oggi come si può farne a meno?». (Evdòksija allargò le braccia in un gesto enfatico.) «Ah, Eliseviè ha scritto un articolo straordinario su questo argomento! È un signore geniale». (Evdòksija usava sempre la parola «signore» invece di «uomo».) «Bazàrov, si sieda vicino a me, sul divano. Lo sa o no che ho una terribile paura di lei?».
«Perché? Mi permetta di essere curioso».
«Lei è un signore pericoloso, ha uno spirito molto critico. Ah, Dio mio! Che divertimento, io parlo come una qualsiasi proprietaria della steppa! Ma, in effetti, io sono una proprietaria e, si immagini, lo stàrosta del mio villaggio si chiama Erofèj ed è un tipo eccezionale, proprio come il Pathfinder di Cooper: ha qualcosa di estremamente naturale, immediato. Mi sono definitivamente stabilita qui, ormai; è una città insopportabile, vero? Ma che fare?».
«È una città come un'altra», osservò freddamente Bazàrov.
«Dappertutto interessi meschini, ecco quel che è terribile! Prima passavo gli inverni a Mosca... ma adesso ci abita il mio caro monsieur Kùkšin. E anche Mosca... non so, ormai... ormai non è più quella. Penso di andare all'estero; l'anno scorso mi ero già decisa».
«A Parigi, naturalmente?», domandò Bazàrov.
«A Parigi e a Heidelberg».
«Perché a Heidelberg?».
«Ma la prego, perché c'è Bunsen!».
Bazàrov non seppe che cosa rispondere.
«Pierre Sapòžnikov... lo conosce?».
«No».
«Ma per piacere! Pierre Sapòžnikov... va sempre da Lidia Chostàtova».
«Non conosco nemmeno lei».
«Bene... si era incaricato di accompagnarmi. Grazie a Dio io sono libera, non ho figli... Chissà perché ho detto "grazie a Dio", comunque è lo stesso».
Evdòksija arrotolò una sigaretta con le dita ingiallite dal tabacco, fece scorrere la lingua sulla carta, succhiò un po' la sigaretta e l'accese.
Entrò la cameriera con un vassoio.
«Ah, ecco la colazione! Volete mangiare qualcosa? Victor, stappi la bottiglia, tocca a lei».
«A me, a me», borbottò Sìtnikov, e scoppiò di nuovo in una risata stridula.
«Ci sono belle donne qui?», domandò Bazàrov, finendo di bere il terzo bicchiere.
«Ce ne sono», rispose Evdòksija, «ma sono tutte così vuote! Per esempio, mon amie Odincòva non è brutta. Peccato che la sua reputazione non sia... Comunque non avrebbe importanza, è che non ha nessuna libertà né larghezza di vedute, niente... di tutto questo. Bisogna cambiare il sistema di educazione, ci ho già pensato: le nostre donne sono educate molto male».
«Non ne ricaverà niente», la interruppe Sìtnikov. «Conviene disprezzarle e io le disprezzo totalmente!». La possibilità di esprimere il proprio disprezzo procurava a Sìtnikov una piacevolissima sensazione; se la prendeva soprattutto con le donne, non sospettando che, qualche mese più tardi, avrebbe dovuto umiliarsi davanti alla propria moglie solo perché era nata principessa Durdoleosòva.) «Nessuna di loro sarebbe in grado di seguire la nostra conversazione e di nessuna di loro vale la pena che noi, uomini seri, parliamo!».
«Ma a loro non serve affatto capire la nostra conversazione», disse Bazàrov.
«Di chi parla?», s'intromise Evdòksija.
«Delle belle donne».
«Come! Lei, quindi, condivide l'opinione di Proudhon?».
Bazàrov si raddrizzò sulla seggiola. «Io non condivido le opinioni di nessuno. Ho le mie», disse orgogliosamente.
«Abbasso le autorità!», gridò Sìtnikov, felice di potersi esprimere con sicurezza in presenza di un uomo che lo faceva sentire in una posizione di inferiorità.
«Però Macaulay...», riprese la Kùkšina.
«Abbasso Macaulay!», tuonò Sìtnikov. «Lei difende quelle donnette?».
«Non le donnette, ma i diritti delle donne, che ho giurato di difendere fino all'ultima goccia del mio sangue».
«Abbasso!». A questo punto, Sìtnikov si fermò. «Ma io non li nego», disse.
«No, io l'ho capito, lei è uno slavofilo».
«Non sono uno slavofilo, però, naturalmente...».
«No, no, no! Lei è uno slavofilo, un seguace del Domostroj. Starebbe bene con in mano una frusta».
«La frusta va bene», osservò Bazàrov, «solo che siamo arrivati all'ultima goccia...».
«Di che cosa?», lo interruppe Evdòksija.
«Di champagne, onorevolissima Avdòt'ja Nikìtišna, di champagne, non del suo sangue».
«Io non posso rimanere indifferente quando sento accusare le donne», proseguì Evdòksija. «È terribile, terribile. Invece che prendervela con le donne, fareste meglio a leggere il libro di Michelet, De l'amour. È una meraviglia! Signori, parliamo dell'amore», aggiunse, lasciando cadere languidamente una mano sul cuscino sgualcito del divano.
Ci fu un improvviso silenzio.
«No, perché dovremmo parlare dell'amore?», disse Bazàrov. «Lei, invece, ha nominato la Odincòva... Si chiama così, vero? Chi è questa signora?».
«Una delizia! Una delizia!», pigolò Sìtnikov. «Gliela presenterò. Intelligente, ricca, vedova. Purtroppo non è ancora abbastanza evoluta, dovrebbe conoscere meglio la nostra Evdòksija! Bevo alla salute, Eudoxie! Brindiamo! Et toc, et toc, et tin-tin-tin. Et toc, et toc, et tin-tin-tin!».
«Victor, birichino!».
La colazione durò a lungo. Alla prima bottiglia di champagne ne seguì una seconda, una terza e poi anche una quarta! Evdòksija chiacchierava senza tregua. Sìtnikov le faceva eco. Discussero molto sul significato del matrimonio, se fosse un pregiudizio o un crimine, e su come nascono le persone, uguali oppure no, e in che cosa consista propriamente l'individualità. Alla fine Evdòksija, tutta rossa per il vino che aveva bevuto, pestando con le unghie piatte sui tasti di un pianoforte scordato, cominciò a cantare con voce rauca prima canzoni zigane e poi una romanza di Seymour-Schiff, Nel sopor giace Granada, mentre Sìtnikov si era avvolto la testa in una sciarpa e impersonava l'amante morente che cantava:

Le mie braccia con le tue
in un bacio ardente unir

Arkàdij non poté sopportare oltre: «Signori, adesso sembra di essere a Bedlam», disse ad alta voce.
Bazàrov che soltanto raramente era intervenuto nella conversazione con qualche parola sprezzante e si era interessato di più allo champagne, sbadigliò rumorosamente, si alzò e, senza salutare la padrona di casa, uscì con Arkàdij. Sìtnikov si alzò di scatto e li seguì.
«Allora, allora?», domandò correndo servilmente ora a destra ora a sinistra. «Ve l'avevo detto: ha una personalità straordinaria! Dovrebbero essercene tante di donne così! Nel suo genere è un esempio altamente morale».
«E anche questa istituzione di tuo padre è un esempio altamente morale?», disse Bazàrov indicando una bettola davanti alla quale stavano passando in quel momento.
Sìtnikov scoppiò di nuovo in una risata stridula. Si vergognava molto delle sue origini e non sapeva se sentirsi lusingato o offeso dal tu inaspettato di Bazàrov.

XIV

Qualche giorno più tardi si tenne il ballo del governatore. Matvèj Il'ìè fu il vero «protagonista della festa», il maresciallo della nobiltà del governatorato dichiarava a tutti e a ciascuno che era venuto proprio in segno di rispetto verso di lui, e il governatore, perfino lì al ballo, anche rimanendo immobile, continuava a «dare disposizioni». La dolcezza dei modi di Matvèj Il'ìè era pari solo alla sua magnificenza. Blandiva tutti, alcuni, però, con una sfumatura di disprezzo, altri con una sfumatura di rispetto; si prodigava en vrai chevalier français con le signore e rideva continuamente di un riso forte, sonoro e uniforme, come si addice a un dignitario.
Batté sulla schiena di Arkàdij e lo chiamò ad alta voce «nipotino», degnò Bazàrov che indossava un vecchio frac di uno sguardo distratto, ma condiscendente, che gli scivolò lungo la guancia, e di un confuso, ma gentile, mugolio nel quale si poteva distinguere solo «io» e «issimo»; porse un dito a Sìtnikov e gli sorrise tenendo la testa già voltata da un'altra parte; perfino alla Kùkšina, che era apparsa al ballo senza il minimo accenno di crinolina e con i guanti sporchi, ma con un uccello del paradiso tra i capelli, disse: «Enchanté». C'era moltissima gente e non mancavano i cavalieri, i funzionari statali si affollavano soprattutto lungo le pareti, mentre i militari ballavano con zelo, specialmente uno di loro che aveva vissuto a Parigi per sei settimane circa, dove aveva imparato diverse esclamazioni audaci come «Zut», «Ah fichtrrre», «Pst, pst, mon bibi», e così via. Le pronunciava alla perfezione con autentico chic parigino, e nello stesso tempo diceva «si j'aurais», invece di «si j'avais», e «absolument» nel senso di «immancabilmente», insomma si esprimeva in quel francese-granderusso, del quale ridono tanto i francesi, quando non si sentono in dovere di assicurarci che parliamo la loro lingua come degli angeli, «comme des anges».
Arkàdij ballava male, come sappiamo, e Bazàrov non ballava affatto: si erano rifugiati in un angolo dove erano stati raggiunti da Sìtnikov che, con il suo sorrisino sprezzante, si guardava intorno in maniera arrogante facendo osservazioni velenose e provando, a quanto sembrava, un autentico piacere. Improvvisamente cambiò espressione e, imbarazzato, si rivolse ad Arkàdij. «È arrivata la Odincòva», disse.
Arkàdij si voltò e vide una donna alta, con un vestito nero, ferma sulla porta della sala. Fu colpito dalla dignità del suo portamento. Le sue braccia nude si allungavano con grazia lungo la figura sottile; dai capelli lucenti cadevano delicatamente sulla curva dolce delle spalle leggeri rametti di fucsia; gli occhi chiari guardavano intelligenti e calmi - calmi non pensosi - da sotto alla fronte bianca sporgente, e le labbra sorridevano in modo appena percettibile. Una forza serena, soave, emanava dal suo viso.
«La conosce?», domandò Arkàdij a Sìtnikov.
«Molto bene. Vuole esserle presentato?».
«Sì... dopo questa quadriglia».
Anche l'attenzione di Bazàrov fu attratta dalla Odincòva.
«Chi è quella? Non somiglia alle altre donne», disse.
Alla fine della quadriglia, Sìtnikov condusse Arkàdij dalla Odincòva; benché si conoscessero molto bene, si confuse nel parlarle e lei lo guardò con un certo stupore. Ma il suo viso assunse un'espressione cordiale quando sentì il cognome di Arkàdij. Gli domandò se fosse figlio di Nikolàj Petròviè.
«Proprio così».
«Ho visto suo padre due volte e ho sentito molto parlare di lui», continuò lei, «sono molto contenta di conoscerla».
In quel momento un aiutante di campo si precipitò da lei e la invitò per la quadriglia. Lei accettò.
«Balla?», domandò rispettosamente Arkàdij.
«Ballo. Perché pensava che non ballassi? Le sembro troppo vecchia?».
«Ma la prego... Mi permetta invece di invitarla per la mazurca».
La Odincòva rise. «Volentieri», e guardò Arkàdij, non dall'alto in basso, ma come le sorelle sposate guardano di solito i fratelli più giovani.
La Odincòva era di poco più vecchia di Arkàdij, aveva ventotto anni, ma davanti a lei Arkàdij si sentiva come uno scolaro, uno studentino, come se tra di loro ci fosse una differenza di età molto maggiore. Quando Matvèj Il'ìè le si avvicinò, con aria maestosa e parole ossequiose, si fece di lato, ma continuò a osservarla e non le tolse gli occhi di dosso anche durante la quadriglia. Lei conversava con il suo ballerino con la stessa disinvoltura con cui aveva parlato al dignitario, muoveva piano la testa e gli occhi, e un paio di volte rise sommessamente. Aveva un naso un po' grosso, come quasi tutti i russi, e il colore della sua pelle non era perfettamente puro; ma Arkàdij decise che non aveva ancora mai incontrato una donna così deliziosa. Il suono della sua voce risuonava nelle sue orecchie. Le stesse pieghe del suo vestito sembravano cadere su di lei in modo diverso che sulle altre, più armoniose e più ampie, e i suoi movimenti erano aggraziati e naturali al tempo stesso. Arkàdij si sentiva in cuore una specie di timidezza mentre, alle prime note della mazurca, prendeva posto accanto alla sua dama; cercò di dare inizio alla conversazione, ma fu capace soltanto di passarsi una mano sui capelli e non riuscì a dire una parola. Ma non si vergognò e non si agitò a lungo; la calma della Odincòva si comunicò anche a lui: non era ancora passato un quarto d'ora e già chiacchierava con disinvoltura di suo padre, dello zio, della vita a Pietroburgo e della vita in campagna. La Odincòva lo ascoltava con gentilezza, aprendo e chiudendo leggermente il ventaglio; le chiacchiere di Arkàdij si interrompevano quando lei veniva scelta da un cavaliere. Sìtnikov la invitò due volte. Lei ritornava, si sedeva di nuovo, prendeva il ventaglio, ma il suo respiro non si era fatto più affannoso, e Arkàdij ricominciava a chiacchierare, pervaso dalla felicità di trovarsi vicino a lei, di parlarle guardando i suoi occhi, la sua bellissima fronte, il suo caro viso serio e intelligente. Lei parlava poco, ma dalle sue parole e da alcune sue osservazioni Arkàdij capì che conosceva la vita e concluse che quella giovane donna aveva già fatto in tempo a provare molti sentimenti e a riflettere molto.
«Chi era con lei», gli domandò la Odincòva, «quando il signor Sìtnikov l'ha accompagnata da me?».
«L'ha notato?», domandò a sua volta Arkàdij. «È vero che ha una bella faccia? Si chiama Bazàrov, è un mio amico».
Arkàdij si mise a parlare del «suo amico». Lo descrisse con tanti particolari e con tanto entusiasmo, che la Odincòva si voltò verso Bazàrov e lo guardò. La mazurca stava per concludersi. Arkàdij divenne triste all'idea di doversi separare dalla sua dama. Aveva passato con lei un'ora così piacevole! Veramente per tutto quel tempo aveva avuto la sensazione che lei lo trattasse con condiscendenza e che lui dovesse avere per lei della gratitudine... ma i cuori giovani non si lasciano tormentare da queste sensazioni.
La musica tacque.
«Merci», disse la Odincòva alzandosi. «Ha promesso di venirmi a trovare, porti anche il suo amico. Sarò molto curiosa di vedere una persona che ha il coraggio di non credere in niente».
Il governatore si avvicinò alla Odincòva, la informò che la cena era pronta e le porse con sussiego il braccio. Uscendo lei si voltò per fare un ultimo sorriso e un cenno ad Arkàdij.
Arkàdij si inchinò profondamente e seguitò a guardarla mentre si allontanava (come gli parve aggraziata la sua figura avvolta nel riflesso grigiastro della seta nera!), e mentre pensava "in questo momento si sarà già dimenticata della mia esistenza", provò una specie di raffinata rassegnazione.
«E allora?», domandò Bazàrov appena Arkàdij lo raggiunse, «ti sei divertito? Un signore mi ha appena detto che quella signora è ahi-ahi-ahi, ma quel signore mi sembra un cretino. Secondo te è davvero ahi-ahi-ahi?».
«Non capisco bene questa definizione», rispose Arkàdij.
«Eccolo ancora, l'innocente!».
«Se è così non capisco quel signore. La Odincòva è molto simpatica, indiscutibilmente, ma si comporta così freddamente e severamente che...».
«Ma sai che le acque chete... », disse Bazàrov. «Dici che è fredda. Anche questo ha il suo sapore. Ti piace il gelato?».
«Forse», borbottò Arkàdij, «non posso giudicare. Vuole conoscerti e mi ha chiesto di portarti da lei».
«Immagino come mi hai descritto! Ma hai fatto bene. Portamici. Non so se è una semplice bellezza di provincia o una emancipée sul tipo della Kùkšina, ma non vedevo spalle così da molto tempo».
Arkàdij rimase disgustato dal cinismo di Bazàrov, ma, come succede spesso, rimproverò al suo amico non esattamente quello che in lui non gli piaceva.
«Perché non vuoi concedere la libertà di pensiero alle donne?», disse a mezza voce.
«Perché ho capito che tra le donne la libertà di pensiero è appannaggio dei mostri».
La conversazione a questo punto s'interruppe. I due giovani uscirono subito dopo cena. La Kùkšina rise alle loro spalle nervosamente e malignamente, ma non senza vergogna: il suo amor proprio era rimasto profondamente ferito perché né l'uno né l'altro le aveva prestato attenzione. Rimase al ballo più a lungo di tutti e alle quattro della mattina ballava con Sìtnikov una polka-mazurca alla maniera francese. Con questo spettacolo esemplare si concluse anche la festa del governatore.

XV

«Adesso vedremo a quale tipo di mammifero appartiene», disse il giorno seguente Bazàrov ad Arkàdij mentre insieme salivano le scale dell'albergo della Odincòva. «Il mio fiuto mi dice che qui c'è qualcosa di sbagliato».
«Mi meraviglio di te!», esclamò Arkàdij. «Come? Tu, tu, Bazàrov, ti attieni a quella morale meschina, che...».
«Come sei ridicolo!», lo interruppe Bazàrov con noncuranza. «Nel nostro gergo e per quelli come noi "sbagliavo" vuol dire "giusto". Vuol dire che c'è del buono. Non hai detto anche tu oggi che ha fatto uno strano matrimonio? Secondo me, sposare un vecchio ricco non è una cosa affatto strana, ma, al contrario, ragionevole. Io non credo alle chiacchiere della città, ma mi piace pensare, come dice il nostro dotto governatore, che siano vere».
Arkàdij non rispose e bussò alla porta. Un giovane cameriere accompagnò i due amici in una grande stanza, ammobiliata male come le stanze di tutti gli alberghi russi, ma piena di fiori. La Odincòva comparve poco dopo in un semplice abito da mattina. Sembrava ancora più giovane alla luce del sole primaverile. Arkàdij le presentò Bazàrov e, con segreta meraviglia, notò che sembrava imbarazzato, mentre la Odincòva rimaneva calma come la sera precedente. Anche Bazàrov si accorse di essere imbarazzato e si irritò con se stesso. Ecco, mi sono fatto spaventare da una donna!, pensò e, buttandosi su una poltrona, non diversamente da Sìtnikov, si mise a parlare con esagerata disinvoltura mentre la Odincòva non distoglieva da lui i suoi occhi chiari.
Anna Sergèevna Odincòva era figlia di Sergèj Nikolàeviè Lòktev, che, celebre per la sua bellezza, la sua passione per gli affari e per il gioco, aveva vissuto quindici anni tra Pietroburgo e Mosca finché, dopo aver perso tutto al gioco, si era trasferito in campagna e, dopo poco, era morto lasciando un esiguo patrimonio alle sue due figlie, Anna di vent'anni e Katerìna di dodici. La loro madre che discendeva dalle stirpe impoveritasi dei principi Ch..., era morta a Pietroburgo quando il marito era ancora nel pieno delle sue forze. La situazione di Anna, dopo la morte del padre, era molto difficile. L'educazione brillante che aveva ricevuto a Pietroburgo non l'aveva preparata a sopportare le preoccupazioni economiche e domestiche e la vita solitaria della campagna. Non conosceva nessuno e non aveva nessuno con cui consigliarsi. Il padre aveva cercato di fuggire i rapporti con i vicini; li disprezzava e loro disprezzavano lui, per motivi diversi. Anna, tuttavia, non perse la testa e chiamò subito presso di sé la sorella di sua madre, la principessina Avdòt'ja Stepànovna Ch..., una vecchia malvagia e prepotente che si stabilì in casa della nipote occupando le stanze migliori. Brontolava dalla mattina alla sera e perfino in giardino passeggiava solo in compagnia del suo unico servitore, un tetro cameriere con una logora livrea color pisello con i galloni azzurri e con un tricorno in testa. Anna sopportava pazientemente tutte le bizzarrie della zia; si dedicava all'educazione della sorella e sembrava che si fosse rassegnata all'idea di sfiorire in campagna... Ma il destino aveva disposto diversamente. Per un caso la vide un certo Odincòv, un ricco originale di quarantasei anni, ipocondriaco, grasso, pesante e avido, ma non stupido e non cattivo; Odincòv si innamorò di Anna e le chiese di sposarla. Lei acconsentì. Vissero insieme sei anni e quando Odincòv morì, lasciò alla moglie tutte le sue sostanze. Anna Sergèevna per circa un anno dopo la morte del marito non lasciò la campagna, poi andò con la sorella all'estero, ma si fermò solo in Germania; provò nostalgia e tornò a vivere nella sua casa di Nikòl' skoe, a una quarantina di verste dalla città di ***. Aveva una magnifica casa arredata in maniera perfetta, un giardino con bellissime serre: il defunto Odincòv non si era fatto mancare niente. Anna Sergèevna si mostrava di rado e per poco tempo in città, il più delle volte per affari. Non era amata nel governatorato, il suo matrimonio con Odincòv aveva suscitato grida e strepiti, su di lei si faceva ogni tipo di pettegolezzo, si diceva che aveva aiutato il padre nelle sue truffe, che non era andata all'estero senza motivo ma per nascondere le infauste conseguenze... «Lei capisce di che cosa!», concludevano le voci indignate. Ne ha combinate delle belle», dicevano di lei e il solito spiritoso di provincia aggiungeva: «e di tutti i colori». Tutte queste chiacchiere arrivavano fino a lei, che se ne lasciava appena sfiorare: aveva un carattere libero e risoluto. Stava seduta, appoggiandosi allo schienale della poltrona, con le mani una sull'altra, e ascoltava Bazàrov. Lui parlava molto, contrariamente al solito, e cercava chiaramente di interessare la sua interlocutrice, cosa che di nuovo meravigliò Arkàdij. Non riusciva a capire se Bazàrov avesse raggiunto il suo scopo. Dal viso di Anna Sergèevna era difficile stabilire quali fossero le sue sensazioni: conservava sempre la stessa espressione gentile, sensibile; i suoi bellissimi occhi si illuminavano di attenzione, ma era un'attenzione imperturbata. Durante la prima parte della visita l'atteggiamento di Bazàrov l'aveva colpita sgradevolmente come un odore cattivo o un rumore stridente; ma aveva capito subito che era imbarazzato e ne era stata quasi lusingata. Provava repulsione solo per la volgarità e nessuno avrebbe potuto rimproverare a Bazàrov di essere volgare. Era destino che quel giorno Arkàdij dovesse continuare a meravigliarsi. Pensava che Bazàrov avrebbe parlato alla Odincòva, come a una donna intelligente, delle sue convinzioni e delle sue idee. Lei stessa aveva manifestato il desiderio di conoscere una persona «che ha il coraggio di non credere in niente», invece Bazàrov chiacchierò di medicina, di botanica, di omeopatia. La Odincòva non aveva perso tempo nella solitudine: aveva letto dei buoni libri e si esprimeva in un russo corretto. Portò il discorso sulla musica, ma avendo capito che Bazàrov non riconosceva il valore dell'arte, ritorno un po' per volta alla botanica, benché Arkàdij si fosse messo a parlare del significato delle melodie popolari. La Odincòva continuava a rivolgerglisi come a un fratello minore, evidentemente apprezzava in lui la bontà e l'ingenuità della giovinezza, e basta. La conversazione si protrasse per più di tre ore, tranquilla, varia e vivace. I due amici alla fine si alzarono per congedarsi. Anna Sergèevna rivolse loro uno sguardo pieno di gentilezza, tese a entrambi la sua mano bianca e dopo aver riflettuto un attimo, con un sorriso incerto ma buono, disse:
«Se non temete la noia, signori, venite a trovarmi a Nikòl'skoe».
«Ma la prego, Anna Sergèevna», esclamò Arkàdij, «io la considero una fortuna eccezionale».
«E lei, monsieur Bazàrov?».
Bazàrov si inchinò solamente e ad Arkàdij toccò di meravigliarsi per l'ultima volta, notando che il suo amico era arrossito.
«Allora?», gli disse in strada, «pensi sempre che sia ahi-ahi-ahi?».
«Ma chi la conosce? Hai visto com'è gelida!», ribatté Bazàrov e dopo un attimo di silenzio, aggiunse: «È un'aristocratica, la discendente di una nobile stirpe. Le mancano lo strascico e la corona sulla testa».
«Le nostre aristocratiche non si esprimono così in russo», osservò Arkàdij.
«Ha avuto momenti difficili, mio caro, ha mangiato il nostro pane».
«Però è deliziosa».
«Un corpo magnifico!», continuò Bazàrov, «da sala di anotomia».
«Smettila, per l'amor del cielo, Evgènij! Che modi sono?!».
«Via, non ti arrabbiare, come sei delicato. Diciamo che è di prima qualità. Dovremo andare a trovarla».
«Quando?»,
«Anche dopodomani. Che altro abbiamo da fare qui! Bere champagne con la Kùkšina? Stare ad ascoltare il tuo parente, il dignitario liberale? Dopodomani andiamo. A proposito, anche la piccola tenuta di mio padre non è lontano da lì. Nikòl'skoe non è sulla strada di ***?».
«Sì».
«Optime. Non indugiamo; solo i cretini indugiano, e i saggi. Lasciamelo dire: un corpo straordinario!».
Tre giorni dopo i due amici viaggiavano sulla strada di Nikòl'skoe. Era una giornata limpida e non troppo calda e i cavalli di posta ben nutriti correvano affiancati, agitando leggermente le code intrecciate e annodate. Arkàdij guardava la strada e sorrideva, senza sapere a che cosa.
«Fammi gli auguri», esclamò d'un tratto Bazàrov, «oggi è il 22 giugno, il mio onomastico. Vediamo se mi porta fortuna. Mi aspettano a casa», aggiunse abbassando la voce. «Aspetteranno, che importanza ha?».

XVI

La casa di campagna nella quale viveva Anna Sergèevna si trovava su un dolce e ampio declivio, non lontano da una chiesa di pietra gialla, con il tetto verde, le colonne bianche e sulla porta principale un affresco di «gusto italiano» che rappresentava la Resurrezione di Cristo. Colpiva in particolar modo, per il realismo dei suoi tratti, un guerriero bruno, con l'elmo, disteso in primo piano. Oltre la chiesa si stendeva un piccolo paese costituito da due file di case con qualche camino che occhieggiava sopra i tetti di paglia. La casa padronale era costruita nello stesso stile della chiesa che da noi è conosciuto come stile di Alessandro; la casa era dipinta dello stesso giallo, il tetto era verde, le colonne bianche, la facciata aveva un frontone con lo stemma. L'architetto del governatorato aveva costruito sia la casa che la chiesa secondo il volere del defunto Odincòv che non tollerava nessuna inutile e immotivata, come diceva lui, innovazione.
La casa era fiancheggiata dagli alberi scuri di un giardino antico, un viale di abeti potati conduceva all'ingresso.
I nostri amici furono accolti nel vestibolo da due camerieri alti, in livrea; uno dei due corse subito a cercare il maggiordomo. Il maggiordomo, grasso, con un frac nero, comparve immediatamente e fece salire gli ospiti per una scala coperta da una passatoia fino a una stanza isolata dove si trovavano due letti e tutto l'occorrente per la toilette. Nella casa regnava l'ordine: tutto era pulito, dappertutto si sentiva un profumo discreto, come nelle anticamere dei ministri.
«Anna Sergèevna chiede che lor signori favoriscano da lei tra mezz'ora», proferì il maggiordomo. «Pensano nel frattempo di avere degli ordini?».
«Nessun ordine, onoratissimo», rispose Bazàrov, «soltanto abbia la benevolenza di portarci un bicchierino di vodka».
«Bene signore», rispose il maggiordomo non senza stupore e si allontanò facendo scricchiolare gli stivali.
«Grand genre!», disse Bazàrov. «E così che dite voi, no? Una granduchessa fino in fondo».
«Che brava granduchessa», ribatté Arkàdij, «che invita fin dal primo incontro due aristocratici come noi».
«Soprattutto io, che sarò presto un medico e sono figlio di un medico, e sono nipote di un sagrestano... Lo sai che sono nipote di un sagrestano...? Come Sperànskij», aggiunse Bazàrov dopo un breve silenzio, con una smorfia. «Comunque sa come viziarsi questa signora, altroché, se lo sa! Non dovremmo metterci il frac?».
Arkàdij si strinse nelle spalle... anche lui provava un leggero imbarazzo.
Mezz'ora dopo scesero in salotto. Era una stanza immensa con i soffitti alti, ammobiliata con un certo lusso, ma senza un gusto particolare. I mobili, pesanti e costosi, erano disposti lungo le pareti, rivestite di una tappezzeria marrone a fogliami verdi, in modo tradizionale e pretenzioso. Il defunto Odincòv aveva ordinato quei mobili a Mosca attraverso un suo conoscente e commissionario, mercante di vino. Sul divano centrale era appeso il ritratto di un uomo con i capelli bianchi e le guance flosce che sembrava guardare gli ospiti con ostilità.
«Dev'essere lui», sussurrò Bazàrov ad Arkàdij e, arricciando il naso, aggiunse: «Se ce la filassimo?».
Ma in quel momento entrò la padrona di casa. Portava un vestito leggero di mussola di lana, i capelli tirati dietro le orecchie davano un'espressione fanciullesca al suo viso fresco e pulito.
«Vi ringrazio di aver mantenuto la parola», cominciò, «fermatevi un po' da me: qui non si sta male. Vi farò conoscere mia sorella che suona bene il pianoforte. A lei, monsieur Bazàrov, non interessa ma lei, monsieur Kirsànov, ama la musica; oltre a mia sorella, qui con me vive una nostra zia vecchierella, e poi c'è un vicino che viene ogni tanto a giocare a carte: la nostra comunità è tutta qui. Sediamoci adesso».
La Odincòva aveva pronunciato questo discorsetto con grande precisione, come se l'avesse imparato a memoria; poi si era rivolta ad Arkàdij. Si scoprì che sua madre aveva conosciuto la madre di Arkàdij e che era stata addirittura la sua confidente ai tempi dell'amore con Nikolàj Petròviè. Arkàdij si mise a parlare con calore della madre morta; mentre Bazàrov sfogliava degli album. Come sono diventato assennato, pensava tra sé. Un bel levriero con il collare azzurro entrò correndo nel salotto con un rumore di unghie rapido e secco sul pavimento, dietro il cane entrò una ragazza di circa diciotto anni con i capelli neri, la carnagione bruna, un viso un po' troppo tondo ma simpatico e occhi scuri non grandi. Aveva in mano un cesto carico di fiori.
«Eccovi anche la mia Kàtja», disse la Odincòva indicandola con un movimento del capo. Kàtja fece una piccola riverenza, si sedette con leggerezza vicino alla sorella e cominciò a sistemare i fiori.
Il levriero, che si chiamava Fifì, si avvicinò scodinzolando a entrambi gli ospiti, a turno, e affondò nella mano di ciascuno la punta fresca del suo naso.
«Li hai raccolti tutti da sola?», domandò la Odincòva.
«Sì», rispose Kàtja.
«E la zia viene a bere il tè?».
«Sì, viene».
Kàtja parlava e intanto sorrideva, aveva un bel sorriso timido e sincero, e guardava da sotto in su con un'espressione divertita e seria al tempo stesso. Tutto in lei era ancora giovane e acerbo, la voce, il volto cosparso di peluria leggera, le mani rosee con circoletti biancastri sulle palme, le spalle un po' troppo strette... Arrossiva in continuazione e respirava in fretta.
La Odincòva si rivolse a Bazàrov.
«Evgènij Vasìl'eviè lei guarda quelle figure per buona educazione», cominciò. «Non sono cose che possano interessarle. Venga più vicino a noi e discutiamo di qualcosa».
Bazàrov si avvicinò.
«Di che cosa vuole discutere?».
«Di quel che preferisce. L'avverto che nelle discussioni sono terribile».
«Lei?».
«Sì, io. Sembra sorpreso? Perché?».
«Perché, per quanto posso giudicare, lei ha un carattere calmo e freddo e nelle discussioni bisogna lasciarsi trascinare».
«Come può pensare di conoscermi dopo così poco tempo? Io, prima di tutto, sono impaziente e testarda, lo domandi a Kàtja; e poi mi lascio trascinare molto facilmente».
Bazàrov guardò Anna Sergèevna.
«Forse. Lei lo saprà meglio di me! Se vuole una discussione, discutiamo. Stavo guardando quelle vedute della Svizzera Sassone nel suo album, quando lei mi ha fatto notare che non potevano interessarmi. L'ha detto perché ritiene che io non abbia senso artistico, e infatti non ne ho, ma quelle vedute potevano interessarmi dal punto di vista geologico; potevo, per esempio, desiderare di conoscere lo stadio della formazione di quelle montagne».
«Mi scusi ma per la geologia lei farebbe meglio a ricorrere a un libro, a un'opera specialistica e non a un disegno».
«Un disegno presenta al mio sguardo in un'unica immagine quello che un libro espone in dieci pagine».
Anna Sergèevna non rispose.
«E allora lei non avrebbe nemmeno una briciola di senso artistico», disse infine e appoggiò i gomiti sul tavolo avvicinando così il proprio viso a quello di Bazàrov. «E come riesce a farne a meno?».
«Perché? A che cosa serve? Mi permetta di chiederglielo».
«Se non altro a saper riconoscere e studiare le persone».
Bazàrov fece un risolino.
«In primo luogo per questo esiste l'esperienza della vita; e in secondo luogo, le dirò che non vale la pena di studiare le singole persone. Gli uomini si somigliano nel corpo e nell'anima. Tutti hanno il cervello, la milza, il cuore, i polmoni costruiti alla stessa maniera, anche le cosiddette qualità morali sono uguali in tutti; piccole variazioni nell'aspetto non significano nulla. È sufficiente un solo esemplare umano per giudicare tutti gli altri. Le persone sono come gli alberi in un bosco; non esiste un botanico che prenda in esame ogni singola betulla».
Kàtja, che stava scegliendo con cura i fiori per la sua composizione, levò stupita lo sguardo su Bazàrov e incontrando il suo, rapido e incurante, avvampò tutta fino alle orecchie. Anna Sergèevna scosse la testa.
«Gli alberi in un bosco», ripeté. «Dunque per lei non esiste differenza tra una persona stupida e una intelligente, tra un uomo buono e uno malvagio».
«No, una differenza esiste: come tra l'ammalato e il sano. I polmoni di un tisico non si trovano nelle stesse condizioni dei miei e dei suoi, anche se sono fatti alla stessa maniera. Conosciamo solo approssimativamente le cause dei mali fisici, ma i mali morali derivano dalla cattiva educazione, da tutte le sciocchezze di cui la gente si riempie la testa fin dall'infanzia, dalla mostruosità delle condizioni sociali, insomma correggete la società e non esisteranno più malattie».
Sembrava che Bazàrov avesse detto tutte queste cose pensando: che tu mi creda o no, per me è lo stesso! Si passava lentamente le lunghe dita sulle fedine e i suoi occhi erano in continuo movimento.
«Lei ritiene», disse Anna Sergèevna, «che quando saranno corretti gli errori sociali non ci saranno più né stupidi né malvagi?».
«Per lo meno in una società organizzata in modo giusto sarà completamente indifferente che una persona sia stupida o intelligente, cattiva o buona».
«Sì, ho capito. Tutti avranno la stessa milza».
«Proprio così, signora».
La Odincòva si rivolse ad Arkàdij:
«Qual è la sua opinione, Arkàdij Nikolàeviè?».
«Sono d'accordo con Evgènij».
Kàtja lo guardò da sotto in su.
«Signori, mi stupite», disse la Odincòva, «ma voglio parlare ancora un po' con voi. Adesso sembra però che stia arrivando la mia zietta per il tè; e bisogna aver pietà per le sue orecchie».
La zia di Anna Sergèevna, la principessina Ch..., una donnina magra con il viso ormai piccolo come un pugno e gli occhi fissi e cattivi sotto la parrucca grigia, entrò e, inchinandosi appena davanti agli ospiti, si lasciò cadere su una grande poltrona di velluto, sulla quale nessuno tranne lei aveva diritto di sedersi. Kàtja le mise una sgabello sotto i piedi, la vecchia non la ringraziò, non la guardò neppure, mosse soltanto le mani sotto lo scialle giallo che ricopriva quasi completamente il suo gracile corpo. La principessina amava il giallo: perfino i nastri della sua cuffia erano di un vivido giallo.
«Ha riposato bene, zia?», domandò la Odincòva, alzando la voce.
«Ancora questo cane», borbottò la vecchietta invece di rispondere e vedendo che Fifì con aria incerta le si stava avvicinando strillò: «Va' via, va' via!».
Kàtja chiamò Fifì e le aprì la porta.
Fifì si slanciò fuori allegramente credendo che la portassero a fare una passeggiata, ma rimasta sola al di là della porta cominciò a grattare e a guaire. La principessina si accigliò. Kàtja avrebbe voluto uscire.
«Penso che il tè sia pronto», disse la Odincòva. «Andiamo signori; zietta vuole accomodarsi di là per il tè?».
La principessina si alzò in silenzio dalla poltrona e per prima uscì dal salotto. Tutti la seguirono nella sala da pranzo. Un ragazzo in livrea scostò rumorosamente dalla tavola una poltrona, coperta di cuscini e riservata, come quella del salotto, alla principessina. Kàtja le servì subito il tè in una tazza con lo stemma. La vecchietta ci mise dentro del miele (riteneva che bere il tè con lo zucchero fosse una colpa e uno spreco, anche se lei non spendeva un soldo) e poi improvvisamente domandò con voce rauca:
«E che cosa scrive il prencipe Ivàn?».
Nessuno le rispondeva. Bazàrov e Arkàdij capirono che anche se tutti si comportavano con lei educatamente, non le prestavano attenzione. La tengono in virtù del suo rango principesco, pensò Bazàrov... Dopo il tè, Anna Sergèevna propose di andare a fare una passeggiata; ma cominciava a cadere una pioggia sottile e tutti, tranne la principessina, tornarono in salotto. Arrivò Porfìrij Platònyè, il vicino cui piaceva giocare a carte. Grassoccio, con i capelli grigi e delle gambine corte e tornite, era cortese e divertente. Anna Sergèevna, che stava sempre chiacchierando con Bazàrov, gli propose di misurarsi con loro secondo la moda di una volta in una partita di préference. Bazàrov acconsentì dicendo che era contento di prepararsi alle sue future incombenze di medico distrettuale.
«Stia attento», disse Anna Sergèevna, «io e Porfìrij Platònyè la batteremo. E tu Kàtja», aggiunse, «suona qualcosa ad Arkàdij Nikolàeviè che ama la musica, intanto ascolteremo anche noi».
Kàtja si avvicinò malvolentieri al pianoforte; e Arkàdij, benché amasse veramente la musica, la seguì altrettanto malvolentieri: gli sembrò che la Odincòva lo allontanasse proprio mentre nel suo cuore cresceva quella sensazione confusa e opprimente simile a un presentimento d'amore che conoscono tutti i giovani della sua età. Kàtja sollevò il coperchio del pianoforte e, senza guardare Arkàdij, disse a bassa voce:
«Che cosa devo suonarle?».
«Quel che vuole», rispose Arkàdij.
«Che musica le piace di più?», ripeté Kàtja senza cambiare posizione.
«La musica classica», rispose Arkàdij con lo stesso indifferente tono di voce.
«Mozart le piace?».
«Mozart mi piace».
Kàtja prese la sonata Fantasia in do minore di Mozart. Suonava molto bene, anche se in modo troppo austero e asciutto. Senza distogliere lo sguardo dallo spartito, stringendo le labbra, stava seduta immobile e diritta e solo verso la fine della sonata le sue guance si accesero e una piccola ciocca di capelli le si sciolse e cadde sul sopracciglio bruno.
Arkàdij fu colpito soprattutto dall'ultima parte della sonata nella quale improvvise e quasi tragiche note di dolore e tristezza interrompevano una melodia lieve, allegra e suggestiva... Ma i pensieri che gli aveva ispirato la musica di Mozart non riguardavano Kàtja. Guardandola, pensava soltanto: non suona male questa signorina, e non è nemmeno brutta.
Quando ebbe finito Kàtja, senza togliere le mani dalla tastiera, domandò: «Basta?». Arkàdij dichiarò che non osava affaticarla ancora, e si misero a parlare di Mozart; le chiese se avesse scelto da sola quella sonata o se qualcuno gliel'aveva consigliata. Ma Kàtja gli rispondeva a monosillabi: si era chiusa in se stessa. Quando le succedeva, le era poi difficile tornare allo scoperto; anche il suo viso assumeva un'espressione ostinata, quasi ottusa. Non era timida, ma era diffidente e un po' timorosa della sorella che l'aveva allevata, cosa che, naturalmente, Anna Sergèevna non sospettava affatto. Arkàdij, alla fine, chiamò Fifì che era ritornata in salotto e, per darsi un contegno, cominciò ad accarezzarle la testa. Kàtja tornò a occuparsi dei suoi fiori.
Intanto Bazàrov continuava a perdere al gioco. Anna Sergèevna giocava magistralmente a carte e anche Porfìrij Platònyè sapeva difendersi.
La perdita di Bazàrov era piccola ma per lui tutt'altro che gradevole. A cena Anna Sergèevna riportò la conversazione sulla botanica.
«Andiamo a fare una passeggiata domani mattina», disse a Bazàrov, «voglio sapere da lei i nomi latini delle piante che crescono nei campi e le loro proprietà».
«A che cosa le serve sapere i nomi latini?», domandò Bazàrov.
«In ogni cosa ci vuole ordine», rispose lei.

«Anna Sergèevna è meravigliosa», esclamò Arkàdij rimasto solo con il suo amico nella stanza che era stata loro destinata.
«Sì, è una donna che ha cervello. E deve averne viste di tutti i colori».
«In che senso lo dici, Evgènij Vasìl'eviè?».
«In senso buono, gliel'assicuro, carissimo Arkàdij Nikolàiè! Sono sicuro che amministra molto bene anche la sua proprietà. Ma la meraviglia non è lei, è sua sorella».
«Ma come? Quella brunetta?».
«Sì, quella brunetta. Qualcosa di fresco, di non contaminato, un po' impaurita, silenziosa, tutto quello che vuoi. Ecco di chi ci si può occupare. Puoi fare di lei quel che ti viene in mente, l'altra invece la sa lunga».
Arkàdij non rispose a Bazàrov. Andarono a dormire, ciascuno con i propri pensieri.
Anche Anna Sergèevna quella sera pensò ai suoi ospiti. Bazàrov le era piaciuto per la sua mancanza di galanteria e per la stessa asprezza dei suoi giudizi. Per lei era una novità, qualcosa che non le era ancora capitato di incontrare e ne era incuriosita.
Anna Sergèevna era una strana creatura. Non avendo nessun pregiudizio non aveva nemmeno nessuna vera convinzione, non retrocedeva davanti a nulla e non mirava a nulla. Sapeva e vedeva molte cose con chiarezza, molte la interessavano e nessuna la soddisfaceva, ma forse non desiderava nemmeno di essere soddisfatta. La sua intelligenza era indagatrice e distaccata al tempo stesso: i suoi dubbi non si placavano mai, fino a essere dimenticati, ma non diventavano mai tormentosi. Se non fosse stata ricca e autosufficiente forse si sarebbe lanciata nella lotta, avrebbe conosciuto la passione... Ma per lei vivere era facile, anche se ogni tanto si annoiava. Lasciava che i giorni trascorressero senza fretta e solo di rado si lasciava prendere dall'inquietudine. Lo splendore dell'arcobaleno si illuminava qualche volta anche davanti ai suoi occhi, ma quando si spegneva lei cercava il riposo e non lo rimpiangeva. La sua immaginazione si spingeva perfino oltre i limiti di quello che la morale comune considera lecito, ma il sangue continuava a scorrere pacatamente nel suo corpo affascinante, sottile e quieto. A volte, dopo un bagno caldo e profumato, le capitava di sentirsi raddolcita e commossa e si lasciava andare a riflessioni sulla vanità, sul dolore, la fatica e il male dell'esistenza... La sua anima si faceva inaspettatamente audace e cominciava a ribollire di nobili sentimenti, ma bastava che un filo d'aria entrasse da una finestra semiaperta e Anna Sergèevna cominciava a rabbrividire, a lamentarsi, quasi ad arrabbiarsi e ormai non le importava d'altro se non di impedire a quel vento crudele di soffiare e di turbarla.
Come tutte le donne cui non è stato dato di amare, Anna Sergèevna desiderava qualcosa senza sapere esattamente che cosa. In realtà non voleva niente, ma le sembrava di volere tutto. Il defunto Odincòv le era stato quasi intollerabile (l'aveva sposato per calcolo, benché non vi si sarebbe mai decisa se non l'avesse considerato anche buono, non solo ricco), e le era rimasta una segreta ripugnanza per tutti gli uomini. Riusciva a immaginarli solo come creature sgradevoli, pesanti e fiacche, deboli e fastidiose. Una volta, all'estero, aveva incontrato un giovane svedese molto bello e con l'espressione di chi ha un animo nobile. Quegli occhi azzurri, franchi e onesti, e quella fronte alta l'avevano colpita, ma non le avevano impedito di tornare in Russia.
È una strana persona questo medico, pensava, mentre stava distesa sotto una leggera coperta di seta, adagiata sui cuscini di pizzo del suo magnifico letto... Anna Sergèevna aveva ereditato dal padre una briciola del suo amore per il lusso. Aveva voluto molto bene al suo irresponsabile padre e lui l'adorava, scherzava con lei come con una coetanea, le chiedeva dei consigli e si fidava di lei completamente. Di sua madre si ricordava appena. È strano quel medico, disse ancora tra sé. Si stirò, sorrise, piegò le braccia dietro la testa, poi lesse distrattamente due pagine di uno stupido romanzo francese, lasciò cadere il libro e si addormentò, pulita e fredda nella sua biancheria pulita e profumata.
La mattina seguente, subito dopo colazione, Anna Sergèevna partì con Bazàrov per la loro passeggiata botanica e tornò solo per il pranzo; Arkàdij non andò da nessuna parte e trascorse quasi un'ora con Kàtja, che gli propose di fargli ascoltare ancora la sonata della sera prima. Arkàdij non si annoiava con lei, ma quando finalmente la Odincòva tornò, quando la vide, il suo cuore ebbe una stretta improvvisa... Camminava in giardino con passo un po' stanco; aveva le guance rosse e gli occhi ancora più splendenti del solito sotto il cappello di paglia con l'ala larga. Rigirava tra le dita il gambo sottile di un fiore di campo, lo scialle leggero le era scivolato sulle braccia e i larghi nastri grigi del cappello le ricadevano sul petto. Bazàrov camminava dietro a lei, sicuro e incurante come sempre, ma l'espressione del suo viso, per quanto allegra e quasi carezzevole, non piacque ad Arkàdij. Borbottando tra i denti: «Buongiorno!», Bazàrov se ne andò in camera, la Odincòva strinse distrattamente la mano di Arkàdij e si allontanò.
Buongiorno, pensò Arkàdij, come se oggi non ci fossimo già visti.

XVII

Il tempo, si sa, vola a volte veloce come un uccello, a volte scivola lento come un verme, ma la sensazione migliore per l'uomo sta nel non accorgersi nemmeno se il tempo stia trascorrendo piano o in fretta. Proprio in questo modo Arkàdij e Bazàrov passarono quindici giorni a casa della Odincòva. A creare questa speciale atmosfera, contribuiva in parte l'ordine che regolava la casa e la vita di Anna Sergèevna e che lei osservava rigidamente, facendo in modo che gli altri vi si sottomettessero. Tutto, durante la giornata, si compiva al momento stabilito. La mattina, alle otto in punto, ci si riuniva per il tè. Poi, fino all'ora della colazione, ognuno si dedicava a quello che preferiva; la padrona di casa si occupava, insieme all'amministratore, della proprietà che si reggeva sui tributi dei contadini, parlava con il maggiordomo e con la governante. Prima di cena si riunivano di nuovo tutti per conversare o leggere, la sera era consacrata alle passeggiate, alle partite a carte, alla musica; alle dieci e mezzo Anna Sergèevna si ritirava in camera sua, dava gli ordini per il giorno seguente e andava a dormire. A Bazàrov non piaceva questa esattezza, questa misura che pareva solennizzare la vita quotidiana; «la vita scorre sui binari», diceva; i camerieri in livrea, i maggiordomi ossequiosi offendevano i suoi sentimenti democratici. Pensava che allora si sarebbe dovuto anche pranzare all'inglese, in frac e cravatta bianca. Una volta ne parlò con Anna Sergèevna. Davanti a lei, grazie al suo atteggiamento particolare, tutti erano portati a esprimere spontaneamente la propria opinione. La Odincòva lo ascoltò e disse: «Lei ha ragione, dal suo punto di vista, e può darsi che io mi comporti da padrona, ma in campagna non si può vivere senza una regola, la noia prenderebbe il sopravvento», e continuò a fare a modo suo. Bazàrov protestava, ma sia lui che Arkàdij si trovavano bene dalla Odincòva proprio perché tutto scorreva «sui binari». Fin dai primi tempi del loro soggiorno a Nikòl'skoe si era prodotto nei due giovani un cambiamento.
In Bazàrov, per il quale Anna Sergèevna provava un'evidente simpatia nonostante di rado si trovasse d'accordo con lui, cominciò a manifestarsi una strana inquietudine: si irritava facilmente, parlava malvolentieri, aveva un'espressione cupa e non riusciva a star fermo un momento; invece Arkàdij, che aveva definitivamente concluso e confessato a se stesso di essere innamorato della Odincòva, si abbandonò a una tranquilla malinconia. Questo stato d'animo, però, non gli impedì di avvicinarsi a Kàtja, anzi lo aiutò a creare con lei un legame affettuoso e amichevole. Lei non mi apprezza! Pazienza...! C'è questa buona creatura che non mi respinge, pensava e il suo cuore assaporava di nuovo la dolcezza dei sentimenti elevati. Kàtja capiva confusamente di rappresentare una specie di consolazione e non rifiutava né a lui né a se stessa il piacere innocente di quell'amicizia timida e fiduciosa al tempo stesso.
In presenza di Anna Sergèevna non chiacchieravano fra loro: Kàtja perdeva sempre la sua spontaneità di fronte alla sorella, e Arkàdij, come qualsiasi innamorato, quand'era vicino all'oggetto del suo amore non poteva prestare attenzione a nient'altro; ma si trovava bene solo con Katja. Sentiva di non suscitare l'interesse della Odincòva, s'intimidiva e si perdeva d'animo quando restavano soli e anche lei non sapeva che cosa dirgli, lo considerava troppo giovane. Invece con Kàtja, Arkàdij si sentiva a suo agio; la trattava con condiscendenza, l'ascoltava parlare della musica, delle impressioni che suscitava in lei, dei romanzi e delle poesie che aveva letto, e di altre piccole cose, senza rendersi conto che quelle piccole cose interessavano anche a lui. Da parte sua Kàtja non gli impediva di essere triste.
Ad Arkàdij piaceva la compagnia di Kàtja, alla Odincòva quella di Bazàrov, e quindi di solito, dopo esser stati un po' tutti e quattro insieme, soprattutto durante le passeggiate, si dividevano e formavano due coppie separate. Kàtja adorava la natura, anche ad Arkàdij piaceva molto benché non osasse riconoscerlo; invece alla Odincòva le bellezze della natura non interessavano, proprio come a Bazàrov. Arkàdij e Bazàrov non stavano quasi più insieme e i loro rapporti cominciarono a cambiare. Bazàrov smise di parlare con Arkàdij della Odincòva, smise persino di rimproverarle le sue «maniere aristocratiche»; continuava però a lodare Kàtja limitandosi a osservare soltanto che le sue inclinazioni sentimentali andavano moderate, ma le sue lodi erano frettolose, i suoi consigli secchi e nell'insieme parlava con Arkàdij molto meno di prima... come se lo evitasse, come se si vergognasse di lui! Arkàdij notava tutto, ma teneva per sé le sue osservazioni. La vera ragione di questo cambiamento era il sentimento che Bazàrov provava per la Odincòva e che lo torturava e lo rendeva furioso, ma che avrebbe rinnegato con una risata sprezzante e un commento cinico se qualcuno vi avesse anche solo accennato. A Bazàrov piacevano molto le donne, la bellezza femminile lo seduceva, ma definiva l'amore ideale o romantico, come gli piaceva chiamarlo, una sciocchezza imperdonabile, e i sentimenti cavallereschi mostruosi o patologici; più di una volta si era mostrato stupito che Toggenburg non fosse finito in manicomio con tutti i menestrelli e i trovatori. «Se ti piace una donna», diceva, «cerca di raggiungere il tuo scopo. Se non è possibile, non importa, voltale le spalle, il mondo non finisce lì». La Odincòva gli piaceva e la sua reputazione, il suo spirito libero e indipendente, l'indiscutibile simpatia che gli dimostrava sembravano doverlo favorire. Capì invece, ben presto, che non avrebbe «raggiunto il suo scopo» e, nello stesso tempo, sentì con stupore di non avere la forza di voltarle le spalle. Se pensava a lei si emozionava, ma Bazàrov poteva dominare facilmente le sue emozioni, invece c'era un altro sentimento, inammissibile e ridicolo, che si era impadronito di lui e di fronte al quale il suo orgoglio si ribellava.
Parlando con Anna Sergèevna, ancor più di prima esprimeva la sua sprezzante indifferenza verso ogni forma di romanticismo, ma, rimasto solo, scopriva, e si infuriava, di essere un romantico. Allora andava nel bosco e camminava a grandi passi, spezzando i rametti che si trovava davanti e inveendo a mezza voce contro di lei e contro se stesso; oppure si rifugiava nel fienile, chiudeva gli occhi e si sforzava di dormire, ma spesso, naturalmente, non riusciva. Immaginava che quelle braccia caste gli circondassero il collo, che quelle labbra superbe rispondessero a un suo bacio, che quegli occhi intelligenti guardassero nei suoi con dolcezza, sì con dolcezza. La testa gli girava e per un attimo, finché la collera non si riaccendeva in lui, dimenticava tutto. Si accorgeva di pensare le cose più «vergognose» come se un demonio l'avesse provocato. A volte gli sembrava che anche la Odincòva fosse cambiata, che nell'espressione del suo viso ci fosse stata una strana trasformazione, che forse... ma in quei momenti Bazàrov pestava un piede in terra, o digrignava i denti o alzava il pugno in segno di minaccia contro se stesso.
Eppure Bazàrov non si sbagliava del tutto. Aveva colpito l'immaginazione dell'Odincòva, aveva risvegliato il suo interesse e adesso occupava i suoi pensieri. In sua assenza lei non si annoiava, non lo aspettava, ma al suo arrivo si animava; rimaneva volentieri sola con lui a chiacchierare, anche quando lui la irritava o offendeva i suoi gusti, le sue abitudini raffinate. Era come se volesse metterlo alla prova, e intanto capire se stessa.
Un giorno, passeggiando con lei in giardino, Bazàrov le aveva detto, all'improvviso e con aria cupa, che aveva intenzione di partire presto per andare da suo padre... Anna Sergèevna era impallidita, come se qualcosa l'avesse punta al cuore con una sensazione così acuta e stupefacente che in seguito per molto tempo si era interrogata sul suo significato. Bazàrov non le aveva detto che partiva per metterla alla prova, per vedere che cosa sarebbe successo: Bazàrov non fingeva mai. Quella mattina era stato da lui il fattore del padre Timofèiè, che un tempo lo aveva accudito. Il vecchietto gracile e svelto, con i capelli ingialliti, il viso rosso asciugato dal vento e tante piccole lacrime sotto le palpebre rugose, si era presentato inaspettatamente davanti a Bazàrov con una giubba di panno grigioazzurro legata in vita da un avanzo di cintura e con stivali incatramati.
«Ah, salve, vecchio!», aveva esclamato Bazàrov.
«Buon giorno, caro Evgènij Vasìl'iè», aveva risposto il vecchio, poi gli aveva sorriso, pieno di gioia, e tutta la faccia gli si era coperta di rughe.
«Perché sei qui? Ti hanno mandato a cercarmi, eh?».
«Per carità, caro, ci mancherebbe!», aveva balbettato Timofèiè, che si ricordava della severa proibizione del suo padrone. «Andavo in città per gli affari del padrone e ho sentito di sua grazia, così ho voltato, cioè per venire a vedere sua grazia... se no non avrei disturbato!».
«Via, non dire bugie», lo aveva interrotto Bazàrov, «non si fa questa strada per andare in città».
Timofèiè era rimasto un po' incerto e non aveva risposto niente.
«Mio padre sta bene?».
«Grazie a Dio».
«E mia madre?».
«Anche Arìna Vlàs'evna, grazie al Signore».
«E mi aspettano?».
Il vecchietto aveva piegato da un lato la sua testina.
«Come si può non aspettarla, Evgènij Vasìl'iè! Com'è vero Dio, ho gli spasimi al cuore quando guardo i suoi genitori».
«Va bene, va bene! Non esagerare. Di' che arriverò presto».
«Sissignore», aveva risposto con un sospiro Timofèiè.
Uscendo dalla casa si era calcato sulla testa il cappello con tutte e due le mani, era salito sul misero carrozzino da corsa che aveva lasciato all'ingresso e se n'era andato al trotto, per la strada opposta a quella che portava in città.
Quella sera la Odincòva era nella sua stanza con Bazàrov, mentre Arkàdij camminava su e giù in salotto, ascoltando Kàtja che suonava il pianoforte. La principessina se n'era andata di sopra in camera sua, non sopportava gli ospiti in generale e in particolare questi «nuovi giovani senza freno», come li definiva. Se nelle stanze di rappresentanza diventava di cattivo umore, nella sua camera, davanti alla sua cameriera, prorompeva in tali ingiurie che la cuffia e la parrucca le sobbalzavano sulla testa. La Odincòva lo sapeva bene.
«Perché ha deciso di partire?», cominciò Anna Sergèevna. «Ha dimenticato la sua promessa?».
Bazàrov trasalì.
«Quale?».
«L'ha dimenticata? Doveva darmi qualche lezione di chimica».
«Che cosa possa fare? Mio padre mi aspetta; non posso tardare troppo. Però lei può leggere Pélouse et Frémy, Notions générales de Chimie, è un buon libro, scritto in modo chiaro. C'è tutto quello che le serve».
«Ma non si ricorda di avermi detto che un libro non può sostituire... mi sono dimenticata le parole che aveva usato, ma lei lo sa... si ricorda?».
«Che cosa posso fare!», ripeté Bazàrov.
«Perché partire?», disse la Odincòva abbassando la voce.
Lui la guardò. Lei appoggiò la testa sullo schienale della poltrona e incrociò le braccia nude fino al gomito. Sembrava più pallida alla luce di quell'unica lampada, velata da una reticella di carta ritagliata. Il suo ampio vestito bianco la copriva tutta con le sue morbide pieghe; si vedevano solo le punte dei piedi, pure incrociati.
«E perché rimanere?», rispose Bazàrov.
La Odincòva voltò un po' la testa.
«Come, perché? Non si diverte qui da me? Oppure pensa che nessuno la rimpiangerà?».
«Di questo sono certo».
La Odincòva tacque.
«Si sbaglia», disse infine. «E poi non le credo. Non può averlo detto sul serio...».
Bazàrov era immobile.
«Evgènij Vasìl'iè perché non dice niente?».
«Che cosa devo dirle? Non vale la pena di rimpiangere nessuno e me ancor meno».
«Perché?».
«Sono una persona positiva, non interessante. Non so parlare».
«Lei sta cercando dei complimenti, Evgènij Vasìl'iè».
«Non è mia abitudine. Lei dovrebbe sapere che l'aspetto elegante della vita che le è tanto caro per me è incomprensibile».
La Odincòva mordicchiò l'angolo del fazzoletto.
«Pensi quel che vuole, ma mi annoierò quando partirà».
«Arkàdij resterà», osservò Bazàrov.
Lei si strinse nelle spalle.
«Mi annoierò», ripeté.
«Veramente? Ma non si annoierà per molto».
«Perché lo pensa?».
«Perché lei stessa mi ha detto che si annoia solo quando qualcosa spezza l'ordine perfetto della sua vita. È così impeccabile quest'organizzazione che non ci può essere posto per la noia né per la nostalgia... per nessun sentimento penoso».
«E lei trova che io sono impeccabile... cioè che io ho organizzato la mia vita in modo perfetto?».
«Certo! Ecco, per esempio, fra qualche minuto suonano le dieci e io so già in anticipo che lei mi scaccerà».
«No, non la scaccerò, Evgènij Vasìl'iè. Può rimanere. Apra quella finestra... mi sento un po' soffocare».
Bazàrov si alzò e spinse la finestra che si spalancò di colpo... Le sue mani tremavano e lui non si aspettava che si sarebbe aperta così facilmente. Una notte scura e dolce entrò nella stanza. Il cielo era quasi nero, gli alberi mormoravano, l'aria era pura e leggera, aveva un profumo fresco.
«Abbassi la tenda e si sieda», disse la Odincòva, «ho voglia di chiacchierare un po' prima delle sua partenza. Mi racconti qualcosa della sua vita, non parla mai di sé».
«Io cerco di discutere con lei di argomenti utili, Anna Sergèevna».
«Lei è molto modesto... Ma mi piacerebbe sapere qualcosa di lei, della sua famiglia, di suo padre. È a causa sua che ci sta per lasciare».
Perché dice queste cose?, pensava Bazàrov.
«Ma non c'è niente di interessante», disse a voce alta, «soprattutto per lei, noi siamo gente oscura...».
«E io, secondo lei, sono un'aristocratica?».
Bazàrov alzò gli occhi e la guardò.
«Sì», disse con un'asprezza eccessiva.
Lei rise.
«Mi accorgo che mi conosce poco, anche se lei afferma che tutte le persone si somigliano e che non vale la pena di studiarle una per ciascuna. Un giorno le racconterò la mia vita... ma prima lei mi racconterà la sua».
«Io la conosco poco», ripeté Bazàrov. «Forse ha ragione, ogni persona è un enigma. Lei, per esempio: evita la vita di società perché la annoia e invita a casa sua due studenti. Perché lei con la sua intelligenza, con la sua bellezza, vive in campagna?».
«Come? Come ha detto?», chiese con vivacità la Odincòva. «Con la mia bellezza?».
Bazàrov corrugò la fronte.
«È lo stesso», borbottò, «volevo dire che non riesco a capire perché si è trasferita in campagna».
«Non lo capisce... Ma se lo sarà spiegato in qualche modo...».
«Sì... penso che le piaccia stare sempre nello stesso posto perché è viziata, ama le comodità, gli agi e a tutto il resto è indifferente».
La Odincòva rise di nuovo.
«Decisamente lei non vuol credere che esista qualcosa da cui io mi lasci trascinare?».
Bazàrov la guardò senza alzare gli occhi.
«La curiosità, forse, ma nient'altro».
«Veramente? Adesso capisco perché andiamo d'accordo: lei è come me».
«Noi andiamo d'accordo...», ripeté Bazàrov con voce sorda.
«Sì! Ecco mi ero dimenticata che lei vuole partire».
Bazàrov si alzò. La lampada illuminava lievemente il centro della stanza buia, silenziosa e profumata; la tenda abbassata ogni tanto si gonfiava e lasciava entrare l'aria fresca e inquietante della notte con il suo misterioso sussurro.
La Odincòva era perfettamente immobile, ma si impadroniva a poco a poco di lei un'agitazione segreta che si comunicava a Bazàrov. Era solo con una donna giovane e bellissima. All'improvviso se ne rese conto.
«Dove va?», chiese piano lei. Bazàrov non rispose e si lasciò cadere sulla seggiola.
«E così mi considera imperturbabile e viziata», continuò lei con la stessa voce e senza distogliere gli occhi dalla finestra. «Io invece so di essere molto infelice».
«Infelice? Perché? non vorrà attribuire importanza a degli ignobili pettegolezzi».
Anna Sergèevna si oscurò, irritata all'idea che Bazàrov avesse frainteso le sue parole.
«Quei pettegolezzi non mi fanno nemmeno ridere, Evgènij Vasìl'eviè, e io sono troppo orgogliosa per lasciarmene turbare. Sono infelice perché... in me non c'è desiderio, voglia di vivere. Lei mi guarda e non mi crede, lei pensa che stia parlando una "aristocratica" tutta avvolta in pizzi e velluti. Io non lo nascondo: amo quelle che lei chiama comodità e, nello stesso tempo, ho poca voglia di vivere. Risolva questa contraddizione come può. Oppure se vuole può pensare che sia solo del romanticismo».
Bazàrov scosse la testa.
«È sana, indipendente, ricca. Che cosa vuole?».
«Che cosa voglio», ripeté la Odincòva e sospirò. «Sono molto stanca, vecchia, mi sembra di aver vissuto molto. Sì, sono vecchia», aggiunse, stendendo piano i lembi della mantiglia sulle braccia nude. Incontrò lo sguardo di Bazàrov e arrossì leggermente. «Ho alle spalle già tanti ricordi: Pietroburgo, la ricchezza, poi la povertà, la morte di mio padre, il matrimonio, un viaggio all'estero... Molti ricordi e niente da ricordare, davanti a me c'è una lunga strada e nessuna meta... E io non ho voglia di proseguire».
«È così delusa?», domandò Bazàrov.
«No», disse scandendo le parole Anna Sergèevna, «no, ma non sono soddisfatta. Forse se potessi legarmi con forza e qualcosa...».
«Lei vorrebbe amare», la interruppe Bazàrov «ma non può amare: ecco la ragione della sua infelicità».
La Odincòva abbassò gli occhi sul bordo della sua mantiglia.
«Allora io non posso amare?».
«Penso di no. Ma ho sbagliato a parlare di infelicità. È più degno di compassione, invece, chi incorre in quest'errore».
«Quale errore?».
«Amare».
«Come lo sa?».
«L'ho sentito dire», rispose Bazàrov con rabbia.
Sta civettando, pensava, si annoia e vuol divertirsi a stuzzicare me, ma io... Il suo cuore si spezzava. «E poi lei, forse, è troppo esigente», disse a voce alta, protendendosi tutto in avanti e giocando con la guarnizione della poltrona.
«Forse. O tutto, o niente, per me è così. La vita per la vita. Hai preso la mia, dammi la tua, senza rimpianti e senza ritorno. Se no, è meglio niente».
«E allora?», disse Bazàrov. «È una condizione giusta e mi meraviglio come fino ad ora non abbia trovato quel che desiderava».
«Perché, lei pensa che sia facile darsi completamente a qualcosa?».
«Non è facile se ci si mette a riflettere, ad aspettare, ad attribuire a se stessi un valore, cioè ad aver cari se stessi, ma se non si riflette, abbandonarsi è molto facile!».
«Come si può non aver cari se stessi? Se io non avessi alcun valore a chi servirebbe la mia dedizione?».
«È un problema che non deve riguardare me; è compito dell'altro valutare il mio valore. Quel che conta è sapersi dare con slancio».
La Odincòva si scostò dallo schienale della poltrona.
«Lei parla come se avesse sperimentato tutte queste cose».
«Le ho sentite dire, Anna Sergèevna: come lei sa non sono di mia competenza».
«Ma lei saprebbe abbandonarsi?».
«Non lo so, non voglio vantarmene».
Anna Sergèevna non disse niente e anche Bazàrov tacque. Le note del pianoforte arrivarono fino a loro dal salotto.
«Come mai Kàtja sta ancora suonando?», osservò Anna Sergèevna.
Bazàrov si alzò.
«Sì, adesso è proprio tardi, per lei è ora di riposare».
«Aspetti, dove corre... devo dirle ancora una parola».
«Quale?».
«Aspetti», sussurrò lei. I suoi occhi si fermarono su di lui come se lo volesse esaminare. Bazàrov fece qualche passo attraverso la stanza, poi le si avvicinò di scatto, le disse bruscamente: «Addio», stringendole con tanta forza la mano da farla quasi gridare e uscì subito. Anna Sergèevna si portò le dita indolenzite alle labbra, ci soffiò sopra e poi impulsivamente si alzò dalla poltrona e si diresse a passi veloci alla porta come per chiamarlo indietro... In quel momento entrava la cameriera portando una brocca su un vassoio d'argento. La Odincòva si arrestò e le ordinò di uscire, poi tornò a sedersi e a riflettere. Una treccia le si era sciolta e ricadeva sulla spalla come uno scuro serpente. Quella sera la lampada rimase ancora a lungo accesa nella sua stanza. Lei se ne stava immobile e solo ogni tanto si passava le dita sulle braccia nude che il freddo della notte feriva leggermente.
Invece Bazàrov due ore dopo tornò nella sua camera con gli stivali bagnati di rugiada, scarruffato e cupo. Trovò Arkàdij alla scrivania con un libro in mano e la giacca abbottonata fino al collo.
«Non sei ancora andato a dormire?», disse quasi con rabbia.
«Sei stato molto con Anna Sergèevna oggi», osservò Arkàdij senza rispondergli.
«Sì sono stato con lei tutto il tempo che tu e Katerìna Sergèevna avete suonato il pianoforte».
«Io non ho suonato...», cominciò Arkàdij, e poi tacque. Sentiva che le lacrime gli salivano agli occhi e non voleva scoppiare a piangere davanti al suo sprezzante amico.

XVIII

Il giorno seguente all'ora del tè quando comparve Anna Sergèevna, Bazàrov fissò a lungo la propria tazza, senza alzare gli occhi, poi la guardò all'improvviso... e lei si voltò verso di lui come se le avesse dato uno spintone. Bazàrov pensò che il suo viso si era fatto più pallido durante la notte. Lei tornò presto nella sua stanza e riapparve solo per la colazione. Fin dalla mattina il tempo era piovoso e non si poteva uscire. Tutti si riunirono in salotto. Arkàdij prese l'ultimo numero di una rivista e cominciò a leggere. La principessina, come sua abitudine, dapprima assunse un'espressione di stupore, come se Arkàdij avesse commesso una maleducazione, poi lo fissò con cattiveria; ma lui, non le badò.
«Evgènij Vasìl'eviè», disse Anna Sergèevna, «salga un momento da me... Vorrei chiederle... Ieri sera mi ha parlato di un manuale...». Si alzò e andò alla porta. La principessina assunse subito l'espressione di chi vuol dire: Guardate, guardate la mia meraviglia! E di nuovò fisso Arkàdij, lui si schiarì la voce, scambiò un'occhiata con Kàtja che gli sedeva vicino e riprese a leggere.
La Odincòva, a passi rapidi, arrivò al suo studio. Anche Bazàrov camminava in fretta e la seguiva senza alzare gli occhi, cogliendo solo il sottile fruscio dell'abito di seta che scivolava davanti a lui. La Odincòva si sedette sulla stessa poltrona della vigilia, e Bazàrov sulla stessa seggiola.
«Allora come si chiama questo libro?», chiese lei dopo un breve silenzio.
«Pélouse et Frémy, Notions générales...», rispose Bazàrov. «Ma potrei raccomandarle anche Ganot, Traité élémentaire de physique expérimentale. I disegni sono più precisi e nell'insieme è un manuale...».
Anna Sergèevna tese la mano.
«Evgènij Vasìl'iè, mi scusi, ma io l'ho chiamata qui non per ragionare di manuali. Io volevo riprendere la conversazione di ieri. Lei se n'è andato così all'improvviso... Non si annoierà?».
«Sono al suo servizio, Anna Sergèevna. Ma di che cosa parlavamo ieri?».
Lei gli lanciò un'occhiata di sbieco.
«Parlavamo, mi sembra, della felicità. Io le raccontavo di me, e avevo menzionato la parola "felicità". Mi dica perché, anche quando godiamo, per esempio, della musica, di una bella serata, di una conversazione con persone simpatiche, perché tutto sembra più un'allusione a una felicità smisurata che esiste altrove, che non la felicità vera alla nostra portata? Perché? Oppure lei non ha questa sensazione?».
«Conosce il proverbio: "Si sta bene dove non si è"?», disse Bazàrov. «E poi lei stessa ieri ha detto di non essere soddisfatta. A me questi pensieri non passano neanche per la mente».
«Forse le sembrano ridicoli?».
«No, ma non mi vengono in mente».
«Veramente? Sa che io desidererei molto sapere quel che lei pensa?».
«Sì? Non la capisco».
«Ascolti, da molto volevo spiegarmi con lei. È inutile che gielo dica, perché anche lei sa di essere una persona non comune. È giovane, ha tutta la vita davanti a sé. A che cosa si sta preparando? Che futuro l'aspetta? Voglio dire, che scopi vuole raggiungere, dove sta andando, che cosa c'è nella sua anima? Insomma chi è lei, che cosa è?».
«Lei mi stupisce, Anna Sergèevna. Sa che io studio scienze naturali, e che sono...».
«Si`, chi è lei?».
«Le ho già dichiarato che sono un futuro medico distrettuale».
Anna Sergèevna fece un gesto impaziente.
«Perché mi dice queste cose? Non ci crede neanche lei. Così avrebbe potuto rispondermi Arkàdij, non lei».
«Ma Arkàdij è forse...».
«Basta! Possibile che lei possa trovare soddisfazione in una attività così squallida? Non ha sempre affermato lei stesso che la medicina non esiste? Lei, con il suo amor proprio, medico distrettuale. Mi risponde così per liberarsi di me, perché non ha nessuna fiducia in me. Non sa, invece, che io potrei capirla. Anche io sono stata povera e orgogliosa, come lei; ho dovuto, forse, affrontare le stesse prove».
«Va benissimo, Anna Sergèevna, ma mi scusi... io non sono abituato a esprimere i miei pensieri, e tra me e lei c'è una distanza così grande...».
«Quale distanza? Mi sta di nuovo dicendo che sono un'aristocratica? Basta, Evgènij Vasìl'iè, mi sembra di averle dimostrato...».
«E poi», la interuppe Bazàrov, «come si può aver voglia di parlare o di pensare all'avvenire se per la maggior parte non dipende da noi? Se c'è la possibilità di fare qualcosa, benissimo, se non c'è almeno non se ne sarà chiacchierato inutilmente».
«Lei definisce chiacchiere inutili una conversazione amichevole... Oppure, forse, non ritiene che una donna sia degna della sua fiducia? Le disprezza tutte, forse».
«Io non la disprezzo Anna Sergèevna, e lei lo sa».
«No, non so niente... ma supponiamo: io capisco che lei non desideri parlare del futuro del suo lavoro, ma di quel che le sta accadendo adesso...».
«Accadendo!», ripeté Bazàrov, «come se io fossi uno stato, una specie di società! In ogni caso non c'è niente di interessante; e poi non è detto che una persona possa sempre esprimere ad alta voce tutto quello che le sta "accadendo"».
«Non capisco perché non si possa dire tutto quello che si ha nell'anima».
«Lei può?».
«Posso», rispose Anna Sergèevna dopo una piccola esitazione.
Bazàrov abbassò la testa.
«Lei è più fortunata di me».
Anna Sergèevna gli rivolse uno sguardo interrogativo.
«Come vuole», disse, «eppure qualcosa mi dice che non ci siamo incontrati invano. Sono sicura che questa sua, come la si può chiamare, tensione, questa riservatezza alla fine sparirà».
«Lei ha notato in me della riservatezza... e poi, come ha detto... della tensione?».
«Sì».
Bazàrov si alzò e andò alla finestra.
«E avrebbe voluto conoscere la causa di questa riservatezza, avrebbe voluto sapere che cosa sta accadendo dentro di me?».
«Sì», ripeté la Odincòva con uno sgomento per lei stessa incomprensibile.
«E non si arrabbierà?».
«No».
«No?», Bazàrov le volgeva le spalle. «Allora sappia che io l'amo, stupidamente, follemente... Ecco quello che ha ottenuto».
La Odincòva protese in avanti le braccia, Bazàrov premette la fronte contro il vetro della finestra. Soffocava, tutto il suo corpo tremava in modo evidente. Ma non era il fremito della timidezza giovanile, non era il dolce terrore della prima confessione che si era impossessato di lui, ma la passione, forte e opprimente, come la rabbia, forse affine alla rabbia... La Odincòva ne provò paura e compassione.
«Evgènij Vasìl'iè», disse, e una dolcezza involontaria risuonò nelle sue parole.
Lui si voltò di scatto, le gettò uno sguardo divorante, l'afferrò per le braccia e l'attirò a sé.
Anna Sergèevna non si liberò subito dal suo abbraccio, ma un attimo dopo era già lontana da lui e lo guardava. Bazàrov si lanciò verso di lei...
«Lei non mi ha capito», bisbigliava Anna Sergèevna, concitata e impaurita. Sembrava che se Bazàrov avesse fatto un altro passo, lei avrebbe lanciato un grido... Bazàrov si morse le labbra e uscì.
Mezz'ora più tardi la cameriera consegnò ad Anna Sergèevna un suo biglietto, che consisteva di una sola riga:
Devo partire oggi, o posso rimanere fino a domani?
Perché partire? Io non avevo capito lei e lei non ha capito me, gli rispose Anna Sergèevna mentre pensava: io non avevo capito nemmeno me stessa.
Non comparve fino all'ora di pranzo e continuò a camminare avanti e indietro nella sua stanza, con le mani dietro la schiena, fermandosi solo ogni tanto alla finestra o davanti allo specchio, e passandosi lentamente il fazzoletto sul collo, dove le sembrava di avere una macchia bruciante. Si domandava che cosa l'avesse spinta a cercare di «ottenere», come aveva detto Bazàrov, la sua sincerità, e se sospettava qualcosa anche prima. «La colpa è mia», disse a voce alta, «ma non potevo prevederlo». Restò soprappensiero e arrossì ricordando l'espressione quasi animalesca di Bazàrov quando si era lanciato verso di lei...
«Oppure?», disse a un tratto a voce alta, si fermò, scosse i riccioli. Si vide nello specchio; la sua testa gettata all'indietro, con un sorriso misterioso negli occhi, e sulle labbra socchiuse, sembrava dirle in quell'istante qualcosa che la turbò...
No, decise alla fine, Dio sa che cosa succederebbe, non si può scherzare, la tranquillità è la cosa più importante del mondo. La sua tranquillità non era stata sconvolta, ma lei era diventata triste e aveva anche pianto senza sapere perché, non per l'offesa subita, non si sentiva offesa, ma colpevole. Sotto l'influenza di confusi e diversi sentimenti, della consapevolezza della vita che se ne va e del desiderio di novità, era arrivata fino a un limite conosciuto, e quando si era imposta di guardare oltre quel limite aveva visto non l'abisso, ma il vuoto... o il mostruoso.

XIX

Per quanto la Odincòva sapesse controllarsi, per quanto fosse al disopra di ogni pregiudizio, tuttavia, quando scese in sala da pranzo, si sentì a disagio. Il pranzo, però, procedette abbastanza bene. Arrivò Porfìrij Platònyè e raccontò storielle e aneddoti che aveva sentito in città. Tra l'altro disse che il governatore, Bourdaloue, aveva ordinato ai funzionari addetti agli affari speciali di indossare gli speroni, nel caso avesse dovuto mandarli da qualche parte a cavallo. Arkàdij parlava a mezzavoce con Kàtja e diplomaticamente serviva la principessina. Bazàrov manteneva un tetro e ostinato silenzio. La Odincòva un paio di volte, apertamente e non di sfuggita, lo guardò in faccia. Lui aveva un'espressione severa e piena di amarezza, teneva gli occhi bassi e in ogni suo tratto c'era l'impronta di una volontà risoluta e orgogliosa. La Odincòva pensò: no... no... no. Dopo pranzo andarono tutti in giardino e, vedendo che Bazàrov voleva parlarle, Anna Sergèevna fece qualche passo in disparte e aspettò. Lui le si avvicinò, sempre senza alzare gli occhi, e le disse, con voce bassa e uniforme:
«Mi devo scusare, Anna Sergèevna, non può non essere adirata con me».
«No, non sono adirata, Evgènij Vasìl'iè, sono amareggiata».
«Ancora peggio. In ogni caso sono stato sufficientemente punito. La mia posizione, e in questo sarà d'accordo con me, è stupida. Lei mi ha scritto: perché partire? Ma io non posso né voglio restare. Domani non ci sarò».
«Evgènij Vasìl'iè, perché...».
«Perché parto?».
«No, non volevo dire questo».
«Il passato non torna indietro, Anna Sergèevna... e presto o tardi doveva succedere. Ecco perché devo partire. Esiste una sola condizione che mi farebbe rimanere, ma non ci sarà mai. Lei, scusi la mia insolenza, non mi ama e non mi amerà mai, non è vero?».
Gli occhi di Bazàrov scintillarono sotto le ciglia scure.
Anna Sergèevna non gli rispose. Ho paura di lui, pensò per un attimo.
«Addio», disse Bazàrov come se avesse indovinato il suo pensiero e tornò verso la casa.
Anna Sergèevna lo seguì lentamente, chiamò Kàtja, la prese sotto braccio e non si separò da lei fino a sera. Non giocò a carte e, in contrasto con il suo viso pallido e turbato, continuò a ridacchiare. Arkàdij non capiva e la osservava come fanno le persone molto giovani, cioè continuando a domandarsi quale fosse la possibile spiegazione di tutto. Bazàrov si era chiuso in camera, ma raggiunse gli altri per il tè. Anna Sergèevna avrebbe voluto dirgli una parola affettuosa, ma non sapeva come cominciare...
Un avvenimento la tolse dall'imbarazzo. Il maggiordomo annunciò l'arrivo di Sìtnikov.
È difficile descrivere la goffaggine da quaglia svolazzante con la quale il giovane progressista irruppe nella stanza. Aveva deciso, inopportuno come sempre, di andare a far visita a una signora che conosceva appena e che non lo aveva mai invitato, ma dalla quale, si era informato, erano ospiti persone intelligenti e a lui vicine. Si vergognava però fino al midollo e, invece di declamare le scuse e i saluti che si era preparato, borbottò l'ignominiosa stupidaggine che Evdòksija, la Kùkšina, lo aveva mandato a informarsi della salute di Anna Sergèevna e visto che Arkàdij Nikolàeviè gli aveva parlato di Anna Sergèevna tessendone le più alte lodi... Si ingarbugliò su queste ultime parole e si smarrì a tal punto che andò a sedersi sul suo cappello. Siccome tuttavia, nessuno lo scacciò e anzi Anna Sergèevna lo presentò alla zia e alla sorella, si rimise presto e cominciò a cicalare. L'apparizione della volgarità è spesso utile nella vita: smorza i toni troppo alti, modera i sentimenti di superbia e di umiltà, ricordando che alla volgarità sono entrambe affini. Con l'arrivo di Sìtnikov l'atmosfera diventò più opaca e più semplice, tutti cenarono più abbondantemente del solito e andarono a dormire mezz'ora prima.
«Adesso posso ripetere», disse, sdraiato sul letto, Arkàdij a Bazàrov, che si stava svestendo, «quello che mi hai detto tu una volta: "Perché sei così triste? Hai forse compiuto qualche sacro dovere?"».
I due giovani da qualche tempo si parlavano usando quel tono falsamente scherzoso che nasconde sempre insoddisfazione e sospetti reciproci.
«Domani vado da mio padre».
Arkàdij si alzò, appoggiandosi a un gomito. Si stupì e senza sapere perché si rallegrò.
«Ah», disse, «è per questo che sei triste?».
Bazàrov sbadigliò.
«Chi sa troppo, invecchia presto».
«E Anna Sergèevna?».
«Che cosa c'entra Anna Sergèevna?».
«Voglio dire: pensi che ti lascerà partire?».
«Non sono qui in servizio».
Arkàdij si soffermò a riflettere su quella risposta e Bazàrov si distese nel letto e girò la faccia verso il muro.
Dopo qualche minuto di silenzio, improvvisamente, Arkàdij esclamò:
«Evgènij!».
«Che cosa c'è?».
«Parto anch'io domani con te».
Bazàrov non disse niente.
«Ma io vado a casa», continuò Arkàdij. «Andiamo insieme fino alle cascine Chochlovski, lì tu puoi prendere dei cavalli da Fedòt. Verrei volentieri a conoscere i tuoi genitori ma ho paura di disturbarvi! Tu poi torni da noi, vero?».
«Ho lasciato a casa vostra la mia roba», disse Bazàrov senza voltarsi.
Come mai non mi chiede perché parto anch'io, improvvisamente come lui? pensava Arkàdij. Ma, in realtà, perché parto e perché parte lui? continuava a domandarsi, ma non trovava una risposta soddisfacente e il suo cuore si riempiva di rancore. Sentiva che gli dispiaceva allontanarsi da quella vita alla quale si era abituato così bene, ma restare lì da solo sarebbe sembrato strano. Qualcosa tra loro è successo, ragionava tra sé, perché dovrei impormi anche dopo la sua partenza? Finirei per annoiarla e perderei anche l'ultima possibilità. Pensò ad Anna Sergèevna, poi il contorno di un altro volto affiorò e si sovrappose ai bei tratti della giovane vedova.
«Mi dispiace anche per Kàtja!», bisbigliò nel cuscino già bagnato da una lacrima... Poi scosse la testa e disse a voce alta:
«Ma perché diavolo è venuto quell'idiota di Sìtnikov?».
Bazàrov prima si mosse nel letto e poi disse:
«Amico mio, tu sei ancora un ingenuo. Quelli come Sìtnikov a noi servono. A me, tienilo a mente, sono indispensabili questi imbecilli. Non sono gli dei che si devono sporcare le mani».
Ehi, ehi...! pensò tra sé Arkàdij. Per la prima volta davanti a lui si apriva l'abisso senza fondo dell'amor proprio di Bazàrov.
«Io e te, quindi, saremmo degli dei? Cioè tu sei un dio, e io, forse, sono l'imbecille?».
«Sì», rispose tetro Bazàrov, «tu sei ancora un ingenuo...».
Anna Sergèevna non manifestò un particolare stupore quando, il giorno seguente, Arkàdij le disse che sarebbe partito con Bazàrov; sembrava distratta e stanca. Kàtja lo guardò seria e silenziosa e la principessina fece il segno della croce sotto lo scialle ma in modo molto evidente; Sìtnikov, invece, si allarmò. Era appena sceso per la colazione con un vestito nuovo ed elegante, per l'occasione non da slavofilo; la sera prima aveva stupito il cameriere per la quantità di biancheria che aveva portato con sé, e adesso i suoi amici lo abbandonavano. Si agitò, corse di qua e di là, come una lepre inseguita ai margini del bosco, e improvvisamente, quasi spaventato, quasi gridando, annunciò che sarebbe partito anche lui. La Odincòva non lo trattenne.
«Ho un calesse molto sicuro», aggiunse l'infelice rivolto ad Arkàdij, «posso accompagnarla, e Evgènij Vasìl'iè può prendere la sua carrozza così starà più comodo».
«Ma per carità, la mia casa non è sulla sua strada e poi è lontana da qui».
«Non importa, non importa; ho molto tempo, e poi ho delle cose da fare da quelle parti».
«Per gli appalti?», domandò Arkàdij, anche troppo sprezzante.
Ma Sìtnikov era così disperato che, contrariamente al solito, non si mise nemmeno a ridere.
«Le assicuro, è un calesse estremamente sicuro», borbottò, «e ci sarà posto per tutti».
«Non rattristi monsieur Sìtnikov con un rifiuto», disse Anna Sergèevna.
Arkàdij le lanciò un'occhiata e chinò significativamente la testa.
Gli ospiti partirono dopo colazione. Nel salutare Bazàrov, la Odincòva gli tese la mano e disse:
«Ci vedremo ancora, vero?».
«Come desidera», rispose Bazàrov.
«Allora ci rivedremo».
Arkàdij uscì per primo sui gradini dell'ingresso e salì sul calesse di Sìtnikov. Il maggiordomo lo aiutò rispettosamente, mentre lui lo avrebbe volentieri ucciso oppure si sarebbe messo a piangere. Bazàrov si sedette nella carrozza. Quando arrivarono alle cascine Chochlovski, Arkàdij aspettò che Fedòt, il gestore dell'albergo di posta, avesse attaccato i cavalli, e avvicinandosi alla carrozza, con il sorriso di una volta, disse a Bazàrov:
«Evgènij, portami con te; voglio venire a casa tua».
«Siediti», disse tra i denti Bazàrov.
Sìtnikov che passeggiava, fischiettando spavaldamente intorno alla sua vettura, spalancò la bocca, sentendo queste parole; Arkàdij, indifferente, tolse le sue cose dal calesse e si sedette vicino a Bazàrov, poi inchinandosi cortesemente verso il suo precedente compagno di viaggio, gridò: «Via!».
La carrozza si mosse e presto scomparve... Sìtnikov ormai completamente disorientato guardò il cocchiere che però era occupato a stuzzicare con la frusta la coda del bilancino. Allora salì sul calesse, si infuriò contro due contadini che passavano: «Mettetevi il cappello, cretini!», e si trascinò fino in città dove arrivò molto tardi e dove, il giorno seguente, a casa della Kùkšina, coprì di aspri rimproveri «quei due presuntuosi, insopportabili maleducati».
Sedendosi in carrozza vicino a Bazàrov, Arkàdij gli strinse a lungo la mano senza dire niente. Forse Bazàrov capì e apprezzò sia quella stretta di mano sia quel silenzio. Non aveva dormito tutta la notte e non aveva fumato; da qualche giorno non mangiava quasi niente. Portava il berretto calcato sulla fronte, era dimagrito e il suo profilo spiccava tagliente e scuro.
«Allora, amico mio», disse alla fine, «dammi un sigaro... Senti, guarda, ho la lingua gialla?».
«Sì», rispose Arkàdij.
«Già... anche il sigaro non ha un buon sapore. L'ingranaggio è guasto».
«In effetti sei cambiato negli ultimi tempi», osservò Arkàdij.
«Pazienza. Guarirò. Mi dispiace solo per mia madre, che è così buona: se non ti fai venire la pancia e non mangi dieci volte al giorno, lei non è contenta. Mio padre no, lui è stato dappertutto. Ha esperienza del mondo. No, non posso fumare», aggiunse e gettò il sigaro nella polvere della strada.
«Ci sono venticinque verste da qui a casa tua?», domandò Arkàdij.
«Sì, ma chiedilo al vecchio saggio», e Bazàrov indicò il contadino che sedeva a cassetta, un lavorante di Fedòt.
Ma il vecchio saggio rispose che «chi lo sa: qui le verste non sono segnate» e continuò a insultare a mezza voce il cavallo di testa per il suo «tirar calci con la zucca», che significava dare strappi con la testa.
«Sì, sì», cominciò a dire Bazàrov, «che le sia di lezione, mio giovane amico! Un esempio istruttivo! È diabolico, assurdo! La vita dell'uomo è appesa a un filo con sotto una voragine che si può spalancare in ogni istante, e, nonostante tutto, è l'uomo che si procura da solo ogni sorta di dispiaceri, che si rovina con le proprie mani».
«A che cosa alludi?», domandò Arkàdij.
«Non alludo a niente, ti dico solo che noi due ci siamo comportati in un modo molto stupido. È indiscutibile. Ma io l'ho già osservato in clinica medica: chi si arrabbia contro il proprio dolore, immancabilmente lo vince».
«Non sono sicuro di aver capito», disse Arkàdij, «a me sembra che tu non abbia niente di cui lamentarti».
«Se non sei sicuro di aver capito, allora, ascoltami: per me è meglio spaccare le pietre per il selciato che permettere a una donna di dominare anche solo la punta del mio dito. Tutto il resto è...», Bazàrov stava per pronunciare la sua parola preferita, «romanticismo», ma si trattenne e disse: «È assurdo. Tu non mi crederai, io e te siamo capitati in un ambiente femminile e siamo stati bene; ma abbandonare quella vita è stato come una doccia fredda in un giorno afoso. Un uomo non deve mai occuparsi di queste sciocchezze; un uomo deve essere feroce, dice un ottimo proverbio spagnolo. Ecco tu», aggiunse rivolgendosi al contadino a cassetta, «tu, vecchio sapiente, ce l'hai la moglie?».
Il contadino mostrò il suo volto piatto, dallo sguardo miope.
«La moglie? Ce l'ho. Non si può non averla».
«La bastoni?».
«Mia moglie? Capita. Senza ragione, però, non la bastono».
«Molto bene. E lei ti bastona?».
Il contadino tirò le redini.
«Che cosa dici signore? Hai sempre voglia di scherzare...», si era offeso.
«Ascolta, Arkàdij Nikolàeviè! Io e te, invece, siamo stati bastonati... ecco cosa significa l'istruzione».
Arkàdij rise forzatamente, Bazàrov si voltò e per tutta la strada non aprì la bocca.
Venticinque verste sembrarono ad Arkàdij cinquanta. Ma finalmente, sul fianco digradante di una collina, apparve il piccolo villaggio dei genitori di Bazàrov. Vicino al villaggio, in un boschetto di giovani betulle, si vedeva una piccola casa padronale con il tetto di paglia. Davanti alla prima isbà, sulla strada, erano fermi due contadini con il cappello che litigavano e si insultavano. «Sei un grosso porco», urlava uno, «ma sei peggio di un porcellino!». «E tua moglie è una strega!», rispondeva l'altro.
«Vedendo questa spontaneità», fece notare Bazàrov ad Arkàdij, «questa vivacità di modi, ti puoi rendere conto che i contadini di mio padre non sono molto oppressi. Ma eccolo sulla scala di casa. Ha sentito il campanello della carrozza, forse. È lui, è lui, riconosco la sua figura. Eh, com'è invecchiato, poverino!».

XX

Bazàrov si sporse dalla carrozza e Arkàdij, sbucando con la testa dietro le sue spalle, vide sulla scala della casa padronale un uomo alto e magro, con i capelli arruffati e un sottile naso aquilino, che indossava un vecchio soprabito militare sbottonato. Stava in piedi, a gambe larghe, e fumava la pipa, con gli occhi socchiusi per difenderli dal sole.
I cavalli si fermarono.
«Oh, eccoti a casa, finalmente!», esclamò il padre di Bazàrov, seguitando a fumare benché la pipa gli tremasse tra le dita. «Scendi, che possiamo abbracciarci!».
Abbracciò il figlio mentre dall'interno della casa una voce di donna, palpitante di emozione, chiamava: «Enjùša, Enjùša...», la porta si aprì e sulla soglia comparve una vecchietta grassoccia e bassa di statura con una cuffia bianca in testa e una corta giacchettina variopinta. Gettò un grido, vacillò e sarebbe certamente caduta se Bazàrov non l'avesse sostenuta. Lei gli gettò al collo le braccia grassocce, gli posò la testa sul petto e per qualche istante si sentirono solo i suoi singhiozzi.
Il vecchio Bazàrov respirava rumorosamente e socchiudeva gli occhi più di prima.
«Basta, suvvia, basta, Arìša», disse con uno sguardo ad Arkàdij che era rimasto vicino alla carrozza mentre il contadino a cassetta aveva addirittura voltato la testa da un'altra parte, «non fare così, finiscila».
«Ah, Vasìlij Ivànoviè», balbettò la vecchietta, «non lo sai da quanto tempo il mio caro, il mio colombello, il mio Enjùšen'ka», e, senza sciogliere la stretta del suo abbraccio, allontanò da Bazàrov il viso madido di lacrime, turbato e felice, per guardarlo beata e poi tornò a posare la testa sul suo petto.
«Certo, questo fa parte della natura delle cose», rispose Vasìlij Ivànoviè, «ma ora rientriamo in casa. Hai visto, Evgènij ha un ospite. Le chiedo scusa», aggiunse, rivolto ad Arkàdij e batté leggermente i tacchi, «lei capisce, è la debolezza femminile e poi, il cuore di una madre...».
Intanto anche lui corrugava le sopracciglia, gli tremavano le labbra, il mento... ma era evidente che cercava di dominarsi e di sembrare perfettamente tranquillo. Arkàdij rispose con un inchino cortese.
«Andiamo ora», disse Bazàrov, sospingendo in casa sua madre, che pareva non riuscisse nemmeno più a reggersi in piedi. Dopo averla fatta sedere su una poltrona, abbracciò un'altra volta suo padre e gli presentò Arkàdij.
«Sono veramente felice di conoscerla», disse Vasìlij Ivànoviè, «ma lei dovrà adattarsi, la mia casa non ha molte comodità, è un po' una casa da vecchio militare... Arìna Vlàs'evna, ti prego, mettiti tranquilla. Che cosa sono queste debolezze? Che penserà di te il nostro signor ospite?».
«Bàtjuška», disse Arìna Vlàs'evna ancora tra le lacrime, «non ho l'onore di sapere il suo nome».
«Arkàdij Nikolàeviè», le suggerì sottovoce ma non senza enfasi Vasìlij Ivànoviè.
«Mi scusi se mi comporto come una sciocca». Arìna Vlàs'evna si soffiò il naso e, inclinando la testa ora a destra ora a sinistra, si asciugò prima un occhio e poi l'altro, «mi scusi, ma pensavo proprio che sarei morta senza rivedere il mio colombello...».
«E invece eccolo qui, mia signora», esclamò Vasìlij Ivànoviè. «Tanjuška», aggiunse, rivolto a una ragazzina sui tredici anni, scalza, con un vestitino di cotone rosso, che guardava spaurita da dietro l'uscio, «porta alla padrona un bicchiere d'acqua, sul vassoio, mi raccomando! E loro signori», proseguì, con il suo modo gioviale un po' antiquato, «mi concedano l'onore di passare nello studio del veterano in congedo».
«Lasciati abbracciare un momento ancora, Enjùšen'ka», supplicò Arìna Vlàs'evna. Bazàrov si chinò verso di lei. «Come ti sei fatto bello!».
«Bello forse no», osservò Vasìlij Ivànoviè, «ma si è fatto uomo, ommfè, come si suol dire. E ora, Arìna Vlàs'evna, dopo aver saziato il tuo cuore di madre spero che sazierai anche i tuoi ospiti, perché, come dice il proverbio, gli usignoli non si nutrono con le favole».
Arìna Vlàs'evna si alzò dalla poltrona.
«Farò apparecchiare subito la tavola, Vasìlij Ivànoviè, andrò in cucina e farò accendere il samovar, preparerò tutto, tutto. Erano tre anni che non lo vedevo, che non gli davo né da mangiare né da bere, credi che sia stato facile?».
«Però stai attenta, padroncina, a far del tuo meglio, per non sfigurare. Prego, signori, da questa parte. Oh, ecco che è venuto anche Timofèiè a salutarti, Evgènij. Anche lui è contento che tu sia tornato, quel vecchio brontolone. È vero che sei contento, vecchio brontolone? Prego, seguitemi».
E Vasìlij Ivànoviè, tutto affaccendato, si avviò per primo, strascicando le pantofole logore.
La casetta consisteva in sei piccole camere, una delle quali, quella appunto dove erano stati condotti gli ospiti, veniva chiamata lo studio. Un tavolo con le gambe massicce, ingombro di carte così annerite dalla polvere da sembrare affumicate, occupava tutto lo spazio tra le due finestre; alle pareti erano appesi fucili turchi, staffili cosacchi, una sciabola, due carte geografiche, alcune tavole di anatomia umana, il ritratto di Hufeland, un'iniziale fatta con i capelli e racchiusa in una cornicetta nera, e un diploma; tra due enormi armadi di betulla della Carelia c'era un divano di cuoio sdrucito e con le molle rotte; le mensole ingombre di libri, scatole, uccelli imbalsamati, barattoli, provette; in un angolo c'era anche una macchina elettrica rotta.
«L'avevo avvertita, mio gentile ospite», disse Vasìlij Ivànoviè ad Arkàdij, «che noi viviamo qui... accampati...».
«Perché seguiti a scusarti», lo interruppe Bazàrov. «Kirsànov sa benissimo che non siamo dei Cresi e che la tua casa non è un palazzo. Dove lo ospiteremo, piuttosto? Ecco la questione da risolvere».
«Ho una bella stanzetta nella casetta nuova qui a lato; il tuo amico ci si troverà bene».
«Come, c'è una casetta nuova?».
«Quella del bagno, rispose subito Timofèiè».
«Cioè vicino al bagno», lo corresse Vasìlij Ivànoviè, «ora è estate... Vado subito di là a dare ordine di preparare. Tu intanto, Timofèiè, dovresti portare le loro valigie... A te, Evgènij, cedo volentieri il mio studio. Suum cuique».
«Hai visto che vecchietto divertente?», disse Bazàrov ad Arkàdij. «È un originale, come tuo padre, però in un modo diverso, e anche buono, peccato che chiacchieri troppo».
«Anche tua madre mi è sembrata molto buona».
«Sì, mia madre è un'innocente. E ci preparerà anche un buon pranzo».
«Oggi non l'aspettavamo, signore, e non abbiamo mandato a prendere il manzo in città», disse Timofèiè, che era tornato con la valigia di Bazàrov.
«Faremo a meno della carne, visto che non c'è. La povertà non è un vizio, dice il proverbio».
«Quante anime possiede tuo padre?», chiese improvvisamente Arkàdij.
«La tenuta non è sua, è di mia madre. Ci sono, credo, quindici anime».
«In tutto sono ventidue», intervenne, offeso, Timofèiè. Si sentì lo scalpiccio delle vecchie pantofole e ricomparve Vasìlij Ivànoviè.
«Tra pochi minuti la sua camera sarà pronta ad accoglierla, Arkàdij Nikolàeviè», disse solennemente. «Ho inteso bene il suo nome, vero? Ed ecco qui il suo servitore», aggiunse indicando un ragazzo con i capelli rasati e un caffetano azzurro consumato sui gomiti, e un paio di stivali che certamente non erano suoi. «Si chiama Fèd'ka. Le ripeto, anche se mio figlio me l'ha proibito, che si dovrà adattare. Fèd'ka almeno sa riempire una pipa. Lei fuma, vero?».
«Fumo quasi sempre sigari».
«E fa bene. Anch'io preferisco i sigari, ma in questi villaggi isolati è difficile procurarseli».
«Finiscila con queste litanie», intervenne Bazàrov, «e vieni invece a sederti sul divano. Voglio guardarti».
Vasìlij Ivànoviè si mise a ridere e andò a sedersi sul divano. Assomigliava molto a suo figlio, aveva solo la fronte più bassa e più stretta e la bocca un po' più grande, si agitava in continuazione, alzava e abbassava le spalle come se la giacca lo stringesse sotto le braccia, socchiudeva gli occhi, tossiva e muoveva le dita, mentre una caratteristica di Bazàrov era una indifferente immobilità.
«Litanie... litanie...», ripeté Vasìlij Ivànoviè. «Non devi credere Evgènij che io voglia suscitare la compassione dell'ospite se gli faccio osservare che viviamo in un luogo solitario. Al contrario, secondo me la solitudine non esiste per un uomo che sa pensare. E io cerco di pensare per non ammuffire, per non restare indietro con i tempi».
Vasìlij Ivànoviè si tolse di tasca un fazzoletto nuovo di seta gialla che aveva preso in fretta quando era andato a far preparare la camera per Arkàdij e, sventolandolo in aria, proseguì:
«Non mi riferisco alla mia iniziativa di mettere i contadini a tributo, che mi è costata un considerevole sacrificio, e a quella di dargli la terra a mezzadria. Mi è parsa un'azione doverosa e in un certo senso anche ragionevole, per quanto altri possidenti non ci pensino neppure; no, io mi riferisco alle scienze e all'istruzione».
«Infatti vedo qui L'amico della salute del 1855», osservò Bazàrov.
«Me lo manda un mio vecchio collega, per amicizia», disse in fretta Vasìlij Ivànoviè. «Ma noi, per esempio, abbiamo qualche nozione di frenologia», disse, rivolto soprattutto ad Arkàdij e gli indicò una piccola testa di gesso divisa in quadretti numerati, che era sull'armadio, «conosciamo Schoenlein e Rademacher...».
«Si crede ancora alle teorie di Rademacher nel governatorato di ***?», chiese Bazàrov. Vasìlij Ivànoviè tossì.
«Nel governatorato... Certo, lo saprete meglio di me, è impossibile qui stare al passo con voi. È naturale, siete venuti a darci il cambio. Anche ai miei tempi ci pareva ridicolo il medico Hoffmann con la sua "dottrina umorale" e il dottor Brawn con il suo "vitalismo", eppure, un tempo, le loro teorie avevano riscosso molti consensi. Ora ci sarà qualcun altro invece di Rademacher e voi vi inchinerete davanti a lui, ma fra vent'anni si riderà anche di lui».
«Consolati», disse Bazàrov «noi ora ridiamo della medicina in generale e non ci inchiniamo davanti a nessuno».
«Parli sul serio? Ma non volevi fare il medico?».
«Lo voglio ancora. Una cosa non esclude l'altra».
Vasìlij Ivànoviè scosse la pipa nella quale c'era ancora un po' di cenere calda.
«Va bene, non insisto. Del resto chi sono io? Un medico militare a riposo, vualatù; e adesso mi sono trasformato in agronomo. Ho prestato servizio nella brigata di suo nonno», proseguì Vasìlij Ivànoviè rivolgendosi ad Arkàdij, «eh, ne ho viste di cose in vita mia! E quanta gente ho conosciuto e frequentato! Pensi che io, così come mi vede qui davanti a lei, ho tastato il polso al principe Wittgenstein e al poeta Žukòvskij. E anche quelli là, quelli dell'armata del sud, del 14 dicembre» (Vasìlij Ivànoviè strinse significativamente le labbra), «li conoscevo molto bene, uno per uno! Ma che vuole, il mio era un compito secondario, dovevo occuparmi del mio bisturi e nient'altro. Suo nonno, invece, era un vero militare, persona degna di grande rispetto...».
«Perché non dici che era una zucca vuota?», intervenne con aria pigra Bazàrov.
«Ma come ti esprimi, Evgènij? Ti prego... Certo il generale Kirsànov non apparteneva...».
«Lasciamolo perdere», l'interruppe Bazàrov. «Arrivando ho visto che il tuo boschetto di betulle è cresciuto...».
Vasìlij Ivànoviè si rallegrò tutto: «Va' ad ammirare il mio giardinetto! Tutti gli alberi sono stati piantati da me. Abbiamo frutta, bacche, ed erbe medicinali di ogni tipo. Amici miei, qui non si sfugge, il vecchio Paracelso ha detto una grande verità: in herbis, verbis et lapidibus... Io, tu Evgènij lo sai, non esercito più la professione, ma almeno due volte alla settimana mi capita di tornare ai bei tempi passati. Vengono per un consiglio e non si può cacciarli. I poveri hanno bisogno di aiuto e qui non c'è nemmeno un medico. Siamo al punto che un nostro vicino, maggiore a riposo, si è messo a curare i malati. Gli ho chiesto se avesse studiato medicina e mi ha risposto che no, non l'ha studiata, ma la pratica per filantropia...! Capite, per filantropia! Ah, questa è bella, sì!».
«Fèd'ka, riempimi la pipa!», ordinò con durezza Bazàrov.
«Perché da noi, spesso, il medico arriva dal malato», proseguì Vasìlij Ivànoviè, quasi non riuscisse più a smettere di parlare, «e scopre che è già ad patres; il servitore allora non lo lascia entrare perché dice che di lui ormai non c'è più bisogno. Il medico ci resta male, non sa che fare e chiede: aveva il singhiozzo il tuo padrone, prima di morire? Sì, signore. Forte? Sì, forte. Buon segno, dice il dottore e se ne torna a casa. Ah, ah, ah!», Vasìlij Ivànoviè rise da solo, Arkàdij sorrise appena, ma Bazàrov si limitò a seguitare a fumare.
La conversazione proseguì allo stesso modo per quasi un'ora. Arkàdij ebbe appena il tempo di vedere la camera che gli era stata destinata e che, in realtà, era uno spogliatoio adiacente al bagno, ma appariva subito pulita e accogliente, e quando tornò venne Tanjuša ad annunciare che il pranzo era pronto.
Vasìlij Ivànoviè si alzò per primo.
«Andiamo. Chiedo scusa se vi ho annoiati, chissà se mia moglie saprà contentarvi meglio di quanto non abbia fatto io».
Il pranzo, anche se preparato in fretta, era ottimo, solo il vino lasciava un poco a desiderare; era un Xères molto scuro che Timofèiè aveva comperato in città da un mercante suo amico e sapeva di rame o di resina. Purtroppo c'erano anche molte mosche, che davano fastidio. Di solito un ragazzetto che faceva parte della servitù, era incaricato di scacciarle con un ramoscello verde, ma Vasìlij Ivànoviè l'aveva mandato via perché temeva di essere disapprovato dalla giovane generazione. Arìna Vlàs'evna aveva fatto in tempo a cambiarsi e ora portava una cuffia alta con i nastri di seta e uno scialle azzurro damascato. Non appena rivide il suo Enjùša ricominciò a piangere, ma questa volta non ci fu bisogno di esortarla a smettere perché si asciugò subito le lacrime quando si accorse che le bagnavano lo scialle. Si misero a tavola solo i due giovani, perché i padroni di casa avevano già pranzato prima del loro arrivo. Li serviva Fèd'ka, impacciato dagli stivali e aiutato da una donna cieca da un occhio e con un viso duro, maschile, di nome Anfìsuška, che aveva mansioni da governante, lavandaia e guardiana di polli. Vasìlij Ivànoviè passeggiò in su e in giù durante tutto il pranzo, parlando con aria felice, addirittura beata, delle gravi apprensioni che gli procurava la politica napoleonica e la complicata situazione italiana. Arìna Vlàs'evna non si accorgeva neppure della presenza di Arkàdij, non gli offriva niente, teneva appoggiato sulla manina stretta a pugno il viso rotondo al quale le labbra piccole, rosse e sporgenti, e i nei sulle guance e sulla fronte davano un'espressione amabile, e non distoglieva lo sguardo dal figlio, sospirava, e si struggeva dalla voglia di sapere per quanto tempo sarebbe rimasto a casa; ma non aveva il coraggio di chiederglielo. Se mi dicesse: per due giorni? pensava e si sentiva gelare il cuore.
Dopo l'arrosto, Vasìlij Ivànoviè si allontanò per un momento e tornò con una bottiglia di spumante già sturata. «Ecco», esclamò, «anche se viviamo fuori dal mondo, abbiamo quello che serve a stare allegri nelle grandi occasioni!», e riempì tre coppe e un bicchierino. Poi brindò alla salute degli «impareggiabili ospiti», vuotò la sua coppa d'un fiato come fanno i militari e costrinse Arìna Vlàs'evna a bere il suo bicchierino fino all'ultima goccia. Quando arrivarono in tavola le gelatine di frutta, Arkàdij, che non poteva sopportare nulla di dolce, ritenne suo dovere assaggiarle tutte e quattro, anche perché Bazàrov le aveva rifiutate e aveva subito acceso il sigaro. Poi vennero serviti il tè con la panna, il burro e le ciambelle, e infine Vasìlij Ivànoviè invitò tutti a uscire in giardino per ammirare la bellezza della sera.
Nel passare davanti a una panchina, disse ad Arkàdij, a bassa voce: «Mi piace sedermi qui a filosofare, guardando il tramonto, come si conviene a chi conduce una vita solitaria. Laggiù ho piantato gli alberi cari a Orazio».
Bazàrov lo sentì e chiese: «Che alberi sono?».
«Ma come? Le acacie».
Bazàrov cominciò a sbadigliare.
«Credo che sia venuto il momento per i viaggiatori di cedere all'abbraccio di Morfeo», osservò Vasìlij Ivànoviè.
«E cioè è ora di andare a dormire», disse Bazàrov. «Giustissimo». Salutò sua madre e la baciò sulla fronte. Lei lo abbracciò e, di nascosto, lo benedisse per tre volte. Vasìlij Ivànoviè accompagnò Arkàdij in camera sua e gli augurò «un riposo benefico pari a quelli di cui godevo anch'io alla sua felice età». E Arkàdij dormì davvero molto bene nello spogliatoio: c'era un profumo di menta, e due grilli che, dietro la stufa, cantavano a gara, gli conciliarono il sonno. Quando Vasìlij Ivànoviè ebbe lasciato Arkàdij, andò nello studio e, seduto sul divano, ai piedi del figlio, si dispose a chiacchierare un po' con lui, ma Bazàrov gli disse che aveva sonno e lo mandò via subito. Non riuscì ad addormentarsi fino al mattino, invece. Teneva gli occhi fissi nel buio, quasi con rabbia; i ricordi dell'infanzia non avevano presa su di lui e non riusciva a liberarsi delle sensazioni amare degli ultimi giorni.
Arìna Vlàs'evna prima sfogò la piena del cuore nella preghiera, poi parlò a lungo con Anfìsuška che, ferma davanti a lei, la fissava col suo unico occhio, e in un misterioso mormorio le comunicava tutte le osservazioni che aveva fatte su Evgènij Vasìl'eviè. La gioia, il vino, il fumo dei sigari avevano fatto girare la testa ad Arìna Vlàs'evna e quando Vasìlij Ivànoviè la raggiunse e cercò di parlarle non ci riuscì.
Arìna Vlàs'evna era una vera donna dell'aristocrazia russa di un tempo, avrebbe dovuto vivere duecento anni prima, all'epoca moscovita. Era religiosa e con una sensibilità a fior di pelle, credeva a qualsiasi coincidenza, presagio, stregoneria, sogno premonitore; credeva, come vuole la tradizione russa, alle profezie dei poveri e dei dementi che bussavano alla sua porta per mendicare; credeva nei geni domestici, in quelli dei boschi, negli incontri funesti, nelle medicine dei contadini, nel sale versato di giovedì, nella prossima fine del mondo; credeva che se la domenica di Pasqua non si spegne neanche un cero durante i vespri è segno che il grano saraceno crescerà bene, e che i funghi non crescono più se sono stati sfiorati da uno sguardo umano; credeva che al diavolo piacesse stare vicino all'acqua, e che gli ebrei avessero tutti una macchiolina di sangue sul petto; aveva paura dei topi, dei serpenti, delle rane, dei passeri, delle sanguisughe, del temporale, dell'acqua fredda, delle correnti d'aria, dei cavalli, dei caproni, delle persone coi capelli rossi, dei gatti neri e considerava animali immondi i grilli e i cani; si rifiutava di mangiare vitello, piccione, gamberi, formaggio, asparagi, pere coltivate, lepre, cocomero, perché un cocomero tagliato ricorda la testa di Giovanni Battista, e non parlava delle ostriche se non con vivo raccapriccio; le piaceva mangiare, ma osservava rigorosamente il digiuno; dormiva dieci ore per notte, ma se solo Vasìlij Ivànoviè aveva mal di testa non si coricava nemmeno; non aveva letto nemmeno un libro, tranne Alexis o la capanna nel bosco; scriveva non più di due lettere all'anno; era una donna di casa molto competente, sapeva come si seccano i funghi e come si cuoce la frutta per fare la marmellata, anche se non faceva niente con le proprie mani e si muoveva malvolentieri. Arìna Vlàs'evna era molto buona e, a suo modo, tutt'altro che stupida. Sapeva che al mondo ci sono i signori che devono comandare e i poveri che devono obbedire e quindi accettava con semplicità la deferenza servile e gli inchini fino a terra, però trattava con dolcezza e bontà i propri dipendenti e non lasciava mai andar via un mendicante senza avergli fatto l'elemosina e non giudicava mai severamente nessuno, anche se qualche volta era un po' pettegola. Da giovane era stata molto graziosa, suonava il clavicembalo, sapeva un po' di francese, ma durante gli anni dei continui spostamenti fatti controvoglia con il marito era ingrassata e aveva dimenticato sia la musica sia il francese. Amava e temeva suo figlio più di quanto si possa immaginare; aveva lasciato l'amministrazione della tenuta a Vasìlij Ivànoviè e non se ne interessava più; sospirava spesso, si faceva aria col fazzoletto e appena suo marito cominciava a parlarle delle imminenti riforme e dei propri progetti sollevava le sopracciglia sempre più su per fargli capire quanto la spaventassero quei discorsi. Era ansiosa, temeva sempre qualche sventura e le bastava pensare a qualcosa di triste per scoppiare in lacrime. Apparteneva a un tipo di donna che va scomparendo, e Dio solo sa se sia il caso di rallegrarsene!

XXI

Arkàdij si alzò dal letto, aprì la finestra e la prima cosa che si presentò al suo sguardo fu Vasìlij Ivànoviè che, con una vestaglia di Buchara stretta in vita da un fazzoletto da naso, vangava l'orto di buona lena.
Nel vedere il suo giovane ospite, si appoggiò al badile, ed esclamò:
«Buongiorno! Ha dormito bene?».
«Magnificamente!», rispose Arkàdij.
«E io, come un cincinnato, sto preparando i solchi per le rape d'autunno. Ora che i tempi sono cambiati, grazie a Dio, ciascuno deve procurarsi il cibo con le proprie mani, non ci si può affidare all'aiuto degli altri, bisogna far tutto da sé. Ha ragione Jean-Jacques Rousseau. Mezz'ora fa, caro signore, lei mi avrebbe trovato intento a un'occupazione ben diversa. Una donna si lamentava di avere la sciolta, come dicono loro, o la dissenteria, come diciamo noi, e io, non so trovare altro modo di esprimermi, le ho immesso dell'oppio. A un'altra ho strappato un dente. Le avevo proposto di anestetizzarla con l'etere, ma non ha voluto. Faccio tutto gratis. En amateur. Ma che cosa c'è di straordinario, sono un plebeo, un homo novus, non appartengo, come la mia fedele sposa, a una famiglia di antica nobiltà... Ma perché non viene a sedersi qui, all'ombra, per godere l'aria fresca del mattino, prima del tè?».
Arkàdij uscì e lo raggiunse.
«Di nuovo bene alzato!», esclamò Vasìlij Ivànoviè e fece il saluto militare, portandosi la mano al berretto da notte tutto unto. «So che lei è abituato al lusso, alle comodità, ma anche le persone importanti, a questo mondo, amano passare un po' di tempo sotto il tetto di una capanna».
«Per carità», protestò Arkàdij, «io non sono una persona importante e poi non sono abituato al lusso!».
«Eh no, mi scusi!», obiettò con un gesto gentile Vasìlij Ivànoviè, «anche se ora me ne sto in disparte, anch'io ho frequentato il mondo e per riconoscere un uccello mi basta vedere come vola. A modo mio son un po' psicologo, e anche fisionomista. Se non avessi avuto questo che oso chiamare un dono, sarei finito da un pezzo; mi sarei lasciato abbattere da poveruomo quale sono. Le dico francamente che l'amicizia che ho notato tra lei e mio figlio mi fa molto piacere. L'ho visto poco fa, s'è alzato presto, come fa di solito e come lei probabilmente saprà, ed è corso a visitare le terre qui intorno. Mi scusi se glielo chiedo, ma è da molto tempo che conosce il mio Evgènij?».
«Da quest'inverno».
«Ah, da quest'inverno. E mi permetta ancora... Ma perché non ci sediamo? Mi permetta ancora di chiederle, come padre, in tutta semplicità: qual è il suo giudizio sul mio Evgènij?».
«Suo figlio è una delle persone più straordinarie che abbia mai conosciuto», rispose Arkàdij con vivacità.
Gli occhi di Vasìlij Ivànoviè parvero farsi più grandi e le guance gli si colorirono leggermente. Il badile gli cadde di mano.
«Lei allora pensa che...».
«Io sono sicuro», l'interruppe Arkàdij, «che suo figlio avrà un grande avvenire e darà gloria al vostro nome. Me ne sono reso conto da quando l'ho visto la prima volta».
«E come... e com'è avvenuto?», chiese a bassa voce Vasìlij Ivànoviè e un sorriso estatico apparve sul suo viso e non l'abbandonò più per tutta la conversazione.
«Vuol sapere come ci siamo conosciuti?».
«Sì... e, in generale...».
Arkàdij cominciò a raccontare e parlò di Bazàrov con ancora più calore ed entusiasmo della sera in cui aveva ballato la mazurca con la Odincòva.
Vasìlij Ivànoviè ascoltava, ascoltava, si soffiava il naso, appallottolava il fazzoletto tra le mani, tossiva, si arruffava i capelli e infine non si trattenne più, si chinò verso Arkàdij e gli baciò una spalla.
«Lei mi ha reso totalmente felice», disse, senza smettere di sorridere, «le confesso che io... adoro mio figlio, e non parliamo della mia vecchia, si sa, è una madre! Ma non oso esprimere i miei sentimenti davanti a lui perché so che non gli farebbe piacere. È avverso a tutte le manifestazioni d'affetto; molti lo giudicano male per questo rigore che attribuiscono a un eccesso di orgoglio e di freddezza, ma alle persone come lui non si possono applicare i criteri di giudizio delle persone comuni, non è vero? Le faccio un esempio: un altro al suo posto avrebbe chiesto spesso danaro ai genitori, lui invece no, non ha mai preteso una copeca in più del necessario, lo giuro!».
«È onesto, disinteressato», disse Arkàdij.
«Ecco, sì: disinteressato. E io non soltanto l'adoro, Arkàdij Nikolàeviè, ma sono orgoglioso di lui e nutro l'ambizione che col tempo venga scritto nelle sue biografie: figlio di un oscuro medico militare che tuttavia seppe capirlo e nulla trascurò per la sua educazione...», al vecchio si spezzò la voce. Arkàdij gli strinse la mano.
«E come pensa», chiese dopo un breve silenzio Vasìlij Ivànoviè, «che potrà conquistare la fama che lei gli ha pronosticato? Non sarà nell'ambito della medicina, vero!».
«No, naturalmente, ma sono certo che anche in questo campo raggiungerà grandi risultati».
«Ma come, allora, Arkàdij Nicolàeviè?».
«È difficile dirlo adesso, ma sarà famoso».
«Sarà famoso», ripeté il vecchio, e rimase assorto nei propri pensieri.
«Arìna Vlàs'evna ha ordinato di prepararvi a venire a bere il tè», disse Anfìsuška mentre passava con un enorme piatto di lamponi maturi. Vasìlij Ivànoviè si scosse.
«Ci sarà la panna fredda, coi lamponi?».
«Sì, signore».
«Molto fredda, eh, mi raccomando. Non faccia complimenti, Arkàdij Nilolàeviè, prenda ancora un po' di lamponi. Come mai Evgènij non viene?».
Dalla camera di Arkàdij arrivò la voce di Bazàrov:
«Sono qui».
Vasìlij Ivànoviè si voltò subito. «Ah, sei andato a cercare il tuo amico, ma sei arrivato tardi, amice, noi abbiamo già avuto una lunga conversazione e ora andiamo a prendere il tè, la mamma ci ha mandati a chiamare. A proposito, poi devo parlarti».
«Di che?».
«C'è qui un povero contadino che soffre di itterizia».
«Vuoi dire di epatite?».
«Sì, un'itterizia cronica e molto ostinata. Gli ho prescritto la centaurea, l'erba di San Giovanni, il bicarbonato di soda, gli ho detto che mangiasse delle carote, ma sono palliativi, ci vuole qualcosa di risolutivo. So che tu ridi della medicina, eppure sono sicuro che potresti darmi un buon consiglio. Ma ne riparleremo, adesso andiamo a bere il tè».
Con uno scatto agile Vasìlij Ivànoviè si alzò dalla panchina e si mise a cantare l'aria del Roberto il diavolo.

La legge, la legge, la legge avremo noi
di vi... di vi... di vivere in letizia

«Una vitalità eccezionale!», osservò Bazàrov, allontanandosi dalla finestra.
Venne il mezzogiorno. Il sole arrivava bruciante, attraverso una cortina sottile di nuvole bianche. Tutto taceva: soltanto i galli lanciavano il loro grido aggressivo nel villaggio e suscitavano in chi li sentiva una sensazione di sonnolenza e di noia; tra le cime degli alberi, in alto, chi sa dove, echeggiava come un lamento il richiamo acuto di un giovane nibbio. Arkàdij e Bazàrov erano sdraiati all'ombra di un covone di fieno, con la testa appoggiata a un mucchio d'erba secca e crepitante, ma ancora verde e profumata.
«Quella tremula», disse Bazàrov, «mi ricorda la mia infanzia, cresce sull'orlo di quella buca dove una volta c'era la rimessa di mattoni e un tempo io credevo che la buca e la tremula avessero un potere magico perché io, vicino a loro, non mi annoiavo mai. Non capivo che non mi annoiavo solo perché ero un bambino. Ora sono un adulto e la magia non agisce più».
«Per quanto tempo sei vissuto qui?».
«Per due anni interi, dopo ci siamo venuti solo ogni tanto. Abbiamo avuto una vita nomade, siamo passati da una città all'altra».
«E la casa è stata costruita molto tempo fa?».
«Sì, da mio nonno, il padre di mia madre».
«Chi era tuo nonno?».
«Chi lo sa? Credo che fosse un maggiore in seconda dell'esercito di Sùvorov e parlava sempre della traversata delle Alpi. Credo che in buona parte fossero vanterie».
«Ecco perché avete il ritratto di Sùvorov in salotto. Mi piacciono le case come la vostra, vecchie, comode, che hanno un odore speciale».
«Un odore di olio per lampade e di erbe medicinali», disse Bazàrov con uno sbadiglio. «E quante mosche in queste belle, vecchie case...».
«Ascoltami», disse Arkàdij dopo un attimo di silenzio, «erano severi con te quando eri piccolo?».
«Hai visto i miei genitori, non sono persone severe».
«Li ami, Evgenij?».
«Sì, certo».
«Loro ti amano molto».
Bazàrov tacque.
«Sai a che cosa penso?», disse infine appoggiando la nuca sulle mani intrecciate.
«No, a che cosa pensi?».
«Penso che i miei genitori sono contenti di stare al mondo. Mio padre, a sessant'anni, è sempre affaccendato, discute di "palliativi", cura gli ammalati, si mostra generoso con i contadini, insomma si gode la vita; anche mia madre è contenta, le sue giornate sono tanto piene di occupazioni, di ansie, sospiri, che non ha nemmeno il tempo di pensare, io invece...».
«Tu...?».
«Io invece penso: eccomi qui, sdraiato all'ombra di questo mucchio di fieno... il posto che occupo è infinitamente piccolo se lo si paragona a tutto lo spazio dove io non sono e non sarò mai... E la porzione di tempo in cui mi è dato vivere è così insignificante rispetto all'eternità in cui non ho vissuto e non vivrò mai. E in questo atomo, in questo punto matematico, circola il sangue, lavora il cervello, nascono dei desideri... Che orrore! Che assurdità!».
«Lascia che ti faccia osservare che quello che hai detto di te vale per tutti gli uomini».
«È vero», rispose Bazàrov. «Volevo solo dire che i miei genitori sono sempre occupati in qualche cosa e il pensiero della propria nullità non li preoccupa, non li sgomenta... mentre io sento soltanto noia e rancore».
«Rancore? E perché?».
«Perché? Perché? Hai dimenticato?».
«No, non ho dimenticato niente, ma non credo che tu abbia il diritto di provare rancore. Non sei felice, lo capisco, ma...».
«Eh, Arkàdij Nikolàeviè, tu vedi l'amore come lo vedono tutti i giovani che pigolano dietro una gallinella, ma appena la gallinella si avvicina, scappano a gambe levate! Io sono diverso. Ma è sbagliato parlare di cose che non si possono cambiare». Bazàrov si voltò su un fianco. «Oh, guarda com'è brava quella formica, trascina una mosca mezza morta. Forza, amica mia! Che importanza ha se la vittima cerca di liberarsi, approfitta del tuo diritto di animale cui è concesso di non conoscere la compassione mentre la pietà spezza gli uomini in due».
«Tu questo non lo puoi dire, Evgènij, a te non è mai successo».
Bazàrov alzò la testa.
«Infatti è il mio orgoglio. Io non mi sono mai spezzato e tanto meno ci riuscirà una piccola donna qualsiasi. Amen. Tutto è finito! Non sentirai più nemmeno una parola da me a questo proposito».
I due amici restarono distesi, in silenzio.
«Sì», riprese Bazàrov, «l'uomo è una strana creatura. Se si considera dall'esterno e da lontano la povera vita solitaria degli eremiti si può pensare che non ci sia niente di meglio. Mangiano, dormono e sanno di comportarsi nel modo più giusto e ragionevole. Invece no, non basta, è un modo di vivere che genera ansia e suscita il desiderio di entrare in contatto con altre persone, magari anche per insultarle, pur di creare un rapporto con loro di qualsiasi natura».
«Bisognerebbe costruirsi una vita nella quale ogni momento avesse un significato», disse Arkàdij, pensoso.
«E chi dice di no? È bello che la vita abbia un significato, anche se a volte illusorio. E ci si potrebbe accontentare anche di una vita senza significato, ma la meschinità... la meschinità è insopportabile».
«La meschinità non esiste per chi non la voglia accettare».
«Ah... hai detto un luogo comune capovolto».
«Che significa?».
«Ecco: dire, per esempio che l'istruzione è utile è un luogo comune, dire che l'istruzione è inutile è un luogo comune capovolto. Sembra più elegante, ma in realtà è la stessa cosa».
«Ma la verità dov'è?».
«Dov'è? Ti risponderò come l'eco: dov'è?».
«Oggi sei malinconico, Evgènij».
«Davvero? Il sole mi ha indebolito e ho mangiato troppi lamponi».
«Allora ti farebbe bene un sonnellino».
«Sì, però non guardarmi, si ha un'espressione stupida quando si dorme».
«Ma non ti è indifferente quello che gli altri pensano di te?».
«Non so risponderti. Un vero uomo non dovrebbe preoccuparsi di queste cose, un vero uomo non si giudica: gli si obbedisce o lo si odia».
«Strano. Io non odio nessuno», affermò Arkàdij dopo un momento di riflessione.
«Io invece odio molti. Tu sei un'anima tenera, una pasta d'uomo, non puoi odiare. Sei timido, non hai fiducia in te stesso».
«E tu?», l'interruppe Arkàdij. «Hai un gran concetto di te stesso?».
Bazàrov tacque.
«Quando avrò incontrato qualcuno che non piegherà la testa davanti a me, mi giudicherò in un altro modo. Odiare! Ecco, per esempio oggi, passando davanti all'isbà del nostro stàrosta Filìpp, bella e bianca, tu hai detto che la Russia avrà raggiunto la perfezione quando anche l'ultimo dei suoi contadini avrà una casa come quella e che ognuno di noi deve cooperare al raggiungimento di questo scopo. Io invece l'ho odiato questo contadino Filìpp o Sidor che sia, per il quale dovrei affaticarmi senza che mi dica nemmeno grazie... e del resto a che cosa mi servirebbe il suo ringraziamento? Lui vivrà in una bella isbà bianca e il mio corpo servirà da concime al luppolo. E poi?».
«Basta, Evgènij, oggi, mentre ti ascolto mi sembra di dover dare ragione a chi ci accusa di essere senza principi».
«Ora parli come tuo zio. Non hai ancora capito che i principi non esistono? Esistono le sensazioni, tutto dipende dalle sensazioni».
«E cioè?».
«Io, per esempio, seguo un indirizzo negativo in virtù di una sensazione... Negare mi dà piacere. Il mio cervello è fatto così, e basta! Perché mi piace la chimica? Perché a te piacciono le mele? Sempre in virtù di una sensazione. È la stessa cosa. Gli uomini non arriveranno mai a penetrare più a fondo. Non tutti te lo direbbero e neppure io, in un'altra occasione, te lo ripeterò».
«Allora anche l'onestà è una sensazione?».
«Come no?».
«Evgènij...», mormorò Arkàdij con voce accorata.
«Che cosa c'è?», l'interruppe Bazàrov. «No fratello, se hai deciso di falciare tutto alla base, falciati via anche i piedi... Ma mi pare che abbiamo fatto troppa filosofia. "La natura ispira il silenzio del sonno", ha detto Pùškin».
«Pùškin non ha detto niente del genere».
«No? Non l'ha detto? Non importa, è un poeta e avrebbe potuto dirlo. A proposito, dev'essere stato anche militare».
«Pùškin non è mai stato militare».
«Ma se in ogni pagina scrive: "Combattiamo, combattiamo per l'onore della Russia!"».
«Ma che mi racconti? Queste sono calunnie».
«Calunnie? Figuriamoci! Credevi di spaventarmi con questa parola? Non c'è chi non meriti venti volte più delle calunnie espresse sul suo conto».
«Dormiamo, è meglio», disse Arkàdij, offeso.
«Con piacere».
Ma non riuscirono a dormire né l'uno né l'altro.
Un sentimento simile all'inimiciza si era impadronito dei loro cuori. Dopo cinque minuti aprirono gli occhi e, in silenzio, si fissarono.
«Guarda», disse a un tratto Arkàdij, «si è staccata una foglia d'acero e sta cadendo a terra con un movimento uguale al volo di una farfalla. Non è strano che una cosa triste e morta somigli alla più viva e allegra che esista?».
«Arkàdij Nilolàeviè, caro amico mio, ti chiedo una cosa sola: risparmiami le belle frasi».
«Io parlo come so... sei dispotico. Perché non posso esprimere un mio pensiero?».
«D'accordo, ma perché non dovrei potere anch'io esprimere il mio pensiero. Le belle frasi sono di cattivo gusto».
«E che cos'è di buon gusto seconto te? Insultarsi?».
«Ehi, vedo che vuoi seguire davvero le orme di tuo zio. Come sarebbe contento quell'idiota se ti sentisse!».
«Come hai chiamato Pàvel Petròviè?».
«L'ho chiamato come si merita: idiota».
«Questo è troppo, non lo sopporto!», esclamò Arkàdij.
«Ecco destarsi il senso della famiglia», disse tranquillamente Bazàrov. «Ho constatato che è sempre molto radicato. Gli uomini sono disposti a rinunciare a molti preconcetti, ma ammettere che un proprio fratello rubi i fazzoletti e venga definito un ladro, supera i limiti della umana comprensione. Com'è possibile che mio fratello, il mio non sia un genio...?».
«Si è destato in me il senso della giustiza non il senso della famiglia», ribatté Arkàdij con un tono di sfida, «ma poiché tu non sai che cosa sia perché non hai mai provato questa sensazione non puoi nemmeno giudicare».
«In altre parole Arkàdij Kirsànov è troppo in alto per il mio intelletto, non mi resta che inchinarmi e tacere».
«Basta, Evgènij, ti prego. Finiremo col litigare».
«Litighiamo, Arkàdij, litighiamo a fondo, fino a esaurirci, annientarci».
«Se andiamo avanti così finiremo addirittura per...».
«Per prenderci a pugni? E con questo? Che male ci sarebbe qui, sul fieno, in questo scenario idilliaco, lontano dagli sguardi di tutti... Ma tu non riuscirai a battermi, io ti prenderò alla gola...», Bazarov allargò le dita lunghe e forti... Arkàdij si voltò e, come per scherzare, si preparò a resistergli. Ma il viso dell'amico gli parve così cupo, e così poco scherzosa la minaccia che lesse nel suo sorriso contorto e nei suoi occhi scintillanti, che istintivamente ne fu intimidito... Si sentì in quel momento la voce di Vasìlij Ivànoviè:
«Ah, ecco dove vi siete nascosti!», e il vecchio medico comparve vestito con una giacca di cotone fatta in casa, come il cappello di paglia che portava in testa. «Vi ho cercati... cercati. Ma voi avete trovato un posto bellissimo e vi state dedicando a una bellissima occupazione. C'è un significato speciale nello stare distesi per terra a guardare il cielo».
«Io guardo il cielo solo quando voglio starnutire», brontolò Bazàrov e, rivolto ad Arkàdij, aggiunse sottovoce: «Peccato che ci abbia disturbati».
«Dài, basta», sussurrò Arkàdij e strinse di nascosto la mano dell'amico. Ma non c'è amicizia che resista per molto a simili scontri.
«Vi guardo, miei giovani amici», diceva intanto Vasìlij Ivànoviè, scuotendo la testa e appoggiando le mani incrociate su uno strano bastone ingegnosamente ritorto intagliato da lui con un pomolo che raffigurava la testa di un turco, «e vi ammiro. Quanta forza c'è in voi, quanta giovinezza, quante possibilità, quante doti intellettuali. Siete proprio... Castore e Polluce!».
«Ti sei spinto fino alla mitologia!», disse Bazàrov. «Si capisce che ai tuoi tempi sei stato un grande latinista. Se non ricordo male avevi vinto la medaglia d'argento per la composizione latina, è vero?».
«Ah, i Dioscuri, i Dioscuri!», ripeté Vasìlij Ivànoviè.
«Basta, non commuoverti troppo».
«Qualche volta è concesso», brontolò il vecchio. «A proposito, signori, non vi cercavo per farvi dei complimenti, ma per dirvi che tra poco sarà ora di pranzo, e poi volevo avvertirti, Evgènij... Sei intelligente, conosci gli uomini e conosci anche le donne e quindi capirai... Tua madre ha voluto far celebrare una preghiera di ringraziamento per il tuo ritorno, non pensare che sia venuto a chiederti di assistervi, è già finito tutto, ma padre Aleksèj...».
«Il pope?».
«Sì, il prete, è qui e pranzerà con noi. Non me l'aspettavo e non l'avrei certo proposto, ma è andata così... forse aveva capito male... e anche Arìna Vlàs'evna... Ma è una persona buona e comprensiva».
«Non mangerà la mia parte di pranzo, vero?», chiese Bazàrov.
«Per carità, che idea!», disse Vasìlij Ivànoviè ridendo.
«Non pretendo di più. Sono pronto a sedermi a tavola con chiunque».
Vasìlij Ivànoviè si aggiustò il cappello sulla testa.
«Ho sempre saputo che sei superiore a qualsiasi pregiudizio», disse. «Anch'io, che pure sono vecchio, ho ormai sessantadue anni, non ho pregiudizi» (Vasìlij Ivànoviè non osava confessare che anche lui aveva desiderato far recitare la preghiera perché era religioso non meno della moglie). «E poi padre Aleksèj ti vuole conoscere. Vedrai, ti piacerà. Gioca volentieri a carte e, resti tra di noi, qualche volta fuma anche la pipa».
«Bene, dopo pranzo faremo una partita a whist e io lo vincerò».
«Toh, vedremo, chi te l'assicura?».
«Perché? Vuoi ricordare i tempi passati?», disse Evgènij con una inflessione particolare nella voce. Le guance scurite dal sole di Vasìlij Ivànoviè si coprirono di un vago rossore.
«Non ti vergogni, Evgènij? Quello che è stato è stato. Posso confessarlo anche davanti a "lui" di avere avuto questa passione quando ero giovane, ma l'ho pagata duramente. Fa caldo, vero? Posso sedermi qui con voi? Non vi disturbo?».
«Tutt'altro», disse Arkàdij.
Vasìlij Ivànoviè si sedette sul fieno, sospirando.
«Il vostro giaciglio, signori miei», disse, «mi ricorda la mia vita militare, i bivacchi, i centri di medicazione che talvolta erano vicino a qualche mucchio di fieno, proprio come questo, e c'era anche da ringraziarne Dio», sospirò. «Ho avuto molte, moltissime esperienze nella vita. Ecco, per esempio, se volete vi racconterò un episodio della peste in Bessarabia».
«Quello per il quale hai guadagnato l'ordine di San Vladimiro?», intervenne Bazàrov. «Lo conosciamo, lo conosciamo... A proposito perché non lo porti?».
«Te l'ho detto che non ho pregiudizi», brontolò Vasìlij Ivànoviè (solo il giorno prima aveva ordinato che scucissero il nastrino rosso dal suo soprabito), e incominciò a raccontare l'episodio della peste.
«Guardi, si è addormentato», sussurrò a un tratto ad Arkàdij indicando Bazàrov con un'occhiata bonaria. «Evgènij, alzati», aggiunse ad alta voce, «andiamo a pranzo».
Padre Aleksèj, grosso, imponente, con i folti capelli ben pettinati, la cintura ricamata sulla tonaca di seta viola chiaro, si rivelò intelligente e accorto. Si affrettò a stringere per primo la mano ad Arkàdij e a Bazàrov, come se avesse capito che non avevano bisogno della sua benedizione, si comportò con disinvoltura, non rinnegò se stesso e non offese gli altri, scherzò sul latino del seminario e difese il proprio arciprete, bevve due bicchieri di vino e rifiutò il terzo, accettò il sigaro che gli offriva Arkàdij ma non lo fumò e disse che lo avrebbe portato a casa. Una sola cosa era sgradevole in lui: continuava ad alzare con lentezza una mano per acchiappare le mosche che gli passavano vicino al viso e qualche volta le schiacciava. Sedette al tavolo da gioco, con moderato piacere, e arrivò a far perdere a Bazàrov due rubli e cinquanta copeche in biglietti di banca, perché in casa di Arìna Vlàs'evna non si sapeva neppure come si conta il danaro in monete d'argento.
Arìna Vlàs'evna non giocava a carte; stava, come prima, seduta accanto al figlio, come prima teneva la guancia appoggiata alla sua manina stretta a pugno e si alzava solo per dare ordine in cucina che servissero qualcosa di gustoso. Non osava accarezzare Bazàrov e lui non la incoraggiava a farlo; del resto anche Vasìlij Ivànoviè le aveva consigliato di badare a non infastidirlo. Ai giovani non piacciono queste manifestazioni d'affetto, le ripeteva spesso. (Inutile dire che cosa c'era per pranzo: Timofèiè, all'alba, era montato a cavallo ed era andato a cercare uno speciale manzo circasso, lo stàrosta era corso da un'altra parte a comprare anguille, ricci e gamberi, e solo per i funghi le donne avevano ricevuto quarantadue copeche di rame.) Ma gli occhi di Arìna Vlàs'evna, sempre rivolti a Bazàrov, non esprimevano solo dedizione e tenerezza, vi si leggeva anche una malinconia mista a curiosità e paura, e insieme un lieve, timido rimprovero.
Ma Bazàrov non pensava ad analizzare lo sguardo di sua madre, le si rivolgeva di rado, con qualche breve domanda. Una volta le chiese di dargli la mano perché gli portasse fortuna e lei passò la sua manina morbida sul palmo largo e ruvido della mano del figlio.
«E allora», gli chiese dopo un po', «ti sono stata utile?».
«No», rispose Bazàrov con un sorriso distratto, «è andata ancora peggio».
«Il signore rischia troppo», osservò padre Aleksèj, quasi con rammarico, accarezzandosi la bella barba.
«È il principio napoleonico», disse Vasìlij Ivànoviè e giocò l'asso.
«La regola che l'ha condotto a Sant'Elena», ribatté padre Aleksèj e coprì l'asso con una briscola.
«Non vuoi un po' d'acqua di ribes, Enjušeèka?», chiese Arìna Vlàs'evna.
Bazàrov si strinse nelle spalle, senza rispondere.

«No, domani me ne vado», disse il giorno dopo ad Arkàdij. «Mi annoio, vorrei lavorare e qui non posso farlo. Tornerò da voi in campagna, ho lasciato a casa vostra tutto il materiale. Almeno mi potrò chiudere a chiave in una stanza, qui mio padre non fa che ripetermi: "Il mio studio è a tua disposizione, nessuno ti disturberà", ma è lui il primo a non allontanarsi da me di un passo e mi dispiacerebbe chiudere la porta e lasciarlo fuori. Poi c'è mia madre, la sento sospirare dietro la parete e quando la vedo non so che dirle».
«Si rattristerà molto, e anche tuo padre».
«Tornerò».
«Quando?».
«Quando andrò a Pietroburgo».
«Mi dispiace soprattutto per tua madre».
«Perché? Ti ha conquistato con i lamponi?».
Arkàdij abbassò gli occhi.
«Tu non la conosci, Evgènij, tua madre non è solo molto buona ma anche molto intelligente. Davvero. Stamattina ho chiacchierato con lei per più di mezz'ora e mi ha detto cose molto positive e interessanti».
«Avrà parlato molto di me, immagino».
«No, non solo di te».
«Può darsi che tu abbia ragione, il tuo è il giudizio di un estraneo e quindi più obiettivo. Se una donna riesce a sostenere una conversazione di mezz'ora è un buon segno. Ma partirò lo stesso».
«Non ti sarà facile dirlo, i tuoi genitori progettano già quello che faremo tra quindici giorni».
«Infatti, non mi sarà facile. Oggi, spinto da non so quale diavolo, ho messo a disagio mio padre: qualche giorno fa aveva fatto frustare un suo contadino, uno di quelli che gli devono il canone, e aveva perfettamente ragione, sì, sì, non guardarmi scandalizzato, perché quel contadino è un ladro ed è sempre ubriaco, solo che mio padre non pensava che ne sarei stato informato e ne ha sofferto. Ora dovrò dargli anche questo dispiacere! Non importa, gli passerà!».
Bazàrov aveva detto «non importa», ma lasciò passare tutta la giornata prima di decidersi a comunicare a Vasìlij Ivànoviè la sua decisione. La sera nello studio dove era andato a salutarlo, mormorò, simulando uno sbadiglio.
«Ah, stavo quasi dimenticando di dirtelo... Fai mandare i nostri cavalli da Fedòt per il cambio».
«Il signor Kirsànov parte?», chiese Vasìlij Ivànoviè, stupito.
«Sì. Partirò anch'io con lui».
Vasìlij Ivànoviè si agitò sulla sedia. «Parti anche tu?».
«Sì... devo partire. Fai mandare i cavalli, per favore».
«Va bene... balbettò il vecchio. I cavalli per il cambio... va bene... ma... ma... Perché?».
«Devo andare a casa di Kirsànov per un po' di tempo. Poi tornerò qui».
«Per un po' di tempo... va bene», Vasìlij Ivànoviè si tolse di tasca il fazzoletto e nel soffiarsi il naso si chinò fin quasi a terra. «Che fare! Per i cavalli, provvederemo. Credevo che saresti rimasto... più a lungo con noi. Tre giorni... dopo tre anni. È poco... proprio poco, Evgènij».
«Ma tornerò presto, te l'ho detto! Ora, però, devo partire, è indispensabile».
«Indispensabile... Che fare? Il dovere prima di tutto... Dunque devo mandare i cavalli? Va bene. Certo io e Arìna non ce l'aspettavamo. Ha chiesto dei fiori alla vicina per ornare la tua stanza». (Vasìlij Ivànoviè non aggiunse che lui ogni mattina, all'alba, in pantofole, a piedi nudi, si consultava a lungo con Timofèiè e, dopo essersi tolto di tasca, a uno a uno qualche logoro biglietto di banca, lo incaricava di varie spese, soprattutto di generi alimentari e di vino rosso che, aveva notato, piaceva molto ai due giovani.) «Quel che conta è la libertà: io ho questo principio... non si deve mai obbligare... Tacque improvvisamente e andò verso la porta».
«Ci rivedremo presto, padre, vedrai».
Ma Vasìlij Ivànoviè non si voltò, fece soltanto un cenno con la mano e uscì dallo studio.
Quando tornò in camera da letto, sua moglie dormiva già e si mise a pregare a bassa voce per non svegliarla, ma lei si svegliò lo stesso.
«Sei tu, Vasìlij, Ivànyè?».
«Sì, sono io màtuška».
«Sei stato da Enjùša? Temo che dorma male su quel divano! Ho dato ordine ad Anfìsuška di mettergli il tuo materassino da campo e dei guanciali nuovi; volevo dargli il nostro piumino ma mi sono ricordata che a lui non piace dormire sul morbido».
«Non importa, màtuška, non ti preoccupare. Lui sta bene. Signore, abbi pietà di noi peccatori...», continuò a pregare sottovoce. Provava pietà per la sua vecchietta e non le parlò quella notte del dolore che l'aspettava l'indomani.
Bazàrov e Arkàdij partirono il giorno dopo. La casa apparve più triste fin dalla mattina; ad Anfìsuška cadevano di mano le stoviglie e anche Fed'ka era confuso, tanto che arrivò addirittura a togliersi gli stivali.
Vasìlij Ivànoviè era più affaccendato del solito, si capiva che cercava di darsi un contegno, parlava a voce alta, camminava pestando i piedi, ma aveva il viso alterato e di sfuggita guardava continuamente il figlio. Arìna Vlàs'evna piangeva silenziosamente; si sarebbe smarrita completamente, sarebbe stata incapace di dominarsi se il marito quella mattina non si fosse adoperato per delle ore a convincerla della necessità di controllarsi. Ma quando Bazàrov, dopo averle ripetuto più volte la promessa di tornare entro un mese, si staccò dalle sue braccia che cercavano inutilmente di trattenerlo e salì sulla carrozza, quando i cavalli si mossero, le sonagliere tintinnarono e le ruote si misero in moto, quando ormai apparve inutile guardare la strada perché la carrozza era scomparsa e si era già posata la polvere e Timofèiè, curvo e traballante era già tornato nella sua casetta, quando i due vecchi furono soli nella loro casa, che pareva a un tratto piccola e cadente più di prima, quando Vasìlij Ivànoviè, che poco prima aveva salutato i viaggiatori, dalla scala esterna, agitando vivacemente il fazzoletto, rientrò in casa, si lasciò cadere su una sedia, chinò la testa sul petto e balbettò:
«Ci ha abbandonati! Ci ha abbandonati! Si annoia con noi. Ora sono solo, solo... come il mio dito indice», ripetendolo parecchie volte e ogni volta con la mano tesa e l'indice staccato dalle altre dita, allora finalmente Arìna Vlàs'evna gli si avvicinò e posando la testa bianca accanto alla testa bianca di lui, disse:
«Che fare, Vàsja? Un figlio è come una fetta di pane tagliata via. È come un falco, viene quando vuole e quando vuole se ne va via; noi invece siamo come due funghi nel cavo di una quercia, ce ne stiamo qui, uno vicino all'altro, e non ci muoviamo. Io sola resterò sempre con te e tu con me».
Vasìlij Ivànoviè si tolse le mani dal viso e abbracciò sua moglie, la sua compagna, e l'abbracciò così stretta come non l'aveva forse mai abbracciata quando erano giovani perché l'aveva consolato nel suo dolore.

XXII

In silenzio, scambiandosi solo ogni tanto qualche parola senza importanza, i nostri due amici arrivarono da Fedòt. Bazàrov non era contento di sé e Arkàdij era scontento di lui e inoltre si sentiva oppresso da quella malinconia senza motivo che prova solo chi è molto giovane. Il cocchiere cambiò i cavalli, salì a cassetta e chiese:
«Andiamo a destra o a sinistra?».
Arkàdij trasalì. La strada a destra portava in città e di lì a casa, quella a sinistra portava dalla Odincòva.
Guardò Bazàrov.
«Evgènij, andiamo a sinistra?».
Bazàrov voltò la testa.
«Che sciocchezze dici?», brontolò.
«Lo so che è una sciocchezza», rispose Arkàdij, «ma che male c'è? Non sarebbe la prima volta che facciamo una sciocchezza».
Bazàrov si tirò il berretto sulla fronte.
«Fa' come vuoi», disse infine.
«A sinistra!», gridò Arkàdij. La carrozza si mosse verso Nikòl'skoe ma, dopo aver optato per la sciocchezza, i due amici ricaddero in un silenzio ancor più ostinato di prima, tanto che sembravano perfino adirati l'uno verso l'altro.
Già dal modo in cui vennero accolti dal maggiordomo sulla scalinata di casa Odincòv capirono che l'aver seguito un capriccio improvviso era stato un errore. La loro visita era chiaramente inattesa. Aspettarono a lungo in salotto, con un'aria un po' sciocca. Finalmente arrivò la Odincòva. Li salutò con molta affabilità, come il solito, ma si meravigliò di quel ritorno improvviso, e i suoi gesti e le sue parole esitanti facevano pensare che non le fosse gradito. Arkàdij e Bazàrov si affrettarono a dirle che si trovavano a passare da quelle parti e si erano fermati a salutarla, ma che di lì a quattro ore avrebbero proseguito il viaggio che doveva portarli in città. Lei si limitò a una piccola esclamazione e a qualche breve parola, pregò Arkadij di salutarle suo padre e mandò a chiamare la zia. La principessina si presentò con un aspetto assonnato che accresceva la naturale espressione adirata del suo viso rugoso. Kàtja non si sentiva bene e non uscì dalla propria stanza. Arkàdij capì a un tratto che aveva desiderato rivedere Kàtja non meno di Anna Sergèevna. Le quattro ore passarono in chiacchiere convenzionali e insignificanti; Anna Sergèevna ascoltava e parlava senza sorridere. Solo al momento del commiato parve animata dalla consueta amabilità.
«Sono un po' malinconica in questi giorni», disse, «ma non ci badate e tornate a trovarmi, lo raccomando a tutti e due». Bazàrov e Arkàdij le risposero inchinandosi in silenzio, salirono in carrozza e ripresero il viaggio senza altre soste fino a Mar'ìno, dove arrivarono l'indomani, verso sera. Durante tutto il viaggio nessuno dei due nominò più la Odincòva; del resto Bazàrov quasi non aprì bocca e tenne lo sguardo fisso lontano, con una strana esasperata tensione.
A Mar'ìno tutti furono contenti di rivederli. Nikolàj Petròviè cominciava a preoccuparsi che il figlio prolungasse tanto la sua assenza, trasalì e con un grido si alzò di scatto dal divano quando Fèneèka, con gli occhi brillanti di gioia, corse ad avvertirlo che erano tornati i «due giovani signori»; persino Pàvel Petròviè si sentì gradevolmente animato e sorrise compiaciuto nello stringere la mano ai due viaggiatori. Ci furono osservazioni, domande; e fu Arkàdij a parlare più degli altri, soprattutto durante la cena che si prolungò fino alla mezzanotte. Nikolàj Petròviè aveva fatto portare a tavola alcune bottiglie di Porto appena arrivate da Mosca e ne bevve parecchi bicchieri tanto che gli si colorirono le guance e venne preso da un riso puerile e nervoso. La servitù partecipava dell'animazione generale. Dunjàša correva avanti e indietro come una indemoniata sbattendo le porte, Pëtr alle tre di notte cercava ancora di suonare sulla chitarra un valzer cosacco. Le corde della chitarra vibravano lamentose e gradevoli nell'aria ferma ma, tranne una breve fioritura all'inizio, il domestico evoluto non riuscì ad altro: la natura gli aveva negato, insieme a molte altre, anche le doti del musicista.
Nel frattempo, a Mar'ìno, la vita aveva preso un'inclinazione non molto positiva e il povero Nikolàj Petròviè si vedeva in difficoltà. Il lavoro alla masseria aumentava di giorno in giorno ed era ingrato e complesso. Trattare con i braccianti era molto faticoso, alcuni pretendevano un aumento o si facevano licenziare, altri ritiravano un anticipo e se ne andavano; i cavalli si ammalavano, i finimenti sparivano come distrutti dal fuoco, i lavori venivano eseguiti svogliatamente, la trebbiatrice fatta arrivare da Mosca era risultata inservibile perché troppo pesante e un'altra si era rotta la prima volta che era stata usata; metà della stalla era andata a fuoco per colpa di una vecchia serva cieca che in un giorno di vento vi aveva portato un tizzone ardente per riscaldare la propria mucca, mentre a sentire lei l'incendio era scoppiato perché il padrone si era messo in mente di fabbricare formaggi e ricotte speciali, mai visti prima. Il fattore si era impigrito ed era ingrassato come può ingrassare soltanto un russo che viva a spese altrui, ma quando vedeva da lontano Nikolàj Petròviè, per mostrare il proprio zelo, lanciava un pezzo di legno a un porcellino o rimbrottava un ragazzetto mezzo nudo; il resto del tempo lo passava dormendo. I contadini che dovevano pagare il canone per la terra, non pagavano alla scadenza e rubavano la legna, lasciavano pascolare i loro cavalli sui prati della masseria e spesso i guardiani dovevano scacciarli con la forza. Nikolàj Petròviè aveva stabilito che si dovesse pagare la multa quando un prato veniva calpestato dal bestiame ma quasi sempre restituiva i cavalli ai proprietari dopo averli, inoltre, nutriti per qualche giorno nelle sue mangiatoie. Come se tutto questo non bastasse i contadini avevano cominciato a litigare tra di loro: i fratelli volevano dividersi la terra perché le mogli non andavano d'accordo e non potevano abitare nella stessa casa, scoppiavano risse improvvise e tutti correvano davanti alla scaletta dell'ufficio del padrone, ubriachi, con la faccia pesta, a chiedergli di fare giustizia. Alle imprecazioni degli uomini si univano le urla e i gemiti delle donne. Bisognava, allora, informarsi, discutere, gridare fino a perdere la voce, già consapevoli dell'impossibilità di arrivare a una decisione equa. Poiché non c'erano braccia sufficienti per la mietitura, un vicino, all'apparenza rispettabile, piccolo proprietario, aveva offerto dei mietitori a due rubli per ettaro approfittando indegnamente della situazione. Le contadine chiedevano paghe altissime e intanto i chicchi di grano cadevano dalle spighe troppo mature. Nemmeno la falciatura era stata ultimata e intanto il Consiglio della Tutela esigeva che venissero pagate le percentuali, integralmente e subito...
«Non ce la faccio più!», diceva spesso, disperato, Nikolàj Petròviè. «Non posso certo essere io a usare le maniere forti e i miei principi mi vietano di ricorrere alla polizia, ma senza la paura del castigo purtroppo non si risolve niente».
«Du calme, du calme» lo ammoniva Pàvel Petròviè e, con le sopracciglia corrugate, si arricciava i baffi.
Bazàrov restava estraneo a queste complicazioni, tanto più che era un ospite e non toccava a lui occuparsene. Il giorno successivo al suo arrivo a Mar'ìno riprese a dedicarsi ai suoi ranocchi, ai suoi infusori, ai suoi esperimenti chimici e non si interessò a nient'altro. Arkàdij, invece, si sentiva in dovere di aiutare suo padre, o almeno di mostrarsi disposto a farlo. Lo ascoltava pazientemente e una volta gli diede anche un consiglio, non pensando che dovesse seguirlo, ma per provare il proprio interessamento. I lavori della masseria non gli apparivano estranei o sgradevoli, anzi gli piaceva sognare di dedicarsi seriamente all'agronomia, ma in quel momento aveva altro per la mente. Con suo grande stupore, non faceva che pensare a Nikòl'skoe; se qualcuno gli avesse detto che avrebbe potuto annoiarsi vivendo accanto a Bazàrov e per di più nella casa paterna avrebbe scosso la testa, incredulo, invece si annoiava davvero e sentiva che qualcosa lo chiamava lontano. Provò a fare delle lunghe passeggiate fino a stancarsi molto, ma non gli servì a niente. Per caso, parlando, venne a sapere che suo padre conservava alcune lettere che un tempo la madre della Odincòva aveva scritto a sua moglie e non lo lasciò in pace finché non lo costrinse a frugare in venti diversi cassetti e bauli per ritrovarle. Quando ebbe tra le mani quei fogli ingialliti, parve calmarsi, come se avesse trovato lo scopo che doveva perseguire. Lo dico a tutti e due, mormorava tra sé, ci ha invitati lei e io ci voglio andare, a tutti i costi! Poi si ricordava di quell'ultima visita, di quell'accoglienza fredda, del suo disagio, e di nuovo si lasciava prendere dalla timidezza. L'audacia fiduciosa della giovinezza, il desiderio di tentare la fortuna, di misurare da solo le proprie forze, senza l'aiuto di nessuno, ebbero finalmente il sopravvento. Non erano passati dieci giorni da quando era tornato a Mar'ìno che, con la scusa di voler studiare l'organizzazione delle scuole domenicali, partì per la città e di là per Nikòl'skoe. Mentre incitava il postiglione si sentiva come un giovane ufficiale che corre verso il campo di battaglia, aveva paura eppure era felice, l'impazienza lo soffocava. Quel che importa è non pensare, ripeteva a se stesso. Gli era capitato un postiglione sfacciato. Si fermava a tutte le osterie, e gli chiedeva: «Si beve?» oppure «Perché non beviamo?», e dopo aver bevuto non risparmiava i cavalli. Finalmente apparve l'alto tetto della casa ben nota... Che cosa sto facendo? Si chiese Arkàdij in un lampo. Non posso tornare indietro? La trojka correva veloce, il postiglione aizzava i cavalli e gridava. Ecco il ponticello risuonare sotto gli zoccoli e le ruote, ecco il viale degli abeti potati venire loro incontro. Un vestito rosa sbucò tra il verde cupo, un viso fresco apparve di sotto la frangia leggera dell'ombrellino... Arkàdij ordinò al postiglione di fermare i cavalli lanciati al galoppo, scese con un balzo dalla vettura e si avvicinò a Kàtja.
«Oh, è lei!», esclamò Kàtja arrossendo. «Venga, mia sorella è in giardino, sarà contenta di vederla...».
Mentre si lasciava guidare in giardino, Arkàdij pensò che era di buon augurio averla incontrata subito e la guardò con gioia come se facesse parte della sua famiglia. Tutto era andato bene, senza che il maggiordomo annunciasse la sua visita. Alla curva del vialetto vide Anna Sergèevna. Era voltata di spalle, ma al rumore dei suoi passi girò la testa lentamente.
Arkàdij si lasciò prendere di nuovo dalla timidezza, ma le prime parole di Anna Sergèevna lo tranquillizzarono. «Buongiorno, fuggiasco», disse con la sua voce dolce e calma e gli venne incontro con un sorriso, socchiudendo gli occhi per il sole e per il vento. «Dove l'hai trovato, Kàtja?».
«Anna Sergèevna le ho portato», cominciò a dire Arkàdij, «qualcosa che lei non immagina neppure».
«Mi ha portato se stesso: che altro c'è di meglio?».

XXIII

Dopo aver salutato Arkàdij con ironico rammarico, lasciandogli intendere che non ignorava lo scopo del suo viaggio, Bazàrov si isolò, preso dalla febbre del lavoro. Ormai non discuteva più con Pàvel Petròviè, che assumeva in sua presenza un atteggiamento ancor più aristocratico e si esprimeva a suoni piuttosto che a parole. Una sola volta si era lasciato andare a polemizzare con il nichilista a proposito del problema, allora di attualità, dei diritti dei nobili delle regioni baltiche. Si era interrotto bruscamente e aveva concluso con gelida cortesia:
«Del resto a lei e a me non è concesso il privilegio della comprensione reciproca o io, almeno, non ho l'onore di capirla».
«Infatti», aveva esclamato Bazàrov, «l'uomo è in grado di capire tutto, come vibra l'etere e che cosa avviene sul sole, ma non capirà mai che un altro uomo possa soffiarsi il naso in un modo diverso dal suo».
«Che cos'è questa, un'osservazione spiritosa?», aveva ribattuto Pàvel Petròviè e si era allontanato. Ogni tanto, però, chiedeva il permesso di assistere agli esperimenti di Bazàrov e una volta aveva perfino avvicinato al microscopio il suo viso profumato, lavato con un sapone di buona qualità, per vedere come un infusorio trasparente inghiottiva un granellino verde e lo masticava con dei velocissimi dentini posti nella sua gola. Nikolàj Petròviè andava a trovare Bazàrov più spesso di suo fratello; ci sarebbe andato ogni giorno, «per imparare», diceva, se le faccende della masseria non glielo avessero impedito. Per non disturbare il giovane scienziato si sedeva in un angolo e lo osservava con attenzione, concedendosi solo una cauta domanda ogni tanto. Durante il pranzo o la cena cercava di parlare di fisica, di geologia, di chimica, perché qualsiasi altro argomento, anche di carattere rurale, o peggio ancora politico, avrebbe potuto dare origine a una discussione troppo accesa o almeno a un generale malumore.
Nikolàj Petròviè capiva che l'astio che suo fratello nutriva per Bazàrov non era diminuito, e un episodio irrilevante, insieme a molti altri, gliene diede la conferma. Il colera, che da qualche tempo era comparso nei dintorni, si era «portato via» due uomini anche a Mar'ìno. Una notte Pàvel Petròviè si sentì molto male, soffrì fino alla mattina, ma non volle ricorrere a Bazàrov e quando l'incontrò il giorno dopo, sentendosi chiedere perché non l'avesse fatto chiamare, rispose ancora pallido, ma già pettinato e perfettamente rasato: «Perché, se non ricordo male, lei stesso afferma di non credere nella medicina, non è così?».
Passavano i giorni. Bazàrov lavorava, tenace e cupo, ma nella casa di Nikolàj Petròviè c'era una creatura con la quale, pur senza aprirle il proprio cuore, s'intratteneva volentieri. Questa creatura era Fèneèka.
La vedeva la mattina presto, in giardino o in cortile, non entrava mai in camera sua e lei solo una volta era andata a cercarlo e si era fermata sulla soglia, per chiedergli se poteva o no fare il bagno a Mìtja. Aveva fiducia in lui, non lo temeva e gli si rivolgeva senza timidezza e con maggiore spontaneità e confidenza di quanto non facesse con lo stesso Nikolàj Petròviè.
È difficile individuarne la ragione, forse sentiva in Bazàrov, senza rendersene conto, l'assenza di quelle caratteristiche che appartengono agli aristocratici, e che come tutto ciò che è parte di una sfera superiore, attraggono e intimoriscono nello stesso tempo. Ai suoi occhi Bazàrov era un bravissimo medico e una persona semplice. Senza timidezza giocava davanti a lui con il bambino, e un giorno che le era venuto un capogiro aveva preso direttamente dalle sue mani un cucchiaio di medicina. Davanti a Nikolàj Petròviè pareva evitare Bazàrov, non per calcolo ma per un'istintiva delicatezza. Invece temeva più ancora di una volta Pàvel Petròviè che da qualche tempo aveva cominciato a scrutarla, comparendole inaspettatamente alle spalle come se fosse spuntato dal suolo con il suo vestito all'inglese, con il viso immobile e le mani in tasca. «È raggelante», si lamentava Fèneèka con Dunjàša, che le rispondeva con un sospiro perché pensava a un altro uomo «insensibile», Bazàrov, che, senza saperlo, era diventato il crudele tiranno della sua anima.
Bazàrov piaceva a Fèneèka, ma anche Fèneèka piaceva a Bazàrov. Quando parlava con lei, il suo viso si trasformava, prendeva un'espressione aperta e quasi buona e alla sua consueta indifferenza pareva mescolarsi una scherzosa gentilezza. Fèneèka diventava ogni giorno più bella. Ci sono momenti in cui le giovani donne sembrano schiudersi e fiorire come le rose d'estate e Fèneèka stava attraversando uno di quei momenti. Tutto vi concorreva, anche l'opprimente calore di luglio. Vestita di un leggero abito bianco, sembrava anche lei più bianca e più leggera, la sua pelle non si scuriva col sole, ma il caldo le coloriva le guance e le orecchie e dava al suo corpo una tranquilla mollezza che si rifletteva con grazia nel pigro languore dei suoi occhi. Non riusciva a lavorare, quando tentava di farlo le mani le ricadevano in grembo. Camminava lentamente, sospirava e si lamentava, con un curioso sfinimento.
«Dovresti fare il bagno più spesso», le raccomandava Nikolàj Petròviè.
Aveva costruito un bagno coperto da un telo in uno dei suoi stagni dove ancora era rimasta un po' d'acqua.
«Oh, Nikolàj Petròviè, per arrivare allo stagno muori dal caldo, e muori dal caldo per tornare indietro. Non c'è ombra, in giardino».
«È vero, non c'è ombra», diceva Nikolàj Petròviè, passandosi una mano sulla fronte.
Un mattino, verso le sette, Bazàrov, tornando da una passeggiata, trovò Fèneèka sotto il pergolato delle serenelle, già sfiorite ma ancora folte e verdi. Con un fazzoletto bianco in testa, come il solito, stava seduta sulla panchina; vicino a lei c'era un mazzo di rose rosse e bianche, ancora umide di rugiada. Bazàrov la salutò.
«Evgènij Vasìl'eviè!», per guardarlo Fèneèka sollevò un poco il bordo del fazzoletto e il braccio le si scoprì fino al gomito.
Bazàrov le si sedette vicino: «Che cosa fa, un mazzo di rose?».
«Sì, per la tavola della colazione. A Nikolàj Petròviè fa piacere».
«Manca ancora molto all'ora di colazione. Quanti fiori!».
«Li ho colti adesso perché dopo farà troppo caldo per uscire. Per il momento si riesce ancora a respirare. Questo caldo mi ha indebolito, ho paura di ammalarmi».
«Che brutto pensiero! Ora le tasto il polso». Bazàrov le prese la mano, sentì il pulsare regolare dell'arteria e non contò nemmeno i battiti. «Lei vivrà cent'anni», disse e le lasciò libera la mano.
«Dio me ne guardi!», esclamò Fèneèka.
«Perché? Non le piacerebbe?».
«Cent'anni? No. Avevamo una nonna di ottantacinque anni. Che sofferenza! Era curva, nera, sorda, tossiva sempre... No, si diventa soltanto un peso per se stessi, non è più vita quella!».
«Meglio essere giovani, allora».
«Certo!».
«Ma che differenza c'è? Me lo spieghi».
«Ecco: io adesso sono giovane e vado, vengo, porto con me quel che mi serve, non devo chiedere aiuto a nessuno... Che vuole di più?».
«A me, invece, non importa essere giovane o vecchio».
«Ma com'è possibile?».
«Provi a rifletterci un momento Fedòs'ja Nikolàevna: a che cosa mi serve la giovinezza? Vivo solo, come un povero diavolo...».
«Dipende da lei».
«Non è vero, non dipende da me... Se almeno qualcuno avesse compassione di me».
Fèneèka guardò Bazàrov di sfuggita e non disse niente.
«Che libro è quello?», chiese dopo un po'.
«Questo? È un libro di studio, un libro di scienza».
«Come mai studia sempre? Non si annoia? Io credo che lei sappia già tutto».
«No, non è così. Provi a leggerne anche lei un pochino».
«Non capirei niente. È scritto in russo?», chiese Fèneèka, prendendo con tutte e due le mani il volume rilegato. «Com'è pesante!».
«Sì, è scritto in russo».
«Sono sicura che non capirei niente lo stesso».
«Non importa, mi piace guardarla leggere perché quando legge le si muove la punta del nasino».
Fèneèka, che aveva già cominciato a leggere a bassa voce un capitolo «sul creosoto», il primo che le fosse caduto sotto gli occhi, si mise a ridere e buttò sulla panchina il libro, che cadde a terra.
«Mi piace anche guardarla ridere», disse Bazàrov.
«Ma via... basta».
«Mi piace sentirla parlare, la sua voce è come l'acqua di un ruscello».
Fèneèka distolse lo sguardo.
«Com'è strano lei!», disse, sfiorando le rose con le dita. «Perché dovrebbe piacerle sentirmi parlare, quando ha avuto la possibilità di ascoltare signore così intelligenti!».
«Ah, Fedòs'ja Nikolàevna, mi creda, tutte le signore intelligenti di questo mondo non valgono il suo piccolo gomito!».
«Ma che cosa sta inventando ancora!», mormorò Fèneèka.
Bazàrov raccolse il libro da terra.
«È un libro sui medicinali, perché lo vuol buttare via?».
«Sui medicinali?», Fèneèka rivolse di nuovo lo sguardo verso di lui. «Lo sa che da quando mi ha dato quelle gocce Mìtja dorme tranquillo tutta la notte? Non so come ringraziarla, lei è molto buono».
«I dottori chiedono di essere pagati, di solito», disse Bazàrov sorridendo, «sono venali».
Fèneèka lo guardò. I suoi occhi sembravano ancora più scuri per il riflesso del fazzoletto bianco che le cadeva sulla fronte. Non capiva se stesse scherzando o no.
«Sì, certo... chiederò a Nikolàj Petròviè».
«Lei pensa che voglia del denaro?», la interruppe Bazàrov, «No, non voglio denaro da lei!».
«E che cosa, allora?».
«Che cosa? Provi a indovinare».
«Non so, non posso indovinare».
«Allora glielo dirò io: vorrei... una di quelle rose».
Fèneèka rise di nuovo e alzò perfino le braccia, tanto le parve strano quel desiderio. Rideva e al tempo stesso si sentiva lusingata. Bazàrov la guardava fisso.
«Ecco, ecco», disse lei infine e, china sul mazzo di rose, si mise a sceglierne una. «Come la preferisce, rossa o bianca?».
«Rossa e non troppo grande».
Fèneèka rialzò la testa. «Ecco prenda», disse, ma ritrasse subito la mano e, mordendosi le labbra, diede un'occhiata verso l'ingresso del pergolato, e restò in ascolto.
«C'è qualcuno?», chiese Bazàrov. «Nikolàj Petròviè?».
«No... è andato a vedere i campi... e poi non ho paura di lui, ma... Pàvel Petròviè... mi sembrava...».
«Che cosa le sembrava?».
«Che lui stesse passando di qui. No... non c'è nessuno. Prenda...», e Fèneèka diede la rosa a Bazàrov.
«Perché ha paura di Pàvel Petròviè?».
«Mi fa spaventare. Non mi dice niente, ma mi guarda in un modo che non riesco a capire. Anche a lei non piace, vero? Prima discutevate sempre, non so di che cosa, ma vedevo che riusciva sempre a rigirarlo come voleva lei...».
Fèneèka mostrò, con un gesto delle mani, come secondo lei Bazàrov riusciva a rigirare Pàvel Petròviè. Bazàrov sorrise.
«E se fossi stato sconfitto, lei mi avrebbe difeso?».
«Non ne sarei stata capace. Ma nessuno può sconfiggerla».
«Davvero? Eppure c'è qualcuno cui basterebbe muovere un dito per avermi ai suoi piedi».
«E chi può essere?».
«Davvero non lo sa? Senta che profumo ha la rosa che mi ha dato».
Fèneèka allungò il collo e avvicinò il viso alla rosa... Il fazzoletto le scivolò sulle spalle e scoprì l'intreccio morbido dei suoi capelli neri, lucenti, un po' scomposti.
«Aspetti, voglio sentire il profumo insieme a lei», disse Bazàrov sottovoce; si chinò e la baciò con forza sulle labbra socchiuse.
Fèneèka trasalì e gli puntò le mani sul petto ma così debolmente che Bazàrov continuò a baciarla ancora.
Si sentì un leggero colpo di tosse dietro le serenelle. Fèneèka si spostò immediatamente all'altro lato della panchina. Pàvel Petròviè comparve, s'inchinò leggermente e chiese con un'intonazione cattiva ma insieme dolente: «Siete qui?». Poi si allontanò.
Fèneèka raccolse subito tutte le sue rose e uscì dal pergolato.
«Non si fa così, Evgènij Vasìl'eviè», bisbigliò, e il suo rimprovero era sincero.
Bazàrov ricordò un altro episodio avvenuto di recente e ne provò vergogna, disprezzo e amarezza, ma subito scosse la testa e, congratulandosi ironicamente con se stesso «per essere diventato ufficialmente un Céladon», si ritirò in camera sua.
Pàvel Petròviè intanto usciva dal giardino e lentamente arrivava fino al bosco. Vi si trattenne a lungo e quando tornò, per la colazione, appariva così turbato che Nikolàj Petròviè gli chiese preoccupato se si sentiva poco bene.
«Qualche volta, lo sai, soffro di un travaso di bile», rispose con calma Pàvel Petròviè.

XXIV

Due ore dopo Pàvel Petròviè bussava alla porta di Bazàrov.
«Mi dispiace interrompere il suo lavoro scientifico», disse, sedendosi vicino alla finestra con le mani appoggiate sul pomolo d'avorio del suo bastone da passeggio (di solito camminava senza bastone). «Sono costretto a chiederle cinque minuti del suo tempo, non di più».
«Lei può disporre di tutto il mio tempo», rispondeva Bazàrov, sul viso del quale era passata un'ombra quando Pàvel Petròviè era entrato.
«Basteranno cinque minuti. Sono venuto a rivolgerle una domanda».
«Una domanda? E a che proposito?».
«Abbia la gentilezza di ascoltarmi. All'inizio della sua permanenza in casa di mio fratello, quando ancora non mi ero negato il piacere di conversare con lei, avevo udito il suo parere su molti argomenti ma, se non ricordo male, né tra noi né in mia presenza, si era parlato di duelli. Se lei permette, vorrei dunque sapere che cosa lei pensa dei duelli».
Bazàrov, che si era alzato vedendo entrare Pàvel Petròviè, si sedette sul bordo del tavolo, con le braccia incrociate.
«Ecco», disse, «in teoria il duello è un'assurdità, ma in pratica è un'altra cosa».
«Lei vuol dire, se non ho mal capito, che indipendentemente dalla sua opinione sul duello dal punto di vista teorico, lei non si lascerebbe offendere da nessuno senza chiedere soddisfazione».
«Ha indovinato».
«Molto bene, sono lieto di sentirglielo dire. Le sue parole mi sollevano da un'incertezza».
«Vuol dire da una indecisione».
«È lo stesso, io mi esprimo in modo da essere capito e niente altro. Non sono un topo di biblioteca. Le sue parole mi risparmiano una triste incombenza. Ho deciso di battermi con lei».
Bazàrov spalancò gli occhi.
«Con me?».
«Sì».
«E perché? La prego».
«Potrei esporle la ragione, ma preferisco tacerla. A mio avviso la sua presenza in questa casa è di troppo, io provo per lei insofferenza e disprezzo e se questo non le basta...». Gli occhi di Pàvel Petròviè scintillarono e anche quelli di Bazàrov si accesero di lampi di collera.
«Benissimo», lo interruppe, «non occorrono altre parole. Lei desidera esercitare su di me il suo spirito cavalleresco. Potrei negarle questo piacere, ma non me ne importa niente».
«Le sono obbligato», rispose Pàvel Petròviè, «ora spero che accetterà la mia sfida senza costringermi a passare alle vie di fatto».
«E cioè, per parlar chiaro, a picchiarmi col suo bastone», osservò con calma Bazàrov. «È vero che lei non ha bisogno di offendermi ed è meglio così, perché potrebbe essere pericoloso. Seguiti a comportarsi come un gentleman, io accetto la sua sfida da gentleman».
«Tutto è a posto, dunque». Pàvel Petròviè appoggiò il bastone in un angolo. Ora vorrei prendere rapidamente gli accordi sulle condizioni del duello; prima però lei dovrebbe dirmi se le sembra necessario ricorrere a una lite formale come pretesto per la sfida».
«No, evitiamo le formalità».
«Sono d'accordo con lei. Giudico anche inopportuno menzionare la vera ragione del nostro scontro. Una insofferenza reciproca, occorre altro?».
«Già, occorre altro?», ripeté Bazàrov.
«Non avremo padrini, perché... dove trovarli?».
«Appunto: dove trovarli?».
«Mi onoro dunque di proporle quanto segue: ci batteremo domattina diciamo alle sei, dietro il boschetto, alla pistola, a dieci passi».
«A dieci passi? D'accordo è la misura del nostro odio».
«Possiamo batterci anche a otto passi».
«Ma perché no?».
«Spareremo due volte e, per ogni evenienza, ciascuno di noi terrà in tasca una lettera nella quale si accusa della propria fine».
«Su questo punto non sono d'accordo», obiettò Bazàrov, «sa di romanzo francese, non è verosimile».
«Può darsi, ma lei deve convenire che sarebbe spiacevole essere sospettati di omicidio».
«Ne convengo. Ma per evitare questa triste accusa, visto che non avremo padrini, potremmo avere almeno un testimone».
«Posso chiederle a chi sta pensando come testimone?».
«A Pëtr».
«Quale Pëtr?».
«Il cameriere di suo fratello. È una persona adeguata alla cultura moderna e svolgerà il suo compito con tutto il comme il faut indispensabile in queste circostanze».
«Credo, egregio signore, che lei stia scherzando».
«Affatto. Rifletta sulla mia proposta e si accorgerà che è semplice e sensata. Ci sono cose che è impossibile tenere segrete. Io provvederò a preparare Pëtr e lo porterò sul luogo della battaglia».
«Lei seguita a scherzare», disse Pàvel Petròviè, alzandosi dalla sedia. «Ma dopo la cortese disponibilità che mi ha dimostrato, non ho il diritto di avanzare pretese... Dunque, tutto è ormai predisposto... A proposito, lei ha le pistole?».
«E perché dovrei avere delle pistole, Pàvel Pètroviè? Non sono un soldato».
«Bene, le offro le mie. Mi creda se le dico che non le adopero ormai da cinque anni».
«Notizia consolante».
Pàvel Petròviè prese il bastone.
«A questo punto, caro signore, non mi resta che ringraziarla e restituirla alle sue occupazioni. Ho l'onore di salutarla».
«Al piacere di rivederla, mio caro signore», disse Bazàrov e accompagnò l'ospite alla porta.
Pàvel Petròviè uscì e Bazàrov, che era rimasto fermo davanti alla porta, esclamò: «Vergognati, demonio! Quale commedia perfetta e idiota abbiamo recitato! Come cani ammaestrati che ballano sulle zampe posteriori. Potevo rifiutare? Avrebbe usato il bastone...» (Bazàrov impallidì a quel pensiero, il suo orgoglio si risvegliò all'improvviso), «e allora l'avrei strozzato come un gattino». Tornò al suo microscopio ma era sconvolto, aveva perso la calma necessaria allo studio. Questa mattina ci ha visti, pensava, ma è possibile che si interessi fino a questo punto della vita di suo fratello? Che importanza ha un bacio! No, ci dev'essere qualche ragione di più... mah! Forse è innamorato... Ma certo, è innamorato! È chiaro come il giorno, ma che pasticcio. E che guaio, concluse, da qualsiasi parte si esamini la vicenda. Prima di tutto dovrò rischiare la pelle e poi dovrò partire. E Arkàdij? E quell'agnellino di Nikolàj Petròviè? Un brutto guaio.
La giornata passò, particolarmente quieta e sonnolenta. Fèneèka pareva che non fosse mai esistita, stava chiusa in camera sua come un topolino nella tana. Nikolàj Petròviè era preoccupato perché gli avevano detto che il frumento, nel quale aveva riposto molte speranze, aveva preso la ruggine. Pàvel Petròviè opprimeva tutti, perfino Prokòf'iè, con la sua gelida cortesia. Bazàrov aveva cominciato a scrivere una lettera a suo padre, ma poi l'aveva stracciata e buttata sotto il tavolo. Se morirò lo sapranno, pensava, ma non morirò, resterò ancora per un pezzo a dibattermi su questa terra. Ordinò a Pëtr di andare da lui l'indomani all'alba per una questione urgente. Pëtr pensò che volesse portarlo con sé a Pietroburgo.
Bazàrov andò a letto tardi e per tutta la notte fu tormentato da sogni inquietanti... La Odincòva gli compariva davanti ed era come fosse sua madre, dietro di lei c'era un gattino coi baffetti neri e quel gattino era Fèneèka; Pavèl Petròviè assumeva le sembianze di un grande bosco con il quale doveva battersi a duello. Alle quattro del mattino, quando Pëtr lo svegliò, si vestì immediatamente e uscì con lui.
Era una bella mattinata, l'aria era fresca, nel cielo di un pallido azzurro c'erano piccole nuvole a forma di pecorelle, sulle foglie, sull'erba e sulle ragnatele la rugiada brillava come argento, la terra umida e scura conservava il riflesso rosso del sorgere del sole; dalla vastità del cielo giungeva il canto delle allodole. Bazàrov arrivò fino ai margini del boschetto, si mise a sedere all'ombra e solo allora spiegò a Pëtr che cosa voleva da lui. Il cameriere evoluto si spaventò a morte, ma Bazàrov lo tranquillizzò, dicendogli che non avrebbe dovuto fare altro che guardare da lontano, senza assumere alcuna responsabilità. «E intanto», concluse, «pensa che incarico importante ti aspetta!». Pëtr allargò le braccia, rassegnato, pallido, e con lo sguardo fisso si appoggiò a una betulla.
La strada che arrivava da Mar'ìno girava attorno al boschetto e la polvere che la ricopriva non recava impronte né di carri né di esseri umani, nessuno era passato di lì dal giorno prima. Bazàrov, senza rendersene conto, seguitava a guardare da quella parte, strappava e mordicchiava qualche filo d'erba e ripeteva tra sé: che idiozia! Il freddo del mattino lo fece rabbrividire due volte... Pëtr lo guardava, avvilito, ma Bazàrov gli sorrise: non aveva paura.
Si sentì uno scalpitare di cavalli sulla strada... Dagli alberi sbucò un contadino che spingeva due cavalli legati con le pastoie e nel passare davanti a Bazàrov gli diede una strana occhiata, senza togliersi il cappello. Pëtr ne restò turbato, perché gli sembrò un cattivo presagio. Bazàrov pensò: anche questo contadino si è alzato presto, ma per lavorare, mentre noi...
«Forse sta arrivando...», bisbigliò Pëtr a un tratto.
Bazàrov alzò la testa e vide Pàvel Petròviè. Era vestito con una giacca leggera, a quadri, e calzoni candidi e camminava in fretta tenendo sotto il braccio una cassettina avvolta in un panno verde.
«Credo di essere in ritardo, domando scusa», disse e salutò prima Bazàrov e poi Pëtr che considerava in quel momento nella sua qualità di padrino. «Non ho voluto svegliare il mio cameriere».
«Non importa», rispose Bazàrov «siamo appena arrivati anche noi».
«Ah, tanto meglio!». Pàvel Petròviè si guardò attorno. «Non si vede nessuno, nessuno ci disturberà. Possiamo procedere?».
«Procediamo».
«Immagino che lei non esiga nuove spiegazioni».
«No, non esigo nuove spiegazioni».
Pàvel Petròviè tolse le pistole dalla cassetta: «Vuole caricarle lei?».
«No, le carichi lei, io conterò i passi. Ho gambe più lunghe», soggiunse Bazàrov con un sorriso. «Uno, due, tre...».
«Evgènij Vasìl'iè», balbettò Pëtr, tremando come se avesse la febbre, «lei faccia come crede, io mi allontano».
«Quattro, cinque... Va', Pëtr, va' pure, mettiti dietro un albero, se vuoi, e tappati le orecchie ma non chiudere gli occhi e se uno di noi cadrà a terra corri a rialzarlo. Sei... sette... otto...», Bazàrov si fermò. «Basta così», chiese a Pàvel Petròviè, «o devo aggiungere altri due passi?».
«Come vuole», rispose Pàvel Petròviè mentre caricava la seconda pistola.
«Allora aggiungerò altri due passi». Bazàrov tracciò un segno per terra con la punta dello stivale. «Ecco la barriera. A proposito, di quanti passi ciascuno di noi si deve allontanare dalla barriera? Anche questo è importante e ieri non ne abbiamo parlato».
«Dieci passi, suppongo», Pàvel Petròviè porse a Bazàrov le due pistole. «Si compiaccia di scegliere».
«Mi compiacerò di scegliere. E lei, Pàvel Petròviè, voglia ammettere che questo duello è stravagante, fino a rasentare il grottesco. Dia un'occhiata all'espressione del nostro padrino».
«Lei seguita a scherzare», rispose Pàvel Petròviè. «Non nego che il nostro duello possa apparire piuttosto insolito, ma ritengo sia mio dovere avvertirla che intendo battermi seriamente. A bon entendeur, salut!».
«Oh, non dubito che siamo decisi a massacrarci a vicenda, ma perché non si può ridere e unire utile dulci? Vede, lei mi parla in francese e io le rispondo in latino».
«Io intendo battermi sul serio», ripeté Pàvel Petròviè e andò a mettersi al suo posto. Bazàrov contò dieci passi dalla barriera e si fermò.
«Lei è pronto?», chiese Pàvel Petròviè.
«Prontissimo».
«Possiamo avanzare».
Bazàrov si mosse lentamente, e Pàvel Petròviè gli andò incontro con la mano sinistra in tasca e alzando gradatamente la canna della pistola.
Mi sta mirando al naso, pensò Bazàrov, e socchiude pure gli occhi, il mascalzone. È una sensazione spiacevole. Mi metterò a guardare la catena del suo orologio...
Un sibilo gli sfiorò l'orecchio e nello stesso tempo si sentì uno sparo. Ebbe il tempo di pensare: l'ho sentito, quindi non è successo niente. Fece un altro passo avanti poi, senza mirare, premette il grilletto.
Pàvel Petròviè sussultò appena e si portò una mano all'anca. Un fiotto di sangue corse sui suoi calzoni immacolati. Bazàrov gettò la pistola e si avvicinò al suo avversario.
«È ferito?».
«Era suo diritto chiamarmi alla barriera, questo non è niente. Secondo le condizioni stabilite per il duello ciascuno di noi ha diritto a un secondo colpo».
«Mi scusi, ma lo metteremo da parte per un'altra occasione», rispose Bazàrov, e sostenne col braccio Pàvel Petròviè che cominciava a impallidire.
«Ora non sono più un duellante, sono un medico e devo guardare la sua ferita. Pëtr, vieni qui! Dove ti sei nascosto?».
«Sciocchezze, non ho bisogno dell'aiuto di nessuno», disse Pàvel Petròviè respirando a fatica, «anzi, dovremmo di nuovo...». Avrebbe voluto toccarsi un baffo, ma la mano gli venne meno, gli occhi gli si annebbiarono e svenne.
«Questa è nuova! Uno svenimento! E come mai?», esclamò involontariamente Bazàrov e distese Pàvel Petròviè sull'erba. «Vediamo di che si tratta». Si tolse di tasca il fazzoletto, asciugò il sangue e tastò tutt'intorno alla ferita... «L'osso è illeso», borbottò tra i denti, «il proiettile l'ha colpito di striscio e non è entrato in profondità, è stato toccato solo il muscolo vastus externus. Fra tre settimane potrà andare a ballare... Ma quello svenimento! Che gente nervosa! Guarda che pelle delicata».
«È morto?», sussurrò in un soffio Pëtr dietro le sue spalle.
Bazàrov si voltò.
«Corri a prendere dell'acqua, fratello, Pàvel Petròviè sopravviverà a me e a te».
Ma il cameriere evoluto parve non capire e non si mosse dal suo posto. Pàvel Petròviè sollevò le palpebre. «Sta morendo!», gemette Pëtr e si fece il segno della croce.
«Lei ha ragione... Che espressione sciocca...», disse il gentleman ferito, sorridendo a fatica.
«Ma corri a prendere l'acqua, disgraziato», gridò Bazàrov.
«Non è necessario... Ho avuto un attimo di vertige... Mi aiuti a mettermi a sedere... ecco... così. Basterà bendare questa scalfittura e andrò a casa a piedi, altrimenti farà venire il calesse. Se non ha nulla da obiettare il duello si concluderà così. Lei si è comportato nobilmente oggi... ho detto oggi».
«Non è il caso di pensare al passato», ribatté Bazàrov, «e quanto al futuro non c'è da preoccuparsi, perché ho già deciso di andarmene immediatamente. Ora le benderò la gamba, la sua ferita non è pericolosa, ma è meglio fermare il sangue. Prima però bisogna far resuscitare il morto». Bazàrov scrollò Pëtr per il bavero della giacca e poi lo mandò a prendere il calesse.
«Sta' bene attento a non spaventare mio fratello», gli disse Pàvel Petròviè, «e che non ti venga in mente di raccontargli quello che è successo».
Pëtr si allontanò correndo e i due avversari rimasero seduti in terra, senza parlare. Pàvel Petròviè si sforzava di non guardare Bazàrov, non voleva riappacificarsi con lui, si vergognava della propria alterigia, della sconfitta subita, di tutta la vicenda provocata da lui, anche se si rendeva conto che non avrebbe potuto concludersi meglio. Almeno se ne andrà, ripeteva a se stesso per tranquillizzarsi, ed è già un buon risultato. Il silenzio si prolungava, greve e penoso. Entrambi si sentivano a disagio, sapevano di conoscere perfettamente l'uno lo stato d'animo dell'altro, una condizione piacevole tra amici ma infinitamente spiacevole quando non ci si possa né spiegare né congedare.
«Non vorrei averle bendato la gamba troppo stretta», disse infine Bazàrov.
«No, no, va benissimo», rispose Pàvel Petròviè, e dopo poco aggiunse: «sarà difficile ingannare mio fratello, dovremo dirgli che abbiamo avuto un diverbio a causa della nostra divergenza di opinioni politiche».
«Benissimo, diciamogli che ho parlato male di tutti gli anglomani».
«Perfetto. Che cosa ritiene che pensi di noi quell'uomo?», Pàvel Petròviè indicò il contadino che, poco prima del duello, era passato davanti a Bazàrov, spingendo i cavalli legati con le pastoie, e che ora tornava indietro cercando di tirarsi in disparte e togliendosi il berretto davanti ai «signori».
«Chi lo sa?», rispose Bazàrov. «È molto probabile che non pensi niente. Il contadino russo è quell'essere misterioso, sconosciuto del quale ha tanto scritto a suo tempo la signora Radcliffe. Chi lo può capire, se lui per primo non capisce se stesso?».
«Ah, lei pensa così...!», disse Pàvel Petròviè, ma a un certo punto s'interruppe ed esclamò: «Guardi che cosa ha combinato quello stupido del suo Pëtr. Ha avvertito mio fratello!».
Bazàrov si voltò e vide Nikolàj Petròviè che arrivava in calesse e, prima ancora che fosse fermo, scendeva, pallido, e correva verso il fratello.
«Che cos'è successo?», esclamò con la voce alterata dall'angoscia. «Evgènij Vasìl'eviè, per carità, che cosa succede?».
«Niente di grave», rispose Pàvel Petròviè, «non avrebbero dovuto disturbarti. Il signor Bazàrov e io abbiamo avuto una piccola divergenza di opinioni e io ne porto, in piccola parte, le conseguenze».
«Ma Dio mio, per che motivo?».
«Non saprei neppure spiegartelo. Il signor Bazàrov ha parlato di Sir Robert Peel in modo irrispettoso e... Devo ammettere però che la colpa è tutta mia, il signor Bazàrov si è comportato molto bene, sono stato io a sfidarlo».
«Ma guarda, sei ferito, quello è sangue!».
«Perché, credevi che avessi acqua nelle vene? Perdere un po' di sangue non può farmi che bene, vero dottore? Aiutami piuttosto a salire sul calesse e non rattristarti così. Domani starò bene. Ecco, così. A posto. Via, cocchiere!».
Nikolàj Petròviè seguì a piedi il calesse. Bazàrov era rimasto indietro.
«Devo chiederle di occuparsi di mio fratello», gli disse Nikolàj Petròviè, «finché non arriverà un altro medico dalla città».
Bazàrov annuì in silenzio.
Un'ora dopo Pàvel Petròviè era gia nel suo letto con la gamba bendata a regola d'arte. Tutta la casa era entrata in uno stato di agitazione. Fèneèka si era sentita male. Nikolàj Petròviè si torceva le mani senza parlare, solo Pàvel Petròviè rideva e scherzava, soprattutto con Bazàrov, era vestito con una sottile camicia di batista, una elegante giacca da mattina e il fez, non aveva voluto che si chiudessero le tende e si lamentava, per gioco, di dover restare a digiuno.
Verso sera, però, gli venne la febbre e male alla testa. Dalla città arrivò il medico che Nikolàj Petròviè aveva chiamato senza dare ascolto al fratello, tanto più che anche Bazàrov aveva chiesto che fosse consultato. Era rimasto chiuso in camera sua, pallido, inquieto, era andato a visitare il ferito, ma trattenendosi solo pochi minuti; per due volte aveva incontrato Fèneèka che era fuggita, spaventata. Il nuovo medico consigliò qualche bevanda rinfrescante e per il resto confermò quel che aveva detto Bazàrov e cioè che non vi sarebbero state complicazioni. Nikolàj Petròviè gli aveva detto che suo fratello si era ferito da solo, per disattenzione, e il medico aveva cominciato a rispondere con un «ehm» poco convinto, ma un attimo dopo, ricevuti venticinque rubli d'argento, concluse: «Già, capita spesso, infatti».
Nessuno in casa andò a dormire e nemmeno si svestì, quella notte. Nikolàj Petròviè entrava e usciva in punta di piedi dalla camera del fratello, che ora si assopiva, ora gemeva o gli diceva in francese : «Couchez vous», e chiedeva da bere. Nikolàj Petròviè chiese una volta a Fèneèka di portargli un bicchiere di acqua e limone. Pàvel Petròviè la guardò intensamente e vuotò il bicchiere fino in fondo. Verso il mattino la febbre salì un poco e l'ammalato fu colto da un leggero delirio. Dapprima all'improvviso aprì gli occhi e vedendo suo fratello accanto al letto, chino sollecitamente su di lui disse:
«Non ti pare che Feneèka somigli un pochino a Nellì?».
«Nellì? Chi è Nellì, Paša?».
«Come, non ti ricordi. È la principessa R... Soprattutto nella parte superiore del viso. C'est de la même famille!».
Nikolàj Petròviè non rispose, ma si meravigliò nel constatare quanto a lungo possa sopravvivere un sentimento nell'animo umano.
"Ecco, quando è riemerso...", pensò.
«Ah, come amo questa creatura vuota», gemeva Pàvel Petròviè sollevando le braccia con un gesto di sconforto e poco dopo balbettava: «Non sopporto che un insolente osi toccarla».
Nikolàj Petròviè sospirava, senza immaginare a chi si riferissero quelle parole.
Bazàrov andò da lui il giorno dopo alle otto. Aveva preparato i bagagli e rimesso in libertà le rane, gli uccelli e gli insetti. Nikolàj Petròviè si alzò per andargli incontro:
«È qui per salutarmi?».
«Infatti».
«Capisco e approvo la sua decisione; mio fratello, naturalmente, ha tutta la responsabilità ed è stato anche punito. Mi ha detto che l'ha messa nell'impossibilità di rifiutare il duello che... che... in parte trova una spiegazione nel vostro continuo scontro di opinioni», Nikolàj Petròviè cercava le parole. «Mio fratello ha idee antiquate, è irascibile, ostinato. Grazie a Dio tutto è finito così. Ho provveduto in modo che non si venga a sapere...».
«Le lascio il mio indirizzo, nel caso insorgessero delle noie...», disse con negligenza Bazàrov.
«Spero che non ci saranno noie, Evgènij Vasìl'iè... Mi dispiace molto che i giorni che ha trascorso nella mia casa... si siano conclusi così. Mi dispiace ancora di più che proprio ora Arkàdij...».
«Forse lo vedrò», disse Bazàrov che si spazientiva quando si trovava a dover ascoltare chiarimenti o precisazioni, «lo saluti per me e creda che mi dispiace partire».
«Anch'io la prego di credere...», rispose, inchinandosi, Nikolàj Petròviè, ma Bazàrov non aspettò che finisse di parlare e uscì.
Quando seppe che Bazàrov stava per partire, Pàvel Petròviè chiese di vederlo e gli strinse la mano, ma Bazàrov capì che era un gesto dettato dal desiderio di mostrarsi generoso e restò freddo come il ghiaccio. Avrebbe voluto salutare Fèneèka, ma riuscì solo a scambiare con lei un'occhiata dalla finestra. Gli parve triste. "Si sentirà perduta", disse fra sé. "Ma no, riuscirà a riprendersi!". Pëtr, invece, si commosse e pianse sulla sua spalla, finché Bazàrov non riuscì a scuoterlo chiedendogli se era un piagnucolone. Dunjàša corse a rifugiarsi nel bosco per nascondere la propria desolazione. Il responsabile di tutto questo dolore salì sul carro, accese un sigaro e quando, dopo quattro verste, a una curva apparve per l'ultima volta la proprietà dei Kirsànov distribuita su una sola linea con, a una estremità, la nuova casa padronale, sputò per terra e borbottò:
«Maledetti signorotti», e si avvolse meglio nel cappotto.
Presto Pàvel Petròviè si sentì meglio, ma dovette restare a letto una settimana. Sopportava con pazienza quella che chiamava la sua «prigionia», ma si preoccupava molto della sua toilette e seguitava a chiedere che si spruzzasse nella stanza dell'acqua di Colonia. Nikolàj Petròviè gli leggeva delle riviste.
Fèneèka lo serviva come prima, gli portava il brodo, l'acqua e limone, le uova à la coque, il tè, ma ogni volta veniva presa da un segreto terrore. Il gesto inatteso di Pàvel Petròviè aveva impressionato tutti in casa, e lei più degli altri; l'unico a non stupirsi era stato Prokòf'iè, il quale raccontava che ai suoi tempi i signori si battevano sempre a duello, ma «solo i nobili e solo fra di loro», diceva, «non con certe persone volgari che avrebbero fatto prendere a frustate nelle loro stalle».
Fèneèka non aveva rimorsi, ma ogni tanto, pensando a quale era stata la vera ragione del duello, soffriva; e poi Pàvel Petròviè la guardava in un modo così strano... sentiva i suoi occhi su di sé anche quando era voltata di spalle. L'inquietudine l'aveva fatta dimagrire e, come succede in questi casi, era diventata ancora più graziosa.
Un giorno, era mattina, Pàvel Petròviè si era sentito meglio e invece di restare a letto si era disteso sul divano; Nikolàj Petròviè, dopo essersi informato sulla sua salute, era andato sull'aia. Fèneèka gli aveva portato una tazza di tè e stava per andarsene, ma Pàvel Petròviè la trattenne.
«Dove corre, Fedòs'ja Nikolàevna», disse. «Ha molto da fare?».
«No... Sì... Devo portare il tè di là».
«Ci penserà Dunjàša. Resti un po' a tenere compagnia all'ammalato. Vorrei parlarle».
Fèneèka sedette in silenzio, sul bordo di una poltrona.
«È da tanto tempo che volevo farle questa domanda», disse Pàvel Petròviè, lisciandosi i baffi. «Lei ha forse paura di me?».
«Io?».
«Sì, lei. Non mi guarda mai, come se avesse un peso sulla coscienza».
Fèneèka arrossì, ma guardò Pàvel Petròviè, le parve che avesse un'espressione strana e si sentì tremare il cuore.
«Ma la sua coscienza è pura, vero?».
«Perché non dovrebbe essere pura?», bisbigliò Fèneèka.
«Potrebbero esserci tante ragioni. Ma, dopotutto, nei confronti di chi potrebbe avere dei torti. Verso di me? È un'assurdità. Verso le altre persone che vivono qui in casa? È impossibile. Verso mio fratello? Ma lei lo ama, vero?».
«Sì, lo amo».
«Con tutta l'anima, con tutto il cuore?».
«Sì, io amo Nikolàj Petròviè con tutto il cuore».
«Davvero? Mi guardi in viso, Fèneèka», era la prima volta che la chiamava così, «lo sa che la menzogna è una colpa grave?».
«Io non mento, Pàvel Petròviè! Se non amassi Nikolàj Petròviè preferirei esser morta!».
«E non lo cambierebbe con nessun altro?».
«E con chi potrei cambiarlo?».
«Con tanti altri, per esempio con quel signore che è appena partito».
Fèneèka si alzò in piedi.
«Dio mio, Pàvel Petròviè, perché lei mi tormenta così? Che cosa le ho fatto? Come può dirmi certe cose?».
«Fèneèka», rispose Pàvel Petròviè con voce triste, «io ho visto».
«Che cosa ha visto?».
«Là, sotto il pergolato...».
Fèneèka avvampò fino alla fronte.
«Io non ne ho colpa», riuscì a dire a fatica.
Pàvel Petròviè si mise a sedere sul divano: «Non ne ha colpa? Neanche un pochino?».
«Io amo soltanto Nikolàj Petròviè e lo amerò per tutta la vita!», disse con un'energia improvvisa mentre i singhiozzi le chiudevano la gola, «e quello che lei ha visto, lo dirò anche nel giorno del giudizio universale, non è stata colpa mia e sarebbe meglio morire piuttosto che essere sospettata di aver potuto... proprio al mio benefattore... a Nikolàj Petròviè...».
Le mancò la voce e nello stesso tempo si accorse che Pàvel Petròviè le aveva preso una mano e gliela stringeva... lo guardò e restò impietrita. Pàvel Petròviè era diventato ancora più pallido, gli occhi gli brillavano, ma Fèneèka si stupì soprattutto nel vedere sulla sua guancia una grossa lacrima solitaria.
«Fèneèka», disse con voce bassa e alterata Pàvel Petròviè, «lei deve amare mio fratello, è tanto buono! Non lo inganni con nessuno, non si lasci lusingare dalle parole di nessuno. Si ricordi che non c'è tormento peggiore che amare senza essere amati. Non lasci mai solo il mio povero Nikolàj».
Fèneèka aveva gli occhi asciutti, le era passata la paura, tanto grande era lo stupore. Ma ancora di più si stupì quando Pàvel Petròviè, lui, posò le labbra sulla sua mano e senza baciarla restò così, sospirando convulsamente di quando in quando.
Signore, pensò Fèneèka, non si sentirà male?
Invece, in quel momento, tutta una vita perduta aveva ripreso a palpitare per Pàvel Petròviè.
La scala scricchiolò, qualcuno stava salendo in fretta... Pàvel Petròviè allontanò da sé Fèneèka e appoggiò la testa sul cuscino. La porta si aprì e allegro, fresco, colorito apparve Nikolàj Petròviè con Mìtja, che, fresco e colorito come suo padre, gli saltellava tra le braccia vestito solo di un camicino, e si aggrappava con i piedini ai grossi bottoni della giacca da campagna. Fèneèka si slanciò verso di lui, l'abbracciò insieme al bambino, e posò la testa sulla sua spalla. Nikolàj Petròviè si stupì, perché Fèneèka era timida e riservata e non era mai stata così espansiva davanti ad altri.
«Che cosa c'è?», le chiese e, guardando Pàvel Petròviè, le diede in braccio il bambino. «Ti senti peggio?», chiese al fratello.
Pàvel Petròviè nascose il viso nel fazzoletto di batista. «No... non c'è niente di nuovo... anzi sto molto meglio».
«Hai fatto male a passare dal letto al divano, è troppo presto. Aspetta», Nikolàj Petròviè si rivolse a Fèneèka, «dove vai?». Ma lei se n'era già andata. «Ti avevo portato il mio piccolo eroe che aveva nostalgia dello zio, ma se l'è portato via. Che cos'hai? Che cosa vi siete detti?».
«Fratello!», esclamò con voce grave Pàvel Petròviè.
Nikolàj Petròviè trasalì e senza spiegarsene la ragione ebbe paura di ciò che avrebbe potuto sentirsi dire.
«Fratello», ripeté Pàvel Petròviè, «promettimi che adempirai alla mia preghiera».
«Quale preghiera? Dimmi».
«È una cosa importante dalla quale dipende la felicità di tutta la tua vita. Ho riflettuto molto a quello che sto per dirti: fa' il tuo dovere di uomo onesto e nobile, poni fine allo scandalo e al cattivo esempio che viene da te, il migliore degli uomini».
«Che cosa vuoi dire, Pàvel?».
«Sposa Fèneèka... Ti ama ed è la madre di tuo figlio».
Nikolàj Petròviè fece un passo indietro e allargò le braccia:
«E sei proprio tu a darmi questo consiglio, Pàvel? Ho sempre pensato che non approvassi questo genere di matrimoni. Proprio tu! Ma sai che per un riguardo verso di te ho sempre esitato a compiere quello che giustamente chiami il mio dovere?».
«Hai fatto male a farti dei riguardi per me», protestò con un sorriso triste Pàvel Petròviè, «comincio a pensare che Bazàrov avesse ragione quando mi rimproverava di avere una mentalità aristocratica. No, mio caro fratello, non dobbiamo più fingere e pensare al giudizio del mondo: siamo vecchi, tranquilli, è ora di mettere da parte le vanità. Come dici tu, cerchiamo di compiere il nostro dovere e ne ricaveremo in cambio anche la felicità».
Nikolàj Petròviè si chinò di slancio ad abbracciare suo fratello.
«Mi hai aperto gli occhi», esclamò. «Ho sempre saputo che tu sei l'uomo più buono e più intelligente del mondo, ma ora vedo che sei altrettanto generoso che saggio».
«Piano, piano», lo interruppe Pàvel Petròviè, «fa' attenzione alla gamba del tuo saggio fratello che a cinquant'anni si è battuto a duello come un ufficialetto. Dunque è deciso: Fèneèka sarà la mia... belle soeur».
«Mio caro Pàvel! Ma che cosa dirà Arkàdij?».
«Arkàdij? Sarà felice, te l'assicuro. Il matrimonio non rientra nei suoi principes; ma sarà soddisfatto il suo sentimento di uguaglianza. E, veramente, è ancora concepibile una divisione in caste au dix-neuvième siècle?».
«Oh Pàvel, lasciati abbracciare ancora una volta, non temere, starò attento a non farti male alla gamba».
I due fratelli si abbracciarono.
«Perché non le annunci subito la tua intenzione?», chiese Pàvel Petròviè.
«Che fretta c'è?», disse Nikolàj. «Ne hai già parlato con lei?».
«Ma no, quelle idée».
«Bene. Adesso pensa prima di tutto a guarire, per il resto non c'è fretta, bisogna riflettere...».
«Ma non hai già deciso?».
«Certo, ho deciso e ti ringrazio di cuore. Ora ti lascio, devi riposare, ti fa male agitarti... Ma ne riparleremo. Dormi, mio caro e che Dio ti ridia la salute».
Di che mi ringrazia?, pensò Pàvel Petròviè quando rimase solo. Come se non dipendesse da lui! Appena saranno sposati me ne andrò in qualche città lontana, Dresda o Firenze, e vivrò là finché non morirò.
Pàvel Petròviè si passò un po' d'acqua di Colonia sulla fronte e chiuse gli occhi. Illuminata dalla limpida luce del giorno, la sua bella testa affilata giaceva sul guanciale bianco come la testa di un morto...
Ed era un morto, infatti.

XXV

A Nikòl'skoe, in giardino, all'ombra di un frassino, Kàtja e Arkàdij sedevano su un sedile ricoperto d'erba; in terra, lì accanto, stava accucciata Fifì e il suo corpo lungo e sottile aveva assunto quella posa aggraziata che i cacciatori chiamano «da lepre». Arkàdij e Kàtja tacevano; lui aveva in mano un libro socchiuso, lei toglieva dal fondo di un cestino delle briciole di pane e le gettava a una piccola famiglia di passeri che, temerari e paurosi come è loro costume, saltellavano e cinguettavano ai suoi piedi. Un vento leggero andava a impigliarsi tra le foglie del frassino, agitava avanti e indietro lungo il viottolo buio e sul dorso giallo di Fifì macchie di luce color oro pallido; un'ombra uniforme avvolgeva Arkàdij e Kàtja, solo a tratti si accendeva una striscia lucente tra i capelli di lei. Tacevano, ma proprio quel modo di stare in silenzio uno accanto all'altra rivelava una affinità fiduciosa; nessuno dei due sembrava pensasse all'altro mentre in segreto era felice di essergli vicino. Anche i loro visi erano cambiati dall'ultima volta; Arkàdij sembrava più tranquillo, Kàtja più vivace, più disinvolta.
«Non le pare», diceva Arkàdij, «che il frassino non potrebbe avere in russo un nome più adatto? Jàsen' è come jàsnyj che vuol dire chiaro e luminoso e infatti nessun albero è così leggero e trasparente...».
Kàtja alzò gli occhi e rispose: «Sì», e Arkàdij pensò: lei non mi rimprovera perché dico belle frasi.
«A me Heine non piace», disse Kàtja accennando con lo sguardo al libro che Arkàdij aveva in mano, «né quando ride né quando piange, mi piace quando è pensieroso e malinconico».
«A me, invece, piace quando ride», osservò Arkàdij.
«Queste, in lei, sono le vecchie tracce della sua inclinazione all'ironia...» (le vecchie tracce, pensò Arkàdij, se la sentisse Bazàrov!). «Aspetti, noi la trasformeremo».
«Chi? Lei?».
«Chi? Mia sorella; Porfìrij Platònoviè con il quale non litiga più, la zia che l'altro giorno ha accompagnato in chiesa».
«Potevo rifiutare? Ma Anna Sergèevna, si ricorda, era in molte cose d'accordo con Evgènij».
«Subiva allora la sua influenza, e anche lei, Arkàdij».
«Anch'io? Vuol dire che ora me ne sono liberato?».
Kàtja non rispose.
«So che non le è mai piaciuto».
«Non posso giudicarlo».
«Lasci che le dica, Katerìna Sergèevna, che ogni volta che sento questa risposta, non ci credo. È una scusa. Ciascuno di noi può giudicare chiunque».
«Bene... non è che non mi piaccia, ma sento che mi è estraneo e che io gli sono estranea... Anche lei gli è estraneo, Arkàdij Nikolàeviè».
«Perché?».
Non so come spiegarmi... è un rapace, mentre noi due siamo domestici».
«Anch'io sono domestico?».
Kàtja annuì.
Arkàdij si grattò un orecchio.
«Katerìna Sergèevna, questo è un giudizio offensivo».
«Perché? Vorrebbe essere un rapace?».
«Rapace no, ma vorrei essere forte, energico».
«Non si tratta di volerlo, non credo che il suo amico voglia essere com'è, semplicemente è fatto così».
«Mmm... Crede che abbia avuto un grande ascendente su Anna Sergèevna?».
«Sì», rispose Kàtja sottovoce, «ma nessuno può avere a lungo un grande ascendente su di lei».
«Perché?».
«È molto orgogliosa... no, non volevo dire questo.... tiene molto alla propria autonomia».
«Tutti ci tengono», disse Arkàdij ma nello stesso tempo si chiese, come in un lampo: a che serve l'autonomia? E anche Kàtja insieme a lui, si pose la stessa domanda. Ai giovani, quando si vedono spesso e sono amici, capita di avere gli stessi pensieri.
Arkàdij sorrise, si avvicinò leggermente a Kàtja e sussurrò.
«Confessi che ha un po' di paura di lei».
«Di chi?».
«Di lei».
«E lei, Arkàdij Nikolàeviè, ne ha paura?».
«Sì, anch'io. Ho detto anch'io, se n'è accorta?».
Kàtja sorrise e lo ammonì, agitando un dito.
«Davvero? È strano, perché mia sorella non è mai stata così ben disposta verso di lei come adesso; molto più che al tempo della sua prima visita».
«Ah, sì?».
«Non se n'è accorto? Non le fa piacere?».
Arkàdij rimase soprappensiero.
«Che cos'ho fatto per meritare la benevolenza di Anna Sergèevna? Forse mi è grata che le abbia portato le lettere di vostra madre?».
«Per questo, certo, ma anche per altre ragioni che non le dirò».
«Perché?».
«Non gliele dirò».
«Oh, so che lei è molto testarda».
«Sì, sono testarda».
«E osservatrice».
Kàtja gli diede una rapida occhiata:
«E questo la infastidisce? A che cosa sta pensando?».
«Sto pensando a quale potrebbe essere l'origine di questa sua attitudine all'osservazione, lei è così timida, ansiosa, un po' sfuggente».
«Ho vissuto molto da sola, per questo sono diventata riflessiva. Ma le pare davvero che sia sfuggente?».
Arkàdij le rivolse uno sguardo di gratitudine.
«Tutto questo è giusto», disse, «ma le persone della sua condizione, voglio dire con la sua sostanza, possiedono di rado la capacità di osservare quel che gli sta intorno: la verità spesso non arriva fino a loro, è la sorte dei re».
«Ma io non sono ricca».
Arkàdij, stupito, non capì subito. Poi pensò: "È vero, la tenuta è di sua sorella", e il pensiero non gli fu sgradito.
«Come l'ha detto bene!», esclamò.
«Perché?».
«L'ha detto bene, con semplicità, senza imbarazzo. Ecco, a me pare che chi sa e dichiara di essere povero debba ricavarne una sorta di orgoglio».
«Io non ho provato che cosa sia la povertà grazie a mia sorella; ho detto che non sono ricca solo perché ci siamo trovati a parlare di questo argomento».
«È vero, ma confessi che anche in lei c'è in piccolissima parte quell'orgoglio cui accennavo prima».
«Per esempio?».
«Per esempio lei, mi scusi se glielo chiedo, sposerebbe un uomo ricco?».
«Se l'amassi molto... No, credo che in ogni caso non lo sposerei mai».
«Ecco, vede?», esclamò Arkàdij e, dopo un momento di esitazione, aggiunse: «Ma perché non lo sposerebbe?».
«Lo dice anche la canzone: se nella coppia c'è diversità...».
«Forse lei vorrebbe avere una posizione di predominio o...».
«No, no! Perché? Al contrario, sono pronta a sottomettermi, solo che certe diseguaglianze sono gravose da sopportare. Avere rispetto di me stessa e sottomettermi, questo lo capisco, è la felicità; ma una vita di umiliazione, no, basta».
«Basta, sì», ripeté Arkàdij. «Non per nulla lei è la sorella di Anna Sergèevna, e ha uno spirito indipendente quanto il suo, ma più chiuso. Sono sicuro che per nessuna ragione al mondo lei esprimerebbe per prima un suo sentimento, anche se puro e intenso...».
«Potrei comportarmi diversamente?».
«Lei è intelligente come sua sorella e ha una personalità altrettanto forte, se non di più...».
«Non faccia un paragone tra me e mia sorella, per favore», lo interruppe Kàtja con vivacità, «sarebbe troppo svantaggioso per me... Lei sembra dimenticare la bellezza e l'intelligenza di mia sorella. Proprio lei, Arkàdij Nikolàeviè, non dovrebbe dire certe cose e per di più con l'aria di fare sul serio».
«Che cosa significa "proprio lei" e perché pensa che stia scherzando?».
«Sono sicura che sta scherzando».
«Davvero? E se invece fossi convinto di quello che dico? Se, addirittura, pensassi di non essermi espresso con sufficiente vigore?».
«Non la capisco».
«Allora devo pensare di aver sottovalutato il suo spirito di osservazione».
«Perché?».
Arkàdij non rispose e voltò la testa dall'altra parte; Kàtja cercò nel cestello qualche altra briciola e la gettò ai passeri, ma ebbe un gesto troppo brusco e i passeri volarono via senza aver fatto in tempo a beccare.
«Katerìna Sergèevna», disse a un tratto Arkàdij, «forse per lei sarà indifferente, ma sappia che io non la cambierei non solo con sua sorella, ma con nessuno al mondo», poi si alzò e quasi spaventato dalle proprie parole si allontanò in fretta.
Kàtja si lasciò cadere in grembo le mani e il cestello e, inclinando la testa, seguì Arkàdij a lungo con lo sguardo. A poco a poco le si colorarono le guance ma le sue labbra non sorridevano, e i suoi occhi scuri esprimevano incertezza e un sentimento ancora senza nome.
«Sei sola?», sentì vicino a sé la voce di Anna Sergèevna. «Mi sembrava che fossi venuta in giardino con Arkàdij».
Lentamente Kàtja alzò gli occhi sulla sorella che, vestita con eleganza, anzi con ricercatezza, era sul viottolo e con la punta dell'ombrellino da sole aperto muoveva le orecchie di Fifì, e lentamente le rispose: «Sì, sono sola».
«Lo vedo», disse Anna Sergèevna, ridendo, «dunque è tornato in camera sua?».
«Sì».
«Avete letto insieme?».
«Sì».
Anna Sergèevna prese Kàtja per il mento e le sollevò il viso.
«Non avete litigato, spero».
«No», disse Katja e scostò piano la mano della sorella.
«Con quanta serietà mi rispondi! Credevo che Arkàdij fosse ancora qui e volevo proporgli di fare una passeggiata con me. Me lo chiede sempre. Ti hanno portato dalla città le scarpe nuove, vai a misurartele. Ho visto ieri che le altre sono tutte consumate.Ti occupi troppo poco di queste cose. Hai dei piedini meravigliosi. E hai anche delle belle mani... solo un po' grandi, dunque devi sfruttare la bellezza dei tuoi piedini. Ma tu non sei civetta».
Anna Sergèevna proseguì lungo il viottolo, nel lieve fruscio del suo abito elegante; Kàtja si alzò, prese il libro di Heine e se ne andò anche lei, ma non a misurarsi le scarpe.
Piedini meravigliosi, pensava, salendo lenta e leggera i gradini di pietra della terrazza scaldati dal sole, piedini meravigliosi... bene, lui dovrà inginocchiarsi davanti a questi piedini. Ma si vergognò subito di questo pensiero e corse su, in fretta.
Arkàdij percorreva il corridoio che portava alla sua camera, quando il maggiordomo lo raggiunse e gli annunciò che il signor Bazàrov lo stava aspettando.
«Evgènij!», mormorò, quasi spaventato, Arkàdij, «è arrivato da molto?».
«In questo momento. Ha ordinato di accompagnarlo direttamente da lei, senza avvertire Anna Sergèevna».
Non sarà successa qualche disgrazia a casa?, pensò Arkàdij e salì di corsa le scale. Quando aprì la porta l'aspetto di Bazàrov lo calmò subito anche se un occhio più esperto avrebbe forse osservato nel viso forte ma smagrito del visitatore inatteso le tracce dell'inquietudine. Col cappotto impolverato sulle spalle, il cappello in testa, stava seduto sul davanzale della finestra e non si mosse nemmeno quando Arkàdij gli gettò le braccia al collo protestando a gran voce la sua sorpresa.
«Come mai qui? Non ti aspettavo!», ripeteva agitandosi qua e là per la stanza come chi crede di essere contento e vuole che gli altri lo sappiano. «Va tutto bene a casa mia? Stanno tutti bene, vero?».
«Va tutto bene, sì, ma non tutti stanno bene. Ora però smettila di blaterare, fammi portare del kvas, siediti e ascolta quello che ti comunicherò in poche, ma, mi auguro, incisive parole».
Arkàdij si calmò e Bazàrov gli parlò del suo duello con Pàvel Petròviè. Arkàdij si stupì e si rattristò, ma preferì non darlo a vedere; chiese solo se davvero la ferita dello zio non destasse preoccupazioni e quando Bazàrov gli rispose che era una ferita molto interessante, ma non dal punto di vista medico, sorrise a fatica ma nel profondo del suo cuore provò paura e vergogna. Bazàrov parve rendersene conto.
«Sì, amico mio», disse, «ecco che cosa vuol dire vivere coi feudatari, si diventa come loro e si partecipa ai tornei cavallereschi. Così sono partito, torno "dai padri"», concluse Bazàrov «e, strada facendo sono venuto qui... per raccontarti tutto, direi, se non mi sembrasse una inutile bugia. No, sono venuto qui il diavolo sa perché. Vedi, qualche volta fa bene all'uomo prendersi per il ciuffo e strapparsi via come una rapa dall'orto; è quello che ho fatto io in questi giorni... Ma prima voglio vedere ancora una volta tutto ciò da cui mi sono separato, l'orto in cui sono stato piantato».
«Spero che tu non ti riferisca a me», disse preoccupato Arkàdij, «che non pensi di separarti da me».
Bazàrov gli diede un'occhiata seria, quasi penetrante.
«Ti dispiacerebbe tanto? Ho l'impressione che sia stato tu a separarti da me. Sei tutto fresco, in ordine... gli affari con Anna Sergèevna devono andare a meraviglia».
«Quali affari?».
«Non sei venuto qui per lei, bambino? A proposito che mi dici delle scuole domenicali? Non sei innamorato di lei? O è già venuto per te il momento di schermirsi?».
«Evgènij, tu sai che sono sempre stato sincero con te; ti assicuro, ti giuro che ti sbagli».
«Ahi, una espressione nuova», osservò a mezza voce Bazàrov. «Ma non te la prendere, tanto non me ne importa. Un romantico direbbe: sento che le nostre strade si separano, io ti dico semplicemente che ci siamo venuti a noia l'un l'altro».
«Evgènij...».
«Suvvia, non è un guaio, ci sono tante cose al mondo che prima o poi vengono a noia. Ora è arrivato il momento di salutarci. Da quando sono qui mi sento infelice come se avessi letto le lettere di Gogol' alla moglie del governatore di Kaluga. E poi non ho neanche fatto staccare i cavalli».
«Non puoi andartene così!».
«Perché no?».
«Non parlo per me, ma è una scortesia verso Anna Sergèevna che certo desidera vederti».
«Se pensi questo ti sbagli».
«Io, invece, sono sicuro di aver ragione. Ma perché non sei sincero? Ora che se ne parla, perché non ammetti di essere venuto qui per lei?».
«Potrebbe anche essere vero, ma tu ti sbagli lo stesso».
Arkàdij, invece, aveva ragione. Anna Sergèevna volle vedere Bazàrov e lo invitò, attraverso il maggiordomo ad andare da lei. Bazàrov si cambiò il vestito che aveva tenuto in viaggio con un altro che, a giudicare dalle apparenze, aveva messo in valigia in modo da averlo a portata di mano.
La Odincòva non lo ricevette nella stanza dove lui le aveva, tanto all'improvviso, dichiarato il suo amore, ma in salotto. Gli porse sorridendo la punta delle dita, ma da tutto il suo viso traspariva una incontrollabile tensione.
«Anna Sergèevna», si affrettò a dire Bazàrov, «prima di tutto debbo rassicurarla: davanti a lei sta un mortale che ormai da tempo è rinsavito e spera che anche gli altri non ricordino più le sue sciocchezze. Parto per un lungo periodo di tempo e, anche se non sono un sentimentale, non mi piacerebbe, credo che lei mi capirà, portare con me il pensiero della sua ostilità nei miei confronti».
Anna Sergèevna sospirò profondamente come se fosse salita sulla vetta di una montagna, sorrise e il suo volto si animò. Tese per la seconda volta la mano a Bazàrov e rispose alla sua stretta.
«Non bisogna ricordare il passato», disse «e poi devo confessare che anch'io ho peccato allora, se non per civetteria, per qualcos'altro. In una parola: siamo sempre amici. È stato un sogno, vero? E chi li ricorda i sogni?».
«Chi li ricorda? E poi l'amore è un sentimento inconsistente».
«Davvero? Mi fa piacere sentirglielo dire».
Così parlavano Anna Sergèevna e Bazàrov, ma erano convinti della verità delle proprie parole? Non lo sapevano e tanto meno lo sa l'autore, ma la loro conversazione continuò come se ciascuno avesse creduto pienamente alle ragioni dell'altro.
Anna Sergèevna domandò a Bazàrov che cosa avesse fatto dai Kirsànov. Bazàrov stava per raccontarle del duello con Pàvel Petròviè ma non volle farle credere di volersi rendere interessante e rispose che aveva lavorato tutto il tempo.
«Io, da principio», disse Anna Sergèevna, «sono stata presa, chi sa perché, dalla malinconia, avevo perfino pensato, si figuri, di partire per l'estero. Poi mi sono ripresa, è arrivato il suo amico Arkàdij Nikolàeviè, e sono tornata quella di sempre, ho ripreso il mio ruolo».
«Posso sapere qual è questo ruolo?».
«Il ruolo della zia, dell'istitutrice, della madre... A proposito, sa che all'inizio trovavo Arkàdij Nikolàeviè piuttosto insignificante e non riuscivo a capire come lei potesse essergli tanto amico? Ora, però, l'ho conosciuto meglio e mi sono convinta che è intelligente. E soprattutto è giovane, giovane... non come noi due, Evgènij Vasìl'iè».
«È ancora così timido con lei?».
«Forse...», Anna Sergèevna rifletté un momento, «Ha più confidenza, mi parla. Prima mi sfuggiva. Dal resto neanch'io cercavo la sua compagnia. Lui e Kàtja sono molto amici».
Bazàrov, irritato, pensò: una donna non rinuncia mai a queste piccole astuzie.
«La sfuggiva?», osservò con un sorriso freddo. «Era innamorato di lei, non credo che sia un segreto».
«Come, anche lui?», si lasciò sfuggire Anna Sergèevna.
«Anche lui», ripeté Bazàrov con un inchino, «Non lo sapeva? È possibile? Le ho detto qualcosa di nuovo?».
Anna Sergèevna abbassò gli occhi.
«Lei si sbaglia Evgènij Vasìl'iè».
«Non credo, ma forse avrei fatto meglio a non parlarne». E tu, aggiunse tra sé Bazàrov, d'ora in avanti rinuncia a giocare di astuzia.
«Perché non parlarne? Solo, in questo caso, lei dà troppa importanza a un'impressione passeggera. Comincio a sospettare che lei tenda spesso a ingigantire la realtà».
«Preferirei parlare d'altro».
«Perché?», chiese Anna Sergèevna, ma fu lei stessa a cambiare argomento. Si sentiva a disagio, anche se aveva detto a Bazàrov e a se stessa che ormai tutto era stato dimenticato. Eppure, anche parlando con lui nel modo più semplice, addirittura scherzando, si sentiva minacciata da un vago timore. Anche i passeggeri di un piroscafo, in mare, chiacchierano e ridono spensieratamente, ma al minimo apparire di qualcosa d'insolito subito si fanno inquieti e dimostrano così di essere sempre stati consapevoli della possibilità di un rischio.
La conversazione di Anna Sergèevna e Bazàrov non si protrasse ancora per molto. Lei era sempre meno tranquilla, rispondeva distrattamente e infine propose a Bazàrov di passare nell'altro salotto dove trovarono la principessina e Kàtja.
«Ma dov'è Arkàdij Nikolàeviè?», chiese la padrona di casa, e quando seppe che non lo si vedeva da più di un'ora lo mandò a cercare. Non fu facile trovarlo, era in fondo al giardino, e sedeva, col mento appoggiato alle mani intrecciate, immerso nei propri pensieri. Erano seri e profondi i suoi pensieri, ma tutt'altro che tristi. Sapeva che Anna Sergèevna stava parlando con Bazàrov e che erano soli, ma non era geloso come un tempo, anzi a poco a poco si illuminava, come se si meravigliasse, si rallegrasse e si decidesse a qualcosa di nuovo.

XXVI

Il defunto Odincòv non amava le novità, ma ammetteva «qualche raffinata stravaganza», perciò aveva fatto costruire nel proprio giardino, tra la serra e lo stagno, una specie di portico greco, fatto di argilla e di mattoni russi. Sul lato posteriore del portico, tutto chiuso, vi erano sei nicchie destinate ad altrettante statue che Odincòv si proponeva di far venire dall'estero. Queste statue avrebbero dovuto rappresentare: la Solitudine, il Silenzio, la Meditazione, la Malinconia, il Pudore, la Sensibilità. Una di esse, la dea del Silenzio, raffigurata con un dito sulle labbra, era già stata collocata al suo posto, ma proprio il primo giorno i monelli della servitù le avevano rotto il naso e benché l'imbianchino del paese si fosse offerto di rifarle un naso «due volte meglio di quello di prima», Odincòv la fece togliere dalla nicchia e la statua finì nel deposito delle trebbiatrici dove rimase per molti anni, suscitando il terrore superstizioso delle contadine.
La parte anteriore del portico era ormai da molto tempo ingombra di cespugli incolti e così fitti che, al di sopra si vedevano solo i capitelli delle colonne. Sotto il portico faceva fresco anche a mezzogiorno. Anna Sergèevna non vi andava volentieri da quando aveva visto una vipera, ma a Kàtja piaceva sedersi su un grande sedile di pietra posto sotto una delle nicchie. All'ombra, al fresco, leggeva, lavorava o si abbandonava a quella sensazione del silenzio assoluto, che ciascuno di noi ha provato, e che consiste nella percezione quasi inconsapevole di quella immensa onda vitale che scorre ininterrottamente dentro di noi e intorno a noi.
Il giorno dopo l'arrivo di Bazàrov, Kàtja sedeva sul suo sedile prediletto e accanto a lei c'era di nuovo Arkàdij, che l'aveva pregata di andare con lui sotto il portico.
Mancava un'ora alla colazione. La rugiada del mattino lasciava già il posto al calore del sole. Il viso di Arkàdij aveva la stessa espressione del giorno prima, Kàtja sembrava proccupata. Sua sorella, subito dopo il tè, l'aveva chiamata nel suo studio, l'aveva accarezzata, cosa che la impensieriva sempre un po', poi le aveva consigliato di essere più prudente nei confronti di Arkàdij e di evitare soprattuto d'incontrarsi da sola con lui, perché la zia non aveva mancato di notarlo e anche gli altri in casa. Inoltre, già dalla sera prima, Anna Sergèevna era di malumore e Kàtja si sentiva a disagio, come se fosse colpa sua. Aveva accettato l'invito di Arkàdij ma si era detta che sarebbe stata l'ultima volta.
«Katerìna Sergèevna», esordì Arkàdij con una strana, timida disinvoltura, «da quando ho la gioia di vivere accanto a lei, nella stessa casa, le ho parlato di molte cose, ma c'è una questione, per me molto importante, che non ho mai nemmeno sfiorato. Ieri lei mi ha detto che sono cambiato», e Arkàdij cercò di cogliere, e nello stesso tempo di sfuggire, lo sguardo interrogativo di Kàtja. «È vero, sono cambiato in molte cose e lei lo sa meglio di chiunque, lei, alla quale in realtà devo questo cambiamento».
«Io...! A me?», esclamò Kàtja.
«Ora non sono più quel ragazzo presuntuoso che è venuto qui la prima volta», proseguì Arkàdij, «non per nulla ho compiuto ventitré anni. Desidero come prima rendermi utile, dedicarmi con tutto il mio impegno all'affermazione della verità, ma non cerco più i miei ideali dove li cercavo un tempo, perché li ho trovati... molto più vicini. Fino a poco tempo fa non capivo me stesso e mi ponevo dei problemi che erano superiori alle mie forze. Ora i miei occhi si sono aperti, grazie a un sentimento nuovo... Non mi esprimo con molta chiarezza, ma spero che lei capisca».
Kàtja non rispose, ma smise di guardarlo.
«Credo», riprese Arkàdij, con una crescente emozione nella sua voce, mentre un fringuello cantava spensierato la sua canzone, «credo che un uomo onesto abbia il dovere di essere completamente sincero con... con le persone che... in una parola, con le persone che gli sono vicine, per questo ho l'intenzione...». Ma a questo punto l'eloquenza gli venne meno, si confuse e fu costretto a tacere un momento. Kàtja teneva ancora gli occhi bassi, come se non capisse che cosa significavano le parole di Arkàdij e aspettasse qualche cosa.
«Credo che lei si stupirà», disse finalmente Arkàdij, dopo aver ripreso coraggio, «soprattutto perché questo sentimento, in un certo qual modo... badi bene, ho detto in un certo qual modo... la riguarda. Ricordo che ieri sera mi ha rimproverato di non essere abbastanza serio», continuò Arkàdij con l'aria di chi è finito in un pantano e, pur sentendosi affondare a ogni passo, si affretta ad andare avanti sperando di uscirne il più presto possibile, «è un rimprovero che spesso viene rivolto... diretto... ai giovani, anche quando hanno smesso di meritarlo, e se io fossi un po' più sicuro di me...». (Ma perché non mi aiuti?, pensava Arkàdij disperato, mentre Kàtja stava sempre ferma con gli occhi bassi.) «Se potessi sperare...».
«Se potessi essere sicura di quello che dice...», si udì in quel momento la voce chiara di Anna Sergèevna.
Arkàdij tacque immediatamente e Kàtja impallidì. Sul viottolo lungo il portico nascosto dai cespugli, passavano Anna Sergèevna e Bazàrov. Kàtja e Arkàdij non potevano vederli, ma sentivano le loro parole, il fruscio dei loro vestiti, addirittura il loro respiro. Fecero ancora qualche passo e si fermarono proprio davanti al portico.
«Ecco, vede», proseguì Anna Sergèevna, «nessuno di noi due è più molto giovane, io soprattutto; abbiamo vissuto, siamo stanchi e, perché non dirlo, siamo intelligenti. Dapprima abbiamo trovato un interesse reciproco, una curiosità, e poi...».
« E poi io mi sono esaurito».
«Lei sa benissimo che non è stata questa la ragione per la quale si sono allentati i nostri rapporti. La verità è che non eravamo necessari l'uno all'altra, c'era troppa, come dire... troppa affinità tra noi, non l'avevamo capito. Arkàdij, invece...».
«Le è necessario?».
«La prego, Evgènij Vasil'evîc, lei dice che è innamorato di me e che non gli sono indifferente e anch'io penso di piacergli, so che potrei essere sua zia, ma non le nascondo che ho cominciato a pensare a lui più spesso. Nel suo sentimento così giovanile c'è una grazia particolare».
«"Fascino» è la parola che si usa in questi casi», l'interruppe Bazàrov, e la sua voce rauca e lenta tradiva la collera, «Arkàdij, ieri sera è stato molto riservato con me, non ha parlato né di lei né di sua sorella. È un segnale...».
«Con Kàtja si comporta proprio come un fratello», disse Anna Sergèevna, «è un atteggiamento che mi piace in lui, ma forse non dovrei permettere tanta confidenza tra di loro».
«È la sorella a parlare in questo momento?».
«Naturalmente... Ma perché ci siamo fermati qui? Riprendiamo la nostra passeggiata. Che strana conversazione la nostra. Non avrei mai pensato di poter parlare con lei a questo modo. Io temo il suo giudizio, ma, nello stesso tempo, ho fiducia in lei, perché so che è buono».
«Prima di tutto io non sono affatto buono e poi, se lei lo dice, è perché non rappresento più niente ai suoi occhi, è come mettere una ghirlanda sulla testa di un morto».
«Evgènij Vasìl'evîc, non abbiamo il diritto...», disse Anna Sergèevna, ma passò un soffio di vento tra le foglie e non si sentì il resto.
«Ma lei è libera», disse dopo poco Bazàrov.
Non fu possibile sentire altro... I passi si allontanarono. Arkàdij si voltò a guardare Kàtja che stava sempre seduta nella stessa posizione, e teneva la testa ancora più bassa.
«Katerìna Sergèevna», dichiarò con la voce tremante e le mani contratte, «io l'amo, l'amerò per sempre, non amo nessun altro all'infuori di lei. Era questo che cercavo di dirle, volevo sapere lei che cosa ne pensa e chiedere la sua mano, perché io non sono ricco, ma sono pronto ad affrontare qualsiasi sacrificio... Non risponde? Non mi crede? Pensa che parli senza riflettere? Provi a ricordare questi ultimi giorni! Possibile che non abbia capito che tutto il resto è scomparso da un pezzo e non ha lasciato traccia? Mi guardi, mi dica una sola parola... Mi dica che crede al mio amore per lei».
Kàtja rivolse ad Arkàdij uno sguardo limpido e serio e, dopo aver riflettuto a lungo, disse con un piccolo, rapido sorriso:
«Sì».
Arkàdij si alzò in piedi di scatto.
«Sì? Lei ha detto sì, Katerìna Sergèevna? Che cosa significa questo sì, che lei crede al mio amore... o... non ho il coraggio di dirlo...».
«Sì», ripeté Kàtja. Questa volta Arkàdij capì, strinse le sue belle mani troppo grandi e, soffocando per la gioia, se le strinse al cuore. Quasi non si reggeva in piedi e seguitava a ripetere: «Kàtja, Kàtja...», mentre lei piangeva ingenuamente e insieme rideva delle proprie lacrime. Chi non ha visto queste lacrime negli occhi dell'essere amato non sa fino a che punto si possa, tra la gratitudine e la vergogna, essere felici.
Il giorno seguente, la mattina presto, Anna Sergèevna invitò Bazàrov nel suo studio e con un riso un po' forzato gli porse un foglio di carta da lettera ripiegato. Era la lettera con la quale Arkàdij le chiedeva la mano di sua sorella.
Bazàrov lesse e si sforzò di nascondere la propria ironica soddisfazione.
«Ah è così, dunque!», esclamò. «Ma se non sbaglio, non più tardi di ieri lei era certa che Arkàdij nutrisse per Kàtja Sergèevna un sentimento fraterno! Che pensa di fare ora?».
«Lei che cosa mi consiglia?», chiese Anna Sergèevna senza smettere di ridere.
«A me sembrerebbe giusto», rispose Bazàrov, pure ridendo, benché, come lei, fosse tutt'altro che allegro, «benedire la giovane coppia. Arkàdij è un ottimo partito sotto tutti gli aspetti, ha un buon patrimonio, è figlio unico e anche suo padre è una brava persona e non credo che avrà nulla da obiettare».
Anna Sergèevna camminava su e giù per la stanza e arrossiva e impallidiva di continuo.
«Davvero?», disse. «Bene. Anch'io non vedo difficoltà... Sono felice per Kátja... e per Arkàdij Nikolàeviè. Aspetterò, naturalmente, la risposta di suo padre. Manderò Arkàdij a parlargli. Vede, avevo ragione ieri, quando le dicevo che noi due siamo vecchi. Non è strano che non mi fossi accorta di niente?». Anna Sergèevna rise di nuovo e distolse lo sguardo.
«I giovani si son fatti furbi», osservò Bazàrov, ridendo a sua volta. «Addio», disse, dopo un attimo di silenzio. «Le auguro una felice conclusione di questa vicenda. Io parteciperò da lontano».
Anna Sergèevna si voltò verso di lui.
«Vuole partire? Ma ora non potrebbe restare? Resti, mi piace tanto parlare con lei. È come camminare sull'orlo di un burrone, prima si ha paura e poi, chi sa come, si trova il coraggio di continuare. Resti».
«La ringrazio, Anna Sergèevna, per la proposta e per il lusinghiero giudizio sulla mia conversazione... Ma sono rimasto troppo tempo in un ambiente che non è il mio. I pesci volanti possono restare in aria solo per poco, poi devono rituffarsi in acqua, permetta che anch'io mi reimmerga nel mio elemento».
Anna Sergèevna lo guardava pallida, con il viso contratto in un sorriso amaro. Mi ama!, pensò, provò compassione per lui e gli tese la mano in uno slancio di solidarietà.
Ma Bazàrov capì e indietreggiò di un passo. «No», disse, «io sono povero ma finora non ho mai accettato un'elemosina. Addio, le auguro di star bene».
«Sono sicura che ci rivedremo», disse Anna Sergèevna involontariamente.
«Succedono tante cose a questo mondo!», rispose Bazàrov. S'inchinò e uscì.
«Allora hai deciso di farti il nido?», chiese Bazàrov ad Arkàdij quel giorno stesso mentre in ginocchio per terra faceva la valigia. «È una buona idea, ma perché mi hai imbrogliato? Non sei stato sincero con me. Mi aspettavo che facessi tutt'altra scelta. O forse anche tu sei stato colto di sorpresa?».
«Sì, quando sono partito non prevedevo quello che sarebbe successo», rispose Arkàdij, «ma neanche tu sei sincero quando mi dici che è una buona idea. Credi che non mi ricordi quello che pensi del matrimonio?».
«Non esagerare, amico», disse Bazàrov, «guarda, ho riempito con del fieno lo spazio rimasto vuoto nella mia valigia, lo stesso si fa con la nostra vita, la si riempie di quello che capita purché non rimangano spazi vuoti. Non te ne avere a male, ti prego, sono sicuro che ricordi come ho giudicato fin dall'inizio Kateri`na Sergèevna. Molte signorine passano per intelligenti solo perché sospirano con intelligenza, mentre lei sa quello che vuole e lo sa così bene che terrà a bada anche te ed è meglio che sia così». Chiuse il coperchio della valigia e si alzò da terra. «Ora ti saluto e ti ripeto, perché tanto vale non sforzarsi di mentire, che non ci rivedremo più, anche tu lo senti... Hai preso una decisione giudiziosa, non sei fatto per la nostra vita randagia, aspra, senza illusioni. Non hai impeto, aggressività, hai solo lo slancio e l'entusiasmo della giovinezza, ma per la nostra causa non bastano. Voi aristocratici o siete nobilmente adattabili o nobilmente sdegnati e sono due atteggiamenti del tutto inutili. Voi, per esempio, rifiutate di combattere ma ritenete di essere coraggiosi, noi invece vogliamo lottare e batterci. La nostra polvere ti consumerebbe gli occhi, il nostro fango ti sporcherebbe e in ogni caso tutto questo non servirebbe a niente, tu non sei al nostro livello, a te piace ammirarti, tuo malgrado, e anche criticarti. Per noi sono sciocchezze, noi dobbiamo soppraffare, demolire. Tu sei un buon ragazzo, ma resti un signorotto liberale evualatù, come dice mio padre».
«Mi saluti per sempre, Evgènij», disse Arkàdij con tristezza, «e non hai più niente da dirmi?».
Bazàrov si passò una mano sulla nuca.
«Sì, avrei altro da dirti, ma starò zitto perché sarebbe cedere al romanticismo, alla sdolcinatezza. E tu sposati presto, fa' il tuo nido e abbi tanti bambini. Saranno migliori di noi, se non altro perché saranno nati in tempi diversi dal nostro. Oh, vedo che i cavalli sono pronti. È ora di partire. Ho già salutato tutti... E allora? Ci abbracciamo?». Con le lacrime agli occhi, Arkàdij abbracciò il suo maestro e amico.
«Ecco che significa essere giovani», osservò tranquillamente Bazàrov, «ma io ho fiducia in Katerìna Sergèevna, vedrai come ti consolerà presto! Addio amico», aggiunse quando era già salito sul carro e indicò due cornacchie sul tetto della scuderia: «Ecco, impara!».
«Che cosa vuoi dire?».
«Come, conosci poco le scienze naturali o hai dimenticato che la cornacchia è un uccello molto rispettabile, noto per la sua devozione alla famiglia? Che ti sia di esempio! Addio, signore...!».
Il carro si mosse cigolando. Bazàrov aveva detto la verità. Mentre chiacchierava la sera con Kàtja, Arkàdij non pensava più al suo maestro. Cominciava già a dipendere da lei, Kàtja lo capiva e non se ne meravigliava. Il giorno dopo Arkàdij doveva andare a Mar'ìno per parlare con Nikolàj Petròviè. Anna Sergèevna non voleva disturbare i due giovani e solo per rispetto delle convenienze non li lasciava troppo a lungo soli. Teneva generosamente lontana da loro la principessina nella quale la notizia del futuro matrimonio aveva provocato una reazione irata e lacrimosa. Anna Sergèevna aveva temuto di immalinconirsi alla vista di quella felicità, che invece suscitò in lei interesse e commozione, e quando se ne rese conto si rallegrò e rattristò insieme. Evidentemente Bazàrov ha ragione, in me c'è solo curiosità, amore per la tranquillità ed egoismo...
«Ragazzi», disse a voce alta, «l'amore è un sentimento inconsistente?».
Ma Kàtja e Arkàdij non capirono neppure che cosa volesse sapere da loro. La evitavano, perché non riuscivano a dimenticare le parole sentite per caso. Ma Anna Sergèevna riuscì presto a tranquillizzarli e non le fu difficile perché aveva ritrovato la calma.

XXVII

I vecchi genitori di Bazàrov si rallegrarono ancora di più dell'arrivo del figlio perché non se lo aspettavano. Arìna Vlàs'evna si affaccendò tanto e tanto corse in qua e in là per la casa che Vasìlij Ivànoviè la paragonò a una pernice, alla quale davvero assomigliava per via di una sorta di piccola coda della sua giacchettina. Vasìlij Ivànoviè, tra vaghe, inarticolate esclamazioni, mordicchiava il suo bocchino d'ambra, o, tenendosi il collo fermo tra due dita, voltava la testa qua e là come per controllare che fosse bene attaccata, oppure rideva silenziosamente, a bocca spalancata.
«Sono venuto per restare sei settimane con te, mio vecchio papà. Voglio lavorare, ti raccomando di non disturbarmi».
«Figurati se ti disturberò! Dimenticherai perfino il mio viso», rispose Vasìlij Ivànoviè.
Mantenne la promessa. Sistemò il figlio nello studio, come prima, restò quasi nascosto e riuscì anche a contenere le manifestazioni d'affetto della moglie. «Vedi, màtuška», le diceva, «quando Enjuša è venuto qui l'altra volta gli abbiamo dato un po' fastidio, ora dovremo stare più attenti». Arìna Vlàs'evna era d'accordo con il marito ed esagerava a tal punto di accontentarsi di vedere il figlio solamente a tavola e non osava rivolgergli la parola. «Enjùšenka», esclamava qualche volta, ma lui non faceva in tempo a voltarsi che, confusa, giocherellando con i cordoncini della borsa, balbettava: «Niente, niente, dicevo così...». Poi andava da Vasìlij Ivànoviè e gli diceva con la guancia appoggiata alla mano: «Che cosa potrei fare, anima mia, per sapere che cosa desidera oggi per pranzo Enjùša? Minestra di cavoli o zuppa di verdura?». «Perché non lo chiedi a lui?». «Per non dargli fastidio». Presto, però, Bazàrov cominciò a non passare più molto tempo chiuso nello studio; la febbre del lavoro l'aveva abbandonato all'improvviso per lasciare il posto a una noia avvilente e a una cupa inquietudine. Una strana stanchezza traspariva da tutti i suoi movimenti, perfino il suo modo di camminare rapido e sicuro era cambiato. Non passeggiava più da solo, ma cercava la compagnia, prendeva il tè in salotto, gironzolava con Vasìlij Ivànoviè per l'orto, fumava vicino a lui senza parlare come se facesse il «gioco del silenzio». Una volta chiese perfino notizie di padre Aleksèj. Dapprima Vasìlij Ivànoviè si rallegrò di questo cambiamento, ma poi cominciò a preoccuparsi.
«Sono in ansia per Enjuša», si lamentava con la moglie quando erano soli, «non è scontento o irritato, non mi parrebbe grave; è triste, amareggiato, è questo che mi spaventa. Non apre mai bocca. Almeno se la prendesse con noi, con me e con te. Dimagrisce, è pallido...».
«Oh Signore, oh Signore!» sussurrava la vecchietta. «Vorrei mettergli uno scapolare al collo, ma non me lo permetterebbe mai!».
Vasìlij Ivànoviè cercò, con molta prudenza, di fare qualche domanda a Bazàrov sul suo lavoro, sulla sua salute, su Arkàdij. Bazàrov gli rispondeva di malavoglia, e una volta che gli parve che fosse troppo insistente nel girare attorno a un argomento, lo interruppe, irritato: «Perché tanta cautela? Questo modo di fare è ancora peggio di quello dell'altra volta». «Scusa, fa' come se non avessi detto niente», sì affrettò a rispondere il povero Vasìlij Ivànoviè. Anche le sue allusioni agli avvenimenti di politica non suscitarono nessun interesse in Bazàrov. Un giorno, a proposito della liberazione dei contadini gli parlò del progresso, sperando di sollecitare la sua attenzione, ma Bazàrov gli rispose con indifferenza: «Ieri sera, mentre passavo vicino allo steccato, ho sentito i ragazzi dei contadini che, invece di qualche vecchia canzone popolare, cantavano: Ecco arriva il tempo dolce ed il cuore chiede amor. Ecco il progresso».
Ogni tanto Bazàrov andava al villaggio e scherzando, come al solito, si metteva a chiacchierare con qualche contadino.
«Spiegami un po' che ne pensi della vita, fratello», diceva. «Pare che voi siate la forza e l'avvenire della Russia, pare che stia per cominciare un nuovo periodo storico e che sarete voi a darci una lingua e delle leggi giuste». Il contadino non rispondeva, oppure diceva qualcosa come: «Possiamo... anche per dire... secondo i limiti».
«Spiegami meglio che cos'è il vostro mondo», lo interrompeva Bazàrov, «e se è quello stesso mondo che, come dice la leggenda, è retto da tre balene».
«È la terra che sta su tre balene, signore, non la nostra comunità», spiegava il contadino con aria rassicurante e una bonaria cantilena che pareva trarre le proprie origini dalla lontana civiltà patriarcale. «Davanti al nostro mondo c'è la volontà dei signori, perché voi siete i nostri padri. E più è severo il padrone più fortunato è il contadino».
Un giorno, dopo aver ascoltato un discorso simile a questo, Bazàrov alzò le spalle e se ne andò, mentre il contadino si allontanava per conto suo.
«Di cosa parlava?» gli chiese dalla soglia della propria isbà un altro contadino, un uomo di mezza età, dall'aspetto torvo, «di tasse da pagare?».
«Ma che tasse da pagare», rispose il primo contadino mentre nella sua voce non aveva più la vecchia cantilena ma una fredda noncuranza. «Parlava a caso, per muovere la lingua... Si sa che i signori non capiscono niente».
«Sicuro che non capiscono niente», disse l'altro contadino e tutti e due diedero una scossa al berretto, si aggiustarono la cintura e si misero a parlare dei loro affari e delle loro necessità.
Ahimè, Bazàrov che alzava sprezzantemente le spalle e sapeva parlare con i contadini (se n'era vantato nella discussione con Pàvel Petròviè), questo Bazàrov così sicuro di sé, non sapeva che gli stessi contadini lo ritenevano uno sciocco...
Ma Bazàrov finì col trovarsi presto un'occupazione. Un giorno che, davanti a lui, Vasìlij Ivànoviè stava fasciando il piede ferito di un contadino, si accorse che le mani gli tremavano e che non riusciva ad avvolgere la benda, allora lo aiutò e, da quella volta, seguitò ad aiutarlo nella sua attività di medico; sempre ridendo, però, dei metodi che lui stesso consigliava e di suo padre che immediatamente li applicava. Ma gli scherzi di Bazàrov non preoccupavano Vasìlij Ivànoviè, anzi lo tranquillizzavano. Tenendosi chiusa sul petto con due dita la vestaglia logora, fumando la pipa, Vasìlij Ivànoviè di nuovo felice ascoltava, deliziato, suo figlio, e quanto più erano pungenti le sue osservazioni, tanto più rideva, con bonomia, mostrando i denti anneriti; spesso, anzi, le ripeteva, anche se erano poco spiritose; così, ad esempio, per vari giorni, ripeté a proposito e a sproposito: «È una questione di serie c », solamente perché Bazàrov si era espresso così, quando aveva saputo che era andato a messa.
«Grazie a Dio non è più così triste», diceva alla moglie. «Dovevi sentirlo oggi, mi ha distrutto in due parole». Inoltre il pensiero di avere un cosi` valido aiutante lo riempiva di soddisfazione. «Eh già, cara mia», diceva a una contadina vestita con una giacca da uomo e una cuffia con due punte, porgendole una fialetta di acqua di Goulard o un barattolo di belladonna. «Tu, colombella, devi ringraziare Dio che mio figlio è qui, e puoi essere curata con i metodi più moderni, con i più recenti ritrovati della scienza. Lo capisci o no? Nemmeno Napoleone imperatore dei francesi ha un medico migliore del tuo». E la contadina che era venuta a lamentarsi che «le pareva di stare sugli spilli» (anche se non avrebbe saputo spiegare quel che intendeva dire con queste parole), si inchinava, si infilava una mano nel seno e ne estraeva quattro uova avvolte in una pezzuola.
Una volta Bazàrov tolse un dente a un merciaio ambulante e, benché fosse un dente senza nessuna particolare caratteristica, Vasìlij Ivànoviè lo conservò come una rarità e, mostrandolo a padre Aleksèj, ripeteva: «Guardi che radici! Che forza ha Evgènij! Eh, l'ha sollevato per aria quel merciaio! Avrebbe sradicato anche una quercia...!».
«È molto bravo», rispose Aleksèj, tanto per dire qualche cosa a quel vecchio che, in estasi, guardava un dente.
Un giorno, un contadino di un villaggio lì vicino, accompagnò da Vasìlij Ivànoviè suo fratello ammalato di tifo. Sdraiato bocconi su un fascio di paglia, il poveruomo stava morendo; aveva il corpo ricoperto da macchie scure e aveva, già da molto tempo, perso conoscenza. Vasìlij Ivànoviè si rammaricò che non si fosse cercato prima l'aiuto del medico e disse che ormai per l'ammalato non c'erano più speranze. Infatti il contadino non riportò vivo a casa il fratello, che morì sul carro, lungo la strada. Tre giorni dopo Bazàrov entrò in camera di suo padre e gli chiese se avesse della pietra infernale.
«Sì, ce l'ho, per che cosa ti serve?».
«Mi serve... per cauterizzare una piccola ferita».
«Di chi?».
«Mia».
«Come tua? Perché? Che ferita è?».
«Eccola, è qui sul dito. Oggi sono andato al villaggio da dove ci avevano portato il contadino ammalato di tifo. Non so perché, ma hanno voluto fargli l'autopsia. Io non ne avevo fatte da parecchio tempo, ma volevo farla».
«E allora?».
«Allora ho chiesto al medico distrettuale di lasciare che me ne occupassi io e mi sono ferito».
Vasìlij Ivànoviè diventò improvvisamente pallidissimo, in silenzio si precipitò nel suo studio e tornò con un pezzetto di pietra infernale. Bazàrov voleva prenderla e andarsene.
«Per l'amor di Dio», esclamò Vasìlij Ivànoviè, «lascia fare a me».
Bazàrov si mise a ridere.
«Come ti piace il tuo mestiere!».
«Non scherzare. Fammi vedere quel dito. La ferita è piccola. Ti fa male?».
«Schiaccia più forte, non aver paura».
Vasìlij Ivànoviè si fermò.
«Evgènij, non sarebbe meglio cauterizzarla con un ferro rovente?».
«Sarebbe stato giusto farlo subito, ormai anche la pietra infernale non serve più. Se ho preso un'infezione è già troppo tardi».
«Come... tardi?», riuscì a mormorare a fatica Vasìlij Ivànoviè.
«Sono passate più di quattro ore».
Vasìlij Ivànoviè cauterizzò ancora un poco la ferita.
«Ma il medico distrettuale non aveva la pietra infernale?».
«No, non l'aveva».
«Com'è possibile, Dio mio! Un medico che non possiede una cosa così indispensabile».
«Avessi visto i suoi bisturi!», disse Bazàrov e uscì dalla camera.
Quella sera e durante tutto il giorno successivo, Vasìlij Ivànoviè colse tutti i pretesti per andare nella stanza del figlio. Non parlava della ferita, anzi si sforzava di trovare gli argomenti di conversazione più irrilevanti, ma lo guardava negli occhi con tanta ansia che Bazàrov si spazientì e minacciò di partire. Vasìlij Ivànoviè gli promise di non importunarlo più, anche perché Anna Vlàs'evna, che naturalmente era stata tenuta all'oscuro di tutto, aveva cominciato a chiedergli con insistenza che cosa avesse e perché non dormiva. Per due giorni riuscì a controllarsi, benché l'aspetto del figlio, che continuava a osservare di nascosto, lo preoccupasse molto, poi il terzo giorno, a pranzo, non riuscì a vincersi... Bazàrov sedeva a testa bassa, senza toccare cibo.
«Perché non mangi, Evgènij?», chiese, sforzandosi di dare al proprio viso un'espressione di tranquillità. «Il pranzo è buono, ben preparato...».
«Non mangio perché non ho voglia».
«Non hai appetito? Ti fa male la testa?», chiese timidamente Vasìlij Ivànoviè.
«Sì, mi fa male. Perché non dovrebbe farmi male?».
Arìna Vlàs'evna si drizzò sulle spalle, allarmata.
«Non te la prendere con me, Evgènij, ti prego, ma lascia che ti tasti il polso», insisté Vasìlij Ivànoviè. Bazàrov si alzò.
«Non c'è bisogno che mi tasti il polso, ho la febbre».
«Hai avuto dei brividi?».
«Sì. Vado a letto, mandatemi un decotto di tiglio. Devo aver preso freddo».
«Ecco perché ti ho sentito tossire stanotte», disse Arìna Vlàs'evna.
«Ho preso freddo», ripeté Bazàrov.
Arìna Vlàs'evna preparò lei stessa il decotto di fiori di tiglio, ma Vasìlij Ivànoviè si strappava i capelli, chiuso, in silenzio, nella stanza accanto.
Quel giorno Bazàrov non si alzò dal letto e passò tutta la notte in uno stato di pesante semincoscienza. Verso l'una aprì a fatica gli occhi e, alla luce della lampada, vide il volto pallido di suo padre chino su di lui. Gli disse di andarsene. Vasìlij Ivànoviè ubbidì, ma tornò subito dopo, in punta di piedi e, nascosto dietro lo sportello dell'armadio, guardò suo figlio. Neanche Arìna Vlàs'evna era andata a dormire e ogni tanto socchiudeva la porta dello studio, ascoltava «come respirava Enjùša», e guardava Vasìlij Ivànoviè. Vedeva solo la sua schiena, curva e immobile, ma anche questo le era di sollievo. La mattina Bazàrov cercò di alzarsi, ma gli girava la testa, ebbe una emorragia dal naso e dovette tornare a letto. Vasìlij Ivànoviè lo assisteva in silenzio. Ari`na Vlàs'evna entrò a chiedere come si sentiva. Le rispose: «Meglio», e voltò la faccia contro il muro. Vasìlij Ivànoviè le fece un gesto frettoloso perché se ne andasse e lei uscì, mordendosi le labbra per non piangere. Pareva che la casa si fosse improvvisamente oscurata, i volti erano inquieti, il silenzio angoscioso; dal cortile venne portato al villaggio un gallo che non smetteva mai di cantare e che non riuscì a capire perché lo trattassero così male. Bazàrov stava disteso a letto, con la faccia contro la parete. Vasìlij Ivànoviè cercò di rivolgergli qualche domanda ma si accorse di stancarlo e tacque, immobile nella sua poltrona, facendo solo di quando in quando scrocchiare le dita. Ogni tanto usciva per qualche minuto in giardino e restava fermo, come pietrificato da un indicibile stupore (ormai lo stupore non lasciava più il suo viso), poi tornava dal figlio, cercando di evitare le domande della moglie. Infine lei gli afferrò una mano e convulsamente, quasi minacciandolo disse: «Ma che cos'ha? Rispondimi». Vasìlij Ivànoviè si scosse e cercò di sorriderle, ma si accorse con orrore che, invece di sorridere, era scoppiato a ridere. Quella mattina stessa aveva mandato a chiamare il medico e gli parve neccessario avvertire il figlio per non irritarlo.
Bazàrov all'improvviso si voltò e, guardando il padre con gli occhi fermi e appannati, chiese da bere.
Vasìlij Ivànoviè gli porse l'acqua e ne approfittò per tastargli la fronte bollente.
«Mio povero vecchio», disse Bazàrov lentamente, con la voce rauca, «io sto male. Ho preso l'infezione e tra pochi giorni mi seppellirai».
Vasìlij Ivànoviè vacillò come se fosse stato colpito alle gambe.
«Evgènij», balbettò, «non parlare così... Che Dio ti aiuti! Hai preso freddo...».
«No, un medico non può parlare così», lo interruppe con calma Bazàrov. «Ho tutti i sintomi di un'infezione e tu lo sai».
«Ma no... ma quali sintomi... Evgènij, ti prego...».
«E queste che cosa sono?», Bazàrov si sollevò la manica della camicia e mostrò al padre le macchie rosse e sinistre che aveva sul braccio. Vasìlij Ivànoviè trasalì, agghiacciato dal terrore.
«Ammettiamo», disse infine, «ammettiamo... che possa essere... qualcosa di simile a un'infezione».
«A una pioemia», precisò Bazàrov.
«Ma sì, una... una specie di... epidemia».
«Pioemia», ripeté Bazàrov con voce ferma. «Hai dimenticato i tuoi studi?».
«Bene, come vuoi. Ma ti guariremo, vedrai!».
«No, è impossibile. E poi non è di questo che volevo parlare. Non avrei mai creduto di dover morire così presto, e non posso dire che mi faccia piacere. Voi due, tu e mia madre, dovete trovare aiuto nella fede religiosa, vi do l'occasione per metterla alla prova». Bazàrov bevve ancora un po' d'acqua. «Ti volevo chiedere una cosa... finché sono ancora padrone della mia testa. Domani o dopo, tu lo sai, il mio cervello smetterà di funzionare. Neanche ora sono sicuro di esprimermi con chiarezza. Mentre stavo sdraiato qui, mi sembrava che mi corressero intorno dei cani rossi mentre tu mi aspettavi al varco come un gallo di bosco. Mi sento come ubriaco. Capisci quello che dico?».
«Per amor di Dio, Evgènij, tu parli benissimo».
«Meglio così. Hai detto che hai mandato a chiamare il medico... L'hai fatto per te, ora fa' una cosa per me: manda qualcuno...».
«Da Arkàdij Nikolàeviè?».
«Chi è Arkàdij Nikolàeviè?», disse Bazàrov come se stesse inseguendo un altro pensiero. «Ah sì, quel pulcino! No, lascialo dov'è, ora è diventato una cornacchia. Non meravigliarti di quel che dico, non sono ancora in delirio. Manda invece qualcuno dalla Odincòva, da Anna Sergèevna, ha una proprietà qui vicino. Sai?». (Vasìlij Ivànoviè fece segno di sì con la testa.) «Dille che Evgènij, sì, che Bazàrov la saluta e le dice che tra poco sarà morto. Lo farai?».
«Sì, certo... Ma non è possibile che tu muoia, Evgènij, proprio tu! Prova a pensarci! Dov'è finita la giustizia, se tu muori?».
«Non lo so, ma tu manda qualcuno».
«Sì, subito. Scriverò una lettera».
«No, perché? Falle dire che la saluto, non serve altro. Adesso torno dai miei cani. È strano, vorrei fermare il pensiero sulla morte e non ci riesco. Vedo una macchia... e nient'altro».
Bazàrov si voltò di nuovo, pesantemente, verso la parete, Vasìlij Ivànoviè uscì dallo studio, si trascinò a fatica fino alla camera della moglie e si buttò in ginocchio davanti alle icone.
«Prega, Arìna, prega», disse con un lamento, «nostro figlio muore».

Arrivò il medico distrettuale, lo stesso che non aveva la pietra infernale, visitò l'ammalato, consigliò di attenersi al metodo dell'attesa e aggiunse qualche parola sulla possibilità di una guarigione.
«Ha visto altri nelle mie condizioni? E non sono partiti tutti per i Campi Elisi?», disse Bazàrov. Afferrò la gamba di un tavolo vicino al divano, lo scosse e lo spinse via.
«La forza, la mia forza», esclamò, «è ancora tutta qui e bisogna morire. Un vecchio almeno ha già cominciato a staccarsi dalla vita, io invece... Inutile provarci a negare la morte, è lei ora a negare me. E basta! Chi piange?», chiese dopo poco. «Mia madre? Poverina! Chi nutrirà ora con il suo ottimo borsc? E se non mi sbaglio, anche tu piangi, Vasìlij Ivànyè. Se non ti aiuta il cristianesimo prova con la filosofia, con lo stoicismo, per esempio. Non ti vantavi di essere filosofo?».
«Filosofo io?», singhiozzò Vasìlij Ivànoviè, mentre le lacrime gli bagnavano le guance.

Bazàrov peggiorava di ora in ora, la malattia aveva assunto una forma acuta, come capita di solito nei casi di infezione. Non aveva perso conoscenza, capiva quello che gli si diceva, lottava ancora.
«Non voglio delirare», gemeva, stringendo i pugni. «Che stupidaggine!», e aggiungeva subito: «Allora, dieci meno otto, quanto fa?».
Vasìlij Ivànoviè girava per la casa come un pazzo, proponeva ora un rimedio ora un altro e seguitava a coprire i piedi del figlio. «Avvolgerlo in lenzuoli freddi... dargli un emetico... mettergli dei senapismi sullo stomaco... fargli un salasso...», diceva sorretto dalla tensione nervosa. Il medico, cui aveva chiesto di rimanere, lo assecondava, ordinava limonate per l'ammalato e per sé la pipa e qualcosa da bere, «rinforzante e riscaldante», cioè vodka. Arìna Vlàs'evna stava seduta su uno sgabello vicino alla porta e ogni tanto si alzava per andare a pregare; qualche giorno prima lo specchietto che era posato sul tavolo da toilette le era scivolato di mano e si era rotto e lei aveva sempre considerato come un cattivo presagio la rottura di uno specchio; anche Anfìsuška non sapeva che cosa dirle. Timofèiè era andato dalla Odincòva.
Bazàrov passò una brutta notte... la febbre, altissima, lo tormentava. Verso la mattina ebbe un po' di sollievo. Chiese ad Arìna Vlàs'evna che lo pettinasse, bevve qualche sorso di tè. Vasìlij Ivanoviè si rianimò un poco. «Ringraziamo Dio», ripeteva, «è venuta la crisi e l'ha superata».
«La parola», disse Bazàrov che lo aveva sentito, «la forza della parola! Ha detto "crisi" e si è consolato. È strano, ma l'uomo crede ancora nella parola. Se gli dicono che è un imbecille, ma non lo bastonano, ci resta male; se gli dicono che è un genio ma non gli danno un soldo è felice lo stesso». Questo piccolo discorso che ricordava le solite invettive di Bazàrov, commosse Vasìlij Ivànoviè.
«Bravo! Ben detto!», esclamò, accennando a un applauso.
Bazàrov lo guardò con un sorriso triste:
«Che cos'è successo, secondo te, questa crisi è venuta o se n'è andata?».
«Tu stai meglio, ecco quello che vedo e che mi rallegra», rispose Vasìlij Ivànoviè.
«Benissimo, non fa mai male rallegrarsi. E da quella signora, ti ricordi, hai mandato qualcuno?»
«Sì, certo, puoi dubitarne?».
Il miglioramento non durò a lungo. Gli accessi della malattia tornarono a ripetersi. Vasìlij Ivànoviè sedeva al capezzale del figlio. Sembrava che un aspetto particolare della sua angoscia lo straziasse in quel momento, tentava di parlare e non ci riusciva.
«Evgènij», disse finalmente. «Figlio mio, mio caro, mio amato figlio!».
Questa insolita invocazione si ripercosse su Bazàrov che voltò un poco la testa e, cercando di uscire dal delirio che l'opprimeva, disse:
«Che cosa vuoi, padre mio?».
«Evgènij», rispose Vasìlij Ivànoviè, inginocchiandosi davanti al figlio che pure non aveva aperto gli occhi e non poteva vederlo. «Evgènij, stai meglio, e, vedrai, con l'aiuto di Dio potrai guarire, ma approfitta di questo momento, da' una consolazione a tua madre e a me e compi il tuo dovere di cristiano. È terribile per me doverti parlare così, ma ancora più terribile sarebbe se... per l'eternità, capisci, Evgènij...? Pensa... per l'eternità...», la voce di Vasìlij Ivànoviè si spezzò e Bazàrov, sebbene non avesse mai aperto gli occhi, cambiò per un attimo espressione.
«Non ti dico di no», rispose infine, «se può servire a consolarti, ma mi pare che ci sia ancora tempo. Tu stesso hai detto che sto meglio».
«Certo che stai meglio, Evgènij, ma siamo nelle mani di Dio e quando avrai compiuto il tuo dovere...».
«No, voglio aspettare», lo interruppe Bazàrov. «Sono d'accordo con te, c'è stata la crisi. Se poi risulterà che ci siamo sbagliati, pazienza. Si dà la comunione ai moribondi anche se hanno perso conoscenza».
«Ti prego, Evgènij... ».
«No, aspettiamo. Ora voglio dormire, non disturbarmi», e Bazàrov adagiò di nuovo la testa nella stessa posizione di prima.
Vasìlij Ivànoviè si alzò e andò a sedersi sulla poltrona col mento appoggiato sul palmo della mano.
Gli arrivò all'improvviso il rumore di una carrozza a molle, quel rumore che si distingue subito in mezzo alle campagne. Le ruote, leggere, giravano sempre più vicino, già si sentiva lo sbuffare dei cavalli... Vasìlij Ivànoviè si alzò di scatto e corse alla finestra. Nel cortile della sua casetta stava entrando una carrozza chiusa, a due posti, tirata da quattro cavalli. Senza sapere perché, in un irrazionale slancio di gioia, corse fuori. Un domestico in livrea aprì lo sportello della carrozza dalla quale scese una signora velata di nero e avvolta in un mantello nero.
«Sono la Odincòva», disse. «Evgènij è vivo? Lei è suo padre? Ho portato con me un medico».
«Lei è la nostra benefattrice!», esclamò Vasìlij Ivànoviè prendendole una mano e portandosela alle labbra, mentre il medico che era venuto con Anna Sergèevna, un omino con gli occhiali, all'apparenza un tedesco, scendeva, senza affrettarsi, dalla carrozza. «È vivo, è vivo il mio Evgènij, e ora lo salveremo! Moglie! Moglie mia...! Un angelo è sceso dal cielo ed è venuto qui...».
«Che cosa, oh Signore!», balbettò Arìna Vlàs'evna accorrendo dal salotto e, senza capire, si gettò ai piedi di Anna Sergèevna e le baciò il lembo del vestito».
«Per amor di Dio, non faccia così», diceva Anna Sergèevna, ma lei non le dava ascolto e Vasìlij Ivànoviè seguitava a ripetere:
«Un angelo! Un angelo!».
«Wo ist der Kranke? Dov'è l'ammalato?», chiese il medico, apparentemente spazientito.
Vasìlij Ivànoviè si riprese subito. «È qui, si accomodi, Verehrter Herr Kollege!», aggiunse, secondo una vecchia abitudine.
«Ah!», esclamò il tedesco con un sorriso aspro.
«C'è il medico mandato da Anna Sergèevna Odincòva», disse Vasìlij Ivànoviè all'orecchio del figlio, «anche lei è venuta».
Bazàrov aprì improvvisamente gli occhi.
«Che cos'hai detto?».
«Ho detto che Anna Sergèevna Ondicòva è venuta a trovarti e ha portato con sé un medico».
Bazàrov si guardò intorno: «È qui... voglio vederla».
«La vedrai, Evgènij, ma prima dobbiamo parlare col signor dottore. Gli descriverò io il decorso della malattia perché Sìdor Sìdoriè» (era il nome del medico distrettuale), «è partito. Poi faremo un piccolo consulto».
Bazàrov guardò il tedesco.
«Parlate pure», disse a suo padre, «ma non in latino, io so che cosa vuol dire iam moritur».
«Der Herr scheint der Deutschen maechtig zu sein», disse il nuovo discepolo di Esculapio rivolto a Vasìlij Ivànoviè.
«Ich... habe... Sarà meglio che parliamo in russo», concluse il vecchio.
«Ah, ecco, è così... Va bene». Il consulto incominciò.
Mezz'ora dopo Anna Sergèevna entrò nello studio, accompagnata da Vasìlij Ivànoviè. Il medico fece in tempo a dirle sottovoce che non c'erano speranze di salvare il paziente. Lei guardò Bazàrov e si fermò sulla soglia, sconvolta dalla vista di quel volto acceso e insieme cadaverico, di quello sguardo opaco fisso su di lei. Provò soprattutto una gran paura, una paura fredda e paralizzante e pensò subito che non sarebbe stato così se lo avesse amato davvero.
«La ringrazio», disse Bazàrov con voce forte, «non mi aspettavo la sua visita. È una buona azione. Ecco che ci vediamo ancora una volta, come aveva detto».
«Anna Sergèevna è stata così buona», disse Vasìlij Ivànoviè.
«Lasciaci soli, ti prego», lo interruppe Bazàrov, «Anna Sergèevna, lei permette, vero? Mi sembra che ormai... », e accennò col capo al suo corpo esausto.
Vasìlij Ivànoviè uscì.
«Grazie», ripeté Bazàrov, «è un gesto da zar, anche gli zar visitano i moribondi».
«Evgènij Vasìliè, io spero...».
«Ma no, diciamo la verità. Io sono finito, sono capitato sotto la ruota. Lo vede? Era sbagliato pensare al futuro. La morte è una vecchia beffa ma riesce a sorprendere ogni volta. Per ora non ho paura... poi arriverà l'incoscienza e... via! (Fece un gesto vago con la mano.) Che potrei dirle adesso, Anna Sergèevna? Che l'ho amata! Non aveva senso prima e meno ancora ne ha adesso. L'amore deve avere una forma tangibile, e la mia si va già dissolvendo. Le dirò piuttosto quanto è straordinaria! Anche ora, lì in piedi, è così bella...».
Anna Sergèevna, senza volerlo, rabbrividì.
«Non ha niente da temere... si sieda lì... non mi venga vicino, è una malattia contagiosa».
Anna Sergèevna attraversò a passi rapidi la camera e si andò a sedere sulla poltrona accanto al divano dove giaceva Bazàrov.
«Generosa...», mormorò Bazàrov, «lei mi sta vicino, giovane, fresca, pura... in questa brutta stanza... Addio! Le auguro di avere una vita lunga, niente vale di più, e di approfittarne finché è in tempo! Mi guardi! Un verme mezzo schiacciato che si dibatte ancora! Anch'io pensavo che avrei fatto tante cose, che non sarei mai morto. Mi dicevo: ho un grande compito da assolvere, perché sono un gigante. E ora il compito di quel gigante sta tutto nel morire decorosamente, anche se non può importare a nessuno. Ma questo non conta, io non voglio lasciarmi umiliare».
Bazàrov tacque e cercò con la mano il bicchiere. Anna Sergèevna gli diede da bere, senza togliersi i guanti e come se avesse paura di respirare.
«Lei mi dimenticherà», proseguì Bazàrov. «Un morto non è un buon compagno per un vivo. Mio padre cercherà di convincerla che con me la Russia perde un uomo di valore... Sono stupidaggini, ma non lo disilluda. Conosce quel proverbio, date al bimbo quel che vuole, purché non pianga. Cerchi di consolare anche mia madre, perché di persone come loro, per quanto cerchiate, nel vostro mondo non ce n'è nemmeno una. Credevo di essere necessario alla Russia... ma non era vero, non sono necessario. Chi è necessario? Il calzolaio, il sarto, il macellaio... Chi vende la carne... il macellaio..., sì, loro sono necessari... il macellaio... ma aspetti, mi confondo... C'è un bosco...».
Bazàrov si posò una mano sulla fronte.
Anna Sergèevna si chinò su di lui. «Evgènij Vasìl'iè, sono qui...».
Bazàrov si tolse la mano dalla fronte e si sollevò sul divano.
«Addio», disse con una forza improvvisa e gli brillarono gli occhi, per l'ultima volta. «Addio... Io allora non l'ho baciata... Soffi sulla lampada che si sta spegnendo e poi lasci che si spenga».
Anna Sergèevna posò le labbra sulla sua fronte.
«E ora basta!», Bazàrov ricadde sui cuscini. «Ora il buio...».
Anna Sergèevna uscì silenziosamente dalla stanza.
«E allora?», le chiese Vasìlij Ivànoviè in un sussurro.
«Si è addormentato», rispose lei quasi impercettibilmente.
Era scritto che Bazàrov non dovesse più risvegliarsi. Verso sera perse conoscenza e il giorno dopo morì. Padre Aleksèj celebrò il rito della religione. Nel ricevere l'estrema unzione, quando l'olio santo gli sfiorò il petto, Bazàrov aprì un occhio e parve che, vedendo il prete con i paramenti sacri, il turibolo fumante, i lumini accesi davanti alle icone, un brivido di orrore passasse sul suo volto quasi morto. Quando infine emise l'ultimo respiro e i lamenti risuonarono per tutta la casa, Vasìlij Ivànoviè fu preso da un furore improvviso. «L'avevo detto che volevo ribellarmi», gridava stravolto, con la testa in fiamme e il pugno teso come per minacciare qualcuno, «e mi ribellerò, mi ribellerò!». Ma Arìna Vlàs'evna, piangendo, gli si strinse al collo e tutti e due si inginocchiarono. «Così», raccontò poi Anfìsuška nella stanza della servitù, «hanno chinato la testa, uno accanto all'altra, come pecorelle sotto il sole di mezzogiorno».
Ma l'aria soffocante del mezzogiorno passa, viene la sera e poi la notte, e allora si torna alla quiete e al rifugio dove chi è affaticato e oppresso ritrova il sonno.

XXVIII

Passarono sei mesi. Regnava l'inverno con il crudele silenzio del suo limpido gelo, con la neve che scricchiola, con la brina rosata sui rami degli alberi, col violaceo pallore del cielo, con i cappelli di fumo sui camini, con le nuvole di vapore che escono dalle porte aperte per un istante, con i visi come morsi dal freddo, col trottare veloce dei cavalli infreddoliti. La giornata di gennaio ormai volgeva alla fine, l'aria della sera era rigida e immobile, il tramonto color sangue si spegneva rapidamente. Alle finestre della casa di Mar'ìno si erano accese le luci, Prokòf'iè, in frac nero e guanti bianchi, apparecchiava la tavola per sette con una cura particolare. La settimana precedente, nella piccola chiesa parrocchiale, tranquillamente e quasi senza invitati, erano stati celebrati due matrimoni: quello di Arkàdij con Kàtja e quello di Nikolàj Petròviè con Fèneèka. Quel giorno Nikolàj Petròviè dava un pranzo d'addio a suo fratello che si trasferiva a Mosca, per affari. Anche Anna Sergèevna era partita per Mosca subito dopo le nozze della sorella, alla realizzazione delle quali aveva provveduto con molta generosità.
Alle tre tutti sedettero a tavola, anche Mìtja che aveva già una njanja con la cuffia tradizionale di broccato, Pàvel Pètroviè stava tra Kàtja e Fèneèka, e i mariti accanto alle rispettive mogli. Tutti apparivano cambiati, più belli e più forti, Pàvel Petròviè era dimagrito, ma la magrezza metteva in risalto la bellezza dei suoi lineamenti aristocratici. Anche Fèneèka era cambiata. Nel suo fresco abito di seta, con un nastro di velluto tra i capelli, una catena d'oro al collo, sedeva immobile e rispettosa, rispettosa verso se stessa e tutto quello che le stava intorno, e sorrideva come se volesse dire: scusatemi, io non ne ho colpa. Ma anche gli altri sorridevano e sembrava che si scusassero; tutti si sentivano un po' impacciati e un po' tristi, ma in sostanza erano contenti. Si passavano i piatti l'un l'altro, con festosa premura, come se si fossero messi d'accordo per recitare una ingenua e allegra commedia. Kàtja era la più calma di tutti, si guardava intorno fiduciosa ed era già manifesto l'affetto che aveva suscitato in Nikolàj Pètroviè che, verso la fine del pranzo, si alzò levando il bicchiere e si rivolse a Pàvel Pètroviè.
«Tu ci lasci... tu ci lasci, caro fratello», disse, «per poco, certo, ma non posso non eprimerti la mia... il mio... ciò che io... che noi... Insomma, io sono incapace di pronunciare un discorso. Parla tu, Arkàdij».
«No, caro papà, non mi sono preparato».
«E io, allora, ti sembra che mi sia preparato? Ti abbraccio, fratello mio, e ti auguro tutto il bene possibile e ti prego di tornare da noi al più presto».
Pavèl Petr`oviè baciò tutti, compreso Mìtja naturalmente. A Fèneèka baciò anche la mano che lei non aveva ancora imparato a porgere come si deve. «Siate felici, amici miei. Farewell». Nessuno fece caso a questa conclusione in inglese, tutti erano troppo commossi.
«Alla memoria di Bazàrov», sussurrò Kàtja all'orecchio di suo marito. I loro bicchieri si sfiorano, Arkàdij le strinse forte la mano, ma non propose il toast ad alta voce.

E a questo punto la storia parrebbe finita, vero? Ma forse a qualche lettore piacerebbe sapere che ne è ora di ciascuno dei nostri personaggi e noi siamo pronti a soddisfare la sua curiosità.
Anna Sergèevna si è risposata da poco, non vi è stata indotta dall'amore ma dalla riflessione; suo marito è destinato a emergere nella vita pubblica della Russia, è un giurista dotato di molto senso pratico, di una forte volontà e di grandi doti oratorie; è giovane, buono e freddo come il ghiaccio. Vanno molto d'accordo e forse arriveranno alla felicità, forse anche all'amore... La principessina Ch... è morta ed è stata dimenticata il giorno stesso della sua morte. I Kirsànov, padre e figlio, si sono stabiliti a Mar'ìno e i loro affari cominciano a migliorare. Arkàdij è diventato un agronomo appassionato e competente e la masseria è relativamente prospera. Nikolàj Petròviè è giudice di pace e gira ininterrottamente per il suo distretto a pronunciare lunghi discorsi. Pensa che si debbano «illuminare» i contadini e che non ci sia altro sistema che ripetergli continuamente le stesse cose. In realtà così non accontenta né i nobili adulti evoluti che ora parlano con voce nasale e malinconica eleganza della «mancipazione», né i nobili meno evoluti e meno colti che non si fanno uno scrupolo di gridare contro «'sta mancipazione». Nikolàj Petr`oviè manca del vigore sufficiente a farsi ascoltare dagli uni e dagli altri. Katerìna Sergèevna ha già un figlio, Kòlja. Mìtja corre, ormai ben fermo sulle gambe, e parla con scioltezza. Fèneèka Fedò'ja Nikolàevna, dopo suo marito e suo figlio, ama soprattutto sua nuora e vorrebbe stare ad ascoltarla suonare il pianoforte anche tutto il giorno. Non dimentichiamo Pëtr, che, completamente chiuso nella sua ottusità e nel suo sussiego, ormai pronuncia tutte le e come se fossero ie e le u come iu: «Mi sono assichiurato un avvienire», dice. Si è sposato e la moglie, che gli ha portato una buona dote, è figlia di un ortolano della città e aveva già rifiutato altri due pretendenti perché non avevano l'orologio, mentre Pëtr, oltre all'orologio, possedeva anche un bel paio di stivaletti di vernice.
A Dresda, sulla terrazza di Brüll nell'ora più fashionable cioè tra le due e le quattro, non sarà difficile incontrare un uomo sulla cinquantina, coi capelli tutti bianchi e che pare soffrire di gotta, ancora bello, però, e straordinariamente elegante, di quell'eleganza che acquista solo chi ha fatto parte per molti anni dell'alta società. È Pàvel Petròviè. Da Mosca è andato all'estero, per curarsi e infine si è stabilito a Dresda, dove frequenta soprattutto gli inglesi e i russi di passaggio. Con gli inglesi ha un contegno semplice, quasi modesto anche se sempre molto dignitoso ed essi lo giudicano un po' noioso ma riconoscono che è un perfect gentleman. Con i russi è meno riservato, a volte dà sfogo alla collera, canzona loro e se stesso ma sempre con garbo e leggerezza. Non nasconde le sue idee slavofile e si sa che questo è sempre très distingué. Non legge niente che si pubblichi in Russia, ma tiene sulla scrivania un portacenere d'argento che ha la forma di un sandalo da contadino russo. I nostri turisti ambiscono alla sua compagnia. Matvèj Il'iè Koljàzin, esponente della opposizione temporanea è andato a salutarlo mentre era di passaggio diretto in Boemia per la cura delle acque, e nella buona società di Dresda, che pure frequenta solo di rado, è adorato. Nessuno riesce ad avere i biglietti per la cappella di Corte o per il teatro o per altri trattenimenti con la facilità con cui li ottiene der Herr Baron von Kirsanoff. Fa del bene quando può, suscita ancora qualche vespaio, non per nulla, a suo tempo era stato un rubacuori, ma la vita gli è greve... più di quanto lui stesso non supponga. Basta guardarlo quando alla Chiesa Russa resta appoggiato al muro, in disparte, pensoso, immobile, con le labbra strette e un'espressione amara, e poi, quasi rientrasse improvvisamente in sé, si fa il segno della croce...
Anche la Kùkšina è all'estero. Ora è a Heidelberg, non studia più scienze naturali, ma architettura, scienza nella quale, dice, ha scoperto nuove leggi. Frequenta, come prima, gli studenti, soprattutto i giovani chimici e fisici russi che sono molto numerosi a Heidelberg. Hanno questa caratteristica: da principio meravigliano gli ingenui professori tedeschi con la loro lucida intelligenza, poi li meravigliano con la loro sublime inattività, e impareggiabile pigrizia. A Pietroburgo, con due o tre chimici di questo genere, che non distinguono l'ossigeno dall'azoto, ma negano tutto e credono solo in se stessi, e con il grande Eliseviè, Sìtnikov si prepara a diventare un grande e si dedica con impegno a portare avanti, così almeno afferma, «la causa» di Bazàrov. Si racconta che, tempo fa, Sìtnikov sia stato schiaffeggiato e che, per non restare in debito, in un oscuro articoletto che si autodefiniva ironico, pubblicato da una oscura rivistucola, abbia accusato il suo assalitore di vigliaccheria. Suo padre lo comanda a bacchetta, come sempre, e sua moglie lo considera uno sciocco e... un letterato.

In un angolo remoto della Russia c'è un piccolo cimitero di campagna, triste come tutti i nostri cimiteri. Nel fossato che lo circonda l'erba è incolta; le grige croci di legno sono inclinate e marciscono sotto i loro piccoli tetti che un tempo erano dipinti; le lapidi sono smosse, come se qualcuno le avesse spinte dal disotto; due o tre alberelli spogli fanno una misera ombra e le pecore vagano indisturbate tra le tombe... Ma c'è una tomba alla quale nessuno può avvicinarsi, che nessun animale può calpestare, solo gli uccelli, all'alba, vi si posano a cantare. Una recinzione di ferro la protegge e ai lati s'innalzano due giovani abeti: in quella tomba è sepolto Evgènij Bazàrov.
Due poveri vecchi vengono dal villaggio vicino a visitare quella tomba. Si sorreggono l'un l'altra, camminano lentamente, si avvicinano alla recinzione e, in ginocchio, piangono a lungo e amaramente con lo sguardo fisso sulla muta pietra che ricopre il corpo del loro figlio. Si scambiano qualche parola, spolverano la pietra, aggiustano i rami degli abeti, pregano ancora e non riescono ad allontanarsi perché al cimitero gli pare di sentirsi più vicino al figlio, di ricordarlo meglio. Le loro preghiere, le loro lacrime sono senza frutto... Come può un amore così sacro e assoluto non essere onnipotente? No, per quanto appassionato, colpevole, ribelle possa essere stato il cuore che ora è rinchiuso in quella tomba, i fiori che ora vi crescono ci guardano con i loro occhi innocenti e non parlano soltanto di quella pace fuori del tempo, della serenità della natura indifferente, ma della riconciliazione eterna e della vita infinita.