I TACCUINI DI HIROSHIMA

Kenzaburo Oe


CAPITOLO IV
Sulla dignità umana 
Ottobre 1964.

In quest’epoca di armi nucleari, nella quale il loro potere assume più importanza rispetto alla miseria che possono generare, e nella quale gli eventi dell’uomo ruotano in maniera crescente attorno alla loro produzione e prolificazione, che cosa dobbiamo cercare di ricordare noi giapponesi? O più specificatamente, che cosa io ho il dovere di ricordare a me stesso e di tenere a mente? 
Soltanto fino a ieri, una grande nazione che recentemente ha acquisito il potere di disporre di armi
nucleari, aveva scelto di non farlo. Così come a lungo avrebbe potuto ma non lo aveva fatto,aveva costruito l’immagine di un paese in grado di assumere la guida nel processo di produzione di nuove idee e ideali politici, in questa età nucleare. Ma oggi, nell’ottobre del 1964, mentre scrivo queste righe, la Repubblica Popolare Cinese ha perso questa immagine di valore. Durante la notte è diventata un paese diverso.

Proprio in un tempo come questo, voglio ricordare, e tenere a mente, i pensieri della gente di Hiroshima – la prima gente ed il primo luogo a vivere l’esperienza della capacità distruttiva della peggiore delle forze del mondo. Hiroshima è come una piaga esposta e indifesa ferita in tutta la sua umanità. Come tutte le piaghe, anche questa presenta due potenziali sviluppi: la speranza in una guarigione del genere umano, e il pericolo di una corruzione fatale. Sebbene noi perseveriamo nel ricordare l’esperienza di Hiroshima, specialmente i pensieri di coloro i quali hanno sottostimato l’esperienza senza precedenti, i deboli segni di una guarigione che emergono da questo luogo e da questa gente inizieranno a decadere e una reale degenerazione prenderà il loro posto.

Nelle vesti di un uomo che spesso ha visitato Hiroshima, sono interessato a registrare ciò che vi ho appreso, nel tempo, con le mie riflessioni personali su questa città ed i suoi cittadini. Queste pagine, come le altre, sono scritte piuttosto frettolosamente, in una forma frammentaria, abbozzata, come è in primo luogo nel mio modo di ricordare. A partire dal cuore della notte, quando la Cina ha iniziato il suo test nucleare, sono regolarmente restato sveglio fino a tardi nell’attesa di chiamate telefoniche da parte delle agenzie stampa. Ma in queste righe non rispondo ai quesiti che mi sono stati posti; ho scelto, piuttosto, di mettere giù i miei pensieri, in quanto desidero ricostruire la mia immagine di Hiroshima.

In questo saggio, perciò, mi concentrerò sulla dignità umana, perché è l’aspetto più importante che ho rilevato a Hiroshima, e precisamente è ciò di cui ho bisogno per sostenere e indirizzare la mia esistenza. Dico di aver trovato della dignità umana a Hiroshima, ma questo non significa necessariamente che io la possa spiegare in maniera completa o accurata. A dire il vero, le parole non sono sufficienti, poiché la realtà della dignità umana trascende il linguaggio. Sono stato toccato nel vivo da questa problematica sin dall’infanzia. Sarebbe più facile se tentassi di essere concreto, sebbene non sia sicuro che la concretezza comunichi adeguatamente e generalmente la mia comprensione della dignità umana. Posso soltanto fare un tentativo.

Ho già scritto, ad esempio, circa la resistenza ostinata di un vecchio adirato che cercò di suicidarsi per protestare contro la ripresa dei test nucleari; di come il suo tentativo è fallito e la sua protesta sia stata ignorata; e di come infine sia stato esposto al disonore. Penso che lui, senza dubbio, abbia mostrato dignità umana, nonostante la sua sensazione di insuccesso. E’ la dignità come quella di questo vecchio che attrae la mia mente. Per dirla in maniera rozza, è rimasto senza niente ma con la sua dignità umana. Quando penso al fallito suicidio del vecchio, alla sua protesta ignorata, al lungo tempo che ha trascorso a letto in ospedale, cercando allora di identificare quale significato avesse una vita, la risposta è chiara: il valore della vita giace precisamente nella dignità umana che realizza nella sua miserabile e vecchia età. Ridotto a giacere in un letto d’ospedale con una grande cicatrice sul suo addome, poteva ancora affrontare con dignità tutta la gente senza cicatrici, il che vuol dire, tutta la gente di qualsiasi luogo che non abbia avuto esperienza di bombe atomiche. Questo è un esempio di ciò che intendo per “dignità umana”.

Nell’estate del 1963, quando ho visto il signor Miyamoto tenere il suo discorso di benvenuto ai marciatori della pace, ho notato che “si appartava con evidente soddisfazione e dignità”. Al tempo non conoscevo niente di questo piccolo uomo di mezza età, se non che rappresentava gli altri pazienti e disse “credo che la Nona Conferenza Mondiale1 sarà un successo”, con una voce forzata, come di mosca, mentre si stagliava in una bella e scintillante giornata d’estate. Ciò nonostante, percepii che si trattava di un uomo pieno di riconoscibile dignità.
[…]

Dopo di allora, spesso ho scritto la parola “dignità” nei miei appunti su Hiroshima. Ho trovato dignità nel vecchio filosofo che fu uno dei leader nel movimento per la pace; e anche in sua moglie, che manteneva in lei ancora qualcosa della giovane ragazza. E trovai altrettanta dignità nella vecchia signora che fu membro chiave nel gruppo che pubblicò la serie “I fiumi di Hiroshima2, e che criticò i conservatori influenti di Hiroshima, nel suo modo di parlare sfrontato e umoristico. La loro è proprio il genere di dignità che trovo più umana. E’, in effetti, il genere di dignità di cui sono stato desideroso fin dai tempi della mia infanzia, sebbene non fossi mai stato sicuro che, un giorno, avrei potuto conseguirla. Ora realizzo che l’impulso più profondo che mi spinge a visitare Hiroshima così sovente è stato il senso di dignità che ho scoperto nella sua gente.
[…]

L’Ospedale della Bomba Atomica (A-Bomb Hospital) non è stato né costruito né mantenuto dall’amministrazione statale. E’ stato costruito grazie ai ricavi della lotteria postale del Nuovo Anno, distribuita nell’ospedale della Croce Rossa di Hiroshima. Il direttore, il dottor Shigeto, una vittima egli stesso del bombardamento atomico, da quel primo terribile momento, si è impegnato completamente nell’assicurare appropriate cure mediche ai superstiti (i “bakusha”) e nell’analizzare gli effetti della bomba, giungendo a spingersi con la sua insignificante bicicletta tra le rovine per raccogliere frammenti di tegole contaminate. La dignità che ho riscontrato in quest’uomo devoto è quella di un uomo disadorno e umile. Si batte per fare del suo meglio, ma senza fare appello o relazionare con autorità esterne. Da dove vengono queste persone dignitose? Oso sostenere che la loro dignità non è la semplice dignità che generalmente si trova ovunque.Per chiarire l’uso che faccio del termine “dignità”, per prima cosa voglio spiegare come sono giunto a farne uso, come esso sia divenuto parte del mio vocabolario. Per fare questo è necessario che condivida alcune delle mie esperienze e riflessioni personali, dall’infanzia ad oggi. L’idea di dignità iniziò ad attrarmi durante la Seconda Guerra Mondiale, quando ero ancora un ragazzino; e più tardi, quando ero uno studente universitario che leggeva la letteratura francese di guerra, il termine mi colpiva ancor di  più e assumeva un significato più definito. Per prima cosa ne possedevo una semplice consapevolezza, un’idea a grandi linee, ma non associavo ad esso nessun vocabolo. Verso la fine della guerra, ero un ragazzino che viveva in un villaggio di montagna nell’isola di Shikoku3; soffrii a causa di un terribile dilemma, alla base del quale c’era un episodio di un film che vidi al teatro del villaggio. Nell’episodio, un vecchio soldato veniva catturato dal nemico; terrorizzato dal dover confessare un segreto militare, immediatamente si suicidò. Rabbrividii, profondamente toccato e terrorizzato dalla paura. Ebbi una premonizione, che anch’io sarei sicuramente stato ridotto in una simile condizione estrema durante la guerra. Per me divenne una questione pressante quella di decidere che cosa dovessi fare in quella evenienza. Mentre ero profondamente toccato dall’azione del soldato, come un bambino spaventato da un amore egoista per la propria vita, dubitai anche che nulla fosse tanto importante per me come rischiare o perdere la mia vita a causa di questo. Un nuovo arrivato nel mondo, senza ragione per lasciarlo, percepivo una paura indicibile per la mia morte. Se ero condannato alla morte a meno che rivelassi un segreto, se mi trovavo a scegliere tra la vita e la morte, come un codardo avrei prontamente confessato qualsiasi segreto. Sarei mai diventato una persona che poteva non arrendersi perfino davanti alla morte o che avrebbe resistito alla morte stessa? Nascondendo il mio dilemma più profondo sotto un’espressione innocente da bambino, chiesi a mio padre (che vide il film con me) per quale ragione il giovane soldato si fosse suicidato. La replica di mio padre fu breve e scioccante, come mai avevo udito dalle labbra di un adulto. Fu la punizione di un padre infastidito nei confronti dell’innocenza senza veli di un ragazzino. “Quel soldato? Sarebbe sicuramente stato ucciso dopo esser stato costretto a confessare, anche se non si fosse suicidato.” Davvero mio padre sperava che questo bastasse a placare la mia mente, sconvolto com’ero dalla morte del soldato? Dopotutto, il soldato sarebbe morto, in questo modo sembrava comunque tutto uguale. Ma incominciai a temere di nuovo, terribilmente, per la situazione in cui il soldato sarebbe, nonostante tutto, morto. Anch’io sarei stato probabilmente il tipo di uomo che sarebbe stato ammazzato dopo aver confessato. Ancora profondamente turbato dall’idea di uno che poteva suicidarsi senza confessare alcun segreto, mi sentii disgustato dal genere di persona che avrebbe confessato e sarebbe stata egualmente uccisa.
[…]

Con la vanità di un bambino, evocai vari scenari. Mi immaginai i compagni del mio futuro; e per salvarli, raffigurai me stesso nel commettere suicidio – ma perfino nella fantasia, non riuscivo a far altro che ferirmi dinanzi al muro dell’esecuzione. Come potevo anteporre le vite degli altri alla mia morte? Non era la mia morte finale e assoluta? Secondo il ragionamento di mio padre, la mia morte sicuramente non era associata alla morte di altri. Prima di abbandonarmi ad una concezione così estrema, pregai che potessi riuscire a cambiare, da un genere di uomo disgustoso e codardo, in uno ammirevole, coraggioso, che poteva commettere suicidio. 

La guerra terminò quando ero ancora un ragazzino, così la decisione del campo di battaglia fu, per così dire, posposta. Tuttavia, continuai a preoccuparmi per la questione se io fossi uno che poteva morire senza arrendersi o se meramente fossi uno che sarebbe stato ucciso dopo essersi arreso.
[…]

Al tempo mi credevo un masochista. Fui proprio uno studente strano. Entrai nel dipartimento di letteratura ed iniziai la lettura della narrativa francese moderna. Nelle classi osservai che, come nella letteratura giapponese, quella francese possedeva certe speciali modalità di espressione; fui particolarmente interessato ai sinonimi delle due lingue, che comparivano con un certa frequenza nelle opere francesi ma che erano virtualmente assenti dagli scritti giapponesi. Due di queste parole attraevano la mia attenzione: 
- dignità (dignité);
- umiliazione, o vergogna (humiliation, honte).
I termini, o concetti, erano stati associati sin dall’infanzia al mio terribile dilemma. I fantasmi delle due parole non cessano mai di rincorrermi. Non posso, di certo, reclamare che parole simili non siano mai state utilizzate nella letteratura nipponica. Infatti, non è fuori luogo asserire che “umiliazione” e “vergogna” siano temi tradizionali nei nostri racconti autobiografici. Ma nella letteratura francese, le parole “umiliazione” e “vergogna” sono i barbigli morali più taglienti per catturare i cuori dell’autore e del lettore. Questi termini non sono mai apparsi nella letteratura giapponese con lo stesso peso e la stessa forza. Il problema è ancora più chiaro nel caso di un’altra parola, “dignità”. L’affermazione “quel ragazzo è pieno di dignità”, per esempio, non suona naturale nella sintassi giapponese. Suona come un’affermazione tradotta da una lingua straniera. 

Col tempo imparai a esprimere più chiaramente il mio dilemma infantile, come “quando da un uomo che può essere ucciso dopo esser stato umiliato o disonorato mi trasformerò inun uomo che può togliersi la vita con dignità”? Di sicuro, nel passaggio dalla giovinezza all’età adulta, non considerai l’ambiente del pensiero in termini tanto estremi. Era troppo infantile. Ma le parole “dignità”, “umiliazione” e “vergogna”, che entrarono a far parte del mio vocabolario in questo modo, rappresentano per me ancora i sostantivi più essenziali. A Hiroshima, ho visto le cose correlate alla peggiore forma di umiliazione; ma, per la prima volta nella mia vita vidi le persone giapponesi più colme di dignità. Tuttavia, le parole “dignità”, “umiliazione”, e “vergogna” non sono così semplici nel contesto del luogo dove l’esperienza più crudele della storia umana si è verificata. Almeno, queste parole possiedono, per sempre, un significato più profondo proprio in quel contesto. Come nel caso dell’umiliazione e della vergogna, possiamo richiamare alla memoria il vecchio che protestava per la ripresa dei test nucleari sventrandosi il petto, senza riuscirvi, e in questo modo scivolando miseramente nella vergogna. Il suo senso di vergogna, tuttavia, diede sostanza al suo senso di dignità. Così, egli si accosta alle vittime anziane della bomba che, con un senso di profonda vergogna per il fatto di sopravvivere mentre i giovani muoiono, parlano di questa situazione con dignità come di una “inversione”. Una giovane donna con la quale feci conoscenza all’ospedale della bomba atomica e che incontrai ancora un anno dopo, mi disse che lei si vergognava di se stessa; ed è proprio a Hiroshima che molte ragazze restano chiuse in casa perché si vergognano delle brutte cicatrici che ricoprono i loro volti. Come possiamo comprendere il senso di vergogna che le vittime dell’atomica hanno delle loro esperienze, senza vergognarci anche di noi stessi? Quale inversione terrificante di sentimenti!

Una ragazza si vergogna del proprio volto sfigurato da una intensa reazione cutanea. Nella sua mente suddivide tutta la gente della terra in due gruppi; il senso di vergogna rappresenta la linea di separazione tra le persone che portano segni come i suoi e tutti gli altri che non ne hanno. Le ragazze che portano delle escoriazioni si vergognano di loro stesse prima ancora che lo facciano chi non le ha. Si sentono umiliate dagli sguardi curiosi di tutte le altre persone che non le portano.

Che tipo di vita hanno scelto le ragazze sfigurate per poter sostenere il fardello della vergogna e dell’umiliazione? Uno dei loro modi per riuscirci è quello di tenersi lontane dallo sguardo altrui, nascondendosi nei recessi bui delle loro abitazioni. Quelle che fuggono in questa maniera sono, probabilmente, le più numerose. Standosene pacatamente nelle stanze più riparate, ora stanno consumando la propria giovinezza. Tutte le altre – quelle che non fuggono – possono naturalmente essere a loro volta separate in due tipologie. Una di queste include tutte coloro che desiderano che le bombe atomiche cadano nuovamente in modo che tutta la gente soffra le stesse pene che hanno sofferto loro. Il peso della vergogna dovrebbe essere più leggero da sostenere, se condiviso con ognuno. La gente dovrebbe smetterla di fissare le ragazze sfigurate come se fossero delle “altre”, in quanto non ci dovrebbero essere delle “altre”. Questa, per le ragazze la divisione  più disgustosa, dovrebbe essere cancellata dalla faccia della terra. Difatti, ho sentito un lamento di desiderio in questa direzione, e in un saggio precedente avevo riportato una breve poesia in cui si esprime lo stesso sentimento4:

Sarei confortato

se tutti gli esseri viventi

in cielo e in terra

stessero per perire

in completa desolazione.

Questo desiderio, questa maledizione sul mondo, attualmente non è più auspicabile nella terapia di supporto psicologico atta a sostenere i fardelli dei sopravvissuti. La maggior parte di queste ragazze sono diventate silenziose e, nei fatti, dovrebbero essere classificate come “fuggiasche”.

C’è ancora un altro gruppo. Sono le persone che hanno preso la miseria inflitta dalla bomba atomica e l’hanno trasformata da forza passiva in attiva; usano la loro vergogna e la loro umiliazione come armi per il movimento contro gli ordigni nucleari.

Questa mia strana divisione, tuttavia, non è in realtà necessaria. Hiroshima, come un tutto deve darsi da fare per articolare le ragioni intellettuali essenziali per abolire le armi nucleari in modo che tutte le esperienze di disumanizzazione  delle vittime – la miseria, la vergogna e l’umiliazione, la malvagità e la degradazione – possano essere convertite in cose degne, cosicché la dignità umana delle vittime dell’atomica venga riscattata. Tutta la gente con escoriazioni e tutta la gente senza devono, insieme, affermare questo sforzo. Quali altri significati umani possono  esserci per liberare le vittime della bomba dalla loro tragica paura per una morte miserabile? Sebbene, grazie a qualche accordo politico, tutte le armi nucleari siano state abolite, sarebbe vantaggioso riscattare l’umanità delle vittime dell’atomica. Tengo a questo principio per restare equidistante da prospettive morali ed intellettuali. E,desidero riaffermarlo, riguardo anche l’armamento nucleare della Cina. Ci sarà qualcuno che giudicherà questo modo di pensare sentimentale? Se voi stessi aveste brutte cicatrici e vorreste superare l’angoscia mentale che esse causano, vorreste, anche, non credere che la bruttezza delle cicatrici possa avere un valore nella causa per l’eliminazione di tutti gli ordigni nucleari? Non sarebbe come credere che essa sia la sola via per trasformare il dolore e la paura di morire inutilmente di leucemia in qualcosa di proficuo? 

Nel contesto più ampio della vita e della morte, quelli di noi a cui è capitato di scampare l’olocausto atomico devono vedere Hiroshima come parte di tutto il Giappone, e come parte di tutto il mondo. Se noi sopravvissuti vogliamo espiare “Hiroshima” dentro di noi e attribuirgli qualche valore positivo, allora dovremmo mobilitare tutti gli sforzi contro le armi nucleari ai motti “la miseria umana di Hiroshima” e “il riscatto di tutta l’umanità”. Qualcuno può credere in una visione favolistica, in quest’epoca fortemente politicizzata, secondo la quale l’acquisizione di armi atomiche da parte di ogni stato persegua la causa del disarmamento nucleare. Poiché, il mondo nei fatti ha intrapreso questo sentiero, ci può essere qualche possibilità ultima di cancellare totalmente gli ordigni nucleari.    

Tuttavia, non posso sopravvalutare il fatto che il primo passo verso il sogno anti-nucleare ha  virtualmente spezzato la speranza di riscatto delle ragazze che, vergognose per le proprie abrasioni cutanee, stanno perdendo la giovinezza nelle stanze più buie di Hiroshima. Comunque, non c’è alcuna chiara prospettiva nella totale abolizione delle armi nucleari. Quanto dev’essere desolante la situazione per la gente di Hiroshima! Con difficoltà, ho il coraggio di sondare i loro sentimenti.

Evidenziando il problema in termini chiari e semplici, ovunque sulla terra la gente sta cercando di dimenticare Hiroshima e l’impronunciabile tragedia ivi perpetrata. Naturalmente, cerchiamo di dimenticare le nostre tragedie personali, serie o frivole che siano, il più presto possibile. Cerchiamo di non trasmettere questi elementi al domani. Non è insolito, tuttavia, che l’intera razza umana stia cercando di mettere Hiroshima, il punto estremo della tragedia umana, completamente nel dimenticatoio. Senza occuparsi di sfogliare i libri di testo scolastici, sappiamo che gli adulti non compiono sforzi per indirizzare i figli ai loro ricordi su Hiroshima. Tutti coloro che per fortuna sono sopravvissuti, o almeno per fortuna non hanno sofferto per le radiazioni, cercano di dimenticare coloro che, anche adesso, stanno scivolando dolorosamente verso la morte. Dimenticando tutte queste cose, viviamo in maniera confortevole nel pazzo mondo di fine XX secolo.

Nell’ottobre 1964, quando un giovane uomo nato a Hiroshima lo stesso giorno del bombardamento atomico, venne selezionato quale ultimo staffettista per portare la fiamma olimpica, un giornalista americano – che aveva tradotto delle opere di letteratura giapponese e quindi si credeva comprendesse il Giappone e la sua gente  - pubblicamente espresse l’opinione che si trattò di una scelta infelice, poiché ricordava agli americani la bomba. Se lo staffettista selezionato avesse ricevuto delle ferite o altri segni di contaminazione radioattiva, se fosse stato una casualità evidente della bomba atomica, allora non obietterei sulla scelta della selezione; una vittima dell’atomica (se abbastanza fortunato per aver vissuto 25 anni) sarebbe stato più rappresentativo di quelli nati il giorno del bombardamento. Ma il corridore scelto possiede sul serio un corpo in piena forma fisica; fummo impressionati dal suo vigore mentre correva a tutta velocità nello stadio, con il sorriso di una persona libera da ogni preoccupazione. Lodai questo corpo perfettamente salutare del giovane uomo per amore del dottor Shigeto, che è sempre al lavoro sul “problema della prossima generazione delle vittime della bomba atomica”. Inoltre, il giornalista americano era seccato poiché il giovane uomo, nato a Hiroshima il giorno del bombardamento, ricordava agli americani la bomba atomica. Lui preferiva cancellare ogni traccia di Hiroshima dalla memoria americana. Peggio ancora, questa preferenza si presenta non soltanto nella mente americana. Non è forse vero che tutti i leader e la gente che al presente possiede armi nucleari desiderano pure cancellare Hiroshima dai loro ricordi? Come la carta bianca5 sulle vittime e i danni dell’atomica cerca di chiarire, Hiroshima è il primo esempio non tanto del potere degli ordigni nucleari, bensì della miseria che essi causano. Ma noi questo lo vogliamo mettere da parte e andare avanti nella vita. Tale atteggiamento è comune nel mondo. I leader più potenti dell’Oriente e dell’Occidente insistono nel mantenere le armi nucleari come mezzo per preservare la pace vera; infatti, la carta stampata di tutto il mondo sta adottando argomentazioni simili in tutta fretta. Ma è ovvio che tutti i sostenitori basano le proprie opinioni sul potere delle armi atomiche. Così è nella moda e nel senso comune del mondo odierno. Chi, allora, dovrebbe ricordare Hiroshima come apice della miseria umana?

Non di rado mi capita di incontrare vittime dell’atomica che dicono di voler dimenticare la bomba e di non voler discutere della sua spaventosa esplosione e del lampo6. Come nel caso della fiamma olimpica, se ciascuno ha il diritto di protestare in quanto il corridore selezionato era uno spiacevole ricordo della bomba, le vittime dell’atomica possono per primi rivendicare quel diritto. Più di chiunque altro vorrebbero dimenticare gli orrori di quel giorno. In effetti, hanno bisogno di dimenticare in modo da continuare la vita di tutti i giorni. All’università avevo un amico che veniva da Hiroshima; durante i quattro anni trascorsi insieme, non l’ho mai sentito parlare della bomba atomica. Sicuramente aveva il diritto di rimanere in silenzio.

A Hiroshima, all’alba del giorno della Commemorazione della bomba, spesso ho visto molte donne stare in piedi in silenzio, con uno sguardo profondo, scuro, impaurito, presso il monumento memoriale, e in altri luoghi simili. In queste occasioni, richiamavo alla memoria alcuni versi del poeta russo Evtushenko (Evgenij, 1935):

I suoi occhi fissi senza espressione;

ancora c’era qualcosa là, dolore o agonia,

inesprimibile,

ma qualcosa di terribile.

Ho parlato delle donne, sono rimaste in silenzio. Anche loro hanno il diritto di tacere. Hanno il diritto, se possibile, di dimenticare ogni cosa di Hiroshima. Ne hanno avuto abbastanza di Hiroshima. Qualche vittima, sebbene sia a conoscenza che il miglior trattamento medico per i sintomi della bomba è disponibile a Hiroshima, tuttavia sceglie di vivere altrove, perché vuole fuggire da tutto ciò che rappresenta Hiroshima, internamente ed esternamente. Ancora, hanno il diritto, se possibile, di fuggire da Hiroshima, completamente. Se, nonostante ciò, una vittima della bomba sviluppa dei sintomi correlati alla malattia, allora non può né dimenticare né scappare da Hiroshima. Può, senz’altro, vivere senza pensare a Hiroshima, più lontano possibile, sebbene sia un paziente dell’ospedale della bomba atomica. Se, in aggiunta, alla totale rimozione di Hiroshima dalla sua coscienza, il paziente può recuperare pienamente e andarsene da Hiroshima, mai più vi farà ritorno, sempre che sia fortunato. Nei fatti, se tutti i pazienti potessero fare così, come sarebbe meraviglioso!

Il signor Sadao Miyamoto era un paziente che partecipò al movimento anti-nucleare a rischio della sua stessa fragile vita. In coscienza accettò Hiroshima. Osò ricordare la peggiore miseria umana della storia e mise giù le sue riflessioni a riguardo. Parlò liberamente, ma con umorismo, agli stranieri che di frequente visitavano l’ospedale. Piuttosto che fuggire da Hiroshima, l’accettò. Per amore di chi? Per amore di tutti gli altri esseri umani, per tutti coloro che sono voluti restare dopo che egli incontrò la propria miserabile morte. La sua passione proveniva dal  franco riconoscimento che la morte era inevitabile. Il signor Sankichi Toge, un poeta eccellente, morì anch’egli a Hiroshima; fu dopo che ebbe avuto un’emorragia ai polmoni (in taluni casi fatale) che partecipò appassionatamente ad attività politiche. “La brutale emorragia ai polmoni di cui soffrì il signor Toge, nell’aprile 1949, lo rese combattivo contro il terrore della morte… [e] decise di aderire al Partito Comunista Giapponese”. (testimonianza del signor Kiyoshi Toyota) Se i sopravvissuti superassero la paura della morte, dovrebbero anche trovare il modo per attribuire un significato alla loro stessa morte. Così, il defunto può sopravvivere come parte delle esistenze di coloro che ancora vivono. Scommettere sulla vita dopo la morte e giocare un ruolo attivo nel funzionamento dell’ospedale è stata la via scelta dal signor Miyamoto; la partecipazione politica e l’adesione al Partito Comunista è stata la soluzione scelta dal signor Toge. Quello che mi spaventa è che stiamo completamente perdendo le loro scommesse con la morte. Sembra che il signor Miyamoto abbia sospettato che noi tutti lo desiderassimo. Mi preoccupa enormemente pensare a questa desolazione. E non è forse vero che noi sopravvissuti rifiutiamo di scommettere sulle nostre morti per paura che avremo da pagare in qualità di perdenti? 

Invece di “morti”, preferisco chiamare questa gente “santi”. Non hanno religione, e il poeta era comunista. Ma ritengo che il termine “santi” sia per loro appropriato, nel senso che Albert Camus una volta gli ha attribuito: “Sono affascinato dalla domanda di come possa io diventare un santo. “Ma tu non credi in Dio, non è vero?” “Già, può uno diventare un santo senza l’aiuto di Dio?” – questa è la sola domanda concreta che oggi conosca”. 

Se ci sono quelli che non amano la parola “santo”, allora io non mi preoccupo di ricordare questi due uomini, che rifiutarono di morire in silenzio, nei termini delle seguenti parole di Céline, scritte in tono ben più severo:

L’ultima sconfitta è, in breve, dimenticare; specialmente dimenticare coloro che ci hanno ucciso. E’ morire senza sospetto, la vera fine, di quanto la gente sia perversa. Non c’è utilità nel battersi quando abbiamo già un piede nella fossa. E non dobbiamo perdonare né dimenticare. Dobbiamo riportare, una dopo l’altra, ogni cosa abbiamo appreso della crudeltà dell’uomo. In altro modo, non possiamo morire. Se facciamo questo, allora le nostre vite andranno perse.7

La gente che continua a vivere a Hiroshima, invece di accettare il silenzio o dimenticare la tragedia estrema della storia umana, sta cercando di parlarne, di studiarla, e di registrarla. E’ un compito formidabile, che chiama ad uno sforzo straordinario. Chi viene da fuori difficilmente può comprendere la portata e l’intensità dei sentimenti della gente di Hiroshima – inclusa la personale avversione all’esposizione pubblica che deve vincere per sostenere questo compito. La gente che resta fedele alla città è l’unica che ha diritto di dimenticare e di restare in silenzio; ma sono le uniche persone che scelgono di discutere, di studiare, e di registrare in maniera energica.

Le donne della serie “I fiumi di Hiroshima”, i sostenitori del foglio bianco sull’atomica, i dottori dell’ospedale della bomba, e tutte le vittime che non hanno mai parlato delle loro amare esperienze e di Hiroshima dentro loro stesse – quanto modesti e riservati sono nel fare testimonianza. Non è in per niente strano che tutta questa gente di Hiroshima possegga una dignità evidente. Soltanto attraverso vite come le loro la gente dignitosa può emergere nella nostra società.

Da allora, quando per la prima volta percepii, da bambino, il dilemma di come guadagnare  dignità, non ho mai provato a scrivere, perfino per esercizio, un saggio di modo da risolvere la questione. Ma penso di aver imparato una maniera sicura per proteggere me stesso dal provare vergogna o umiliazione. E quella maniera è di impegnarsi a non perdere mai di vista la dignità della gente di Hiroshima.

Traduzione di Tiziano Fratus



NOTE:

1 la Nona Conferenza Mondiale (1963) doveva rappresentare un momento di unione nella discussione e nella progettualità per una politica di forte impatto contro la prolificazione nucleare. Invece, segnò la rottura nel movimento anti-nucleare, in particolare tra il Partito Comunista e la cordata delle tre prefetture di Hiroshima, Nagasaki e Shizuoka. L’anno
2 Serie di pubblicazioni curate da un gruppo di donne per testimoniare la loro esperienza,
discutere e diffondere le proprie idee e gli sforzi per ricordare quello che accadde a
Hiroshima.
3 Il Giappone è composto da migliaia di isole, di cui le quattro più grandi sono: Hokkaido,  Honshu, Shikoku, Kyushu.
4 La poesia di Takeo Takahashi è inserita nel capitolo II, e qui riportata per maggiore
chiarezza.

5 Documento in cui vengono delucidate le conseguenze del bombardamento atomico, il 6agosto
1945.
6 In giapponese esiste un termine che viene usato appositamente per indicare il lampo
dell’esplosione atomica a Hiroshima e Nagasaki: pika.

7 Louis-Ferdinand Céline (1894-1961), ''LeVoyage au Bout de la Nuit ''.


(Tratto dal libro "HIROSHIMA NOTO", di Kenzaburo Oe, Iwanami Shoten Publishers,Tokyo, 1965. In inglese tradotto da David L. Swain e Toshi Yonezawa, YMCA PRESS, Tokyo,1981. Oggi disponibile nelle versioni rilegata ed econômica Marion Boyars Publishers New York / Londra, 1995 e 1997)


.
       Copertina