HEINRICH VON KLEIST



MICHAEL KOHLHAAS

The tale occurs in the sixteenth century, so we are not very far removed (if at all) from the era of feudalism. Kleist opens his book with a description of Kohlhaas as “one of the most upright and at the same time one of the most terrible men of his day.” He is “extraordinary…the very model of a good citizen”, his children are “industrious and honest” and his neighbours acclaim his “benevolence [and] his fair-mindedness.” Yet, in closing his first paragraph, Kleist notes “his sense of justice turned him into a brigand and a murderer.” The opening said to me: this is a fable, and we are immediately in an arena of extremes, contrasts, and the tensions that must exist within a man described as Kohlhaas has been. CONTINUA

GESAMTER TEXT AUF DEUTSCH



(Da una vecchia cronaca)

Lungo le rive della Havel viveva, intorno alla metà del sedicesimo secolo, un mercante di cavalli, chiamato Michele Kohlhaas, figlio di un maestro di scuola: uno degli uomini più onesti e al tempo stesso più spaventevoli del tempo suo. - Quest'uomo fuori dell'ordinario sarebbe potuto passare fino al suo trentesimo anno per il modello del buon cittadino. Possedeva una fattoria, in un villaggio che porta ancora oggi il suo nome, e vi si manteneva pacificamente, con i frutti del suo lavoro; i fanciulli che sua moglie gli aveva dato li tirava su nel timor di Dio, laboriosi e leali; non c'era uno dei suoi vicini che non avesse provato i benefici della sua generosità, o della sua giustizia; il mondo, in breve, avrebbe dovuto benedire la memoria se non avesse ecceduto in una virtù. Il senso di giustizia, infatti, fece di lui un brigante e un assassino.
Egli era diretto, un giorno, oltre il confine, con un branco di cavalli giovani, tutti lustri e ben pasciuti, e rifletteva per l'appunto a come avrebbe impiegato il guadagno che sperava di ricavarne sui mercati (un po', da buon massaio, ne avrebbe investito, perché fruttasse a sua volta, ma un po', anche, se lo sarebbe goduto seduta stante), quando giunse all'Elba, e qui si imbatté, nei pressi di un maestoso castello, in territorio sassone, in una barriera che prima di allora non aveva mai trovato su quella strada. Fermò i cavalli, mentre proprio in quel momento si scatenava un acquazzone, e chiamò il cantoniere, che non tardò, con viso burbero, ad affacciarsi alla finestra. Il mercante di cavalli gli disse di aprire.
"Che novità è questa?", domandò, quando il gabelliere, dopo un bel po' di tempo, uscì dalla casa.
"Privilegio signorile", rispose questi, armeggiando con la serratura per aprire, "concesso al barone Venceslao di Tronka".
"Ah", fece Kohlhaas, "il barone si chiama Venceslao?", e rimirò il castello, che dominava i campi con i suoi merli scintillanti. "È morto il vecchio signore?".
"Morto, gli ha preso un colpo", rispose il gabelliere, e alzò l'albero che faceva da sbarra.
"Hm, peccato!", aggiunse Kohlhaas. "Un degno signore, il vecchio, che aveva piacere a intrattenersi con la gente, e tutte le volte che poteva dava una mano ai traffici e ai commerci; una volta fece costruire un argine di pietre perché, là dietro, dove la strada sbocca nel villaggio, una delle mie cavalle s'era spezzata una gamba. Dunque, quanto devo?", domandò; e cominciò a cavar fuori con fatica, da sotto il mantello sbattuto dal vento, i denari che il gabelliere gli aveva chiesto.
"Sì, vecchio mio", aggiunse ancora, dal momento che quello brontolava "Svelto! Svelto!", e imprecava al maltempo: "Se l'albero se ne fosse rimasto nel bosco, sarebbe stato meglio, per
me e per voi". E, così dicendo, gli diede il denaro e fece per proseguire. Ma non era neppure arrivato sotto la stanga, che già un'altra voce gli urlava dietro "Alto là, sensale!", dalla torre di guardia; ed egli vide il castaldo sbattere una finestra e precipitarsi verso di lui.
"Be', che novità è questa?", si domandò Kohlhaas fra sé, fermandosi con i suoi cavalli. Il castaldo arrivò, allacciandosi ancora il panciotto sulla figura corpulenta, e, piantato di traverso contro le raffiche di vento, chiese il lasciapassare. "Lasciapassare?", domandò Kohlhaas. E disse, un po' confuso, che, per quanto ne sapesse, non l'aveva: ma se solo avessero voluto descrivergli, bontà divina, che specie di cosa era, quel lasciapassare, magari poteva anche darsi che per caso l'avesse.
Il castaldo, guardandolo storto, replicò che, senza un permesso scritto del sovrano, a nessun sensale era consentito varcare il confine con i suoi cavalli. Il sensale assicurò che per diciassette volte, nel corso della sua vita, aveva passato il confine senza un permesso simile; e che egli conosceva perfettamente tutte le disposizioni sovrane che riguardavano la sua attività; non poteva trattarsi, dunque, che di un errore; pregava, perciò, che volessero ripensarci, e non trattenerlo oltre laggiù senza costrutto, dal momento che la sua giornata di viaggio era lunga assai. Ma il castaldo ribatté che la diciottesima non l'avrebbe fatta franca, che appunto per questo era stata recentemente emanata quella nuova ordinanza, e che, se non si fosse procurato lì sul posto il lasciapassare, avrebbe dovuto ritornarsene di dove era venuto. Il mercante, che cominciava a irritarsi a quelle estorsioni illegali, scese, dopo una breve riflessione, da cavallo lo affidò a un servo, e disse che ne avrebbe parlato di persona con il barone di Tronka. E salì infatti al castello, il castaldo gli tenne dietro, borbottando di affaristi spilorci e di opportuni salassi; e, misurandosi l'un l'altro con lo sguardo, i due entrarono insieme nella sala.
Il barone stava bevendo in mezzo a un'allegra brigata di amici, e una facezia aveva appena scatenato fra loro un'interminabile risata, quando Kohlhaas gli si avvicinò per fargli le sue rimostranze. Il barone gli chiese che cosa volesse; i cavalieri quando videro lo sconosciuto, ammutolirono; ma non appena questi ebbe incominciato a esporre le sue richieste a proposito di cavalli, tutta la brigata salto su, gridando "Cavalli? Dove sono?", e corse alle finestre per osservarli. Quando videro quella splendida mandria, scesero di corsa, su proposta del barone, nella corte; la pioggia era cessata; il castaldo, il fattore, i servi si raccolsero intorno a loro, e tutti passarono in rassegna gli animali. Uno lodava il sauro fulvo con la macchia bianca, a un altro piaceva il baio, il terzo accarezzava il pomellato a macchie gialle e nere; e tutti dicevano che quei cavalli sembravano dei cervi, e in tutto il paese non se ne allevava di più belli. Kohlhaas ribatté allegramente che i cavalli non erano migliori dei cavalieri che li avrebbero montati; e li invitò a comperare. Il barone, molto attirato dal poderoso stallone sauro, gli domandò il prezzo; il fattore gli consigliò di acquistare un paio di morelli che pensava di poter utilizzare nei lavori agricoli, perché cavalli ce n'erano pochi; ma, quando il sensale tirò fuori i prezzi, i cavalieri li trovarono troppo cari, e il barone disse che, se pretendeva tanto per quelle bestie, doveva cavalcare fino alla Tavola Rotonda, e andare alla ricerca di Re Artù.
Kohlhaas, vedendo il castaldo e il fattore bisbigliare tra loro e gettare ai morelli occhiate eloquenti, fece, per un oscuro presentimento, di tutto, perché si tenessero quei due animali. Disse al barone: "Signore, i morelli li ho acquistati sei mesi fa, per venticinque fiorini d'oro; datemene trenta, e li avrete". Due cavalieri che stavano a fianco del barone dissero apertamente che i cavalli li valevano senz'altro; ma il barone dichiarò che era disposto a spendere per il sauro, semmai, non per i morelli, e fece l'atto di andarsene. Allora Kohlhaas disse che forse avrebbeconcluso un affare con lui la prossima volta, quando fosse ripassato con i suoi cavallucci, fece al barone i suoi rispetti, e afferrò le briglie della sua cavalcatura, per ripartire. Ma in quel momento il castaldo uscì dal crocchio, dicendo che senza un lasciapassare, l'aveva sentito, non avrebbe potuto andarsene.
Kohlhaas si voltò, e domandò al barone se fosse proprio vera quella faccenda, che rovinava tutta la sua attività. Il barone rispose, con aria imbarazzata, allontanandosi: "Sì, Kohlhaas, devi procurarti il lasciapassare. Parlane con il castaldo, e va' per la tua via". Kohlhaas gli assicurò che non aveva alcuna intenzione di eludere le ordinanze sull'esportazione dei cavalli, quali che fossero, promise che, passando da Dresda, sarebbe andato a prendere il lasciapassare alla Cancelleria, e lo pregò di lasciarlo passare soltanto per quella volta, dato che non aveva saputo proprio nulla di una simile richiesta.
"E va bene!", disse il barone, mentre il temporale, proprio in quel momento, riprendeva, e il vento sibilando gli passava da parte a parte le membra rinsecchite. "Lasciate andare questo poveraccio. Venite!", disse rivolto ai cavalieri, si voltò e fece per rientrare al castello. Il castaldo, rivolto al barone, disse che il mercante doveva almeno lasciare un pegno, per essere certi che andasse a ritirare il documento. Il barone si fermo di nuovo, sotto il portone del castello. Kohlhaas domandò quale valore, in denaro o in oggetti, dovesse lasciare, come pegno per i morelli. Il fattore, masticando le parole nella barba, disse che poteva lasciare per l'appunto i morelli. "Sicuro", disse il castaldo; "è la cosa più conveniente; quando ha ritirato il lasciapassare, può venire a prenderseli in qualunque momento".
Kohlhaas, sconcertato da una richiesta così sfacciata, disse al barone, che si stringeva addosso intirizzito il giustacuore, che i morelli li voleva vendere. Ma questi, mentre in quell'attimo una raffica scagliava attraverso il portone uno scroscio di pioggia mista a grandine, gridò, per mettere fine alla cosa: "Se non vuoi mollare i cavalli, ributtatelo al di là dello sbarramento", e se ne andò. Il sensale, rendendosi conto che doveva pur cedere alla violenza, decise di accogliere la richiesta, visto che non gli restava altro da fare; sciolse i morelli, e li condusse in una stalla indicatagli dal castaldo. Lasciò con le bestie un servo, gli rimise del denaro, gli raccomandò di tenere ben d'occhio i cavalli fino al suo ritorno, e proseguì, con il resto della mandria, il suo viaggio verso Lipsia, dove voleva recarsi alla fiera; rimuginando, incerto, fra sé e sé, se forse, dopo tutto, in Sassonia non potesse essere stato emanato un simile ordine, per proteggere qualche nuovo allevamento di cavalli.
A Dresda, dove possedeva, nei sobborghi, una casa con alcune stalle, perché quella era la base dei suoi commerci sui mercati minori della regione, si recò subito, appena arrivato, alla Cancelleria; e qui venne a sapere dai consiglieri, alcuni dei quali conosceva, che, come aveva sospettato, in realtà, fin dal primo momento, la storia del lasciapassare era inventata di sana pianta. Kohlhaas, dopo che i consiglieri, di malavoglia, gli ebbero rilasciato, su sua richiesta, una dichiarazione scritta che ne attestava l'infondatezza, sorrise allo scherzo dell'allampanato barone, anche se non capiva ancora bene a che cosa avesse potuto mirare; e, venduto con soddisfazione, poche settimane dopo, il branco di cavalli che aveva con sé, senza portarsi ormai dietro maggiore amarezza che non fosse quella sulla generale miseria del mondo, fece ritorno al castello di Tronka.
Il castaldo, al quale mostrò la dichiarazione, non aggiunse parola sull'argomento; e quando il sensale gli domandò se ora poteva riavere i cavalli, rispose che scendesse, e andasse a prenderseli. Ma già attraversando il cortile Kohlhaas ebbe la spiacevole sorpresa di venire a sapere che il suo servo, soltanto pochi giorni dopo essere stato lasciato nel castello, per il suo contegno sconveniente, a quanto dicevano, era stato bastonato e cacciato via. Al ragazzo che gli aveva dato la notizia Kohlhaas domandò che cosa avesse fatto, e chi si fosse occupato, nel frattempo, dei cavalli; al che il ragazzo rispose di non saperlo, mentre apriva davanti a lui, che aveva già il cuore gonfio di presentimenti, la stalla in cui si trovavano. Quale fu però il suo stupore, quando, al posto dei suoi due morelli lustri e ben pasciuti, scorse un paio di allampanati e sparuti ronzini; ossa che sarebbero potute servire per appendere i panni, pelame e criniere intrecciate, che nessuno aveva pulito e rigovernato: il vero ritratto dello squallore nel regno animale!
Kohlhaas, al quale le bestie nitrirono, con un debole movimento, era al colmo dell'indignazione, e domandò che cosa fosse successo ai suoi poveri cavalli. Il ragazzo, che stava al suo fianco, rispose che no, alle bestie non era successa nessuna disgrazia, e avevano sempre ricevuto la loro razione di biada; ma, dato che era appunto il tempo del raccolto, e mancavano animali da tiro, erano stati adoperati un poco nei campi. Kohlhaas inveì contro quell'infame, concertato sopruso; ma, sentendosi impotente, ingoiò la sua rabbia, e stava già preparandosi poiché non gli restava altro, ad andarsene con i suoi cavalli da quel covo di briganti, quando apparve il castaldo, richiamato dal battibecco, e chiese che cosa stava succedendo. "Che cosa succede?", rispose Kohlhaas. "Chi ha dato al barone di Tronka e alla sua gente l'autorizzazione di servirsi per il lavoro dei campi dei miei morelli, che avevo lasciato presso di lui? Era umano", aggiunse, "comportarsi così?". E cercò di scuotere gli animali esausti con un colpo di scudiscio, mostrandogli che non si muovevano neppure. Il castaldo, dopo averlo squadrato per un pò, con aria di sfida, replicò: "Vedi un po' il tanghero! Come se non dovesse ringraziare Iddio, il villano, che i suoi ronzini sono ancora vivi. E chi avrebbe dovuto prendersene cura", domandò, "dopo che il suo servo se n'era scappato? Non era stato forse giusto che i cavalli si guadagnassero sui campi il foraggio che avevano ricevuto?". E chiuse il discorso dicendo che la smettesse di far storie, o avrebbe chiamato i cani, e con essi avrebbe saputo come riportare la calma nella corte.
Al mercante batteva il cuore contro la giubba. Faceva fatica a non scaraventare quell'ignobile pancione in mezzo al letame, e a non calpestare col piede la sua faccia di bronzo. Ma il suo senso di giustizia, che era come la bilancia dell'orafo, oscillava ancora; davanti al tribunale del suo cuore, non era ancora certo che il suo avversario fosse colpevole; e, mentre ingoiando gli improperi si accostava ai cavalli e, soppesando in silenzio le circostanze, ravviava alle bestie la criniera, domandò a voce bassa per quale mancanza il suo servo fosse stato allontanato dal castello. "Perché quella lenza s'è messo a fare il gradasso, qui nella corte!", rispose il castaldo. "Perché si è rifiutato di accettare un cambio di stalla di cui non si poteva fare a meno, e pretendeva che i cavalli di due gentiluomini giunti al castello di Tronka passassero la notte sulla strada maestra, per amore dei suoi ronzini!".
Kohlhaas avrebbe dato il valore dei cavalli per avere sottomano il suo servo, e poter confrontare il suo racconto con quello che usciva dalla boccaccia del castellano. Era sempre là, in piedi, sbrecciando ai morelli i crini arruffati, e riflettendo al da farsi, nella situazione in cui si trovava, quando la scena mutò di colpo, e il barone Venceslao di Tronka, con una torma di cavalieri, di servi e di cani, tornando dalla caccia alla lepre irruppe nel piazzale del castello. Il castaldo, quando gli fu chiesto che cosa fosse accaduto, prese subito la parola, e, mentre i cani, alla vista del forestiero, scatenavano contro di lui dei latrati d'inferno, e i cavalieri a loro volta gridavano per metterli a tacere, riferì al suo padrone, mettendo il fatto nella luce peggiore, che razza di rivolta avesse messo su quel Cavallar, perché si erar fatti lavorare un po' i suoi morelli. E disse, fra risa di scherno che rifiutava di riconoscere i cavalli per suoi.
"Non sono i miei cavalli, signore illustrissimo!", gridò Kohlhaas. "Non sono i cavalli che valevano trenta fiorini d'oro! Voglio riavere i miei cavalli sani e ben nutriti!".
Il barone per un attimo impallidì, e disse, scendendo di sella: "Se mastro Bertoldo non vuole riprendersi i cavalli, che li lasci pure qui. Vieni qua, Guntiero!", gridò. "Gianni! Venite qua!", e intanto spazzava con la mano la polvere dai calzoni.
"Portate del vino!", gridò ancora, quando fu sulla soglia con i cavalieri; ed entrò in casa. Kohlhaas disse che avrebbe preferito chiamare lo scortichino, e portare i suoi cavalli al macello piuttosto che riportarseli nella sua stalla a Pontekohlhaas così com'erano. Lasciò le bestie sul piazzale, senza curarsene più saltò sul suo baio, assicurando che avrebbe saputo farsi giustizia, e se ne andò.
Correva già, a spron battuto, sulla strada di Dresda; ma, ripensando al suo servo, e alle accuse che avevano mosso contro di lui al castello, si mise al passo; e, prima di averne fatti mille, voltò il cavallo, e, per interrogare prima di tutto il suo servo, cosa che gli sembrava prudente e giusta, piegò verso Pontekohlhaas. Perché un sentimento di giustizia, al quale era ben noto l'ordine imperfetto delle cose umane, lo rendeva incline nonostante le offese patite, se soltanto il suo servo si fosse reso realmente responsabile di una colpa qualsiasi, come pretendeva il castaldo, a rassegnarsi, come a una giusta conseguenza, alla perdita dei cavalli. Ma se, per contro, gli diceva un sentimento non meno imperioso, un sentimento che metteva in lui radici sempre più profonde, man mano che egli proseguiva nella sua cavalcata, e, dovunque entrasse, sentiva parlare delle ingiustizie quotidianamente commesse al castello di Tronka, in danno dei viaggiatori: se l'intera storia, come tutte le apparenze lasciavano credere, non era altro che una macchinazione, allora egli aveva, di fronte al mondo, il dovere di procacciare, con tutte le sue forze, a sé stesso soddisfazione per l'offesa patita, e ai suoi concittadini sicurezza contro offese future.
Non appena, giunto a Pontekohlhaas, ebbe abbracciato Lisabetta, la sua fedele moglie, e baciato i suoi figli, che gli facevano festa alle ginocchia, chiese immediatamente di Ersiano, il capo della servitù: se n'era sentito qualcosa?
"Già, Michele carissimo, proprio Ersiano!", disse Lisabetta.
"Pensa un po', quel poveraccio, saranno quindici giorni, arriva qui tutto pesto da far pietà; no, ti dico, così conciato da non poter nemmen tirare il respiro. Lo mettiamo a letto, dove non fa che sputar sangue, e a furia di chiedere veniamo a sapere una storia che nessuno capisce. Che è stato lasciato indietro da te a Castel Tronka, con dei cavalli che non han lasciato passare; che l'hanno costretto, con i maltrattamenti più vergognosi, a lasciare il castello; e che non ha potuto portarsi via i cavalli".
"Ah sì?", disse Kohlhaas, togliendosi il mantello. "E si è già rimesso?".
"Mezzo e mezzo; ma sputa ancora sangue", rispose lei. "Volevo mandare subito un servo a Castel Tronka, perché si prendesse cura dei cavalli, fino al tuo ritorno. Perché Ersiano si è sempre dimostrato così sincero con noi, e così fedele, sì, più di tutti gli altri servi, che non mi è neppure venuto in mente di dubitare del suo racconto, confermato da tanti particolari; e di credere, per esempio, che avesse perso i cavalli in altro modo. Ma lui mi scongiurò di non pretendere da nessuno di metter piede in quel covo di briganti, e di rinunciare alle bestie, se non volevo, per loro, sacrificare degli uomini".
"È ancora a letto?", domandò Kohlhaas, liberandosi della sciarpa.
"È già da qualche giorno che ha ricominciato a uscire nel cortile. Insomma, vedrai", continuò Lisabetta, "che è proprio tutto come lui ha detto, e che questa faccenda è una delle angherie che, da un po' di tempo, quelli di Castel Tronka si permettono contro i forestieri".
"Prima di tutto vedrò coi miei occhi", replicò Kohlhaas.
"Fallo venire un po' qua, Lisabetta, se è in piedi!". E con queste parole si sedette, mentre la massaia, molto contenta che la prendesse così calma, andò a chiamare il servo.
"Che cosa hai combinato a Castel Tronka?", gli domandò Kohlhaas, quando Lisabetta rientrò con lui nella stanza. "Non sono troppo contento di te".
Il servo, il cui volto pallido si coprì di macchie rosse, a queste parole, restò per un poco in silenzio, e poi rispose:
"Avete ragione, padrone! Perchè una miccia che, per volontà di Dio, avevo con me, per metter fuoco a quel covo di briganti da cui ero stato scacciato, la buttai, quando sentii piangere un bambino nel castello, nelle acque dell'Elba, e pensai: possa ridurlo in cenere la folgore divina! Io non lo farò".
Impressionato, Kohlhaas disse: "E in che modo ti sei fatto cacciare da Castel Tronka?". E Ersiano:
"Con un tiro mancino, padrone!". E si asciugò il sudore dalla fronte. "Ma cosa fatta capo ha. Non volevo che rovinassero i cavalli nel lavoro dei campi; ho detto che erano giovani, che non erano ancora mai stati aggiogati".
Kohlhaas, cercando di nascondere il suo turbamento, rispose che qui non aveva detto tutta la verità, perché all'inizio della primavera scorsa i cavalli, qualche volta, erano stati messi al tiro. "Al castello", proseguì, "dove, in fondo, eri una specie di ospite, avresti dovuto mostrarti compiacente, almeno qualche volta, quando c'era proprio bisogno, per portare alla svelta il raccolto al coperto".
"È quello che ho fatto, padrone", disse Ersiano. "Ho pensato, dal momento che mi guardavano di brutto, che i morelli non sarebbero morti per questo. La mattina del terzo giorno li attaccai, e portai dentro tre carichi di grano".

Kohlhaas, al quale il cuore stava per scoppiare, chinò gli occhi a terra, e commentò: "Di questo non m'han detto nulla, Ersiano!".
Ersiano l'assicurò che era andata così. "La mia poca compiacenza è stata questa: che non volli più riaggiogarli a mezzogiorno, quando i cavalli non avevano neppure finito la biada. E quando il castaldo e il fattore mi proposero, in cambio, il foraggio, e mi dissero di mettere in tasca il denaro che voi mi avevate lasciato per il mantenimento delle bestie, io risposi "vi faccio vedere io", gli voltai le spalle, e me ne andai".
"Ma non è stato per questa poca compiacenza", disse Kohlhaas, "che ti hanno scacciato da Castel Tronka".
"Dio ne guardi!", gridò il servo. "Per un'azione che grida vendetta a Dio. Perché quella sera condussero nella stalla i cavalli di due cavalieri, arrivati a Castel Tronka, e i miei vennero legati fuori, alla porta della stalla. E quando tolsi i morelli di mano al castaldo, che ce li legava di persona, e gli chiesi dove dovevano stare, adesso, le mie bestie, lui mi indicò un porcile fatto di assi e di tavole, a ridosso del muro di cinta.
"Vuoi dire", lo interruppe Kohlhaas, "che era un così cattivo riparo, per dei cavalli, che assomigliava più a un porcile che a una stalla".
"Era un porcile, padrone", rispose Ersiano. "Un porcile vero e proprio, dove i maiali correvamo avanti e indietro, e io non potevo stare in piedi".
"Forse non c'era nessun altro posto, dove mettere al riparo i morelli", replicò Kohlhaas. "In un certo senso i cavalli degli ospiti avevano la precedenza".
"Lo spazio", continuò il servo, abbassando la voce, "era poco. In tutto allora c'erano sette cavalieri che alloggiavano al castello. Se foste stato voi, avreste fatto stringere un po' i cavalli. Dissi che mi sarei cercato una stalla da affittare nel villaggio; ma il castaldo mi rispose che i morelli non doveva perderli d'occhio, e non mi azzardassi a portarli via dal cortile".
"Hm", fece Kohlhaas; "e tu che hai risposto?".
"Dal momento che il fattore disse che i due ospiti avrebbero passato soltanto la notte, e il mattino dopo avrebbero proseguito, rinchiusi i cavalli nel porcile. Ma il giorno seguente passò, e non partirono; e quando venne il terzo giorno, dissero che i signori si sarebbero trattenuti al castello per qualche settimana".
"Alla fin fine non si stava poi così male nel porcile, come ti era parso quando ci avevi messo il naso la prima volta", disse Kohlhaas.
"È vero", rispose il servo. "Quando l'ebbi spazzato un po', il posto poteva andare. Ho dato due soldi alla sguattera, perché andasse a mettere i maiali da qualche altra parte. E il giorno dopo mi preoccupai anche che le bestie potessero stare in piedi; alla prima luce dell'alba, tolsi le tavole del soffitto, e ce le rimisi la sera. Così allungavano il collo, come le oche, sopra il tetto, e si guardavano intorno, cercando Pontekohlhaas, o qualche altro posto, dove stare meglio di là".
"Ma insomma", domando Kohlhaas, "per quale ragione al mondo ti hanno cacciato via?".
"Padrone, ve lo dico io", rispose il servo. "Perché volevano liberarsi di me. Perché, finché c'ero io, non potevano sfiancare del tutto i cavalli. Dappertutto mi guardavano in cagnesco, in cortile, nei locali della servitù. E siccome io pensavo, mi storcete la bocca? vi si sloghino le mascelle!, han preso il primo pretesto che gli è venuto a tiro, e mi han buttato fuori".
"Ma la ragione!", gridò Kohlhaas. "Avranno pur avuto qualche ragione!".
"Oh, certamente", rispose Ersiano, "una ragione giustissima. La sera del secondo giorno che avevo passato nel porcile,presi i cavalli, che si erano tutti insudiciati, e volevo portarli allo stagno. E quando sono giù, sotto il portone principale, e sto per svoltare, sento il castaldo e il fattore, con servi, cani e randelli, precipitarsi dietro di me dalle stanze della servitù, gridando: "Ferma, furfante! Ferma, pendaglio da forca!", come se fossero invasati. Il guardaportone mi sbarra la strada; io chiedo a lui, e a quel mucchio di forsennati che mi corrono addosso, che cosa succede. "Che cosa succede?", risponde il castaldo, e afferra per le briglie i miei due morelli. "Dove vuole andarsene, questo, coi cavalli?". E mi agguanta per la camicia. "Dove voglio andarmene, dico io? Fulmini del cielo! Allo stagno me ne voglio andare. Ma pensate che io...?". "Allo stagno?", grida il castaldo. "T'insegno io a fare il bagno sulla strada maestra, imbroglione, dalla parte di Pontekohlhaas!" E con un colpo vigliacco a tradimento lui e il fattore, che mi aveva preso per una gamba, mi tirano giù da cavallo, e finisco nel fango lungo disteso. "Morte e dannazione!", grido: ma se i finimenti e le coperte sono nella stalla, e c'è anche il mio fagotto della biancheria! Ma lui e i servi, mentre il fattore si porta via i cavalli, mi danno tutti addosso, coi calci, e le fruste e i randelli, finché cado, mezzo morto, al di là del portone. E poiché io grido: "Briganti! Dove mi portate i cavalli?", e mi tiro su, "Fuori di qui!", urla il castaldo; "Dai, Cesare! Dai, Bracco!", si sente gridare, e: "Dai, Lupo!"; e mi piomba addosso una muta di una dozzina di cani, e più. Allora io stacco, non so che cosa, un palo doveva essere, dalla staccionata, e tre cani li stendo giù vicino a me, morti stecchiti; ma il dolore per i morsi e i tagli, che fan spavento a vedersi, mi costringe a indietreggiare; e allora fiuu!, sibila un fischio, i cani rientrano, il portone chiude i battenti, mettono il catenaccio: e io cado svenuto sulla strada".
Kohlhaas, pallido in volto, fece ancora, con malizia un po' forzata: "Ma proprio non te la volevi filare, Ersiano?". E poiché lui, paonazzo, fissava per terra, davanti a sé: "Via, confessa", continuò, "non ti piaceva stare nel porcile; pensavi che nella stalla di Pontekohlhaas si sta meglio".
"Tuoni e fulmini!", gridò Ersiano. "Non ho forse lasciato laggiù, nel porcile, le coperte e i finimenti, e un fagotto di biancheria? E non mi sarei messo in tasca i tre fiorini imperiali che avevo nascosto dietro la mangiatoia, nel fazzoletto di seta rossa? Per tutti i diavoli dell'inferno! Quando parlate così, mi viene voglia di riaccendere subito quella miccia che ho gettato via!".
"Su, su!", disse il mercante. "Non intendevo offenderti. Quel che hai detto, guarda, te lo credo parola per parola. E se qualcuno lo mette in dubbio, sono pronto a prenderci sopra l'ostia consacrata. Mi rincresce che, per servirmi, non ti sia andata meglio. Vai, Ersiano, vattene a letto, fatti dare un fiasco di vino, e consolati: ti sarà fatta giustizia!".
E, così dicendo, si alzò, fece un elenco delle cose che il suo soprastante aveva lasciato nel porcile, ne specificò il valore, gli domandò, anche, quanto valutasse le spese per la cura, e lo congedò, dopo avergli teso, ancora una volta, la mano.
Poi raccontò a Lisabetta, sua moglie, per filo e per segno come erano andate le cose, e cosa c'era sotto, e le dichiarò di essere fermamente deciso a ricorrere alla pubblica giustizia; ed ebbe la gioia di vedere che lei lo incoraggiava con tutta l'anima nel suo proponimento. Lei disse, infatti, che molti altri viaggiatori, forse meno pazienti di lui, sarebbero passati per quel castello, che sarebbe stata un'opera benedetta porre un freno a simili disordini, e che ci avrebbe pensato lei a mettere assieme la somma necessaria per affrontare le spese del processo. Kohlhaas la chiamò la sua brava moglie, passò lietamente con lei e con i suoi figli quel giorno e il successivo, e, non appena gli affari gliene diedero modo, si mise in viaggio per Dresda, per portare in giudizio la sua querela.
Qui, con l'aiuto di un giureconsulto che conosceva, stese un ricorso, in cui, dopo una descrizione dettagliata del sopruso commesso dal barone Venceslao di Tronka, contro lui stesso, e contro il suo servo Ersiano, chiedeva che il colpevole fosse punito secondo la legge, che i cavalli fossero riportati nelle condizioni originarie, e che fossero risarciti i danni che sia egli, sia il servo suo, avevano patito da tutto ciò. La causa, infatti, era chiara. La circostanza che i cavalli fossero stati trattenuti in modo illegittimo gettava su tutto il resto una luce decisiva; e, anche se si fosse voluto supporre che i cavalli si fossero ammalati per puro caso, la richiesta del sensale di riaverli indietro in buona salute sarebbe stata comunque giustificata. E, mentre Kohlhaas si guardava intorno nella città di residenza del principe, non gli mancarono amici che gli promisero di sostenere a spada tratta le sue ragioni; il suo commercio di cavalli, assai esteso, la conoscenza e l'onestà con cui lo conduceva gli aveva procurato la benevolenza degli uomini più importanti del paese. Più volte egli sedette allegramente a mensa, in casa del suo avvocato, che era a sua volta una persona in vista; depositò presso di lui una somma per sopperire alle spese processuali, e, trascorse poche settimane, completamente tranquillizzato da lui circa l'esito della causa, se ne tornò a Pontekohlhaas da Lisabetta, sua moglie.
Eppure i mesi passarono, e l'anno volgeva ormai al termine, senza che egli ricevesse dalla Sassonia neppure una dichiarazione sulla querela da lui intentata, per non parlare della sentenza.
Dopo aver inoltrato più volte ripetuti solleciti al tribunale, egli scrisse al suo avvocato una lettera confidenziale, in cui gli chiedeva la causa di un ritardo così eccessivo, e venne a sapere che, per un intervento assai elevato, presso il tribunale di Dresda, la sua querela era stata definitivamente cassata. Quando il mercante riscrisse, sbalordito, domandandone le ragioni, questi gli comunicò che il barone Venceslao di Tronka era parente di due nobiluomini, Enzo e Corrado di Tronka, adibiti al seguito personale del principe, coppiere l'uno, e l'altro addirittura camerlengo. E gli consigliava di mettere da parte ogni sforzo, per quanto era delle vie legali, e cercare solo di tornare in possesso dei suoi cavalli, rimasti nel castello di Tronka; gli faceva capire, infatti, che il barone, che al momento soggiornava nella capitale, sembrava aver dato disposizione alla sua gente di consegnargli i cavalli; e concludeva pregandolo, se non voleva accontentarsi di una simile soluzione, di dispensare almeno lui da ogni ulteriore incarico.
Kohlhaas, in quel periodo, si trovava per l'appunto a Brandeburgo, dove il prefetto Enrico di Geusau, alla cui giurisdizione apparteneva anche Pontekohlhaas, era in quel momento impegnato a organizzare un certo numero di istituti per l'assistenza ai poveri e agli ammalati, grazie a un lascito considerevole che era toccato alla città. E soprattutto si adoperava per adattare ad uso degli infermi una fonte minerale che scaturiva in un villaggio della regione, e dalle cui virtù salutari ci si riprometteva assai più di quanto il futuro poi mantenesse. Poiché Kohlhaas l'aveva conosciuto e frequentato, durante il periodo in cui aveva soggiornato presso la corte, questi permise a Ersiano, il soprastante dei servi, al quale, da quei brutti giorni al castello di Tronka, era rimasto un dolore al petto, ogni volta che traeva il respiro, di sperimentare l'efficacia della piccola fonte medicamentosa, alla quale era stato annesso un recinto coperto. Avvenne che, proprio mentre Kohlhaas riceveva, dalle mani di un messaggero, che sua moglie gli aveva mandato, la lettera scoraggiante del suo avvocato di Dresda, il prefetto fosse presente, per dare alcune disposizioni, presso il bordo della vasca nella quale il mercante aveva fatto adagiare Ersiano. Il prefetto, che, parlando con il medico, aveva notato che Kohlhaas faceva cadere una lacrima sulla lettera che aveva ricevuto e aperto, gli si avvicinò, con fare gentile e premuroso, e gli chiese quale sventura l'avesse colpito. E quando il mercante, senza rispondere gli tese la lettera, quell'uomo dabbene, che era al corrente della rivoltante ingiustizia commessa contro di lui al castello di Tronka, per le cui conseguenze Ersiano appunto soffriva, e avrebbe sofferto forse per tutta la vita, gli batté sulla spalla, e gli disse di non perdersi di coraggio: l'avrebbe aiutato lui a ottenere soddisfazione!
Quella sera, quando il mercante, dietro suo ordine, si recò da lui al castello, questi gli disse di stendere soltanto una supplica all'Elettore del Brandeburgo, con una breve esposizione dell'accaduto, di allegarvi la lettera dell'avvocato, e di invocare la protezione del principe, a causa della violenza che si erano permessi contro di lui in territorio sassone. Egli promise di rimettere la petizione, che avrebbe incluso in un altro plico, già pronto, nelle mani dell'Elettore: il quale da parte sua, senza fallo, se le circostanze lo permettevano, sarebbe intervenuto presso il principe Elettore di Sassonia. Un passo simile sarebbe stato più che sufficiente a fargli ottenere giustizia presso il tribunale di Dresda, a dispetto delle arti del barone e delle sue aderenze. Kohlhaas, vivamente rallegrato, ringraziò di tutto cuore il prefetto per quella nuova dimostrazione della sua benevolenza; aggiunse che gli dispiaceva soltanto di non aver fatto capo sin dal principio a Berlino, per trattare la sua faccenda, senza compiere a Dresda passi di alcun genere; e, dopo aver redatto nella Cancelleria del tribunale cittadino la sua lagnanza, seguendo fedelmente le istruzioni, e averla consegnata al prefetto, fece, più rassicurato che mai sull'esito della sua causa, ritorno a Pontekohlhaas.
Ma già poche settimane dopo, per mezzo di un magistrato che si recava a Potsdam per seguire alcune faccende del prefetto, ebbe il cruccio di sapere che il principe Elettore aveva rimesso la supplica al suo cancelliere, il conte Kallheim, e questi non si era direttamente rivolto alla corte di Dresda, come sembrava opportuno, per l'inchiesta e la punizione del sopruso bensì al barone di Tronka, per avere innanzitutto da lui maggiori informazioni. Il magistrato, che, nella sua carrozza, che aveva fermato davanti all'abitazione di Kohlhaas, sembrava aver avuto l'incarico di fare al mercante quella comunicazione alla sua sbigottita domanda come mai si fosse proceduto a quel modo, non seppe dare una risposta soddisfacente. Aggiunse soltanto che il prefetto gli faceva dire di aver pazienza; sembrava aver molta fretta di proseguire il suo viaggio, e solo al termine del breve colloquio, da alcune parole buttate là, Kohlhaas indovinò che il conte Kallheim era imparentato con la casa dei Tronka.
Kohlhaas, al quale non davano più gioia né l'allevamento dei cavalli, né la casa e la fattoria, e quasi neppure la moglie e i figli, tenne duro, pieno di cupi presentimenti per l'avvenire, fino alla luna successiva; e, proprio come si aspettava, trascorso quel periodo, Ersiano, al quale le cure termali avevano procurato un po' di sollievo, ritornò da Brandeburgo, con una lettera del prefetto, che accompagnava un lungo rescritto. In essa il prefetto si diceva spiacente di non poter far nulla per la sua causa; gli inviava una risoluzione della Cancelleria di Stato, che gli era stata rimessa; e gli consigliava di andare a riprendersi i cavalli che erano rimasti nel castello di Tronka, e per il resto lasciare le cose come stavano.
La risoluzione suonava: "Egli era, secondo il rapporto del tribunale di Dresda, un querelante ozioso; il barone presso il quale egli aveva lasciato i cavalli non li tratteneva in alcun modo; che mandasse qualcuno a riprenderli al castello, o almeno facesse sapere al barone dove avrebbe dovuto mandarglieli; ma in ogni caso risparmiasse alla Cancelleria di Stato simili beghe fastidiose".
Kohlhaas, per cui non era questione di cavalli - avrebbe provato lo stesso dolore se si fosse trattato di due cani - Kohlhass ribollì di furore, quando ricevette la lettera. Ogni volta che nel cortile si faceva udire un rumore, guardava, nell'attesa a se stesso più odiosa che avesse mai agitato il suo petto, verso il viottolo dell'ingresso, se mai comparissero gli uomini del barone, per riportargli, forse addirittura con le sue scuse, i cavalli sfiniti dalla fame e dalla fatica; era la prima volta che la sua anima, così ben temprata alla scuola della vita, si aspettava qualcosa che non corrispondeva completamente ai suoi sentimenti. Ma già poco tempo dopo sentì dire, da un conoscente che era passato per quella strada, che al castello di Tronka i suoi cavalli continuavano come per l'innanzi, come tutti gli altri cavalli del barone, a essere adoperati nel lavoro dei campi; e, attraverso il dolore di scorgere il mondo in tale stato di mostruoso disordine, batté con forza l'intima gioia di vedere ormai l'ordine nel suo cuore.
Invitò a casa sua un balivo, suo vicino, che da tempo accarezzava il progetto di ingrandire i suoi possedimenti, acquistando i terreni confinanti; e, quando questi si fu accomodato, gli domandò quanto sarebbe stato disposto a dargli per le sue proprietà in Sassonia e nel Brandeburgo; tutto compreso, casa e podere, beni mobili e immobili. Lisabetta, sua moglie, sbiancò a queste parole. Si voltò, tirò su il figlio più piccolo che dietro di lei si trastullava per terra, e, sfiorando le guance rosse del fanciullo, che giocava con le sue collane, gettò sul mercante, e su un foglio che questi teneva in mano, degli sguardi nei quali era dipinta la morte. Il balivo gli domandò, osservandolo con stupore, che cosa gli avesse fatto venire di colpo in mente un'idea così strana. Ma egli rispose, con quanta allegria riuscì a imporre a se stesso, che l'idea di vendere la sua masseria sulle rive della Havel non era del tutto nuova. Non avevano forse già più volte condotto trattative sull'argomento? Quanto alla casa nei sobborghi dl Dresda, essa non era, in confronto, che un accessorio, del quale non metteva conto parlare. In breve, se voleva fare la sua volontà, e prendersi l'uno e l'altro terreno, egli era pronto a concludere il relativo contratto. E aggiunse, con un tono scarso piuttosto sforzato, che Pontekohlhaas non era poi il mondo; che potevano esserci degli scopi in confronto ai quali dirigere, da buon padre di famiglia, l'azienda domestica era cosa secondaria e poco onorevole; che, in breve, l'anima sua, doveva dirgli, era tesa a cose grandi, delle quali, forse, avrebbe presto sentito parlare.
Tranquillizzato da queste parole, il balivo disse allegramente, rivolto alla donna, che baciava e ribaciava il bambino: "Non pretenderà mica il pagamento seduta stante?", posò sulla tavola cappello e bastone, che teneva fra le ginocchia, e prese il foglio che il mercante aveva in mano, per leggerlo tutto. Kohlhaas, facendosi più vicino, gli spiegò che si trattava di un ipotetico contratto di acquisto, a nome suo, con una scadenza di quattro settimane; gli mostrò che non vi mancava nulla, se non le firme, e l'indicazione delle somme vale a dire il prezzo d'acquisto da un lato, e dall'altro la penale, cioé la somma che egli si impegnava a pagare se, entro le quattro settimane, si fosse tirato indietro; e lo invitò ancora una volta, allegramente, a fare un'offerta, assicurando che le sue pretese erano modeste, e non avrebbe fatto difficoltà. La donna andava avanti e indietro per la stanza; il petto le ansava, tanto che il fazzoletto, che il bambino aveva tirato per gioco, stava per caderle del tutto dalla spalla. Il balivo disse di non essere in alcun modo in grado di giudicare il valore della proprietà di Dresda; al che Kohlhaas rispose, porgendogli alcune lettere che erano state scambiate al tempo dell'acquisto, che la valutava cento fiorini d'oro; benché da quelle carte risultasse che gli era costata quasi la metà in più. Il balivo rilesse ancora una volta il contratto di acquisto; e vedendo che, stranamente includeva anche da parte sua la facoltà di recedere, disse, già a metà deciso, che però non sapeva che farsene degli stalloni che si trovavano nelle sue stalle, ma poiché Kohlhaas replicò che non intendeva affatto disfarsene, e voleva anche tenere per sé alcune armi, che erano appese nell'armeria, questi allora esitò, esitò ancora, e alla fine ripeté un'offerta che gli aveva già fatto, mezzo per scherzo, mezzo sul serio, poco tempo prima, durante una passeggiata, e che era irrisoria, rispetto al valore dei possedimenti.
Kohlhaas spinse verso di lui la penna e l'inchiostro, perché scrivesse; e quando il balivo, non credendo ai suoi occhi, gli domandò ancora una volta se faceva sul serio, e il mercante gli ebbe risposto, un po' risentito, se credeva forse che si stesse prendendo gioco di lui, questi prese bensì in mano la penna, con espressione pensierosa, e cominciò a scrivere; ma cancellò il punto in cui si parlava della penale che il venditore avrebbe pagato, se si fosse pentito, si impegnò a versare, a titolo di prestito, cento fiorini d'oro, garantiti da un'ipoteca sul possedimento di Dresda che, con quella somma, egli non intendeva affatto comprare, e lasciò al mercante piena libertà, per due mesi, di recedere dal negozio. Il mercante, toccato da questo modo di agire, gli strinse calorosamente la mano; e, dopo che si furono accordati sul punto, che era una delle condizioni principali, che un quarto del prezzo di acquisto sarebbe stato pagato subito in contanti, e il resto, entro tre mesi, presso la banca di Amburgo egli gridò che si portasse del vino, per festeggiare un negozio così felicemente concluso. Disse a una ragazza, che era entrata con le bottiglie, che Sternbald, il garzone, gli sellasse il sauro, spiegando che doveva recarsi alla capitale, dove aveva da fare, e lasciò capire che in breve tempo, quando fosse tornato, avrebbe parlato a cuore aperto di ciò che, per il momento, doveva tenere per sé. Poi, riempiendo i bicchieri, domandò dei Polacchi e dei Turchi, che per l'appunto allora erano in lotta, trascinò il balivo in una serie di congetture politiche sulla questione, brindò ancora una volta, alla fine, alla felice conclusione del loro affare, e lo congedò.
Quando il balivo ebbe lasciato la stanza, Lisabetta gli cadde in ginocchio davanti. "Se hai ancora nel cuore", gridò, "me, e i bambini che ti ho partorito, se non ne siamo già stati banditi ormai, per una qualche ragione, che io non so: dimmi che cosa significano questi orribili preparativi!".
"Moglie carissima", disse Kohlhaas, "nulla che, finché le cose stanno così, ti debba impensierire. Ho ricevuto una risoluzione, in cui mi si dice che la mia querela contro il barone Venceslao di Tronka è una bega oziosa. E poiché deve trattarsi di un malinteso, ho deciso di presentare ancora una volta la mia querela, personalmente al principe Elettore".
"E perché vuoi vendere la casa?", gridò lei, alzandosi, con il viso sconvolto.
Il mercante la strinse teneramente al petto, e rispose: "Perché in un paese, mia carissima Lisabetta, in cui non mi vogliono proteggere nei miei diritti, io non voglio restare. Meglio essere un cane, se devo essere preso a calci, che un uomo! Sono sicuro che in questo mia moglie la pensa come me".
"Chi ti dice" chiese lei con violenza, "che non ti proteggeranno nei tuoi diritti? Se ti presenti al sovrano umilmente, come ti si addice, con la tua supplica, chi ti dice che sarà messa da parte, o che ti risponderanno rifiutandosi di ascoltarti?".
"Ebbene", rispose Kohlhaas, "se in questo il mio timore è infondato, neppure la mia casa, per adesso, è venduta. Il sovrano, lo so, è giusto; e se soltanto riesco, attraverso tutti coloro che lo circondano, a giungere fino alla sua persona, non dubito di ottenere giustizia, e di tornare lietamente, ancor prima che sia finita la settimana, a te e alle mie vecchie occupazioni. E che da allora in poi io possa", aggiunse, baciandola, "restare sempre con te, fino alla fine dei miei giorni! Ma è consigliabile", continuò, "che io mi tenga pronto a ogni eventualità; per questo desideravo che tu, per qualche tempo, se è possibile, ti allontanassi, e andassi con i bambini a Schwerin, da tua zia, alla quale del resto già da un pezzo volevi far visita".
"Come", gridò la donna, "devo andare a Schwerin? Passare il confine con i bambini, e andare a Schwerin da mia zia?". E l'orrore le soffocò la voce.
"Proprio così", rispose Kohlhaas, "e subito, se è possibile, affinché, nei passi che intendo fare per la mia causa, io non sia disturbato da alcun riguardo".
"Oh, ti capisco!", gridò lei. "Adesso non hai più bisogno di nulla, se non di armi e di cavalli; tutto il resto, se lo prenda chi vuole!". E con queste parole si girò, si buttò su una seggiola e pianse.
"Elisabetta carissima", disse Kohlhaas, turbato, "che fai? Dio mi ha benedetto, dandomi una moglie, dei figli e dei beni; devo oggi, per la prima volta, desiderare che non fosse così?...". E si sedette affettuosamente accanto a lei, che, a quelle parole, gli aveva gettato le braccia al collo, arrossendo. "Dimmi tu", disse, scostandola i riccioli dalla fronte, "che devo fare? Devo tirarmi indietro? Devo andare a Castel Tronka, e pregare il cavaliere che mi restituisca i cavalli, saltarci su, e portarteli qui?".
Elisabetta non osò dire "Sì! Sì! Sì!"...scosse il capo piangendo, si strinse forte a lui, e gli coprì il petto di baci ardenti. "E dunque", gridò Kohlhaas, "se tu senti che, perché io possa continuare la mia attività, mi deve essere resa giustizia, concedimi anche la libertà che mi è necessaria per procurarmela!". E dicendo queste parole si alzò, e disse al garzone, che veniva ad irritarla che il sauro era sellato, che l'indomani dovevano essere attaccati i bai, per condurre sua moglie a Schwerin.
Elisabetta disse che le era venuta un'idea! Si alzò in piedi, si asciugò gli occhi pieni di lacrime, e chiese al manto, che si era seduto a uno scrittoio, se voleva dare a lei la supplica, e lasciare andar lei, in sua vece, a Berlino, a porgela al principe. Kohlhaas, commosso, per più di una ragione, dalla proposta inattesa, se l'attirò sulle ginocchia, e disse: "Moglie carissima, non è possibile! Il principe ha molta gente intorno; chi gli si avvicina si espone a numerose situazioni spiacevoli". Elisabetta obbiettò che c'erano mille circostanze in cui per una donna sarebbe stato più facile avvicinarsi a lui, che non per un uomo. "Dammi la supplica", ripeté; "e se non vuoi altro, se non essere sicuro che finisca nelle sue mani, ti do la mia parola: la riceverà!".
Kohlhaas, che del suo coraggio, come della sua prudenza aveva avuto più d'una prova, le domandò come pensasse di condursi; e lei, guardando davanti a sé, con gli occhi bassi per
la vergogna, rispose che il castaldo del palazzo del principe Elettore, tempo addietro, quando era in servizio a Schwerin, aveva chiesto la sua mano, adesso era ormai sposato, e aveva numerosi figli; ma non l'aveva ancora del tutto dimenticata insomma, lasciasse a lei di trarre partito da questa circostanza, e da alcune altre che sarebbe stato troppo lungo descrivere.
Kohlhaas la baciò con grande gioia, disse che accettava la sua proposta, le spiegò che non occorreva altro che procurarsi alloggio presso la moglie del castaldo, per potersi avvicinare al principe nel suo stesso palazzo, le diede la supplica, fece aggiogare i bai, e la lasciò partire, bene equipaggiata, con Sternbald, il suo servo fedele.
Quel viaggio fu però, di tutti i passi infruttuosi che aveva fatto per la sua causa, il più infelice. Dopo pochi giorni, infatti, Sternbald rientrava già nel cortile, guidando, al passo, la carrozza, nella quale era adagiata la donna, con una pericolosa contusione al petto. Kohlhaas, che, pallido, si avvicinò alla vettura, non riuscì a ottenere una spiegazione coerente di ciò che aveva causato la disgrazia. Il castaldo, a quanto disse il servo, non era in casa; e dunque erano stati costretti a scendere in una locanda che si trovava nelle vicinanze del palazzo, il mattino seguente Lisabetta aveva lasciato la locanda, ordinando al servo di restare presso i cavalli, ed era tornata soltanto a sera, in quello stato. Sembrava che si fosse spinta con troppa foga verso la persona del sovrano, e, senza colpa di lui, soltanto per lo zelo brutale di una delle guardie che lo circondavano, avesse ricevuto sul petto un colpo, con l'asta di una lancia. Almeno, così riferirono le persone che, verso sera, la riportarono, priva di sensi, nella locanda; perché lei stessa, impedita dagli sbocchi di sangue, poco poteva parlare. La supplica le era stata poi ritirata da un cavaliere. Sternbald disse che egli avrebbe voluto saltare subito su un cavallo e portargli la notizia del disgraziato incidente; ma lei, malgrado le rimostranze del chirurgo che era stato chiamato, aveva insistito per essere ricondotta, senza farsi precedere dalla notizia, da suo marito a Pontekohlhaas.
Kohlhaas la portò, ridotta in fin di vita dal viaggio, su un letto, dove, tra sforzi dolorosi per respirare, visse ancora qualche giorno. Si cercò inutilmente di farla tornare in sé, per trarre qualche conclusione su quanto era accaduto; ma lei restava distesa, con gli occhi fissi, e già spenti, e non rispondeva. Solo poco prima di morire riprese i sensi, ancora una volta. Infatti, mentre un sacerdote di religione luterana (fede che stava allora prendendo piede, e alla quale, seguendo l'esempio del marito, si era convertita), in piedi accanto al suo letto, le leggeva, con voce alta, commossa e solenne, un capitolo della Bibbia, lei lo guardò, a un tratto, con espressione cupa, gli prese, come se in quel punto non ci fosse nulla da leggerle, la Bibbia di mano, la sfogliò a lungo, come se vi cercasse qualcosa, e a Kohlhaas, che stava seduto accanto al suo letto, mostrò con l'indice il versetto: "Perdona ai tuoi nemici, e fai del bene anche a coloro che ti odiano". Gli strinse allora la mano, guardandolo con tutta l'anima, e morì. "Così non mi perdoni mai Iddio, come io perdonerò al barone!", pensò Kohlhaas, la baciò, mentre gli scorrevano abbondanti le lacrime, le chiuse gli occhi, e lasciò la stanza.
Prese i cento fiorini d'oro che il balivo gli aveva già versato per le stalle di Dresda, e diede disposizioni per un funerale che non sembrava destinato a lei, ma a una principessa: una bara di quercia con pesanti ornamenti metallici, cuscini di seta con nappe d'oro e d'argento, e una fossa profonda otto braccia, rivestita di pietre e di calce. Egli stesso, con il figlio più piccolo in braccio, restò in piedi accanto alla cripta, a sorvegliare il lavoro. Venuto il giorno del funerale, la salma, bianca come la neve, fu esposta in una sala che egli aveva fatto tappezzare di drappi neri. Il sacerdote aveva appena terminato una commovente orazione accanto alla bara, quando gli fu consegnata la risoluzione sovrana, in risposta alla supplica che era stata consegnata dalla defunta: doveva andare a prendere i cavalli al castello di Tronka, e, sotto pena di essere messo in prigione, non presentare ulteriori ricorsi sull'argomento. Kohlhaas mise in tasca la lettera, e ordinò di mettere la bara sul carro. Non appena fu alzato il tumulo, piantata in cima la croce, e congedati gli ospiti che avevano accompagnato la salma, egli si gettò ancora una volta sul letto di lei, ora deserto, e subito si accinse al negozio della vendetta.
Si sedette, e stese un'ordinanza, nella quale condannava, in virtù del suo innato potere, il barone Venceslao di Tronka a ricondurre a Pontekohlhaas, entrò tre giorni dal ricevimento, i morelli che gli aveva sottratto, e sfiancato nel lavoro dei campi, e a ingrassarsi di persona nelle sue stalle. Gli inviò l'intimazione con un messo a cavallo, al quale diede istruzioni, non appena consegnato il documento, di tornare di gran carriera a Pontekohlhaas. Poiché i tre giorni trascorsero senza che fossero consegnati i cavalli, mandò a chiamare Ersiano; gli confidò che cosa aveva intimato al barone, a proposito dell'ingrasso degli animali, e gli domandò due cose: era disposto a recarsi con lui a cavallo a Castel Tronka, a prendere il barone, e poi, quando l'avessero condotto là, se si fosse dimostrato pigro nell'adempiere all'ordinanza, nelle stalle di Pontekohlhaas, ad adoperare la frusta? E poiché Ersiano, non appena l'ebbe compreso, "Padrone, oggi stesso!", gridò esultante, e, gettando in aria il berretto, l'assicurò che si sarebbe fatto intrecciare uno staffile a dieci nodi, per insegnargli a strigliare! Kohlhaas vendette la casa, spedì i bambini, ben sistemati in una carrozza, oltre confine, radunò, sul far della notte, anche gli altri servi, sette di numero, ognuno dei quali gli era fedele come oro schietto, li armò, li fece salire a cavallo, e si mosse verso il castello di Tronka.
E già al calare della terza notte irrompeva, con questo piccolo drappello, travolgendo il gabelliere e il portiere, che stavano discorrendo sotto il portone, nel castello; e, mentre di colpo tutte le baracche, all'interno del muro di cinta, s'incendiavano e crepitavano, infiammate dalle torce che vi erano state gettate, ed Ersiano, su per la scala a chiocciola, correva nella torre di guardia, e si avventava, con fendenti di taglio e di punta, contro il castaldo e l'amministratore, che, mezzo svestiti, sedevano al gioco, Kohlhaas si preapitava nel castello alla ricerca del barone Venceslao. Così cala dal cielo l'Angelo del Giudizio; e il barone, che per l'appunto, fra grandi risate, stava leggendo alla brigata di giovani amici che era con lui l'ordinanza che il mercante di cavalli gli aveva fatto recapitare, non appena ne ebbe udita la voce, nella corte del castello, fattosi, d'un tratto, bianco come un cadavere: "Fratelli, salvatevi!", urlò a quei signori, e sparì. Kohlhaas, che, entrando nella sala, aveva afferrato per il collo un barone Giovanni di Tronka, che gli veniva contro, e l'aveva scaraventato nell'angolo, così da farne schizzare sulle pietre il cervello, mentre i servi sopraffacevano e disperdevano gli altri cavalieri, che avevano messo mano alle armi, chiese dove fosse il barone Venceslao di Tronka. E, poiché quegli uomini, storditi, non lo sapevano, dopo aver sfondato con un calcio le porte di due stanze che davano nelle ali del castello, e percorso in tutte le direzioni il vasto edificio, senza trovare nessuno, scese imprecando nel cortile, per far presidiare le uscite.
Nel frattempo, raggiunto dal fuoco delle baracche, anche il castello era ormai in fiamme, con tutti gli edifici attigui, sprigionando contro il cielo un fumo spesso, e, mentre Sternbald, con tre servi indaffarati, portava giù tutto ciò che non era intrasportabile o attaccato ai muri, e lo ammassava in mezzo ai cavalli, come buon bottino, dalle finestre spalancate della torre di guardia volavano giù, con giubilo di Ersiano, i cadaveri del castaldo e del fattore, con mogli e figli. Kohlhaas, al quale, mentre scendeva la scala del castello, si era gettata ai piedi la vecchia economa, tormentata dalla gotta, che aveva il governo della casa, le chiese, fermandosi sul gradino, dove fosse il barone Venceslao di Tronka; e poiché ella, con voce debole e tremante, gli disse in risposta che credeva che fosse fuggito nella cappella, chiamò due servi con le torce, fece scardinare, in mancanza di chiavi, l'ingresso con leve di ferro e con le asce, rovesciò le panche e gli altari, ma, con suo rabbioso dolore, non trovò il barone.
Avvenne che un giovane garzone, che apparteneva alla servitù del castello, nel momento in cui Kohlhaas ritornava dalla cappella, accorresse per tirar fuori da una grande stalla in pietra, minacciata dalle fiamme, gli stalloni da battaglia del barone. Kohlhaas, che proprio in quel momento, in una piccola rimessa coperta di paglia, scorse i suoi due morelli, chiese al servo perché non mettesse in salvo i morelli; e poiché questi, infilando la chiave nella porta della grande stalla, rispose che ormai la rimessa era in fiamme, Kohlhaas gettò la chiave, dopo averla strappata con violenza dalla porta della stalla, al di là del muro, spinse, con una grandinata di piattonate, il servo fin dentro la baracca in fiamme, e lo costrinse, tra le orribili risate degli astanti, a salvare i morelli. Tuttavia, quando il garzone pallido di terrore, pochi istanti prima che la rimessa crollasse dietro di lui, ne uscì con i cavalli alla cavezza non trovò più Kohlhaas; e quando raggiunse i servi sul piazzale del castello, e chiese al mercante, che più volte gli voltò le spalle, che cosa dovesse fare, adesso, con quelle bestie, questi d'un tratto levò il piede, con una mossa così terribile, che, se il calcio l'avesse raggiunto, sarebbe stata la sua morte, montò, senza rispondergli, il suo baio, si piantò sotto il portone del castello, e attese, mentre i servi continuavano ad affaccendarsi, in silenzio, il giorno.
Quando spuntò il mattino, tutto il castello, fuorché le mura, era in cenere, e non vi si trovava più nessuno, se non Kohlhaas e i suoi sette servi. Egli scese da cavallo, e setacciò ancora una volta, alla chiara luce del sole, che ora ne illuminava ogni angolo, l'intero luogo, e poiché, per quanto difficile gli fosse ammetterlo, dovette convincersi che l'impresa contro il castello era fallita, inviò, con il cuore oppresso dalla pena e dal dolore Ersiano e alcuni servi a cercare informazioni sulla direzione che il barone aveva preso nella sua fuga. Soprattutto l'impensieriva un ricco educandato per fanciulle nobili, chiamato Erlabrunn, che sorgeva sulle rive della Molda, e la cui badessa, Antonia di Tronka, era conosciuta nella regione come una donna pia, benefica e santa; poiché all'infelice Kohlhaas sembrava anche troppo probabile che il barone, privo com'era di tutto il necessario, si fosse rifugiato in quell'istituto, dal momento che la badessa era sua zia carnale, e l'aveva allevato nella prima infanzia. Kohlhaas, dopo essersi ragguagliato su questa circostanza, salì alla torre del corpo di guardia, che all'interno offriva ancora una stanza abitabile, e redasse quello che egli chiamo "Bando Kohlhaasiano", in cui intimava al paese di non prestare alcun aiuto al barone Venceslao di Tronka, contro il quale egli era sceso in giusta guerra, e anzi faceva obbligo a ogni abitante, non esclusi i suoi parenti e amici, sotto pena di morte, e dell'immancabile incenerimento di tutto ciò che si potesse chiamare proprietà, di consegnarlo nelle sue mani.
Egli diffuse quella dichiarazione nella contrada, per mezzo di viaggiatori e forestieri, e ne dette anche una copia al suo servo Waldmann, con il preciso incarico di consegnarlo a Erlabrunn, nelle mani di donna Antonia. Subito dopo, trattò con alcuni servi del castello di Tronka, che erano scontenti del barone, e, attratti dalla speranza di bottino, desideravano entrare al suo servizio; li armò, alla maniera dei fanti, di daga e balestra, e li instruì a tenersi in groppa dietro gli uomini a cavallo; poi, quando ebbe venduto tutto cio che la sua gente aveva predato, e distribuito fra loro il ricavato, riposò alcune ore, sotto il portone del castello, dai suoi tristi negozi.
Verso mezzogiorno arrivò Ersiano, e gli confermò ciò che il suo cuore, sempre incline ai più cupi presentimenti, gli aveva già detto: che per l'appunto il barone si trovava a Erlabrunn, nell'educandato, presso l'anziana donna Antonia di Tronka, sua zia. Si era salvato, a quanto pareva, per una postierla che, nel muro posteriore del castello, dava sul vuoto, e per una stretta scala di pietra che, coperta da un piccolo tetto, scendeva fino ad alcune barche sull'Elba. Erziano, quanto meno, riferiva che, in un villaggio lungo l'Elba, con gran stupore della gente, che si era radunata a causa dell'incendio di Castel Tronka, egli era giunto, verso la mezzanotte, in un canotto senza timone e senza remi, ed era proseguito poi per Erlabrunn in un carro di contadini.
Kohlhaas, a quella notizia, mandò un profondo sospiro, domandò se i cavalli avevano mangiato, e poiché gli fu risposto di sì, fece montare il drappello, e in tre ore era già davanti a Erlabrunn. Stava proprio entrando con la sua schiera, al brontolio di un lontano temporale all'orizzonte, con le fiaccole, che aveva fatto accendere alle porte, nel cortile del convento, e Waldmann, il suo servo, gli veniva incontro, a comunicargli che il bando era stato consegnato a dovere, quando vide la badessa e il castaldo, in colloquio concitato, farsi avanti sotto il portale del monastero; e, mentre questi, il castaldo, un uomo piccolo anziano, candido come la neve, lanciando a Kohlhaas degli sguardi torvi, si faceva allacciare la corazza, e ai servi che lo circondavano gridava, con voce ardita, di suonare a martello, lei, la superiora del monastero, con un crocifisso d'argento in mano, scese, pallida come un lenzuolo di lino, la scalinata, e si gettò con tutte le sue donzelle in ginocchio davanti al cavallo di Kohlhaas.
Kohlhaas, mentre Ersiano e Sternbald riducevano all'impotenza il castaldo, che non aveva in pugno la spada, e lo conducevano prigioniero tra i cavalli, le domandò dove fosse il barone Venceslao di Tronka; e poiché lei, sciogliendosi dalla cintura un grande anello di chiavi, rispondeva: "A Vittemberga Kohlhaas, uomo dabbene"; e aggiungeva, con voce tremante: "Abbi timor di Dio, non commettere ingiustizie!", Kohlhaas voltò, ricacciato nell'inferno della vendetta inappagata, il cavallo, e stava per gridare: "Appiccate il fuoco!", quando un fulmine spaventevole cadde al suolo proprio accanto a lui. Kohlhaas, voltando di nuovo il cavallo verso di lei, le chiese se avesse ricevuto il suo bando: e poiché la nobildonna, con voce flebile quasi impercettibile, rispose: "Proprio ora!", "Quando?", "Due ore fa, così mi aiuti Iddio, dopo che il barone, mio nipote, era ormai partito!", e Waldmann, il suo servo, al quale Kohlhaas si era rivolto con sguardo bieco, confermò, balbettando, questa circostanza, perché, disse, le acque della Molda, gonfiate dalla pioggia, gli avevano impedito di giungere se non pochissimo tempo innanzi, allora Kohlhaas riprese il dominio di sé; d'un tratto un tremendo rovescio di pioggia, che spazzò il selciato della corte, spegnendo le fiaccole, sciolse il dolore nel suo petto infelice; voltò, sollevando di poco il cappello davanti alla nobildonna, il suo cavallo, gli diede, con le parole: "Seguitemi, fratelli! Il barone è a Vittemberga!", di sprone, e lasciò la badia.
Egli entrò, al calar della notte, in una locanda sulla strada maestra, nella quale dovette, per la grande stanchezza dei cavalli, riposare un giorno, e, rendendosi conto che con un drappello di dieci uomini (tanti ne aveva in quel momento) non poteva sfidare una località come Vittemberga, redasse un nuovo bando, nel quale, dopo un breve racconto di ciò che gli era toccato nel paese, invitava "ogni buon cristiano", così si espresse, "con la promessa di una paga, e di altri vantaggi di guerra, ad abbracciare la sua causa contro il barone di Tronka, nemico comune di tutti i cristiani". In un altro bando, che apparve poco dopo, egli si definiva "libero signore, non soggetto ne al mondo né all'Impero, ma soltanto a Dio"; una millanteria insana e di cattiva lega, che tuttavia, al suono del suo denaro e alla prospettiva del bottino, gli procurò un gran concorso di gente, fra la marmaglia che la pace con la Polonia aveva lasciato senza pane: così che egli contava trenta uomini e più, quando ripassò sulla riva destra dell'Elba, per ridurre in cenere Vittemberga.
Egli si accampò, con i cavalli e i fanti, al riparo di una vecchia fornace diroccata, nella solitudine e nell'oscurità del bosco che a quel tempo circondava la località, e, non appena ebbe saputo da Srernbald, che aveva inviato travestito in città, con il suo bando, che esso vi era già noto, subito si mosse con il suo drappello, la santa vigilia della Pentecoste, e, mentre gli abitanti erano immersi in un sonno profondo, appiccò l'incendio alla città, in più punti contemporaneamente. Poi, mentre la sua truppa metteva a sacco i sobborghi, attaccò al pilastro di una chiesa un foglio di questo tenore: "Egli, Kohlhaas, aveva dato fuoco alla città: e, se non gli fosse stato consegnato il barone, l'avrebbe così ridotta in cenere, che", in tal modo si espresse, "non avrebbe avuto bisogno di guardare dietro a nessun muro per trovarlo". L'orrore degli abitanti per l'inaudito misfatto fu indescrivibile; e non appena le fiamme, che in quella notte d'estate, per buona sorte non molto ventosa, non avevano raso al suolo più di diciannove case, fra le quali, tuttavia, c'era una chiesa, furono, verso lo spuntar del giorno, almeno in parte domate, il vecchio prefetto, Ottone di Gorgas, inviò sui due piedi una piccola compagnia di cinquanta uomini, per spazzar via l'orribile flagello.
Ma il capitano che la guidava, di nome Gerstenberg, si condusse così malamente nell'impresa, che la spedizione, invece di sconfiggere Kohlhaas, gli conferì una pericolosissima gloria militare; poiché, quando l'uomo d'armi divise le sue forze in plotoni, per circondari, così pensava, e quindi sopraffarli, fu invece da Kohlhaas, che aveva tenuto compatto il suo drappello, attaccato nei diversi punti, e battuto: in modo tale che, già alla sera del giorno successivo, neppure uno degli uomini della truppa in cui erano riposte le speranze del paese restava più in campo contro di lui. Kohlhaas, che in quei combattimenti aveva subìto alcune perdite, il mattino del giorno seguente appiccò di nuovo l'incendio alla città, e le sue crudeli istruzioni furono così efficaci, che questa volta un gran numero di case e quasi tutti i fienili dei sobborghi furono ridotti in cenere. Nel frattempo egli affisse di nuovo, questa volta agli angoli dello stesso Municipio, il bando già noto, aggiungendovi le nuove sulla sorte del capitano Gerstenberg, inviato contro di lui dal prefetto, e da lui sbaragliato. Il prefetto, al colmo dell'indignazione davanti a tanta arroganza, si pose egli stesso, con molti cavalieri, alla testa di uno squadrone di centocinquanta uomini. Diede al barone Venceslao di Tronka, che l'aveva sollecitata per iscritto, una scorta che lo proteggesse dalle violenze del popolo, il quale pretendeva che egli fosse allontanato senza indugio dalla città, e, dopo aver inviato dei presidi in tutti i villaggi dei dintorni, e guarnito di sentinelle anche le mura di cinta della città, per difenderle da un colpo di mano, uscì in persona dalle porte, il giorno di san Gervasio, per catturare il drago che devastava il paese.
Lo squadrone il mercante di cavalli fu tanto accorto da evitarlo; e, dopo aver attirato il prefetto, con abili marce, a cinque miglia dalla città, e averlo indotto, con una serie di stratagemmi, nell'opinione fallace che egli, incalzato da forze troppo superiori, fosse per cercare scampo nel Brandeburgo, fece bruscamente dietro front, al calare della terza notte, ritorno di gran carriera a Vittemberga, e per la terza volta diede alle fiamme la città. Erziano era sgattaiolato in citta travestito, e aveva realizzato l'orribile colpo maestro; e un vento teso di tramontana rese l'avvampare dell'incendio così funesto e divorante che, in meno di tre ore, quarantadue case, due chiese, numerosi conventi e scuole e l'edificio stesso della prefettura furono ridotti in cenere e macerie. Il prefetto, che, allo spuntar del giorno, credeva il suo avversario in territorio brandeburghese, quando, informato di ciò che era accaduto, ebbe fatto, a marce forzate ritorno, trovò la città intera in rivolta; il popolo era accampato, a migliaia, davanti alla casa, barricata con pali e tronchi, del barone, e chiedeva, con urla furibonde, che fosse condotto via dalla città. Due borgomastri, di nome Genziano e Ottone, che si erano recati sul posto con le divise e le insegne, alla testa di tutta la magistratura cittadina, spiegarono invano che bisognava in ogni caso attendere il ritorno di un messo inviato d'urgenza al presidente della Cancelleria di Stato, per chiedere l'autorizzazione a condurre il barone a Dresda, dove egli stesso desiderava, per più di una ragione, recarsi; la torma irragionevole, armata di spiedi e di spranghe, non se ne dava per inteso, e già stava malmenando alcuni consiglieri, che proponevano di impiegare le maniere forti, e si accingeva a dare l'assalto alla casa in cui si trovava il barone, e raderla al suolo, quando il prefetto, Ottone di Gorgas, alla testa del suo squadrone di cavalieri, apparve in città.
A quell'uomo dabbene, che era avvezzo a istillare nel popolo, con la sua sola presenza, obbedienza e rispetto, era riuscito, quasi a compenso per l'impresa fallita dalla quale ritornava, di catturare, a poca distanza dalle porte della città, tre fanti sbandati della masnada dell'incendiario; e poiché egli, mentre quei ribaldi venivano, al cospetto del popolo, incatenati, assicurò i magistrati, con un avveduto discorso, che in breve tempo contava di condurre in città in catene lo stesso Kohlhaas, del quale era già sulle tracce, riuscì, grazie a queste circostanze rassicuranti, a disarmare l'angoscia del popolo radunato, e a calmarlo un poco, riguardo alla presenza del barone fino al ritorno del messaggero da Dresda. Egli smontò, accompagnato da alcuni cavalieri, da cavallo, e si recò, fatta rimuovere la barricata, nella casa, dove trovò il barone, che passava da uno svenimento all'altro, nelle mani di due medici, che cercavano di richiamarlo in vita con essenze e stimolanti; e poiché Ottone di Gorgas si rendeva ben conto che non era quello il momento di scambiar parole con lui su tutto ciò che era successo per causa sua, gli disse soltanto, con uno sguardo di muto disprezzo, che per favore si vestisse, e, per la sua stessa sicurezza, lo seguisse nelle stanze della prigione dei nobili. Quando ebbero fatto indossare al barone un panciotto, e gli ebbero messo un elmo in testa, ed egli, ancora a metà sbottonato, perché gli mancava il respiro, apparve, al braccio del prefetto e del conte di Gerschau, suo cognato, sulla strada, salirono fino al cielo maledizioni e bestemmie orribili contro di lui. Il popolo, trattenuto a fatica dalla truppa, lo chiamava sanguisuga, infame, aguzzino, flagello del paese, maledizione della città di Vittemberga e rovina della Sassonia; dopo un pietoso tragitto per la città ridotta in macerie, durante il quale egli più volte, senza avvedersene, perse l'elmo, che un cavaliere gli rimetteva in capo da dietro, si raggiunse finalmente la prigione, dove egli sparì in una torre, sotto la protezione di una buona scorta.
Intanto il ritorno del messaggero con la decisione del principe Elettore destava in città nuove preoccupazioni. Infatti il governo dello Stato, al quale la cittadinanza di Dresda si era immediatamente rivolta con una supplica, non voleva saperne di un soggiorno del barone nella capitale, prima che l'incendiario fosse ridotto all'impotenza; e anzi faceva obbligo al prefetto di difenderlo, ovunque fosse, poiché in qualche luogo doveva pur stare, con le forze che aveva sotto il suo comando; ma annunciava al contempo alla buona città di Vittemberga, per sua tranquillatà, che un battaglione di cinquecento uomini, al comando del principe Federico di Meissen, era già in marcia, per difenderla da ulteriori molestie. Il prefetto, che ben vedeva come una decisione simile non potesse in alcun modo rassicurare la popolazione, poiché non soltanto numerose piccole scaramucce, che il mercante di cavalli aveva combattuto con successo, in diversi punti, davanti alla città, avevano diffuso le voci più incresciose su un aumento delle sue forze, ma, per di più, la guerra che egli conduceva, con pece, paglia e zolfo, nell'oscurità della notte, per mezzo di gentaglia travestita, avrebbe potuto rendere inefficace, inaudita e senza esempio com'era, una difesa anche maggiore di quella con la quale il principe di Meissen si stava avvicinando: il prefetto, dunque, dopo breve riflessione, decise di tenere del tutto nascosta l'ordinanza che aveva ricevuto. Fece soltanto affiggere, agli angoli della città, una lettera nella quale il principe di Meissen gli annunciava il suo arrivo; una carrozza chiusa, che uscì sul far del giorno dal cortile del carcere dei nobili, prese, scortata da quattro cavalieri pesantemente armati, la strada di Lipsia, mentre i cavalieri della scorta facevano capire, con vaghi accenni, che si dirigevano verso il castello sulla Pleisse; e, dopo aver così tranquillizzato il popolo a proposito dell'infausto barone, la cui presenza significava ferro e fuoco, si mosse egli stesso, con una schiera di trecento uomini, per unirsi al principe Federico di Meissen.
Nel frattempo Kohlhaas, grazie alla singolare posizione che aveva assunto nel mondo, era salito, in effetti, alla forza di cento e nove uomini; e, dopo aver anche scoperto, a Jessen, un deposito di armi, e averne munito di tutto punto le sue schiere, prese, informato della doppia tempesta che si stava addensando, la decisione di andare incontro a entrambe con la rapidità del vento, prima che si scatenassero sul suo capo. E infatti il giorno successivo attaccava già il principe di Meissen, in un assalto notturno, nei pressi di Mühlberg; in quel combattimento perse bensì, con suo grande dolore, Ersiano, che sin dai primi colpi cadde morto al suo fianco: ma, esasperato da quella perdita, in tre ore di battaglia ridusse il principe, incapace di riordinarsi nella borgata, così a mal partito, che, allo spuntar del giorno, a causa di molte gravi ferite e del completo disordine della sua truppa, fu costretto a ritirarsi in direzione di Dresda. Reso temerario da questo successo, Kohlhaas si volse, prima che potesse essere informato dell'accaduto, contro il prefetto, lo assalì, presso il villaggio di Damerow, in campo aperto, in pieno mezzogiorno, e si batté con lui, con perdite bensì sanguinose, ma con uguale successo, fino al calar della notte. E certo il mattino seguente, con il resto della sua schiera, egli avrebbe senza fallo nuovamente attaccato il prefetto, che si era ritirato nel camposanto di Damerow, se questi, per mezzo di esploratori, non fosse stato informato della disfatta subita dal principe presso Mühlberg, e non avesse perciò ritenuto più prudente ritornare, a sua volta, a Vittemberga, in attesa di tempi migliori.
Cinque giorni dopo aver disfatto questi due contingenti, Kohlhaas era davanti a Lipsia, e da tre lati appiccava il fuoco alla città. - Nel bando che diffuse in quella occasione egli si definiva "luogotenente dell'Arcangelo Michele, venuto a punire col ferro e col fuoco, su tutti coloro che nella contesa prendessero le parti del barone, la malizia in cui era caduto il mondo intero". Dal castello di Lützen, di cui s'era impadronito di sorpresa, e in cui si era insediato, egli chiamava il popolo a unirsi a lui, per dare alle cose un migliore ordinamento, e il bando era sottoscritto, con gesto quasi folle, in questo modo: "Dato nel regale castello di Lützen, sede provvisoria del nostro governo universale". La buona sorte degli abitanti di Lipsia volle che il fuoco, a causa di una pioggia persistente che cadeva dal cielo, non si propagasse, così che, grazie alla rapidità d'intervento dell'organizzazione antincendio locale, soltanto alcune botteghe che sorgevano intorno alla rocca sulla Pleisse furono divorate dalle fiamme. E tuttavia la costernazione della città per la presenza del forsennato incendiario, e per la sua falsa supposizione che il barone fosse a Lipsia, era indescrivibile; e, quando un reparto di cento e ottanta uomini a cavallo, che era stato inviato contro di lui, ritornò sbaragliato in città, ai magistrati, che non volevano mettere a repentaglio le ricchezze della città, non rimase altro da fare che chiudere del tutto le porte, e ordinare che la cittadinanza facesse, giorno e notte, la guardia fuori delle mura.
Invano i magistrati fecero affiggere, nei villaggi delle zone circostanti, manifesti con la precisa assicurazione che il barone non si trovava nel castello sulla Pleisse il mercante di cavalli insisteva, su manifesti analoghi, che egli era nella rocca, e dichiarava che, se non vi si fosse trovato, egli avrebbe comunque proceduto come se ci fosse, finché non gli venisse indicato, con tanto di nome, il luogo in cui si trovava. Il principe Elettore informato per mezzo di un corriere veloce della situazione gravissima in cui si trovava la città di Lipsia, dichiarò che stava già radunando un esercito di duemila uomini, e che si sarebbe messo alla sua testa, per catturare Kohlhaas. Egli rivolse al signor Ottone di Gorgas un severo rimproverò per l'astuzia ambigua e sconsiderata cui era ricorso per allontanare l'incendiario dalla regione di Vittemberga; e nessuno può descrivere il turbamento che invase l'intera Sassonia, e soprattutto la capitale, quando laggiù si venne a sapere che, nei villaggi intorno a Lipsia, era stata affissa, da parte di chi non era noto, una dichiarazione diretta a Kohlhaas, secondo la quale "Venceslao, il barone, si trovava presso i cugini Enzo e Corrado, a Dresda".
In quel frangente, il dottor Martin Lutero prese su di sé il compito, sorretto dal prestigio che la sua posizione nel mondo gli dava, di ricondurre Kohlhaas, con la forza di parole pacate, entro gli argini dell'ordine umano; e, facendo affidamento su quanto di onesto c'era ancora nel petto dell'incendiario, gli indirizzò un manifesto del seguente tenore, che venne affisso in ogni città e in ogni borgo del principato:

"Kohlhaas, tu che ti spacci per inviato a brandire la spada della giustizia, che cosa mai ardisci, temerario, nel delirio di una cieca passione, tu che di ingiustizia sei colmo dalla punta dei capelli alle piante? Poiché il sovrano al quale sei suddito ha negato il tuo diritto, il tuo diritto nella contesa per una cosa da nulla, tu ti sollevi, o sciagurato, col ferro e col fuoco, e irrompi, come il lupo del deserto, nella pacifica comunità di cui egli è scudo. Tu, che seduci gli uomini con i tuoi proclami, pieni di falsità e di malizia, credi tu, peccatore, di trovare scampo dinanzi a Dio in questo modo, nel giorno che getterà luce entro le pieghe di tutti i cuori? Come puoi dire che ti è stato negato il tuo diritto, tu, il cui cuore rabbioso, eccitato dal prurito di un'ignobile brama di vendetta, dopo i primi, avventati tentativi che ti fallirono, ha lasciato cadere ogni sforzo per guadagnarselo? È la panca occupata dagli uscieri e dagli sgherri del tribunale, che intercettano la lettera che hanno ricevuto, o trattengono la sentenza che dovrebbero consegnare, è questa la tua autorità? E debbo io dirti, uomo dimentico di Dio, che la tua autorità non sa nulla della tua causa - che cosa dico? che il sovrano, contro il quale tu ti rivolti, non conosce neppure il tuo nome, di modo che, quando tu comparirai un giorno davanti al trono di Dio, e penserai di accusarlo, egli potrà dire, con il volto sereno: a quest'uomo, Signore, io non feci torto alcuno, poiché della sua esistenza l'anima mia non sa nulla? La spada che tu impugni, sappilo, è la spada della rapina e della strage; un ribelle tu sei, e non un soldato del giusto Iddio, la tua meta sulla terra è la ruota e la forca, e nell'al di là la dannazione che pende sul misfatto e sull'empietà.
Vittemberga, etc. Martin Lutero".

Kohlhaas stava per l'appunto agitando, nel castello di Lützen, un nuovo piano per incenerire Lipsia, nel suo petto lacerato - egli non dava, infatti, alcun credito alla notizia affissa nei villaggi che il barone Venceslao si trovasse a Dresda, poiché non era firmata da nessuno, e tanto meno dai magistrati, come egli aveva richiesto -, quando Sternbald e Waldmann notarono, con la più profonda costernazione, il manifesto, che, nottetempo, era stato affisso al portone del castello. Invano sperarono, per diversi giorni, che Kohlhaas, poiché preferivano non essere loro a rivolgergli la parola a quel proposito, vi lasciasse cadere lo sguardo: cupo e ripiegato su se stesso, egli appariva bensì, verso sera, ma soltanto per dare i suoi brevi ordini, e non vedeva nulla; tanto che essi, un mattino, in cui egli voleva far impiccare un paio dei suoi fanti, che, contro la sua volontà, avevano saccheggiato nei dintorni, si risolsero ad attirare l'attenzione. Egli tornava appunto, mentre il popolo si faceva da parte, intimidito, da ambo i lati, dal luogo dell'esecuzione, con l'apparato che, dall'ultimo bando, gli era abituale - lo precedeva una grande spada da cherubino, adagiata su un cuscino di cuoio rosso adorno di nappe d'oro, e lo seguivano dieci fanti con le fiaccole accese -, quando i due uomini, con le spade sottobraccio, girarono, in un atteggiamento che non poteva non colpirlo, intorno al pilastro al quale era affisso il manifesto. Kohlhaas, quando, con le mani intrecciate dietro la schiena, immerso nei suoi pensieri, giunse sotto il portone, alzò gli occhi e si fermò di colpo; e quando i servi, vedendolo, si tirarono con deferenza da parte, egli si avvicinò al pilastro, guardadoli distrattamente, a rapidi passi. Ma come descrivere ciò che avvenne nella sua anima quando vi scorse il foglio che lo accusava di ingiustizia, sottoscritto dal nome più caro e più venerando che conoscesse: dal nome di Martin Lutero!
Un cupo rossore gli salì al viso; egli lo lesse due volte, levandosi l'elmo, dal principio alla fine; si volse indietro, con sguardi incerti, ai suoi uomini, come se volesse dire qualcosa, e non disse nulla; staccò il foglio dalla parete, lo lesse tutto ancora una volta, e gridò: "Waldmann! Fai sellare il mio cavallo!", e poi: "Sternbald! Seguimi nel castello!", e disparve. Quelle poche parole erano bastate, con tutto l'alone di terrore che lo circondava, a disarmano di colpo. Egli indossò, come travestimento, le vesti di un fittavolo della Turingia, disse a Sternbald che un negozio di notevole importanza lo costringeva a recarsi a Vittemberga, gli affidò, alla presenza di alcuni dei suoi migliori soldati, il comando della schiera rimasta a Lützen, e partì, assicurando che entro tre giorni, durante i quali non c'era da temere alcun attacco, sarebbe stato di ritorno, per Vittemberga.
Si introdusse, sotto falso nome, in una locanda, e, non appena fu scesa la notte, avvolto nel suo mantello, e munito di un paio di pistole che erano bottino del castello di Tronka, si recò nella stanza di Lutero. Lutero, che sedeva al suo leggio, fra libri e manoscritti, vedendo quello strano sconosciuto aprire la porta, e richiuderla col catenaccio dietro di sé, gli domandò chi fosse e che cosa volesse; e l'uomo, che teneva con deferenza il cappello in mano, aveva appena timidamente risposto, già presentendo quale spavento stesse per provocare, che egli era Michele Kohlhaas, il mercante di cavalli, che già Lutero gridava: "Via, lontano da me!", aggiungendo, mentre si alzava dal leggio, e si precipitava verso un campanello: "Il tuo alito è peste, la tua vicinanza è perdizione!".
Kohlhaas disse, mentre, senza muoversi dal suo posto, tirava fuori la pistola: "Reverendo signore, questa pistola, se voi toccate il campanello, mi stenderà senza vita ai vostri piedi! Sedetevi, e datemi ascolto; fra gli angeli dei quali trascrivete i salmi non siete più sicuro che vicino a me".
Lutero, sedendosi, gli chiese: "Che vuoi?".
"Confutare", rispose Kohlhaas, "la vostra opinione di me, che io sia un uomo ingiusto! Mi avete detto, nel vostro manifesto, che la mia autorità non sa nulla della mia causa: ebbene, procuratomi un salvacondotto, e io andrò a Dresda, e gliela sottoporrò".
"Uomo empio e spaventevole!", esclamò Lutero, confuso e tranquillizzato insieme da quelle parole. "Chi ti ha dato il diritto di aggredire, eseguendo una tua arbitraria ingiunzione, il barone di Tronka, e, non avendolo trovato nel suo castello, di mettere a ferro e fuoco la comunità intera che lo difende?".
"Reverendo signore", rispose Kohlhaas, "nessuno, finora! Una notizia che ricevetti da Dresda mi ha tratto in inganno, e fuorviato! La guerra che conduco contro la comunità degli uomini è un delitto, se è vero che io, come voi mi avete assicurato, non ne sono stato ripudiato".
"Ripudiato!", gridò Lutero, guardandolo. "Quale pensiero folle ti ha preso? Chi ti avrebbe ripudiato dalla comunità dello Stato nel quale vivevi? Dove si ebbe mai, da quando esistono Stati, che qualcuno, chiunque egli fosse, sia stato da esso ripudiato?".
"Ripudiato", rispose Kohlhaas, stringendo a pugno la mano, "chiamo colui al quale si nega la protezione delle leggi! Poiché di questa protezione, per la prosperità del mio pacifico
commercio, io ho bisogno; ed è, anzi, proprio per questo che io, con tutto ciò che mi sono guadagnato, cerco rifugio nella comunità; e chi me la nega mi ricaccia fra i selvaggi del deserto, e mi mette in mano, potete forse negarlo?, la clava che mi protegge".
"Chi ti ha negato la protezione delle leggi?", gridò Lutero. "Non ti scrissi che dell'accusa che avevi presentato il sovrano, al quale l'avevi presentata, non sa nulla? Se i servitori di Stato, alle sue spalle, annullano i processi, o si fanno altrimenti beffe, a sua insaputa, del suo nome consacrato, chi, fuorché Dio, può chiedergli conto della scelta di tali servitori, e sei tu, uomo orribile e maledetto da Dio, autorizzato a giudicarlo per questo?".
"Ebbene", disse allora Kohlhaas, "se il sovrano non mi ripudierà, anch'io ritornerò nella comunità che da lui è difesa. Procuratemi, lo ripeto, un salvacondotto per Dresda: e io scioglierò la gente che ho raccolto nel castello di Lützen, e presenterò di nuovo, davanti al tribunale di Stato, l'accusa che mi è stata respinta".
Lutero, con aria contrariata, scompigliò le carte che aveva sullo scrittoio, e tacque. L'atteggiamento di sfida che quell'uomo strano assumeva nello Stato lo contrariava; e, ripensando all'ingiunzione che egli, da Pontekohlhaas, aveva emanato contro il barone, gli domandò che cosa pretendesse, insomma, dal tribunale di Dresda.
"La punizione del barone, conforme alla legge", rispose Kohlhaas; al ristabilimento dei cavalli nello stato in cui erano; e il risarcimento del danno che tanto io quanto il mio servo Ersiano, caduto a Mühlberg, abbiamo subito, a causa della Violenza commessa contro di noi".
"Il risarcimento del danno!", gridò Lutero. "Somme a migliaia, da ebrei e da cristiani, su tratte e su pegni, hai preso a prestito, per far fronte alle spese della tua selvaggia vendetta. Metterai nel conto anche il loro valore, se si farà l'inchiesta?".
"Dio ne scampi!", rispose Kohlhaas. "Casa e podere, e l'agiatezza che è stata mia, io non li richiedo; e neppure le spese del funerale di mia moglie! La vecchia madre di Ersiano farà un conto delle spese per la sua cura, e un elenco delle cose che suo figlio perse nel castello di Tronka; e il danno che io ho subito per la mancata vendita dei morelli lo faccia valutare il governo, per mezzo di un esperto".
"Uomo folle, incomprensibile e spaventoso!", disse Lutero, e lo fissò. "Dopo che la tua spada si è presa sul barone la vendetta più feroce che si possa immaginare, che cosa ti spinge a insistere su una sentenza il cui rigore, quando fosse, alla fine pronunciata, lo colpirebbe con un gravame di così scarso rilievo?".
"Reverendo signore", replicò Kohlhaas, mentre una lacrima gli rigava le gote, "mi è costata mia moglie, Kohlhaas farà vedere al mondo che non è perita in una causa ingiusta. Adattatevi, quanto a questo, alla mia volontà, e fate che la corte pronunci la sua sentenza; in tutto il resto, su cui possa ancora esservi contesa, io mi adatterò alla vostra".
"Vedi", disse Lutero, "ciò che tu chiedi, se dare le circostanze sono come la voce pubblica le riferisce, è giusto; e se tu avessi saputo portare la lite, prima di passare arbitrariamente alla vendetta privata, fino alla decisione del principe, la tua richiesta, non ne dubito, ti sarebbe stata accolta punto per punto. Ma, tutto ben considerato, non avresti fatto meglio, se tu, per amore del tuo Redentore, avessi perdonato il barone, avessi preso per la cavezza i morelli, secchi e sfiniti com'erano, fossi montato in sella e avessi cavalcato fino a casa tua, a ingrassarsi nelle tue stalle di Pontekohlhaas?".
"Forse sì", rispose Kohlhaas, avvicinandosi alla finestra "forse sì; e forse no! Se avessi saputo che mi sarebbe toccato rimetterli in piedi con il sangue e il cuore della mia cara moglie, forse sì, avrei fatto come dite voi, reverendo signore, e non sarei stato a guardare uno staio di avena! Ma poiché, ormai, mi sono venuti a costare tanto, le cose vadano, così la intendo, per il loro verso: lasciate che sia pronunciata la sentenza che mi aspetta, e che il barone mi ingrassi i morelli".
Lutero, mettendo, tra vari pensieri, di nuovo le mani tra le sua carte, disse che avrebbe agiato per lui una trattativa con il principe Elettore. Intanto, che egli restasse quieto nel castello di Lützen; se il principe avesse consentito al salvacondotto, glielo si sarebbe fatto sapere per via di pubblici manifesti. "A dire il vero", continuò, mentre Kohlhaas si chinava per baciargli la mano, "se l'Elettore vorrà usare clemenza, anziché giustizia, non so; poiché ha raccolto, ho saputo, un esercito, ed è in procinto di cogliere nel castello di Lützen; ma nel frattempo, come ti ho già detto, non risparmierà i miei sforzi". E con queste parole si alzò, mostrando di volerlo congedare.
Kohlhaas affermò che la sua intercessione lo tranquillizzava pienamente, su quel punto; al che Lutero lo salutò con la mano, ma egli, improvvisamente, piegò un ginocchio davanti a lui, e disse di avere ancora una preghiera sul cuore. A Pentecoste, infatti, quando era solito accostarsi alla mensa del Signore egli, a causa di quella sua impresa guerresca, non era andato in chiesa: voleva avere la compiacenza di ricevere, senza altra preparazione, la sua confessione, e impartirgli, in cambio, il beneficio del santo sacramento?
Lutero, dopo una breve riflessione, lo fissò severamente e disse: "Sì, Kohlhaas, lo farò. Ma il Signore, del quale desideri il corpo, perdonò il suo nemico. Vuoi tu", aggiunse, mentre egli lo guardava turbato, "perdonare allo stesso modo il barone che ti ha offeso: andare al castello di Tronka, montare sui tuoi morelli, e portarteli a casa a Pontekohlhaas, per ingrassarsi?".
"Reverendo signore", disse Kohlhaas arrossendo, e gli prese la mano.
"Ebbene?".
"Neppure il Signore perdonò tutti i suoi nemici. Lasciate che io perdoni i due principi Elettori, miei sovrani, il castaldo e il fattore, i signori Enzo e Corrado, e chiunque altro mi abbia offeso in questa circostanza: ma che, se è possibile, io costringa il barone a farmi tornare grassi i morelli".
A queste parole Lutero gli volse, con uno sguardo dispiaciuto, le spalle, e tirò il campanello. Kohlhaas, mentre un domestico, da esso chiamato, si annunciava, recando un lume, nell'anticamera, si alzò confuso da terra, asciugandosi gli occhi; e poiché il domestico, essendo tirato il catenaccio, si affaccendava invano alla porta, mentre Lutero si era di nuovo seduto davanti alle sue carte, Kohlhaas aprì la porta a quell'uomo. Lutero, lanciando un breve sguardo, di lato, al forestiero, disse al domestico: "Fà luce!", e questi, un po' sorpreso da quella visita, alla quale volse lo sguardo, staccò dalla parete la chiave di casa, e, aspettando che l'ospite se ne andasse, si ritirò nel vano della porta semiaperta.
"E così, signore molto reverendo", disse Kohlhaas, tenendo il cappello con entrambe le mani, che tremavano, "non mi può essere impartito il beneficio della riconciliazione, che vi ho supplicato di concedermi?".
"Con il tuo Salvatore, no", rispose brevemente Lutero; "con il tuo sovrano... questo dipenderà dal tentativo che ti ho promesso!". E con ciò fece al domestico il cenno di eseguire, senz'altro indugio, l'incarico che gli aveva affidato. Kohlhaas si portò, con un'espressione di dolore, le mani al petto, seguì l'uomo, che gli faceva lume giù per le scale, e disparve.
Il mattino seguente Lutero inviò una missiva al principe Elettore di Sassonia, nella quale, dopo un'amara allusione ai signori Enzo e Corrado di Tronka, ciambellano e coppiere addetti alla sua persona, i quali, come a tutti era noto, avevano intercettato la querela, dichiarava al sovrano, con la franchezza che gli era propria, che in così spiacevoli circostanze non restava altro da fare che accogliere la proposta del mercante di cavalli, e concedergli, al fine di riaprire il suo processo, l'amnistia per quanto era avvenuto. L'opinione pubblica, osservava, era pericolosamente propensa a prendere le parti di quell'uomo, tanto che persino a Vittemberga, da lui tre volte incendiata, si levavano voci in suo favore; e poiché immancabilmente, in caso fosse stata respinta, egli avrebbe portato l'offerta sua, con odiosi commenti, a conoscenza del popolo, questo avrebbe facilmente potuto essere sobillato a tal punto che, con la forza dello Stato, nulla più si sarebbe potuto intraprendere contro di lui. E concludeva che, in quel caso fuori dell'ordinario, bisognava passar sopra lo scrupolo di aprire una trattativa con un cittadino che aveva impugnato le armi; egli, in effetti, a causa dei procedimenti seguiti contro di lui, era stato posto, in certo modo, al di fuori del consorzio statale; e, in breve, per uscire da quella situazione, bisognava considerarlo più come una potenza straniera, quale, in un certo senso, il suo stesso essere forestiero lo qualificava, penetrata nel paese, che come un ribelle sollevatisi contro il trono.
Il principe Elettore ricevette questa lettera proprio mentre il principe Cristiano di Meissen, generalissimo dell'Impero, zio del principe Federico di Meissen, battuto a Mühlberg, e ancora a letto per le ferite, il Gran Cancelliere del Tribunale, conte Wrede, il conte Kallheim, presidente della Cancelleria di Stato, e i due signori Enzo e Corrado di Tronka, ciambellano questi, coppiere l'altro, amici d'infanzia e confidenti entrambi del sovrano, erano presenti a palazzo. Il ciambellano, il nobile Corrado, che, in qualità di consigliere segreto, sbrigava la corrispondenza privata del principe, con facoltà di servirsi del suo nome e del suo sigillo, prese per primo la parola, e, dopo aver spiegato ancora una volta, per filo e per segno, che mai e poi mai egli avrebbe messo da parte, di proprio arbitrio, la querela che il mercante di cavalli aveva sporto presso il Tribunale contro il barone, suo cugino, se, ingannato da false informazioni, non l'avesse ritenuta una bega oziosa e priva di qualunque fondamento, venne a parlare della situazione presente. Osservò che né in base alle leggi divine né in base alle umane il mercante di cavalli era autorizzato a prendersi, per quello sbaglio, una così mostruosa vendetta personale come quella che si era permesso descrisse la gloria che una trattativa con lui, come se fosse stato una potenza militare in piena regola, avrebbe fatto cadere sul suo capo maledetto da Dio; e l'onta che ne sarebbe ricaduta sulla sacra persona del principe gli parve così insopportabile, che, nella foga della sua perorazione, asserì che avrebbe preferito soffrire l'estremo, e vedere eseguita l'ordinanza del pazzo ribelle, e il barone, suo cugino, condotto a Pontekohlhaas, a ingrassare i morelli, piuttosto di sapere che si era accettata la proposta del dottor Lutero.
Il Gran Cancelliere del Tribunale, conte Wrede, espresse, rivolto a mezzo verso di lui, il proprio rincrescimento che una così delicata sollecitudine, come quella che egli mostrava, per il buon nome del sovrano, nella conclusione di quella faccenda, certamente incresciosa, non l'avesse ispirato fin dal momento del suo avvio. Egli espose all'Elettore le sue riserve a fare ricorso alla forza dello Stato per dare esecuzione a una misura palesemente ingiusta; osservò, con una significativa allusione al grande seguito che il mercante di cavalli continuava a incontrare nel paese, che in questo modo il filo dei delitti minacciava di svolgersi all'infinito; e dichiarò che soltanto una schietta azione di giustizia, che desse, immediatamente e senza riguardi, riparazione all'errore al quale era stato colpevolmente dato corso, avrebbe potuto strapparlo, e trarre felicemente il governo fuori da quel brutto impiccio.
Il principe Cristiano di Meissen, richiesto dal sovrano di dire che cosa pensasse di tutto ciò, asserì, rivolgendosi con deferenza verso il Gran Cancelliere, che la linea di pensiero da lui esposta gli ispirava, bensì, il massimo rispetto; ma, volendo aiutare Kohlhaas a ottenere i suoi diritti, egli non rifletteva che in tal modo veniva a ledere Vittemberga e Lipsia, e tutto il paese da lui devastato, nella giusta pretesa di un risarcimento dei danni, o almeno della loro punizione. L'ordinamento dello Stato era, in rapporto a quell'uomo, così sconvolto, che difficilmente lo si sarebbe potuto raddrizzare con un principio desunto dalla scienza del diritto. Perciò egli era d'avviso, secondo l'opinione del ciambellano, di fare ricorso ai mezzi previsti per tali casi: radunare un esercito di grandezza sufficiente, e con esso sloggiare o schiacciare il mercante di cavalli che si era insediato a Lützen.
Il ciambellano, mentre toglieva dalla parete due sedie, per lui e per l'Elettore, e le collocava con fare premuroso al centro della stanza, disse di rallegrarsi che un uomo della sua probità e intelligenza convenisse con lui sui mezzi per risolvere l'intricata questione. Il principe, tenendo ancora, senza sedersi, la mano appoggiata sulla sedia, e guardandolo fisso, gli assicurò che non aveva alcun motivo di rallegrarsi per questo: poiché la misura necessariamente a ciò collegata era di spiccare, prima, un ordine di cattura contro di lui, e metterlo sotto processo per abuso del nome del sovrano. Poiché, se la necessità esigeva di calare il velo, davanti al trono della giustizia, su una serie di delitti che, continuando a perdita d'occhio, non trovavano ormai posti abbastanza per comparire davanti al suo tribunale, ciò non valeva per il primo, che li aveva causati; e soltanto un'accusa capitale portata contro di lui avrebbe potuto autorizzare lo Stato a schiacciare il mercante di cavalli, la causa del quale era, come noto, più che giusta, e al quale essi stessi avevano messo in mano la spada che brandiva. Il principe, mentre a queste parole il barone lo guardava sgomento, si voltò, facendosi rosso per tutto il viso, e andò alla finestra.
Il conte Kallheim, dopo una pausa d'imbarazzo generale, disse che in quella maniera non si usciva dal cerchio stregato di cui erano prigionieri. Con lo stesso diritto si sarebbe potuto mettere sotto processo il nipote del Generalissimo, il principe Federico; poiché anch'egli, nel corso della poco ortodossa campagna intrapresa contro Kohlhaas, aveva in più modi travalicato le istruzioni ricevute: di modo che, se si fosse voluto fare l'elenco della lunga schiera di coloro che avevano dato causa all'imbarazzante situazione in cui ci si trovava, anch'egli sarebbe stato del numero, e il sovrano avrebbe dovuto chiedergli conto di quanto era avenuto presso Mühlberg.
Il coppiere, il nobile Enzo di Tronka, mentre il principe, con sguardi indecisi, andava verso il suo tavolo, prese la parola, e disse di non comprendere come la decisione di Stato che andava adottata potesse sfuggire a uomini di tanta saggezza, come quelli colà riuniti. Il mercante di cavalli, a quanto gli risultava, aveva promesso, in cambio di un semplice salvacondotto per Dresda, e di una nuova indagine sulla sua causa, di sciogliere la masnada con la quale era penetrato nel paese. Non ne seguiva, però, che gli si dovesse concedere l'amnistia per la sua delittuosa vendetta personale: due concetti giuridici che tanto il dottor Lutero quanto il Consiglio di Stato sembravano confondere. "Quando", proseguì, toccandosi il naso col dito "il Tribunale di Dresda avrà pronunciato, non importa come, la sentenza a proposito dei morelli, nulla impedirà di gettare Kohlhaas in prigione per i suoi incendi e le rapine: soluzione politicamente opportuna, che unisce i vantaggi di quelle dei due statisti che mi hanno preceduto, e alla quale non potrà mancare il plauso dei contemporanei e dei posteri".
Il principe Elettore, poiché sia egli, sia il Gran Cancelliere avevano risposto soltanto con uno sguardo a questo discorso del coppiere, il nobile Enzo, e con ciò la discussione pareva terminata, disse che avrebbe riflettuto per conto proprio, fino alla prossima seduta del Consiglio di Stato, sulle diverse opinioni che gli erano state esposte. Sembrava che la misura preliminare da lui stesso suggerita gli avesse tolto dal cuore, molto sensibile all'amicizia, la voglia di mettere in atto la spedizione contro Kohlhaas, per la quale tutto era già pronto. In ogni caso, trattenne presso di sé il Gran Cancelliere, conte Wrede, la cui opinione gli sembrava la più praticabile; e, quando questi gli ebbe mostrato delle lettere dalle quali risultava che, in effetti, le forze del mercante di cavalli erano già cresciute a quattrocento uomini, e anzi, per via della generale scontentezza che, a causa delle prevaricazioni del ciambellano, regnava nel paese, egli avrebbe potuto in breve contare su forze raddoppiate e triplicate, il principe Elettore si risolse, senza ulteriori esitazioni, ad accettare il consiglio che il dottor Lutero gli aveva dato. Affidò dunque al conte Wrede tutta la direzione dell'affare Kohlhaas; e già pochi giorni dopo compariva un affisso, di cui riassumiamo l'essenziale nel modo seguente:

"Noi, eccetera, eccetera, Principe Elettore di Sassonia, concediamo, avendo preso in particolare e benigna considerazione l'intercessione del dottor Martin Lutero presso di Noi, a Michele Kohlhaas, mercante di cavalli del Brandeburgo, a condizione che, entro tre giorni dalla visione della presente, abbia deposto le armi da lui impugnate, il salvacondotto per recarsi a Dresda, al fine di replicare l'esame della sua causa: affinché, nel caso in cui, come non è da attendersi, il Tribunale di Dresda respinga la sua querela, a proposito dei morelli, si proceda contro di lui, a causa della sua arbitraria intrapresa di farsi giustizia da sé, con tutta la severità della legge; ma, nel caso contrario, sia concessa a lui e a tutta la sua banda grazia in luogo di giustizia, e completa amnistia per le violenze da lui commesse in Sassonia".

Kohlhaas, non appena ebbe ricevuto, per mezzo del dottor Lutero, un esemplare di quel manifesto, che era stato affisso in tutte le piazze del paese, sciolse immediatamente, per quanto condizionate fossero le espressioni in esso contenute, tutta la sua masnada, con doni, ringraziamenti e raccomandazioni opportune. Depose tutto ciò che aveva predato, denaro, armi e masserizie, presso il tribunale di Lützen, come proprietà del principe Elettore; e, dopo aver inviato Waldmann a Pontekohlhaas, presso il balivo, con una sua lettera, per il riacquisto se era possibile, della sua fattoria, e Sternbald a Schwerin, a riprendere i suoi bambini, che desiderava tenere di nuovo con sé, lasciò il castello di Lützen, e, in incognito, portandosi dietro sotto forma di documenti, il resto del suo piccolo patrimonio, si recò a Dresda.
Spuntava il giorno, e tutta la città dormiva ancora, quando egli bussò alla porta della sua piccola proprietà nel sobborgo di Pirna, che grazie all'onestà del balivo gli era rimasta, e disse a Tommaso, il vecchio portiere al quale era affidata, che gli aveva aperto con stupore e sgomento, di recarsi al palazzo del Governo e annunciare al principe di Meissen che egli, Kohlhaas, il mercante di cavalli, era giunto. Il principe di Meissen, che, a questo annuncio, ritenne opportuno informarsi immediatamente di persona della situazione in cui ci si trovava, riguardo a quell'uomo, trovò le strade che conducevano all'abitazione di Kohlhaas, quando, poco tempo dopo, vi apparve, con il suo seguito di cavalieri e di fanti, già gremite, a perdita d'occhi, dalla folla radunata. La notizia che era giunto l'Angelo sterminatore, che cacciava gli oppressori del popolo col ferro e col fuoco, aveva richiamato tutta Dresda, città e sobborghi; si dovette sbarrare il portone di casa davanti alla folla dei curiosi che premeva, e i ragazzi si arrampicarono sino alle finestre, per vedere coi loro occhi l'incendiario che faceva colazione.
Non appena il principe, con l'aiuto delle guardie, che gli facevano largo, riuscì a penetrare in casa, ed entrò nella stanza di Kohlhaas, domandò all'uomo che stava in piedi accanto a un tavolo, in maniche di camicia, se fosse Kohlhaas, il mercante di cavalli; al che Kohlhaas, tirando fuori dalla cintura un portafogli con varie carte, che attestavano la sua identità, e porgendoglielo rispettosamente, rispose di sì, e aggiunse di esser venuto, dopo aver sciolto le sue truppe, a Dresda, secondo l'immunità concessagli dal sovrano, per sporgere davanti al tribunale la sua querela, a proposito dei morelli, contro il barone Venceslao di Tronka. Il principe, dopo un rapido sguardo, con il quale lo squadrò da capo a piedi, diede una scorsa alle carte che si trovavano nel portafogli; si fece spiegare da lui che cosa volesse dire una ricevuta che vi trovò, redatta dal tribunale di Lützen, a proposito dei beni depositati a beneficio del tesoro dell'Elettore; e, dopo aver ulteriormente saggiato con domande di varie specie, sui suoi bambini, il suo patrimonio e la vita che pensava dl condurre in avvenire, che tipo di uomo fosse, e averlo trovato su ogni punto tale che si poteva stare tranquilli sul conto suo, gli restituì le carte e gli disse che nulla si opponeva al suo processo, e che, per avviarlo, si rivolgesse pure direttamente al Gran Cancelliere del tribunale, conte Wrede.
"Nel frattempo", disse il principe dopo una pausa, accostandosi alla finestra e osservando con stupore il popolo radunato davanti alla casa, "dovrai, per i primi giorni, accettare una scorta che ti protegga, sia in casa tua, sia quando esci".
Kohlhaas, turbato, guardava a terra davanti a sé, e taceva. Il principe disse: "Fa lo stesso!", e lasciò la finestra. "Di ciò che nascerà, dovrai fare carico a te stesso", e con ciò si volse verso la porta, con l'intenzione di lasciare la casa.
Kohlhaas, che aveva riflettuto, disse: "Vostra Grazia, fate ciò che volete. Datemi la vostra parola di ritirare la scorta, non appena io lo desideri, e non avrò nulla da obbiettare circa questo provvedimento".
Il principe replicò che non c'era bisogno di dirlo; e, dopo aver spiegato a tre lanzi, che gli erano stati presentati a quello scopo, che l'uomo nella casa del quale si trattenevano era libero, e che soltanto per sua difesa dovevano, quando usciva, seguirlo, salutò il mercante di cavalli con un cenno condiscendente della mano, e si allontanò.
Verso mezzogiorno Kohlhaas, accompagnato dai suoi tre lanzi, e seguito da una folla sterminata che, tuttavia, messa sull'avviso dalla polizia, non gli fece alcun male, si recò dal Gran Cancelliere del tribunale, conte Wrede. Il Gran Cancelliere, che lo ricevette gentilmente e con indulgenza nella sua anticamera, si intrattenne con lui per due ore intere; e, dopo essersi fatto raccontare dal principio alla fine come si erano svolte le cose, gli disse di rivolgersi, per l'immediata stesura e presentazione della querela, a un noto avvocato cittadino, che esercitava presso il tribunale. Kohlhaas, senza ulteriori indugi, si recò nell'abitazione di questi; e, dopo che la querela fu redatta, in tutto e per tutto uguale alla prima che era stata cassata, chiedendo la punizione del barone secondo le leggi, la reintegrazione dei cavalli nello stato precedente e il risarcimento dei danni suoi propri, e anche di quelli subiti dal suo servo Ersiano, caduto presso Mühlberg, a favore della vecchia madre, fece, accompagnato dalla folla, che continuava a guardarlo con tanto d'occhi, ritorno a casa, ben deciso a non lasciarla più, a meno che non fosse chiamato da affari imprescindibili.
Nel frattempo anche il barone era stato rilasciato dalla sua custodia, a Vittemberga, e, dopo essere guarito da una pericolosa risipola, che gli aveva infiammato un piede, aveva ricevuto dal tribunale dello Stato l'ingiunzione perentoria di presentarsi a Dresda, per rispondere dell'accusa, sollevata contro di lui dal mercante di cavalli Kohlhaas, di aver illegalmente trattenuto e sfiancato i suoi morelli. I due fratelli, il ciambellano e il coppiere di Tronka, cugini del barone e feudatari come lui, che prese alloggio presso di loro, lo ricevettero al colmo dell'indignazione e del disprezzo; lo chiamarono sciagurato, buono a nulla, onta e disonore di tutta la famiglia, gli annunciarono che, ormai, avrebbe perduto senza fallo il processo, e lo invitarono a darsi da fare per rintracciare subito i morelli, poiché, fra le risate di scherno del mondo, sarebbe stato condannato a ingrassarsi. Il barone disse, con voce debole e tremante, di essere l'uomo più miserevole di questo mondo. Giurò e spergiurò di aver saputo ben poco di tutta la malaugurata faccenda, che lo stava conducendo alla rovina, e che di tutto avevano colpa il castaldo e il fattore, i quali, a sua completa insaputa, e senza l'ombra del suo consenso, avevano adoperato i cavalli per il raccolto, e con fatiche eccessive, in parte sui loro stessi campi li avevano sfiancati. E, così dicendo, si sedette, pregandoli di non farlo ricadere di proposito, con le insinuazioni e le offese nella malattia dalla quale si era appena riavuto.
Il giorno seguente i signori Enzo e Corrado, che avevano dei possedimenti nella regione del castello incendiato di Tronka, su preghiera del barone loro cugino, poiché non restava altro da fare, scrissero ai loro affittuari e amministratori che si trovavano in zona, per ottenere notizie dei morelli che quel giorno disgraziato erano andati perduti, e che erano da allora del tutto svaniti. Ma tutto ciò che, a causa della completa devastazione del luogo, e della strage di quasi tutti gli abitanti, poterono venire a sapere fu che un servo, spinto a piattonate dall'incendiario, li aveva tratti in salvo dalla baracca in fiamme in cui si trovavano, ma in seguito, avendo chiesto dove dovesse condurli, e che dovesse fare di loro, da quell'uomo sanguinario e feroce aveva ricevuto una pedata per tutta risposta. La vecchia governante del barone, tormentata dalla gotta, che si era rifugiata a Meissen, interrogata per lettera assicurò al barone che il servo il mattino dopo quella notte di orrore, si era diretto con i cavalli verso il confine del Brandeburgo; ma tutte le indagini condotte laggiù furono vane, e quella notizia sembrò basata su un errore, poiché il barone non aveva alcun servo che avesse dimora nel Brandeburgo, e neppure lungo la strada che vi conduceva. Alcuni uomini di Dresda, che erano stati a Wilsdruf pochi giorni dopo l'incendio del castello di Tronka, riferirono che, più o meno nel periodo indicato, vi era giunto un servo che tirava due cavalli per la cavezza, e, poiché le bestie erano assai mal ridotte, e non avrebbero potuto proseguire, le aveva lasciate nella stalla di un pecoraio, che era disposto a rimettere in piedi. Sembrava molto probabile, per varie ragioni, che si trattasse proprio dei morelli oggetto dell'inchiesta; ma il pastore di Wilsdruf, così assicuravano alcuni viaggiatori che giungevano di laggiù, li aveva di nuovo rivenduti, non si sapeva a chi; e una terza diceria, di cui non si riuscì a scoprire la fonte, diceva persino che i cavalli avessero reso l'anima a Dio, e fossero sepolti nella fossa di Wilsdruf.
I signori Enzo e Corrado, per i quali questa piega degli avvenimenti era, come è facile capire, la più gradita, dal momento che veniva a liberarli, mancando al barone loro cugino una stalla propria, dalla necessità di nutrire i morelli nelle loro, desideravano tuttavia, per essere pienamente sicuri, appurare la circostanza. Il barone Venceslao di Tronka inviò pertanto uno scritto, nella sua qualità di titolare del feudo, con diritti giurisdizionali, al tribunale di Wilsdruf, in cui lo pregava con il massimo zelo, dopo una minuziosa descrizione dei morelli che come egli diceva, gli erano stati affidati, ed erano andati smarriti per un incidente, di fare indagini sul luogo dove ora si trovassero, e di intimare al proprietario, chiunque fosse, di farli recapitare, dietro generoso rimborso di tutte le spese, nelle stalle del ciambellano, il nobile Corrado, a Dresda. In seguito a ciò, pochi giorni dopo, comparve davvero l'uomo al quale il pastore di Wilsdruf li aveva ceduti, e li condusse, secchi e vacillanti, legati al montante del suo carro, sulla piazza del mercato della città; ma la cattiva sorte del nobile Venceslao, e ancor più dell'onesto Kohlhaas, volle che egli fosse lo scortichino di Döbbeln.
Non appena il nobile Venceslao, alla presenza del ciambellano suo cugino, venne a sapere, da voci vaghe, che era giunto in città un uomo con due cavalli neri, scampati all'incendio del castello di Tronka, entrambi si recarono, accompagnati da alcuni servi radunati in fretta nella casa, sulla piazza principale, dove l'uomo si trovava, per rilevarvi, nel caso fossero quelli appartenenti a Kohlhaas, previo rimborso delle spese, e condurli a casa. Ma quale fu l'imbarazzo dei due nobili quando scorsero già, intorno al barroccio al quale erano legate le bestie, un mucchio di persone, attirate dallo spettacolo, che andavano aumentando di momento in momento e gridavano le une alle altre, fra crasse risate, che ormai i cavalli che avevano fatto tremare lo Stato erano finiti nelle mani dello scortichino!
Il barone, che aveva fatto il giro del carretto, e aveva osservato quelle povere bestie, che sembravano dover morire da un momento all'altro, disse, imbarazzato, che non erano i cavalli che aveva ritirato a Kohlhaas; ma il nobile Corrado, il ciambellano, lanciandoli un'occhiata piena di muto furore, che, se fosse stata di ferro, l'avrebbe schiacciato, andò, gettando indietro il mantello, e scoprendo il collare e le insegne del suo grado, accanto allo scortichino, e gli chiese se si trattava dei morelli che il pastore di Wilsdruf si era tenuto, e che il barone Venceslao di Tronka, al quale appartenevano, aveva fatto cercare per mezzo del tribunale.
Lo scortichino, che, con un secchio d'acqua in mano, era occupato a dar da bere a uno stallone grosso e ben pasciuto, che tirava il barroccio, fece: "I neri?", tolse al cavallo, dopo aver posato il secchio a terra, il morso di bocca, e disse che i morelli legati al montante glieli aveva venduti il porcaro di Hainichen. Di dove quello li avesse avuti, e se venissero dal pecoraio di Wilsdruf, lui non lo sapeva. A lui, disse riprendendo il secchio, appoggiandolo contro la stanga e tenendolo fermo col ginocchio, a lui il messo del tribunale di Wilsdruf aveva detto di portarli a Dresda, a casa di quelli di Tronka; ma il barone al quale doveva rivolgersi si chiamava Corrado. E a queste parole si volse, rovesciando sul selciato della strada l'acqua che il suo cavallo aveva avanzato nel secchio.
Il ciambellano, sul quale erano beffardamente puntati tutti gli occhi della folla e che non riusciva a ottenere da quell'uomo, intento, con zelo imperturbabile, alle sue faccende, di farsi guardare in faccia, disse di essere lui il ciambellano, Corrado di Tronka; i morelli che egli doveva ritirare appartenevano, però, a suo cugino; erano arrivati al pecoraio di Wilsdruf per mezzo di un servo, che era fuggito in occasione dell'incendio del castello di Tronka; ma originariamente erano due cavalli di proprietà del mercante di cavalli Kohlhaas! Egli domandò all'uomo, che stava a gambe larghe, e si tirava su i calzoni, se non sapesse nulla di tutto ciò; e se il porcaro di Hainichen non se li fosse magari procurati, tutto dipendeva da questa circostanza dal pecoraio di Wilsdruf, oppure da un terzo, che a sua volta li aveva acquistati da lui.
Lo scortichino, che, messosi contro il carro, vi aveva fatto un po' d'acqua, disse che gli era stato ordinato di venire a Dresda con i morelli, e di andare a prendere in casa di quelli di Tronka il denaro che in cambio gli spettava. Di quel che gli andava raccontando, lui non capiva niente; e se prima del porcaro di Hainichen li aveva avuti Tizio, o Caio, o il pecoraio di Wilsdruf, questo per lui, dal momento che non erano rubati, era tutt'uno. E con questo si diresse, gettatasi la frusta di traverso sulle ampie spalle, verso una bettola che si trovava sulla piazza, col proposito, affamato com'era, di mangiare un boccone. Il ciambellano, che non sapeva che farsi dei cavalli che il porcaro di Hainichen aveva venduto allo scortichino di Döbbeln, se non erano quelle le bestie sulle quali il diavolo cavalcava per la Sassonia, chiese al barone di pronunciarsi; ma quando costui, con labbra pallide e tremanti, ebbe detto che la cosa più consigliabile era comprare i morelli, che appartenessero a Kohlhaas oppure no, il ciambellano maledisse il padre e la madre che l'avevano messo al mondo e, tiratosi giù il mantello, del tutto incerto su ciò che avesse da fare e non fare, uscì dalla calca. Chiamò il barone di Wenk, suo conoscente, che passava a cavallo per la strada, e, ostinandosi a non lasciare la piazza, proprio perché la marmaglia lo fissava con scherno, e, premendosi i fazzoletti sulla bocca, sembrava non aspettare altro che se ne andasse per scoppiare in risate, lo pregò di scendere dal Gran Cancelliere, conte Wrede, e per suo tramite far venire laggiù Kohlhaas, a esaminare i morelli.
Avvenne ora che Kohlhaas, mandato a chiamare da un messo del tribunale, si trovasse per l'appunto nella stanza del Gran Cancelliere, per via di certe spiegazioni che gli erano state richieste a proposito del deposito di Lützen, quando il barone di Wenk fu introdotto presso di lui con l'incarico che sappiamo; e, mentre il Gran Cancelliere si alzava dalla poltrona con il viso contrariato, e il mercante di cavalli, la cui persona era sconosciuta al barone, rimaneva in disparte, con le carte che teneva in mano, questi riferì l'imbarazzante situazione in cui si trovavano i signori di Tronka. Lo scortichino di Döbbeln, a causa di indagini troppo sommarie del tribunale di Wilsdruf, era comparso con dei cavalli in condizioni così disperate, che il barone Venceslao esitava a riconoscerli come quelli appartenenti a Kohlhaas; e di conseguenza, se si volevano rilevare lo stesso dallo scortichino, per fare il tentativo di rimetterli in forze nelle stalle dei cavalieri, era prima necessaria un'ispezione oculare da parte di Kohlhaas, per eliminare ogni dubbio dalla suddetta circostanza. "Abbiate pertanto la bontà", concluse, "di mandare a prendere da una scorta il mercante, e farlo condurre al mercato, dove si trovano i cavalli".
Il Gran Cancelliere, togliendosi gli occhiali dal naso, rispose che egli era incorso in un duplice errore: in primo luogo, se riteneva che la circostanza in questione non si potesse accertare in altro modo, se non con un'ispezione oculare del Kohlhaas; e poi se immaginava che egli, il Cancelliere, fosse autorizzato a far condurre Kohlhaas da una scorta dovunque piacesse al barone. Quindi gli presentò il mercante, che era in piedi alle sue spalle, e lo pregò, sedendosi e rimettendosi gli occhiali, di rivolgere direttamente a lui per quella faccenda. Kohlhaas, il cui volto non dava a vedere nulla di quanto avveniva nel suo cuore, disse di essere pronto a seguirlo al mercato, per esaminare i morelli che lo scortichino aveva portato in città. Mentre il barone si voltava, confuso, verso di lui, egli si avvicinò di nuovo al tavolo del Gran Cancelliere, e, dopo avergli dato, traendole dalle carte del suo portafogli, una serie di informazioni riguardanti il deposito di Lützen, prese congedo da lui; il barone che, rosso su tutto il viso, si era avicinato alla finestra, fece egualmente i suoi rispetti; e tutti e due, accompagnati dai tre lanzi assegnati dal principe di Meissen, si avviarono, col seguito di una gran folla, verso la piazza principale.
Il ciambellano, il nobile Corrado, che nel frattempo, sfidando i consigli di parecchi amici che gli si erano radunati intorno, era rimasto fermo al suo posto, in mezzo al popolo, di fronte allo scortichino di Döbbeln, non appena apparve il barone con il mercante di cavalli si accostò a quest'ultimo, e gli domandò, tenendo la spada, con superbia e ostentazione, sotto il braccio, se i cavalli che stavano dietro il carro erano i suoi. Il mercante, dopo essersi tolto, con gesto rispettoso, il cappello, di fronte al signore che gli aveva rivolto la domanda, che egli non conosceva, si avvicinò, senza rispondergli, seguito da tutti i cavalieri, al barroccio dello scortichino; e, dopo aver osservato di sfuggita, da una distanza di dodici passi, dove si fermo, gli animali, che se ne stavano la sulle gambe malferme, con le teste chine verso terra, senza toccare il fieno che lo scortichino aveva messo loro davanti, si rivolse di nuovo al ciambellano: "Vostra Grazia, lo scortichino ha proprio ragione; i cavalli legati al suo barroccio mi appartengono". E con ciò, volgendo gli occhi tutt'intorno sul cerchio dei signori, alzò un'altra volta il cappello e, accompagnato dalla sua scorta, lasciò la piazza.
A quelle parole il ciambellano si avvicinò a passi rapidi, che gli fecero ondeggiare il cimiero, allo scortichino, e gli gettò una borsa di denaro; e mentre questi, con la borsa in mano, si ravviava i capelli dalla fronte con un pettine di piombo, e contava i soldi, egli ordinò a un servo di slegare i cavalli e di condurli a casa. Il servo, che, al richiamo del padrone, si era staccato da un crocchio di amici e parenti che aveva tra la folla, si avvicinò infatti, un po' rosso in viso, ai cavalli, saltando una larga pozza di liquami che si era formata accanto a loro; ma ne aveva appena toccato la cavezza, per slegarsi, quando mastro Himboldt, suo cugino, lo afferrò per un braccio, e gridandogli: "Tu non toccherai quelle carogne!", lo scaraventò via dal barroccio. E, saltando, con qualche esitazione, la pozza di liquame, si volse indietro verso il ciambellano, che a quell'incidente era rimasto senza parole, aggiungendo che doveva procurarsi un garzone di scortichino, per fargli quel servizio!
Il ciambellano, che aveva squadrato per un momento mastro Himboldt, schiumando di rabbia, si voltò, e chiamò, al di sopra delle teste dei cavalieri che lo circondavano, la scorta; e quando, su richiesta del barone di Wenk, un ufficiale e alcuni armigeri del principe Elettore furono giunti dal palazzo, esortò questi, dopo aver brevemente esposto quali vergognose sobillazioni si permettessero i borghesi della città, ad arrestare mastro Himboldt, il caporione. E, afferratolo per il collo, lo accusò di aver scaraventato via dal carretto e malmenato il suo servo, che, per ordine suo, stava slegando i morelli. Il mastro, sfuggendo alla presa del ciambellano con un agile movimento, che lo liberò, rispose: "Vostra Grazia! Far capire a un giovanotto di vent'anni quel che deve fare non significa sobillarlo! Domandategli se, contro l'uso e la decenza, è disposto a occuparsi dei cavalli legati al barroccio. Se è disposto a farlo, dopo quello che ho detto, sia pure! Per quel che mi riguarda può anche squartarli e scorticarli!".
A queste parole il ciambellano si voltò verso il servo, e gli domandò se aveva qualche obiezione a eseguire il suo ordine, e a slegare i cavalli che appartenevano a Kohlhaas e a condurli a casa; e poiché questi rispose timidamente, cercando di confondersi fra i borghesi, che bisognava ridare l'onore ai cavalli, prima di pretendere questo da lui, il ciambellano gli corse dietro, gli strappò il cappello, ornato dallo stemma della casata, e, dopo averlo calpestato, trasse dal fodero la spada e con furibondi colpi di piatto cacciò il servo, sui due piedi, dalla piazza e dal suo servizio. "Addosso! Buttate a terra quell'assassino!", urlò mastro Himboldt; e, mentre i borghesi, indignati da quella scena, serravano le file e respingevano le guardie, afferrò da dietro il ciambellano, lo gettò a terra, gli strappò il manto, l'elmo e il colletto, gli tolse di mano la spada e la scaraventò lontano, con rabbia, attraverso la piazza. Invano il barone Venceslao, mentre si metteva in salvo dal tumulto, gridò ai cavalieri di correre in aiuto del cugino; prima di aver fatto un passo, essi erano già dispersi dalla folla che premeva, così che il ciambellano, che si era ferito al capo cadendo, restò del tutto in balia del furore popolare.
Soltanto la comparsa di uno squadrone di lanzi a cavallo, che passavano per caso nella piazza, e che l'ufficiale degli armigeri del palazzo chiamò in suo soccorso, poté salvare il ciambellano. L'ufficiale, ricacciata la folla, afferrò l'artigiano inferocito, e, mentre questi veniva condotto in prigione da alcuni soldati a cavallo, due amici sollevarono da terra il disgraziato ciambellano, coperto di sangue, e lo portarono a casa. Così disastroso fu l'esito dell'onesto e benintenzionato tentativo di dare soddisfazione al mercante di cavalli per il torto che gli era stato fatto. Lo scortichino di Döbbeln, per il quale l'affare era concluso, e che non voleva trattenersi più a lungo, quando la gente cominciò a disperdersi legò i cavalli a un lampione, dove le bestie rimasero, senza che alcuno se ne curasse, a ludibrio dei ragazzi di strada e dei perdigiorno, per tutta la giornata; tanto che, in assenza di ogni altra cura e custodia, dovette farsene carico la polizia, che, al calar della notte, andò a chiamare lo scortichino di Dresda, per farli ricoverare, fino a nuove disposizioni, nello scorticato fuori le mura cittadine.
Questo incidente, per quanto poco, in realtà, il mercante ne avesse colpa, suscitò tuttavia nel paese, anche fra gli uomini migliori e più moderati, uno stato d'animo estremamente pericoloso per il buon esito della sua causa. Si trovava del tutto intollerabile il suo rapporto con lo Stato e, nelle case private e sulle pubbliche piazze, si fece strada l'opinione che fosse meglio commettere contro di lui una palese ingiustizia, e mettere di nuovo tutto quanto a tacere, piuttosto di rendergli una giustizia estorta con azioni violente, in una questione così insignificante, soltanto per soddisfare la sua folle ostinazione. E, a completare la rovina del povero Kohlhaas, lo stesso Gran Cancelliere dovette contribuire, per eccessiva probità, e per l'odio contro la famiglia dei Tronka che ne derivava, a confermare e a diffondere questo stato d'animo. Era quanto mai improbabile che i cavalli, dei quali adesso si occupava lo scortichino di Dresda, potessero mai essere ricondotti nello stato in cui si trovavano quando erano usciti dalle stalle di Pontekohlhaas; ma, posto che ciò, con estrema perizia e cure assidue, fosse possibile, l'onta che nelle circostanze presenti ne sarebbe ricaduta sulla famiglia del barone era così grande, che, dato il peso che essa rivestiva nello Stato e nel paese, come una delle prime e più nobili, nulla sembrava più ragionevole e opportuno che cercare di procurare un indennizzo dei cavalli in denaro. Come che fosse, a una lettera, nella quale il presidente del tribunale, conte Kallheim, a nome del ciambellano, trattenuto in casa dalla sua indisposizione, faceva al Gran Cancelliere, pochi giorni dopo, questa proposta, quest'ultimo rispose bensì inviando a Kohlhaas uno scritto in cui lo esortava a non respingere una simile offerta, in caso gli venisse fatta; ma al presidente stesso replicò con un biglietto breve e poco cerimonioso, in cui lo pregava di risparmiargli incarichi privati in quella faccenda, e invitava il ciambellano a rivolgersi direttamente al mercante di cavalli, che gli dipinse come uomo ragionevole e modesto.
Il mercante di cavalli, la cui volontà era stata realmente spezzata dall'incidente avvenuto sulla piazza del mercato, non aspettava per l'appunto altro, secondo il consiglio del Gran Cancelliere, che un passo da parte del barone, o di uno dei suoi parenti, per venir loro incontro con tutta la buona volontà, perdonando quanto era accaduto; ma proprio compiere questo passo era penoso per gli orgogliosi cavalieri; i quali, profondamente amareggiati dalla risposta che avevano ricevuto dal Gran Cancelliere, la mostrarono al principe Elettore che, il mattino del giorno seguente, aveva fatto visita al ciambellano, nella stanza dove egli giaceva indisposto per le ferite riportate. Il ciambellano, con una voce che il suo stato rendeva flebile e toccante, gli domandò se egli, dopo aver messo a repentaglio la vita per risolvere quella faccenda secondo i suoi desideri, doveva ancora esporre il suo onore al biasimo del mondo, e farsi avanti con una preghiera di accomodamento e di accondiscendenza verso un uomo che aveva riversato ogni onta e vergogna immaginabile su di lui e sulla sua famiglia. Il principe Elettore, dopo aver letto la lettera, domandò imbarazzato al conte Kallheim se il tribunale non fosse autorizzato, senza ulteriori colloqui con Kohlhaas, a basarsi sulla circostanza che i cavalli non potevano essere ristabiliti, e a pronunciare quindi, come se fossero morti, una sentenza di semplice risarcimento in denaro.
"Sono morti, Vostra Grazia", rispose il conte; "sono morti in senso giuridico, poiché non hanno alcun valore e lo saranno anche fisicamente, prima che siano condotti dallo scorticatoio alle stalle dei cavalieri"; al che il principe Elettore, mettendosi in tasca la lettera, disse che ne avrebbe parlato di persona con il Gran Cancelliere, tranquillizzò il ciambellano, che si tirò su a metà, per stringergli, riconoscente, la mano, e, dopo avergli raccomandato ancora una volta di aver cura della sua salute, si alzò, con espressione di grande benevolenza, dalla poltrona, e lasciò la stanza.
Così stavano le cose a Dresda, quando sul povero Kohlhaas si addensò un'altra e più grave tempesta, proveniente da Lützen, le cui folgori gli astuti cavalieri furono abbastanza abili da dirigere sul suo capo sfortunato. Giovanni Nagelschmidt, infatti, uno dei servi arruolati dal mercante, e poi congedati dopo la pubblicazione dell'amnistia del principe Elettore, aveva pensato bene, poche settimane dopo, ai confini della Boemia, di accozzare nuovamente una parte di quella marmaglia, rotta a tutte le infamie, e di continuare per proprio conto il mestiere al quale Kohlhaas lo aveva agiato. Questo poco di buono, vuoi per incutere spavento agli sbirri, da cui era inseguito, vuoi per indurre, secondo un metodo già sperimentato, la gente delle campagne a unirsi alle sue ribalderie, si proclamava luogotenente di Kohlhaas; con l'astuzia appresa dal suo padrone, egli sparse la voce che nei confronti di molti servi che erano pacificamente ritornati alle loro case l'amnistia non era stata rispettata, e che Kohlhaas stesso, con spergiuro che gridava vendetta al cielo, al suo arrivo a Dresda era stato arrestato, e consegnato alle guardie; fino al punto che, su manifesti in tutto simili a quelli di Kohlhaas, la sua masnada di incendiari era presentata come un esercito insorto a sola gloria di Dio, e destinato a vigilare sull'osservanza dell'amnistia a loro concessa dal principe Elettore; tutto ciò, come si è già detto, niente affatto a gloria di Dio, ne per attaccamento a Kohlhaas, la cui sorte era loro del tutto indifferente, ma per poter, sotto il manto di cosiffatte finzioni, tanto più impunemente e comodamente incendiare e saccheggiare.
I nobili, non appena giunsero a Dresda le prime notizie di ciò, non seppero soffocare la loro gioia per l'incidente, che dava all'intera faccenda un aspetto ben diverso. Con sapienti e velenose allusioni essi ricordarono quale passo falso fosse stato, a dispetto dei loro pressanti e ripetuti ammonimenti, concedere a Kohlhaas l'amnistia, quasi si fosse avuta l'intenzione di dare con ciò ai ribaldi di tutte le specie l'autorizzazione a mettersi sulla stessa strada; e, non contenti di prestar fede alla pretesa del Nagelschmidt di aver preso le armi soltanto in difesa e per la sicurezza del suo perseguitato padrone, manifestarono perfino l'opinione ben precisa che la comparsa di costui altro non fosse che una trama ordita dallo stesso Kohlhaas, per mettere paura al governo, affrettare la pronuncia della sentenza e ottenerla punto per punto conforme alla sua folle ostinazione. Il coppiere, il nobile Enzo, andò addirittura tanto oltre da proclamare, di fronte ad alcuni gentiluomini di caccia e cortigiani, i quali, dopo il banchetto, si erano radunati intorno a lui nell'anticamera dell'Elettore, che lo scioglimento della banda di masnadieri a Lützen non era stato altro che una perfida commedia; e, facendosi beffe dell'amore di giustizia del Gran Cancelliere, mostrò, con una serie di elementi astutamente collegati, come la masnada fosse presente quanto prima nei boschi del principato, e aspettasse soltanto un cenno del mercante di cavalli per irrompere ancora una volta, col ferro e col fuoco.
Il principe Cristiano di Meissen, assai contrariato dalla piega che prendevano le cose, che minacciava di macchiare in modo spiacevolissimo il buon nome del suo signore, si recò immediatamente da lui a palazzo; e, ben intuendo che i nobili avevano interesse a rovinare Kohlhaas, se era possibile, a causa dei nuovi delitti, chiese al signore il permesso di sottoporre subito il mercante a un interrogatorio. Il mercante, condotto, non senza stupore, da uno sgherro, al palazzo del governo, apparve recando in braccio Enrico e Leopoldo, i suoi due piccini, poiché Sternbald, il suo servo, era giunto presso di lui il giorno prima con i suoi cinque figli dal Meclemburgo, dove essi erano rimasti fino a quel momento, e vari pensieri, che sarebbe troppo lungo esporre, l'avevano indotto a prendere in braccio i due marmocchi, i quali, quando stava per uscire, l'avevano chiesto versando lacrime infantili, e a portarseli dietro all'interrogatorio.
Il principe, dopo aver osservato benevolmente i bambini, che Kohlhaas aveva fatto sedere accanto a sé, e avere chiesto con gentilezza quanti anni avevano e come si chiamavano, gli fece presenti gli abusi che il Nagelschmidt, già suo servo, stava commettendo nelle valli dei monti Metalliferi; e, porgendogli i sedicenti mandati di costui, lo esortò a esporre ciò che poteva dire a propria giustificazione. Il mercante, per quanto realmente atterrito da quei fogli svergognati e proditori, non ebbe tuttavia, di fronte a un uomo retto qual era il principe, molta pena a dimostrare in modo soddisfacente l'infondatezza delle accuse che gli venivano contestate. Non soltanto, egli fece osservare, per come stavano andando le cose egli non aveva alcun bisogno di aiuto da parte di un terzo per la decisione della sua causa, che procedeva nel migliore dei modi; ma da alcune lettere che aveva con sé, e che mostrò al principe, emergeva come del tutto inverosimile che il Nagelschmidt potesse avere in animo di prestargli un aiuto siffatto, poiché, poco prima dello scioglimento, a Lützen, della masnada, egli era sul punto di far impiccare quel ribaldo, a causa degli stupri e di altre violenze da lui commesse nelle campagne; tanto che solo la pubblicazione dell'amnistia concessa dal principe, eliminando tra loro ogni rapporto, lo aveva salvato, e il giorno dopo i due si erano separati come nemici mortali.
Kohlhaas, su sua proposta, che il principe accettò, si sedette, e redasse una missiva per il Nagelschmidt, nella quale dichiarava che la pretesa di costui di aver preso le armi per salvaguardare l'amnistia violata a lui e alla sua banda era un'infame e scellerata invenzione; gli diceva che al suo arrivo a Dresda egli non era stato arrestato, ne consegnato alle guardie, e che anche la sua causa procedeva in modo del tutto conforme ai suoi desideri; e, per gli incendi e le stragi da lui commesse nei monti Metalliferi dopo la pubblicazione dell'amnistia, lo abbandonava, ad ammonimento della masnada raccolta intorno a lui, al pieno rigore della legge. A ciò furono allegati alcuni estratti del procedimento criminale che il mercante di cavalli aveva istruito contro di lui nel castello di Lützen, a causa delle ribalderie di cui si è detto, affinché il popolo fosse istruito sul conto di quel buono a nulla, fin da allora destinato alla forca, che, come si è già detto, soltanto il procedimento di clemenza del principe aveva salvato. In seguito a ciò il principe tranquillizzò Kohlhaas a proposito del sospetto che, costretti dalle circostanze, avevano dovuto avanzare contro di lui nell'interrogatorio gli assicurò che, fintanto che egli fosse stato a Dresda, l'amnistia che gli era stata concessa non sarebbe stata in alcun modo violata, diede ancora una volta la mano ai bambini, donando loro della frutta che si trovava sulla tavola, salutò Kohlhaas e lo congedò.
Il Gran Cancelliere, che però scorgeva il pericolo che incombeva sul mercante di cavalli, fece l'impossibile per portarne a conclusione, prima che da nuovi avvenimenti venisse complicata e confusa, la causa; ma proprio questo era il desiderio e il fine dei cavalieri, i quali, da politici consumati, anziché limitare, come prima, con tacita ammissione della loro colpa, la loro opposizione al raggiungimento di una sentenza mite, cominciarono ora, con argomentazioni speciose e cavillose, a negare quella colpa del tutto. Ora davano a intendere che i morelli di Kohlhaas erano stati trattenuti al castello di Tronka in seguito a decisioni arbitrarie del castaldo e del fattore, delle quali il barone non aveva avuto alcuna conoscenza, oppure incompleta; ora assicuravano che, sin dal momento del loro arrivo nel castello, gli animali soffrivano già di una violenta e pericolosa tosse, appellandosi a testimoni che si impegnavano a citare al momento opportuno; e quando, dopo lunghe indagini e discussioni, questi loro argomenti vennero a cadere, essi esibirono addirittura un editto del principe Elettore, con il quale, dodici anni prima, a causa di un'epidemia del bestiame, era stata, in effetti, vietata l'importazione dei cavalli dal Brandeburgo in Sassonia: prova lampante che il barone non soltanto era autorizzato, ma era tenuto a trattenere i cavalli che Kohlhaas conduceva oltre confine.
Kohlhaas, che nel frattempo aveva ricomprato dall'onesto balivo di Pontekohlhaas, in cambio di un modesto risarcimento del danno da lui subito, la sua fattoria, desiderava, a quanto sembra allo scopo di perfezionare giuridicamente quel contratto, lasciare per qualche giorno Dresda, e recarsi nella sua patria; risoluzione nella quale tuttavia, non ne dubitiamo, ebbe parte, ancor più del suddetto negozio, per quanto urgente fosse, per la necessità di procedere alle semine invernali, l'intenzione di saggiare la sua posizione, in circostanze tanto singolari e preoccupanti: e alla quale contribuirono, forse, anche ragioni di altra specie, che preferiamo lasciar indovinare a chiunque sappia vedere nel proprio cuore. Si recò dunque, lasciando a casa la guardia che gli era stata assegnata, presso il Gran Cancelliere, e gli fece sapere, le lettere del balivo in mano, che era sua intenzione, nel caso che il tribunale non avesse, come sembrava, necessità della sua presenza, lasciare la città, e, per un periodo di otto o dodici giorni, trascorsi i quali prometteva di essere di ritorno, compiere un viaggio nel Brandeburgo. Il Gran Cancelliere, guardando a terra con il volto scontento e preoccupato, obiettò che, a dire il vero, la sua presenza era proprio allora più necessaria che mai, poiché il tribunale, a causa delle insidiose e tortuose eccezioni della controparte, aveva bisogno delle sue dichiarazioni e chiarificazioni in mille casi imprevedibili; ma poiché Kohlhaas diceva di rivolgersi al suo avvocato, perfettamente al corrente della causa, e ritornava con rispettosa insistenza, promettendo di limitarsi a otto giorni, sulla sua richiesta, il Gran Cancelliere, dopo una pausa, gli disse brevemente, congedandolo, di sperare che egli richiedesse, a tale scopo, il permesso scritto al principe Cristiano di Meissen.
Kohlhaas, che sapeva leggere in volto al Gran Cancelliere, si mise, più che mai confermato nella sua decisione, immediatamente a sedere, e pregò, senza addurre alcuna ragione, il principe di Meissen, in quanto capo del Governo, di concedergli un permesso di otto giorni per recarsi a Pontekohlhaas e fare ritorno. In risposta al suo scritto, egli ricevette una risoluzione governativa, firmata dall'intendente di Palazzo, barone Sigfrido di Wenk, che suonava così: "La sua richiesta di un permesso per recarsi a Pontekohlhaas sarebbe stata presentata a Sua Altezza il principe Elettore, e, non appena fosse pervenuto il suo alto consenso, il permesso gli sarebbe stato inviato".
Quando Kohlhaas si informò, presso il suo avvocato, come mai la risoluzione governativa fosse firmata da un certo barone Sigfrido di Wenk, anziché dal principe Cristiano di Meissen, al quale egli si era rivolto, ottenne questa risposta: il principe era partito, tre giorni prima, per i suoi possedimenti, e durante la sua assenza gli affari di Governo erano stati affidati all'intendente di Palazzo, il barone Sigfrido di Wenk, cugino del nobile, di cui si è detto sopra, che portava lo stesso nome.
Kohlhaas, al quale tutti questi contrattempi cominciavano a far battere il cuore con inquietudine, attese per parecchi giorni la decisione relativa alla sua richiesta, trasmessa alla persona del sovrano con singolare lentezza; ma una settimana trascorse, e trascorsero altri giorni, senza che la decisione giungesse, né il tribunale, per quanto gli fosse stato dato per sicuro, pronunciasse la sentenza: tanto che, il dodicesimo giorno, fermamente deciso a far venire alla luce le intenzioni del Governo nei suoi confronti, fossero quelle che fossero, Kohlhaas sedette e pregò di nuovo il governo di fargli avere, sottolineandone l'urgenza, il permesso che aveva richiesto.
Ma quale fu il suo turbamento, quando egli, la sera del giorno seguente, anch'esso trascorso senza che giungesse l'attesa risposta, mentre, immerso nei suoi pensieri, rifletteva alla sua situazione, e in particolare all'amnistia che gli aveva fatto ottenere il dottor Lutero, si accostò alla finestra dello stanzino che dava sul retro, e, nel piccolo fabbricato annesso che si trovava sul cortile, e che egli aveva riservato alla scorta, per sua dimora, non vide più la guardia che il principe di Meissen, al suo arrivo, gli aveva assegnato.
Tommaso, il vecchio custode, da lui chiamato, interrogato su che cosa ciò significasse, rispose sospirando: "Padrone! Non tutto va come dovrebbe; i lanzi, che oggi sono più numerosi del solito, al calar della notte si sono distribuiti tutto intorno alla casa; due stanno, con lancia e scudo, davanti alla porta esterna, che da sulla strada; due a quella interna, sul giardino; e altri due sono coricati nell'anticamera, su un fascio di paglia, e dicono che dormiranno lì".
Kohlhaas, che scolorì a quelle parole, si voltò, e rispose che era lo stesso, purché ci fossero; e lo pregò, quando scendeva al piano terra, di portare ai lanzi un lume, perché potessero vederci. Poi, dopo aver aperto, con il pretesto di vuotare un recipiente, le imposte di una finestra esterna, ed essersi persuaso che quanto il vecchio gli aveva detto rispondeva a verità, poiché proprio allora avveniva, senza alcun rumore, il cambio della guardia, misura alla quale, fino a quel momento, da quando essa era stata istituita, nessuno aveva pensato, andò, con poca voglia di dormire, a coricarsi, e la decisione per l'indomani fu subito presa. Nulla, infatti, rimproverava, al Governo con cui aveva a che fare, quanto l'apparenza della giustizia, nel momento in cui, di fatto, esso violava nei suoi confronti l'amnistia che gli era stata giurata; e se, in realtà, doveva essere prigioniero, come non v'erano ormai più dubbi, voleva almeno costringerlo a dichiarare in modo franco ed esplicito che era così .
Perciò, non appena sorse il mattino del giorno seguente, egli ordinò a Sternbald, il suo servo, di attaccare e condurre davanti a casa la carrozza, per recarsi, così disse, a Lockewitz dal fattore, il quale, suo vecchio conoscente, gli aveva parlato, a Dresda, alcuni giorni prima, invitandolo a fargli visita con i suoi bambini. I lanzi, che, tutti in crocchio, assistevano in casa a quei preparativi, mandarono di nascosto uno di loro in città; e in pochi minuti apparve un ufficiale del Governo, alla testa di numerosi armigeri, che, come se avesse qualche affare da sbrigavi, entrò nella casa di fronte. Kohlhaas, che, occupato a vestire i ragazzi, aveva però notato quei movimenti, e a bella posta aveva fatto sostare la carrozza davanti a casa più a lungo di quanto fosse necessario, non appena vide che i preparativi della polizia erano terminati, uscì con i bambini, senza curarsene, davanti a casa, passò davanti al crocchio dei lanzi, in piedi sotto il portone, dicendo loro che non occorreva che lo seguissero, mise i bambini nella carrozza, e baciò e consolò le bambine, che piangevano perché, secondo le sue disposizioni, dovevano restare presso la figlia del vecchio portiere.
Era appena salito anche lui nella carrozza, quando l'ufficiale del Governo, con il suo seguito di armigeri, uscì dalla casa di fronte, gli si accostò e gli chiese dove aveva intenzione di andare. Alla risposta di Kohlhaas che voleva recarsi a Lockewitz, da un amico, il balivo, che alcuni giorni prima l'aveva invitato a raggiungerlo in campagna, con i suoi due figli, l'ufficiale del Governo rispose che, in tal caso, egli doveva attendere qualche minuto, poiché alcuni lanzi a cavallo, secondo gli ordini del principe di Meissen, l'avrebbero accompagnato. Kohlhaas domandò sorridendo, sporgendosi dalla carrozza, se credeva che la sua persona, in casa di un amico che si era offerto di ospitarlo per un giorno alla sua mensa, sarebbe stata poco sicura. L'ufficiale rispose, con tono allegro e amabile, che non c'era, in effetti, gran pericolo; ma, aggiunse, i soldati, del resto, non l'avrebbero disturbato in alcun modo. Kohlhaas replicò, serio, che il principe di Meissen, al suo arrivo a Dresda, l'aveva lasciato libero di servirsi della scorta oppure no; e, poiché l'ufficiale si meravigliava di questa circostanza, e con prudenti giri di frase si richiamava all'abitudine, durata per tutto il tempo del suo soggiorno, il mercante di cavalli gli raccontò i fatti che erano stati all'origine dell'insediamento della scorta. L'ufficiale l'assicurò che gli ordini dell'intendente di Palazzo, barone di Wenk che era, al momento, a capo della polizia, lo obbligavano a proteggere ininterrottamente la sua persona; e lo pregò, se proprio non voleva accettare la scorta, di recarsi personalmente al palazzo del Governo, per rimediare all'errore che doveva essere sorto. Kohlhaas, lanciando all'ufficiale uno sguardo eloquente, disse, deciso a rompere o a spuntarla, che l'avrebbe fatto, scese con il cuore che gli batteva, dalla carrozza, fece condurre i bambini in anticamera dal portiere, e, mentre il servo restava fermo davanti alla porta con il veicolo, si recò, con l'ufficiale e la sua scorta, al palazzo del Governo.
Avvenne che l'intendente di Palazzo, barone di Wenk, fosse per l'appunto occupato a esaminare una banda di accoliti del Nagelschmidt, condotti laggiù la sera precedente, e che i furfanti, che erano stati catturati nella regione di Lipsia, venissero interrogati dai cavalieri, che erano là con lui, su un certo numero di particolari che essi avrebbero voluto sapere da loro, quando il mercante di cavalli, con i suoi accompagnatori, entrò nella sala. Il barone, non appena lo scorse, andò, mentre i cavalieri, di colpo, ammutolivano, interrompendo l'interrogatorio dei prigionieri, verso di lui, e gli domandò che cosa volesse; e, quando il mercante di cavalli gli ebbe esposto, con deferenza, il suo proposito di recarsi a colazione presso il fattore, a Lockewitz, e il desiderio di lasciare a casa i lanzi, dei quali non aveva bisogno, il barone, cambiando colore, rispose, mentre sembrava inghiottire un altro discorso, che avrebbe fatto bene a restarsene tranquillo a casa sua, e a rimandare, per il momento, il banchetto presso il balivo di Lockewitz. E con queste parole, troncando di netto il discorso, si volse verso l'ufficiale, e gli disse che, per quanto era degli ordini che gli aveva dato a proposito di quell'uomo, il problema era chiuso, e che egli non aveva il permesso di allontanarsi dalla città, se non sotto scorta di sei lanzi a cavallo. Kohlhaas domandò se fosse prigioniero, e se dovesse credere che l'amnistia, che gli era stata solennemente giurata, sotto gli occhi di tutto il mondo, fosse infranta; al che il barone si giro, fattosi, tutto a un tratto, di porpora, verso di lui, gli andò vicino, lo fissò negli occhi, e, dopo avergli risposto: "Sì! Sì! Sì", gli voltò la schiena e, piantandolo in asso, ritornò agli uomini del Nagelschmidt.
Kohlhaas, a quel punto, lasciò la sala; e, pur rendendosi conto di essersi resa molto più difficile, con i passi compiuti, l'unica via di salvezza che gli restasse, vale a dire la fuga, si compiacque, tuttavia, del suo operato, poiché anch'egli ormai si vedeva liberato, dalla sua parte, dall'obbligo di rispettare le clausole dell'amnistia. Fece, giunto a casa, staccare i cavalli, e, accompagnato dall'ufficiale del Governo, si recò, assai triste e scosso, nella sua stanza; e, mentre quest'uomo, con modi che ispiravano disgusto al mercante, assicurava che tutto doveva dipendere solo da un malinteso, che in breve tempo si sarebbe risolto, gli armigeri, a un suo cenno, sbarravano tutte le uscite dell'abitazione che davano sul cortile; ma l'ufficiale assicurò che l'ingresso principale, sul davanti, gli era aperto, come prima, a suo piacimento.
Intanto il Nagelschmidt, nei boschi dei monti Metalliferi, era a tal punto incalzato da ogni parte da armigeri e lanzi, che, totalmente privo com'era di mezzi per sostenere una parte come quella che si era assunta, ebbe l'idea di tirare davvero Kohlhaas dalla sua parte; e, poiché, per mezzo di un viandante che passava per quelle strade, era stato informato in modo abbastanza preciso di come si erano messe le cose a Dresda per la sua controversia, credette, a dispetto dell'aperta inimicizia che li divideva, di poter indurre il mercante di cavalli ad accettare una nuova alleanza con lui. Di conseguenza gli inviò un servo, con uno scritto redatto in un tedesco appena leggibile, di questo tenore: "Se voleva recarsi nell'Altenburgo, e prendere di nuovo la guida della banda che là, con i resti di quella sciolta, si era radunata, egli si offriva di dargli man forte, con cavalli, uomini e denaro, per sfuggire alla prigionia di Dresda; e gli prometteva di essere in futuro più obbediente, e in generale migliore e più disciplinato che in passato, e, per dimostrare il suo attaccamento e la sua fedeltà, si impegnava a venire in persona nella zona di Dresda, per disporre la sua liberazione dal carcere". Ora, l'uomo incaricato di portare la lettera ebbe la sfortuna di cadere, in un villaggio assai vicino a Dresda, in preda a gravi convulsioni, delle quali soffriva dalla giovinezza, e in quell'occasione la lettera, che teneva nel farsetto, fu trovata da persone che gli erano venute in aiuto; e perciò, non appena si fu ripreso, venne arrestato, e, sotto buona scorta, condotto, con grande accompagnamento di popolo, al palazzo del Governo.
Non appena l'intendente, barone di Wenk, ebbe letto la lettera, si recò senza indugio dal principe Elettore, a palazzo, dove trovò presenti i signori Enzo e Corrado, quest'ultimo ristabilito dalle sue ferite, e il presidente della Cancelleria di Stato, conte Kallheim. I nobili erano dell'opinione che Kohlhaas dovesse essere senz'altro arrestato, e processato per le sue intese segrete con il Nagelschmidt; poiché, argomentavano, una lettera simile non avrebbe potuto essere scritta, se non fosse stata preceduta da altre, anche da parte del mercante di cavalli, e, comunque, senza che fosse intercorsa tra loro una scellerata e criminale intesa, per tramare nuove atrocità. Il principe Elettore si rifiutò fermamente, sulla semplice base di quella lettera, di violare il salvacondotto che aveva concesso e giurato; ed era, anzi, dell'opinione che dalla lettera del Nagelschmidt emergesse, con una certa probabilità, che fra loro non era intercorsa alcuna precedente intesa; e tutto ciò a cui, per venire in chiaro della cosa, su proposta del presidente, e non senza molta esitazione, si decise, fu di far consegnare la lettera a Kohlhaas, per mezzo del servo inviato da Nagelschmidt, come se questo fosse ancora libero, per verificare se avrebbe risposto.
Di conseguenza il servo, che era stato gettato in prigione, il mattino seguente fu condotto al palazzo del Governo, dove l'intendente gli restituì la lettera, e gli ingiunse, con la promessa della libertà e del condono della pena che si era meritata, di consegnare lo scritto, come se nulla fosse accaduto, al mercante di cavalli; il furfante si lasciò utilizzare senza difficoltà per quello stratagemma di bassa lega, e, facendo mostra di grande segretezza, con il pretesto di vendergli dei gamberi, che l'ufficiale del Governo aveva comperato per lui al mercato, entrò nella camera di Kohlhaas.
Kohlhaas, che lesse la lettera mentre i bambini giocavano con i gamberi, in altre circostanze avrebbe certo afferrato il briccone per il colletto, per consegnarlo ai lanzi di guardia alla sua porta; ma, poiché la disposizione degli animi era tale che persin quel passo avrebbe potuto essere interpretato con indifferenza, ed egli si era pienamente convinto che niente al mondo avrebbe potuto salvarlo dal pasticcio in cui era irretito, con uno sguardo triste fissò bene in faccia quell'uomo, che gli era ben noto, gli domandò dove abitasse, e lo invitò a ritornare presso di sé in capo a qualche ora, che gli avrebbe fatto sapere le sue decisioni a proposito del suo padrone. Disse a Sternbald, che entrava per caso, di comprare un po' di gamberi dall'uomo che si trovava nella stanza, e, quando l'affare fu concluso, e i due si furono allontanati, senza riconoscersi, si sedette, e scrisse a Nagelschmidt una lettera del seguente tenore: "Prima di tutto, accettava la sua proposta, riguardo al supremo comando della sua banda dell'Altenburgo; e di conseguenza, per liberarlo dalla momentanea prigionia nella quale, con i suoi cinque figli, era tenuto, che gli mandasse una carrozza con due cavalli a Neustadt, presso Dresda; inoltre aveva bisogno, per proseguire più in fretta, di un altro tiro di due cavalli sulla strada per Vittemberga, poiché soltanto attraverso quella deviazione, per ragioni che sarebbe stato troppo lungo riportare, poteva raggiungerlo; i lanzi che lo sorvegliavano credeva bensì di poterli tirare dalla sua con la corruzione; ma, nel caso che fosse necessaria la forza, voleva esser certo che fossero presenti a Neustadt un paio di servi animosi, svegli e ben armati; per far fronte alle spese richieste da tutti questi preparativi gli inviava, attraverso il suo servo, un rotolo di venti corone d'oro, sull'impiego delle quali avrebbe fatto i conti con lui a cosa finita; e, per finire, gli vietava, poiché non era necessario, di venire personalmente a Dresda per liberarlo, e anzi gli impartiva l'ordine tassativo di restare nell'Altenburgo, a comandare temporaneamente la banda, che non poteva rimanere senza un capo".
Questa lettera consegnò al servo, quando egli, verso sera, fu di ritorno, lo ricompensò con larghezza, e gli raccomandò di custodirla con cura. La sua intenzione era di recarsi ad Amburgo con i suoi cinque figli, e imbarcarsi di là per il Levante, e le Indie Orientali, o dovunque il sole splendesse su genti diverse da quelle che conosceva: poiché all'idea di far ingrassare i morelli l'animo suo, prostrato dall'amarezza, anche indipendentemente dalla ripugnanza che sentiva a far causa comune con il Nagelschmidt, aveva rinunciato.
Non appena il furfante ebbe consegnato questa risposta all'intendente del Palazzo, il Gran Cancelliere fu destituito, il presidente della Cancelleria, conte Kallheim, fu nominato, al suo posto, capo del Tribunale, e Kohlhaas venne arrestato, su mandato del gabinetto del Principe, e condotto, gravato da pesanti catene, nella torre della città. Il processo fu istruito sulla base di quella lettera, che venne affissa a tutti gli angoli della città; e, poiché egli, davanti al Tribunale, alla domanda se ne riconoscesse la scrittura rispose "Sì!", al consigliere che l'interrogava, ma alla domanda se avesse qualcosa da dire a sua difesa rispose "No!", abbassando a terra lo sguardo, fu condannato a essere straziato dagli aguzzini con tenaglie roventi e squadrato, e il suo corpo a essere arso tra la ruota e la forca.
Così stavano le cose a Dresda per il povero Kohlhaas, quando si fece avanti, per salvarlo dalle mani della prepotenza e dell'arbitrio, il principe Elettore del Brandeburgo, e, in una nota fatta pervenire laggiù, presso la Cancelleria di Stato dell'Elettore, ne pretese la consegna, quale suddito brandeburghese. Infatti l'onesto prefetto, messer Enrico di Geusau, gli aveva riferito, durante una passeggiata lungo le rive della Sprea, la storia di quell'uomo singolare, ma non spregevole, e, in quella occasione, incalzato dalle domande del suo stupito sovrano non poté fare a meno di menzionare la colpa che, a causa delle scorrettezze del suo Cancelliere supremo, il conte Sigfrido di Kallheim, gravava sulla sua stessa persona: al che il principe Elettore, profondamente indignato, dopo aver chiamato il Gran Cancelliere a rendere conto, e aver constatato che la cagione di tutto era la sua parentela con il casato dei Tronka, sui due piedi, e con molti segni del suo disappunto, lo destituì, nominando Gran Cancelliere messer Enrico di Geusau.
Avvenne che proprio allora la corona di Polonia, la quale era venuta a contesa, non sappiamo a causa di quale oggetto, con la Casa di Sassonia, rivolgesse al principe Elettore del Brandeburgo ripetute e insistenti considerazioni, per indurlo a far causa comune con essa, contro la Casa di Sassonia; e, di conseguenza, il Gran Cancelliere, messer Enrico di Geusau, che sapeva destreggiarsi in simili affari, era sicuro di poter venire incontro al desiderio del suo sovrano di rendere giustizia a Kohlhaas, costasse quello che costasse, senza mettere in gioco la pace universale in modo più rischioso di quanto fosse consentito per proteggere un solo uomo. In quel frangente il Gran Cancelliere non soltanto pretese, a causa del procedimento del tutto arbitrario, spiacente a Dio e agli uomini, al quale era stato sottoposto, l'incondizionata e immediata consegna di Kohlhaas, perché, in caso che fosse gravato da colpe, fosse giudicato secondo le leggi del Brandeburgo, in base ai capi d'accusa che la corte di Dresda avrebbe potuto presentare a Berlino per mezzo di un avvocato; ma richiese persino il lasciapassare per un avvocato che il principe Elettore del Brandeburgo intendeva mandare a Dresda, per far valere i diritti di Kohlhaas contro il barone Venceslao di Tronka, a causa dei morelli che gli erano stati sottratti in territorio sassone, e degli altri maltrattamenti e violenze da lui subiti, che gridavano al cielo.
Il ciambellano, messer Corrado, che nell'avvicendarsi delle cariche pubbliche in Sassonia era stato nominato presidente della Cancelleria di Stato, e per varie ragioni, nella spinosa situazione in cui si trovava, non voleva offendere la corte di Berlino, rispose, a nome del suo signore, profondamente abbattuto dalla nota brandeburghese pervenuta, che "si era meravigliati della mancanza di cortesia e di equità con le quali si negava alla corte di Dresda il diritto di giudicare il Kohlhaas secondo le leggi, per i delitti che aveva commesso nel paese, dal momento che era universalmente noto che il Kohlhaas possedeva un vasto terreno nella capitale, e che nemmeno egli stesso aveva negato la sua qualità di cittadino sassone". Ma poiché la corona di Polonia, per sostenere le sue pretese con le armi, aveva già riunito ai confini della Sassonia un esercito di cinquemila uomini, e il Gran Cancelliere, messer Enrico di Geusau, dichiarò che "Pontekohlhaas, la località dalla quale il mercante di cavalli aveva preso nome, si trovava nel Brandeburgo, e l'esecuzione della sentenza di morte pronunciata contro di lui sarebbe stata considerata una violazione del diritto internazionale", il principe Elettore, dietro consiglio del ciambellano, messer Corrado in persona, che desiderava tirarsi fuori dalla faccenda, richiamò dai suoi possedimenti il principe Cristiano di Meissen, e decise, ascoltate poche parole di quell'uomo ragionevole, di consegnare Kohlhaas, conformemente alla richiesta, alla corte di Berlino.
Il principe, il quale, benché poco soddisfatto delle scorrettezze compiute, aveva dovuto sobbarcarsi la direzione dell'affare Kohlhaas per desiderio del suo angustiato sovrano, gli domandò su quali basi volesse ora accusare il mercante di cavalli davanti al tribunale camerale di Berlino; e poiché alla sua infausta lettera al Nagelschmidt non ci si poteva appellare, a causa delle circostanze ambigue e poco chiare nelle quali era stata scritta, mentre non si poteva neppure fare menzione dei saccheggi e degli incendi, per via del manifesto con il quale gli erano stati perdonati, il principe Elettore decise di presentare a Sua Maestà l'imperatore, a Vienna, un rapporto sull'aggressione armata portata da Kohlhaas contro la Sassonia, in cui si lagnava della rottura della pubblica pace da lui causata, e supplicava Sua Maestà, non vincolata da alcuna amnistia, di chiederne conto a Kohlhaas davanti al tribunale di corte di Berlino per mezzo di un accusatore imperiale. Otto giorni dopo, il cavalier Federico di Malzahn, che il principe Elettore del Brandeburgo aveva inviato a Dresda con sei armati a cavallo, caricava il mercante di cavalli, incatenato com'era, su una carrozza, per tradurlo, con i suoi cinque figli, che, dietro sua preghiera, erano stati mandati a prendere dagli orfanotrofi in cui si trovavano, a Berlino.
Ora, avvenne che il principe Elettore di Sassonia, su invito del Governatore, conte Alvise di Kallheim, che aveva allora vasti possedimenti lungo il confine della Sassonia, fosse partito per il villaggio di Dahme, in compagnia del ciambellano, messer Corrado, e della sua consorte, donna Eloisa, figlia del Governatore e sorella del presidente, senza parlare dello splendido seguito di nobili, dame, gentiluomini di caccia e dignitari di corte che li accompagnava, per una grande battuta di caccia al cervo organizzata per svagarlo; e che, mentre, al riparo di padiglioni imbandierati, eretti su una collina ai due lati della strada, tutta la compagnia, ancora coperta dalla polvere della caccia, sedeva a mensa al suono di una musica gioconda, che proveniva dal tronco di una quercia, servita da paggi e da fanciulli nobili, il mercante di cavalli avanzasse lentamente, con la sua scorta di uomini a cavallo, per la strada di Dresda. Infatti la malattia di uno dei figli piccoli di Kohlhaas, di salute cagionevole, aveva costretto il cavaliere di Malzahn, che lo accompagnava, a fermarsi a Herzberg per tre giorni; misura della quale egli, tenuto a risponderne soltanto al principe che serviva, non aveva ritenuto necessario informare il governo di Dresda.
Il principe Elettore, che sedeva, con il giustacuore slacciato e il cappello piumato adorno, alla moda dei cacciatori, di rametti d'abete, accanto a donna Eloisa, la quale, nella prima giovinezza di lui, era stata il suo primo amore, disse, lietamente disposto dal gaudio raffinato della festa: "Andiamo fin là, e porgiamo a quell'infelice, chiunque esso sia, questo calice di vino!". Donna Eloisa, lanciandogli uno sguardo affettuoso, si alzò immediatamente, e, saccheggiando la tavola imbandita, riempì un vassoio d'argento, che un paggio le aveva porto, di frutta, dolci e pane; e già tutta la compagnia, con rinfreschi d'ogni genere, era sciamata fuori dalla tenda, quando il Governatore le si fece incontro, con il viso imbarazzato, e la pregò di rimanere. Alla meravigliata domanda del principe Elettore su che cosa fosse avvenuto, da turbarlo a tal punto, il Governatore rispose balbettando, rivolto al ciambellano, che nella carrozza c'era Kohlhaas; a quella notizia, per tutti incomprensibile, essendo universalmente noto che questi era partito già da sei giorni, il ciambellano, messer Corrado, prese il suo calice di vino e, voltandosi indietro, verso la tenda, lo rovesciò per terra. Il principe Elettore, fattosi tutto rosso, posò il suo sopra un piatto che un paggio nobile, a un cenno del ciambellano, gli aveva teso a questo scopo; e, mentre il cavaliere Federico di Malzahn, salutando con deferenza la compagnia, che non conosceva, passava lentamente fra le due linee di padiglioni che correvano lungo la strada, e proseguiva per Dahme, i signori, su invito del Governatore, si ritirarono, senza più curarsene, nella tenda. Il Governatore, non appena il principe ebbe preso posto, inviò segretamente a Dahme dei messaggeri, affinché le autorità locali disponessero che il mercante di cavalli fosse fatto proseguire senza indugio; ma poiché il cavaliere, essendo il giorno ormai troppo inoltrato, dichiarò che intendeva assolutamente pernottare nel villaggio, ci si dovette limitare a condurlo senza rumore in una fattoria di proprietà del municipio, che sorgeva fuori mano, nascosta in una fitta macchia.
Ora, avvenne che, verso sera, quando i signori, distratti dal vino e dai cibi di una cena sontuosa, avevano ormai del tutto dimenticato l'incidente, il Governatore tirò fuori l'idea di rimettersi alla posta, per via di un branco di cervi che era stato avvistato; tutta la compagnia accolse con gioia la proposta, e, divisa in coppie, corse, dopo essersi munita di archibugi, per fossati e per siepi nella foresta vicina: tanto che il principe Elettore e donna Eloisa, che l'aveva preso a braccetto, per assistere allo spettacolo, furono condotti, da un domestico che era stato messo al loro servizio, proprio ad attraversare, con loro meraviglia, il cortile della casa in cui si trovava Kohlhaas, con i cavalieri brandeburghesi.
La dama, quando lo seppe, disse: "Venite, Vostra Grazia, venite!"; e, tenera e scherzosa, gli nascose nel gran colletto di seta la catena che gli pendeva dal collo: "Prima che arrivi tutta la brigata, entriamo di soppiatto nella fattoria, a vedere lo strano uomo che vi pernotta!".
Il principe le prese la mano arrossendo, e disse: "Eloisa! Che vi viene in mente?". Ma poiché lei, guardandolo confusa, aggiungeva che nessuno, nell'abito da cacciatore che portava, avrebbe potuto riconoscerlo, e lo trascinava con sé, e, proprio in quell'istante, un paio di gentiluomini della caccia, che avevano già soddisfatto la propria curiosità, uscivano dalla casa, assicurando che, grazie alle misure prese dal Governatore, né il cavaliere del Brandeburgo né il mercante di cavalli sapevano chi fossero i signori riuniti nella regione di Dahme, il principe Elettore, calandosi con un sorriso il cappello sugli occhi, disse: "Follia, tu governi il mondo, e il tuo seggio è una bella bocca di donna!".
Avvenne che Kohlhaas fosse per l'appunto seduto su un mucchio di paglia, con la schiena contro la parete, e nutrisse con pane bianco e latte il bambino che si era ammalato a Herzberg, quando i signori entrarono nella fattoria per fargli visita; e quando la dama, per attaccar discorso, gli domandò chi fosse, e che cosa avesse il bambino, e anche che cosa avesse commesso, e dove fosse condotto sotto quella scorta, egli si levò davanti a lei il berretto di cuoio e diede a tutte le sue domande, continuando nella sua occupazione, concise ma soddisfacenti risposte. Il principe Elettore, che stava in piedi dietro i gentiluomini di caccia, notando una piccola capsula di piombo appesa, con un filo di seta, al collo del mercante, gli domandò, poiché non si offriva nulla di meglio per fare conversazione, quale ne fosse il significato e che cosa contenesse.
"Già, la capsula, messere illustrissimo", rispose Kohlhaas, che se la tolse, sollevando il filo dietro la nuca, l'aperse, e ne trasse un bigliettino sigillato con una goccia di ceralacca. "La storia di questa capsula è davvero strana! Saranno sette mesi fa all'incirca, proprio il giorno dopo la sepoltura di mia moglie ero partito da Pontekohlhaas, come forse vi sarà noto, per agguantare il barone di Tronka, che mi aveva fatto un gran torto, quando, per certe trattative che non conosco, il principe Elettore di Sassonia e il principe Elettore di Brandeburgo si incontrarono a Jüterbock, una borgata con diritto di fiera, per la quale doveva passare la mia spedizione; e poiché, verso sera, si erano accordati secondo i loro desideri, si incamminarono, in amichevole colloquio, per le strade della cittadina, per dare un'occhiata alla fiera annuale, che proprio allora vi si svolgeva con allegra animazione. Incontrarono così una zingara, che, seduta su uno sgabello, prediceva, dal suo lunario, l'oroscopo al popolo che la circondava, e le domandarono, con fare scherzoso, se non aveva da rivelare anche a loro qualcosa di piacevole. Io, che ero smontato da poco, con il mio drappello, in una locanda, ed ero presente sulla piazza dove questi fatti avenivano, non potevo udire, dietro a tutto il popolo, sulla soglia di una chiesa, dove mi trovavo, che cosa diceva ai signori quella strana donna; e tuttavia, siccome gli astanti si sussurravano ridendo l'un l'altro che non a tutti lei faceva parte della sua scienza e, per godersi lo spettacolo che si preparava, spingevano e si accalcavano, io, non tanto, a dir vero, per curiosità, quanto per far posto ai curiosi, salii in piedi su un sedile scolpito, dietro di me, nella parete, a fianco del portale della chiesa. Da quel posto, dal quale la vista era interamente libera, avevo appena scorto i signori e la donna, che sedeva su uno sgabello davanti a loro e sembrava scarabocchiare qualcosa, quando lei, tutto a un tratto, si alza appoggiandosi sulle stampelle, gira lo sguardo attorno, fra il popolo, lo fissa su di me, che non avevo mai scambiato una parola con lei, né mai, in tutta la mia vita, avevo desiderato servirmi della sua scienza, si spinge, facendosi strada per la fitta calca, sino a me, e dice: "Ecco! Se il signore vorrà saperlo, venga poi a chiederlo a te!" E con queste parole, messere illustrissimo, mi porse, con le sue mani secche e ossute, questo biglietto. E poiché io, stupito, mentre tutto il popolo si volta verso di me, le dico: "Nonnina, che vuol dire questo onore?", lei risponde, dopo molte parole incomprensibili, fra le quali tuttavia, con mio grande stupore, sento il mio nome: "Un amuleto Kohlhaas, mercante di cavalli; custodiscilo bene, un giorno ti salverà la vita!" e sparisce.
"Ebbene", continuò Kohlhaas con tono bonario, "a dire la verità, a Dresda, per quanto le cose si fossero messe male, non ci ho rimesso la vita; come mi andrà a Berlino, e se me la caverò anche laggiù, lo dirà il futuro".
A queste parole il principe si sedette su una panca, e, per quanto, all'ansiosa domanda della dama, che gli chiedeva che cosa avesse, rispondesse: "Nulla! Nulla!", prima ancora che lei avesse avuto il tempo di accorrere e di riceverlo tra le braccia cadde al suolo privo di sensi. Il cavaliere di Malzahn, che proprio in quel momento entrava nella stanza per un'incombenza, esclamò: "Santo Iddio! Che cos'ha il signore?". La dama gridò: "Portate dell'acqua!". I gentiluomini di caccia lo sollevarono, e lo portarono su un letto che si trovava nella stanza vicina, e la costernazione giunse al colmo quando il ciambellano, che un paggio era corso a chiamare, dopo ripetuti, inutili sforzi per richiamarlo in vita, dichiarò che mostrava tutti i segni di chi ha avuto un colpo!
Il Governatore, mentre il coppiere mandava a Lückau un messaggero a cavallo, per far venire un medico, poiché il principe aveva aperto gli occhi, lo fece portare su una carrozza, e condurre, a passo d'uomo, al suo castello di caccia, che si trovava nelle vicinanze; ma quel viaggio gli cagionò, dopo il suo arrivo, due nuovi svenimenti: tanto che si riprese un poco solo nella tarda mattinata del giorno seguente, all'arrivo del medico da Lückau, seppure con gli evidenti sintomi che si stava avvicinando una febbre nervosa.
Appena ebbe ripreso i sensi, il principe si alzò a sedere sul letto, e la sua prima domanda fu subito dove fosse Kohlhaas. Il ciambellano, fraintendendo la sua domanda, disse, prendendogli la mano, che a proposito di quell'uomo orribile poteva tranquillizzarsi, poiché, dopo quello strano e incomprensibile incidente, egli era rimasto, secondo le sue disposizioni, nella fattoria presso Dahme, sotto la scorta dei Brandeburghesi. E, fra le assicurazioni della sua vivissima partecipazione, e le sue proteste di aver fatto a sua moglie i più aspri rimproveri, per la sconsiderata leggerezza di averlo fatto incontrare con quell'uomo, gli domandò che cosa di tanto strano ed enorme l'avesse colpito, nella conversazione con lui.
Il principe Elettore disse che doveva confessargli che la vista di un insignificante foglietto, che quell'uomo portava con sé, in una capsula di piombo, era tutta la cagione dello spiacevole incidente che gli era occorso. Per spiegare la circostanza, aggiunse molte cose che il ciambellano non comprese, e a un tratto, stringendoli la mano tra le sue, gli assicurò che per lui il possesso di quel biglietto era della massima importanza, e lo pregò di montare immediatamente in sella, di raggiungere Dahme e trattare con quell'uomo, qualunque ne fosse il prezzo, l'acquisto del biglietto.
Il ciambellano, che faticava a nascondere il proprio imbarazzo, l'assicurò che, se quel biglietto aveva per lui qualche valore nulla al mondo era più necessario che tacere a Kohlhaas questa circostanza: non appena egli, per una frase imprudente, ne fosse venuto a conoscenza, neppure tutte le ricchezze che il principe possedeva sarebbero bastate a riscattarlo dalle mani di quell'uomo truce, insaziabile nella sua brama di vendetta. E, per calmarlo, aggiunse che bisognava pensare a un altro mezzo, e che forse con l'astuzia, per mezzo di una terza persona, che agisse con la massima disinvoltura, sarebbe stato possibile, poiché, in sé e per sé, il ribaldo non avrebbe dovuto tenerci molto procurarsi il possesso del biglietto che gli stava tanto a cuore.
Il principe, asciugandosi il sudore, chiese se non si poteva mandare subito qualcuno a Dahme a questo scopo, e intanto sospendere provvisoriamente la prosecuzione del viaggio del mercante, finché non ci si fosse impadroniti, in qualunque modo, del foglio.
Il ciambellano, che non credeva alle sue orecchie, replicò che, purtroppo, in base ai calcoli più verosimili, il mercante di cavalli doveva ormai aver lasciato Dahme, e trovarsi oltre confine, in territorio brandeburghese, dove l'impresa di impedire il suo proseguimento, o addirittura di farlo tornare indietro, avrebbe incontrato difficoltà spiacevolissimi di ogni genere, e forse addirittura insormontabili. E, poiché il principe, in silenzio, aveva ripagata la testa sul cuscino, con l'espressione di chi ha perso ogni speranza, gli domandò che cosa contenesse il biglietto, e per quale caso sorprendente e inspiegabile gli fosse noto che il suo contenuto lo riguardava.
Ma a queste parole il principe guardò ambiguamente il ciambellano, della cui compiacenza, in quel caso, non si fidava, e non rispose; giaceva irrigidito, con il cuore che batteva con inquietudine, fissando l'orlo inferiore del fazzoletto che teneva, pensieroso, fra le mani; e, improvvisamente, lo pregò di chiamare nella stanza il barone di Stein, gentiluomo di caccia, un nobile giovane, abile e gagliardo, del quale si era già più volte servito per affari segreti, con il pretesto che doveva sbrigare con lui un altro negozio.
Quando ebbe ragguagliato il gentiluomo sulla faccenda, e gli ebbe rivelata l'importanza del biglietto del quale Kohlhaas era in possesso, il principe gli chiese se voleva acquistarsi eterno diritto alla sua amicizia, procurandogli il biglietto prima che Kohlhaas giungesse a Berlino; e poiché il barone, non appena si fu fatto un'idea approssimativa della situazione, per strana che fosse, l'assicurò di essere pronto a servirlo con tutte le sue forze, il principe gli commise l'incarico di raggiungere Kohlhaas a spron battuto e, poiché egli, probabilmente, non si sarebbe lasciato convincere con il denaro, di offrirgli in cambio, in un abboccamento abilmente condotto, la libertà e la vita, e persino, se egli l'avesse preteso, di aiutarlo sui due piedi, per quanto con cautela, con cavalli, uomini e denaro, a evadere dalla custodia dei soldati brandeburghesi che lo scortavano.
Il gentiluomo, fattosi rilasciare dal principe un foglio di suo pugno, che attestasse la sua missione, partì immediatamente, con alcuni servi, e, non risparmiando le forze dei cavalli, ebbe la fortuna di raggiungere, in un villaggio di confine, Kohlhaas che, insieme al cavaliere di Malzahn e ai suoi cinque figli, stava consumando all'aperto, davanti alla porta di una casa, il pasto di mezzogiorno. Il cavaliere di Malzahn, al quale il barone si era presentato come un forestiero che, passando di lì nel suo viaggio, desiderava vedere coi propri occhi lo strano uomo che egli portava con sé, pieno di premura gli fece subito prendere posto a tavola, presentandogli Kohlhaas; e poiché il cavaliere, occupato nei preparativi della partenza, andava e veniva, e i soldati pranzavano a un tavolo che si trovava sull'altro lato della casa, ben presto al barone si offerse l'opportunità di rivelare al mercante di cavalli chi egli fosse, e con quale preciso incarico fosse venuto a cercarlo.
Il mercante di cavalli, che era già a conoscenza del rango e del nome di colui che, nella fattoria presso Dahme, era caduto in deliquio alla vista della capsula, e che, per coronare l'ebrezza che quella scoperta gli aveva infuso, non avrebbe avuto bisogno d'altro, se non di prendere visione dei segreti del biglietto, che egli, per molte ragioni, era deciso a non aprire per mera curiosità; il mercante di cavalli, dunque, memore del trattamento tutt'altro che magnanimo e degno di un principe che a Dresda aveva dovuto subire, malgrado la sua piena disponibilità ad accettare ogni possibile sacrificio, disse che "intendeva tenersi il biglietto".
E, quando il gentiluomo gli domandò da che cosa fosse indotto a un così strano rifiuto, quando gli si offriva, in cambio, nulla meno che la libertà e la vita, Kohlhaas rispose:
"Nobile signore! Se venisse qui il vostro sovrano, e dicesse: "Io mi voglio annientare, insieme a tutti coloro che mi aiutano a reggere lo scettro", annientare, capite, che è appunto il più gran desiderio che agiti l'anima mia, ebbene, anche allora questo foglietto, che per lui vale più della vita, io glielo rifiuterei, e direi: "Tu puoi mandarmi al patibolo, ma io posso farti soffrire, e lo farò!"".
E, con la morte sul viso, chiamò un soldato, invitandolo a servirsi di un buon boccone che era rimasto nella zuppiera; per tutto il resto del tempo che passò nel villaggio fu, per il barone seduto alla sua mensa, come se non ci fosse; soltanto quando salì in carrozza si volse di nuovo, con uno sguardo di saluto e di congedo, verso di lui.
La salute del principe Elettore, quando ricevette quella notizia, peggiorò a tal punto che, per tre fatali giornate, il medico nutrì i più gravi timori per la sua vita, attaccata nello stesso tempo da tante parti. Tuttavia, grazie alla forza della sua costituzione naturalmente sana, dopo alcune settimane di letto e di dolorosa malattia egli si ristabilì, almeno fino al punto che lo si poté mettere su una carrozza, e, ben provvisto di cuscini e coperte, riportare a Dresda e alle sue cure di governo. Non appena fu giunto in quella città, egli mandò a chiamare il principe Cristiano di Meissen, e gli domandò a che punto fosse la missione del consigliere di giustizia Eibenmayer, che si aveva intenzione di mandare a Vienna come avvocato per l'affare Kohlhaas, affinché presentasse laggiù, davanti a Sua Maestà l'imperatore, l'accusa per la rottura della pace dell'Impero.
Il principe Cristiano rispose che il consigliere, secondo gli ordini che il sovrano stesso aveva lasciato, al momento della partenza per Dahme, subito dopo l'arrivo del giurisperito Zäuner, che il principe Elettore del Brandeburgo aveva inviato a Dresda come avvocato, per portare in giudizio la sua accusa contro il barone Venceslao di Tronka a proposito dei morelli, era partito per Vienna.
Il principe Elettore si fece rosso e, accanendosi alla sua scrivania, espresse stupore per tanta fretta, poiché, a quanto ricordava, egli aveva dichiarato che si riservava di disporre con un ulteriore e più preciso ordine la partenza definitiva dell'Eibenmayer, poiché prima era necessario avere un colloquio con il dottor Lutero, che aveva fatto ottenere a Kohlhaas l'amnistia. E, nel dir questo, scompigliò, con un'espressione di malumore represso, alcuni atti e incartamenti che si trovavano sulla scrivania.
Il principe Cristiano, dopo una pausa, durante la quale l'aveva guardato con tanto d'occhi, rispose che gli dispiaceva di non averlo soddisfatto in quella incombenza; ma poteva mostrargli la delibera del Consiglio di Stato che gli faceva obbligo di far partire l'avvocato per la data suddetta. Egli aggiunse che in Consiglio di Stato non si era parlato affatto di un colloquio con il dottor Lutero; e che in precedenza, forse, avrebbe potuto essere opportuno tenere in conto l'opinione di quel religioso, per via del suo intervento a favore di Kohlhaas, ma ora non più, dopo che a lui, sotto gli occhi di tutto il mondo, era stata violata l'amnistia, ed egli era stato arrestato e consegnato ai tribunali del Brandeburgo per essere condannato e messo a morte.
Il principe Elettore disse che, in effetti, l'errore di aver fatto partire l'Eibenmayer non era grave; desiderava, tuttavia, che per il momento, fino a nuovo ordine, egli non desse esecuzione, a Vienna, al suo mandato di accusatore, e pregò il principe di fargli avere immediatamente, per mezzo di un corriere veloce, le necessarie istruzioni a questo proposito.
Il principe rispose che, purtroppo, questo ordine arrivava con un giorno di ritardo, poiché, secondo una relazione ricevuta quel giorno stesso, l'Eibenmayer aveva già presentato le sue credenziali, e aveva già sporto l'accusa presso la Cancelleria di Stato di Vienna. E aggiunse, rispondendo al principe Elettore, che domandava, costernato, come tutto ciò fosse stato possibile in un tempo così breve, che dalla partenza di quell'uomo erano già trascorse tre settimane, e che le istruzioni da lui ricevute gli facevano obbligo di dare avvio alla pratica senza indugio, non appena arrivato a Vienna. Tirare in lungo, osservò il principe, sarebbe stato in questo caso quanto mai inopportuno, tanto più che Zäuner, l'avvocato del Brandeburgo, procedeva con la più ostinata energia contro il barone Venceslao di Tronka: egli aveva già chiesto alla Corte di giustizia il ritiro provvisorio dei morelli dalle mani dello scortichino, perché potessero essere, in seguito, ristabiliti, e, a dispetto di tutte le obiezioni sollevate dalla controparte, era riuscito a ottenerlo.
Il principe Elettore, suonando il campanello, disse: "Fa lo stesso; poco importa!", e, dopo aver rivolto al principe alcune domande indifferenti, "Come andavano, per il resto, le cose a Dresda? Che cosa era avvenuto durante la sua assenza?", lo salutò, incapace di nascondere il suo stato d'animo, con la mano, e lo congedò.
Il giorno stesso gli richiese, per iscritto, con il pretesto che, data la sua importanza politica, voleva lavorare egli stesso alla cosa, tutti gli atti riguardanti Kohlhaas; e, poiché il pensiero di causare la morte dell'unico uomo dal quale avrebbe potuto ottenere ragguagli sui segreti del foglietto era per lui intollerabile, scrisse di suo pugno una lettera all'imperatore, nella quale lo pregava, con calore e con insistenza, per gravi ragioni, che forse entro breve tempo gli avrebbe spiegato in modo più preciso, di poter ritirare per il momento, fino a nuova decisione, l'accusa che l'Eibenmayer aveva presentato contro Kohlhaas.
L'imperatore, in una nota redatta dalla Cancelleria di Stato, gli rispose che "il cambiamento che sembrava essersi prodotto nel suo animo lo stupiva al massimo grado; la relazione a lui inviata da parte sassone aveva fatto della vicenda di Kohlhaas una questione che riguardava tutto il Sacro Romano Impero; e di conseguenza egli, l'imperatore, come suo reggitore supremo, si era visto obbligato a farsi avanti come accusatore presso la casa di Brandeburgo; tanto che, dal momento che l'assessore di corte Francesco Müller si era già recato a Berlino, in qualità di avvocato, per chiedere conto a Kohlhaas della sua violazione della pubblica pace, l'accusa non poteva più in alcun modo essere ritirata, e la vicenda doveva seguire il suo corso, secondo le leggi".
Da questa lettera l'Elettore fu del tutto prostrato; e poiché, a suo estremo sconforto, poco tempo dopo giunsero da Berlino rapporti riservati, nei quali si comunicava l'apertura del procedimento davanti alla Corte camerale, e si notava che, probabilmente, Kohlhaas, a dispetto di tutti gli sforzi dell'avvocato che gli era stato messo a disposizione, sarebbe finito sul patibolo, l'infelice sovrano decise di compiere ancora un tentativo, e pregò il principe Elettore del Brandeburgo, in una missiva redatta di suo pugno, di concedergli la vita del mercante di cavalli. Egli adduceva il pretesto che l'amnistia giurata a quell'uomo non consentiva contro di lui l'esecuzione legittima di una sentenza di morte; gli dava assicurazione che, malgrado l'apparente severità con la quale si era proceduto contro di lui, mai era stata sua intenzione di farlo morire; e gli spiegava, infine, che non avrebbe mai potuto perdonarsi, se la protezione che avevano promesso di fargli ottenere da parte di Berlino si fosse in conclusione risolta, per un cambiamento inaspettato, in uno svantaggio maggiore, per lui, di quel che gli sarebbe toccato se fosse rimasto a Dresda, e la causa fosse stata decisa secondo le leggi della Sassonia.
Il principe Elettore del Brandeburgo, al quale molti punti di questa lettera erano parsi ambigui e poco chiari, gli rispose che "l'energia con cui procedeva l'avvocato di Sua Maestà imperiale non consentiva in alcun modo di derogare, secondo il desiderio da lui esposto, dalla rigida applicazione della legge. Egli osservava che le preoccupazioni di cui veniva messo a parte andavano, in realtà, oltre il segno, poiché l'accusa per i delitti perdonati a Kohlhaas con l'amnistia era stata presentata alla Corte camerale di Berlino non già da lui, che aveva concesso l'amnistia al mercante, bensì dal reggitore supremo dell'Impero, che da essa non era legato in alcun modo. Inoltre gli faceva presente quanto fosse necessario, mentre perduravano le violenze del Nagelschmidt che, con inaudita impudenza, si spingevano fin sulle terre del Brandeburgo, dare un esempio che agisse come deterrente, e lo pregava, se non avesse voluto tener conto di tutto ciò, di rivolgersi direttamente a Sua Maestà l'imperatore, poiché, se un atto d'imperio doveva intervenire a favore di Kohlhaas, non sarebbe potuto giungere altrimenti che attraverso una dichiarazione da quella parte".
L'Elettore, per il dolore e la rabbia di tutti questi tentativi andati a vuoto, cadde nuovamente ammalato; e, una mattina che il ciambellano era venuto a trovarlo, gli mostrò le lettere che, per prolungare la vita di Kohlhaas e così per lo meno guadagnare tempo, per impadronirsi del foglietto che possedeva, aveva inviato alle Corti di Vienna e di Berlino. Il ciambellano si mise in ginocchio davanti a lui e lo scongiurò, per tutto ciò che aveva di sacro e di caro, di dirgli che cosa era scritto nel foglietto. L'Elettore gli disse di chiudere a chiave la stanza e di sedersi sul letto; e, dopo avergli preso la mano, ed essersela premuta sul cuore con un sospiro, cominciò nel modo che segue: "Tua moglie, ho inteso dire, ti ha già raccontato che l'Elettore del Brandeburgo e io, al terzo giorno del convegno da noi tenuto a Jüterbock, incontrammo una zingara; e poiché l'Elettore, vivace com'é di natura, aveva deciso di distruggere con uno scherzo, in presenza di tutto il popolo, la fama di quell'avventuriera, della cui arte poco prima, a mensa, si era parlato in modo sconveniente, egli si avvicinò al suo tavolino, a braccia conserte, e le chiese, a proposito della predizione che gli avrebbe fatto, un segno che si potesse verificare quel giorno stesso, avvertendola che, altrimenti, non avrebbe potuto credere alle sue parole, fosse stata pure la Sibilla romana in persona. La donna, misurandosi con un'occhiata da capo a piedi, disse che il segno sarebbe stato che il capriolo dalle grandi corna che il figlio del giardiniere allevava nel parco ci sarebbe venuto incontro sulla piazza della fiera, sulla quale ci trovavamo, prima che la lasciassimo. Ora, devi sapere che quel capriolo, destinato alla cucina della corte di Dresda, era custodito, con tanto di lucchetto e di catenaccio, in un recinto, ombreggiato dalle querce del parco, chiuso da un'alta palizzata, tanto che, siccome, per di più, l'intero parco e, al di là di esso, il giardino che vi conduceva, erano tenuti accuratamente chiusi, per via della selvaggina più piccola e dei polli che vi si trovavano, non si riusciva proprio a vedere come l'animale potesse, secondo la strana predizione, venirci incontro fin sulla piazza dove stavamo; e tuttavia l'Elettore, preoccupato che, dietro ciò, potesse celarsi una mariuoleria, dopo aver brevemente parlato con me e ben deciso, per via dello scherzo, a rovinare in modo irrimediabile tutto ciò che quella donna potesse dire, inviò a palazzo l'ordine di uccidere immediatamente il capriolo, e di prepararlo per il banchetto uno dei giorni seguenti. Poi si volse di nuovo verso la donna, di fronte alla quale tutto ciò era stato discusso ad alta voce, e le disse: "Su, avanti! Che cosa hai da rivelarmi per l'avvenire?". La donna, guardandoli la mano, disse: "Salve, mio principe Elettore e sovrano! La tua benevolenza governerà a lungo, la casa dalla quale provieni durerà ancora a lungo, i tuoi discendenti saranno grandi e splendidi, e il loro potere supererà quello di tutti gli altri principi e signori del mondo!". Il principe, dopo una pausa, durante la quale osservò la donna pensieroso, disse a mezza voce, facendo un passo verso di me, che adesso quasi gli dispiaceva aver mandato un messo per ridurre a nulla la profezia; e, mentre dalle mani dei cavalieri che lo seguivano il denaro pioveva a mucchi, fra gran grida di giubilo, in grembo alla donna, egli le domandò, infilandovi una mano in tasca, e deponendo anch'egli una moneta d'oro, se l'augurio che aveva da fare a me avesse un suono argentino come il suo. La donna, dopo aver aperto una cassetta che aveva a lato, avervi ordinato lentamente e meticolosamente il denaro diviso per specie e quantità, e aver richiuso la cassetta, si protesse dal sole con la mano, come se le desse noia, e mi guardò; e quando io le ripetei la domanda, e dissi, con fare scherzoso, al principe Elettore, mentre mi esaminava la mano: "A me, a quanto sembra, non ha proprio niente di piacevole da predire", lei diede di piglio alle grucce, si tirò, lentamente, su dal suo sgabello e, con le mani protese in un gesto pieno di mistero mi si fece vicina fino a toccarmi e mi sussurrò distintamente all'orecchio: "No!". "Ah!", dissi io, turbato, e feci un passo indietro da quella figura, che, con uno sguardo freddo e senza vita, come se avesse avuto occhi di marmo, tornò a sedersi sullo sgabello che stava dietro di lei: "Da quale parte il pericolo minaccia la mia casa?". La donna, prendendo in mano un carboncino e un foglio, e accavallando le ginocchia, domandò se doveva scrivermelo; e quando io, realmente impacciato, rispondo, semplicemente perché, in una situazione come quella, non mi restava altro da fare: "Sì, fallo!", lei aggiunse: "Va bene! Tre cose ti scriverò: il nome dell'ultimo regnante della tua casa, l'anno in cui perderà il regno, e il nome di colui che se lo conquisterà con la forza delle armi". Compiùto questo, davanti agli occhi di tutto il popolo, si solleva, sigilla il foglietto con ceralacca, inumidita nella sua bocca vizza, e vi imprime un sigillo di piombo, che porta al dito medio come anello. E quando io, curioso, come puoi facilmente immaginare, più di quanto le parole possano dire, faccio per prendere il biglietto, lei dice: "Niente affatto, Altezza!", si volta, e leva in alto una delle sue stampelle: "Da quell'uomo laggiù, quello con il cappello piumato, che sta in piedi sul sedile, dietro tutto il popolo, sulla soglia della chiesa, andrai a prendere il foglio, se lo vorrai!". E con cio, prima ancora che io abbia ben capito che cosa sta dicendo, mi pianta in asso sulla piazza, senza parole per lo stupore; e, chiusa con un colpo la cassetta che stava alle sue spalle, se la getta sulla schiena e si confonde, senza che io possa più scorgere quello che sta facendo, nel mucchio della folla che ci circonda. Proprio in quel momento, con mia grandissima consolazione, devo dire, si fece avanti il cavaliere che l'Elettore aveva inviato a palazzo, e gli comunicò, con la bocca atteggiata a un sorriso, che il capriolo era stato ucciso, e che due cacciatori, sotto i suoi occhi, l'avevano trasportato in cucina. L'Elettore, prendendomi allegramente sotto braccio, con l'intenzione di condurmi via dalla piazza, disse: "Insomma, la profezia non era altro che una delle solite fanfaronate, che non valeva il tempo e il denaro che c'é costata!" Ma quale fu il nostro stupore quando, mentre ancora pronunciava queste parole, si levò un vociare tutto intorno per la piazza, e tutti gli occhi si volsero a un grosso cane da macellaio, che si avvicinava dal cortile del palazzo, dove aveva afferrato in cucina il capriolo, come una buona preda, e, inseguito dai servi e dalle fantesche, lasciò cadere al suolo la bestia a tre passi da noi: così che davvero la profezia della donna, a garanzia di tutto ciò che aveva annunciato, si era adempiuta, e il capriolo, sia pure già morto, ci era venuto incontro sulla piazza della fiera. Il fulmine che in un giorno d'inverno cade dal cielo non può colpire in modo più devastante di quanto mi colpì quella vista, e la mia prima preoccupazione, non appena mi fui liberato della compagnia in cui mi trovavo, fu rintracciare subito l'uomo con il cappello piumato che la donna mi aveva indicato; ma nessuno dei miei uomini, mandati ininterrottamente per tre giorni a cercare informazioni, fu in grado di darsene notizia, neppure nel modo più vago: e ora, Corrado, amico mio, poche settimane fa, nella fattoria vicino a Dahme, ho visto quell'uomo con i miei occhi".
Con queste parole, lasciò andare la mano del ciambellano e, asciugandosi il sudore, ricadde sul suo giaciglio. Il ciambellano, ritenendo fatica sprecata contrapporre la sua opinione di quell'evento a quella che ne aveva il principe Elettore, per rettificarla, lo pregò di tentare un mezzo qualunque per venire in possesso del foglio, e poi di abbandonare quell'uomo al suo destino; ma il principe rispose di non vederne il mezzo in alcun modo, anche se il pensiero di doverci rinunciare, o addirittura di veder perire con quell'uomo ogni possibilità di conoscere il segreto, lo riduceva sull'orlo dello strazio e della disperazione. Alla domanda dell'amico se avesse fatto il tentativo di rintracciare la zingara in persona, il principe rispose che la polizia, in forza di un ordine che egli aveva emanato, con un falso pretesto, fino a ieri l'aveva ricercata invano in tutti gli angoli del principato: tanto che, per ragioni che, tuttavia, rifiuto di esporre nei particolari, egli dubitava persino che fosse rintracciabile in Sassonia.
Ora, avveniva che il ciambellano, per via di numerosi ed estesi possedimenti che sua moglie aveva ereditato, nella Marca Nuova, dal conte Kallheim, il Gran Cancelliere deposto, e poco tempo dopo venuto a morte, volesse appunto recarsi a Berlino; tanto che, poiché voleva dare bene al principe Elettore, dopo una breve riflessione gli domandò se voleva lasciargli mano libera in quella faccenda; e poiché il principe, premendosi con calore la sua mano sul petto, gli rispondeva: "Fa' conto di essere me stesso, e procurarmi il foglio!", il ciambellano, sbrigati i suoi affari, affrettò di qualche giorno la sua partenza e si recò, lasciando a casa la moglie, accompagnato soltanto da alcuni servi, a Berlino.
Kohlhaas, il quale nel frattempo, come si è detto, era giunto a Berlino e, per un ordine particolare del principe Elettore, era stato condotto in un carcere destinato ai nobili, che lo ricevette, insieme ai suoi cinque figli, con quanta maggior comodità era possibile, subito dopo la comparsa del procuratore imperiale da Vienna era stato chiamato a rendere conto, davanti al tribunale camerale, per il turbamento della pace pubblica, tutelata dall'imperatore, da lui causato nel paese; e, benché egli, nella sua difesa, obbiettasse che non lo si poteva processare per la sua incursione armata in Sassonia, né per le violenze allora commesse, in forza del compromesso da lui stipulato a Lützen con il principe Elettore di Sassonia, si sentì rispondere, per suo insegnamento, che Sua Maesta l'imperatore, il cui procuratore sosteneva l'accusa nel processo, non poteva tenerne conto: e ben presto, poiché la cosa gli fu spiegata in dettaglio, e gli fu dichiarato che, in compenso, avrebbe ottenuto piena soddisfazione, da parte di Dresda, nella sua causa contro il barone Venceslao di Tronka, si mise l'anima in pace. Di conseguenza, avvenne che proprio il giorno dell'arrivo del ciambellano fu pronunciata la sentenza, ed egli fu condannato a perire di spada: un verdetto alla cui esecuzione però, in una situazione così intricata, indipendentemente dalla sua mitezza, nessuno credeva, e che anzi l'intera città, data la benevolenza che il principe Elettore nutriva per Kohlhaas, sperava di veder tramutata senza fallo, per un suo atto d'imperio, in una semplice pena detentiva, magari lunga e penosa.
Il ciambellano, il quale tuttavia comprendeva che non c'era tempo da perdere, se l'incarico che il suo sovrano gli aveva affidato doveva andare a buon fine, cominciò a mettere in atto il suo piano mostrandosi a Kohlhaas, un mattino in cui questi stava in piedi, alla finestra della prigione, e osservava distrattamente i passanti, nel suo solito vestito di corte, a lungo e con intenzione; e quando, da un movimento improvviso del capo, concluse che il mercante di cavalli l'aveva notato, e, soprattutto, quando scorse, con grande soddisfazione, che egli aveva portato involontariamente la mano al petto, dove teneva la capsula, ritenne che ciò che in quel momento era avvenuto nel suo animo fosse una preparazione sufficiente per consentirgli di compiere il passo successivo, nel tentativo di impadronirsi del foglietto.
Mandò a chiamare una vecchia rigattiera, che andava in giro con le stampelle, e che egli aveva notato, per le strade di Berlino, in mezzo a un crocchio di altri straccivendoli; poiché, per l'età e per l'abito, gli sembrava corrispondere abbastanza bene a quella che il principe gli aveva descritto, supponendo che Kohlhaas non avesse potuto imprimersi profondamente nella memoria i tratti di quella che, in una fugace apparizione, gli aveva consegnato il foglietto, decise di sostituirlo con la donna da lui scelta, e di farle recitare presso Kohlhaas, se ci riusciva, la parte della zingara. Quindi, per metterla in condizione di farlo, la istruì dettagliatamente su tutto ciò che a Jüterbock era avvenuto fra il principe e la suddetta zingara, e, non sapendo fin dove si fosse spinta la zingara nelle sue rivelazioni a Kohlhaas, non dimenticò di insistere particolarmente sui tre misteriosi punti scritti sul foglio; e, dopo averle spiegato ciò che avrebbe dovuto lasciarsi sfuggire, con allusioni monche e scarsamente comprensibili, a proposito di certe misure che erano state prese per impadronirsi, con l'astuzia o con la forza, del biglietto, che era di estrema importanza per la corte di Sassonia, le affidò l'incarico di farsi consegnare da Kohlhaas il foglio, con il pretesto che presso di lui non era più sicuro, per custodirlo durante alcuni giorni gravidi di pericoli. La rigattiera accettò subito, dietro promessa di una lauta ricompensa, della quale il ciambellano, su richiesta di lei, dovette pagare in anticipo una parte, di eseguire l'incarico; e, poiché la madre del servo Ersiano, caduto presso Mühlberg, andava di tanto in tanto a trovare Kohlhaas, con il permesso del Governo, e già da qualche mese conosceva quella donna, la zingara riuscì, uno dei giorni seguenti, con un piccolo obolo al capo carceriere, a ottenere accesso al mercante di cavalli.
Ma Kohlhaas, quando la donna entrò, credette, dall'anello con il sigillo che portava al dito, e dalla collana di corallo che aveva sul petto, di riconoscere in lei proprio la vecchia zingara che gli era già nota, e che a Jüterbock gli aveva consegnato il foglio; e poiché non sempre la verosimiglianza sta dalla parte della verità, caso volle che fosse appunto avvenuto un fatto che noi, bensì, riferiamo, pur essendo costretti a lasciare, a chiunque preferisca, il diritto di dubitarne: il ciambellano aveva compiuto il più clamoroso dei passi falsi e, con la vecchia rigattiera che si era procurato per le strade di Berlino, perché facesse finta di essere la zingara, si era imbattuto proprio nella misteriosa zingara che voleva far imitare da lei. Per lo meno la donna, mentre, appoggiandosi sulle stampelle, accarezzava le guance dei bambini, i quali, colpiti dal suo strano aspetto, si stringevano al padre, riferì che già da diverso tempo era ritornata dalla Sassonia nel Brandeburgo, e che, a una domanda imprudentemente arrischiata dal ciambellano, per le strade di Berlino, a proposito della zingara che, nella primavera dell'anno precedente, era stata a Jüterbock, gli si era subito avvicinata e, sotto falso nome, si era offerta di assolvere all'incarico che egli intendeva affidare.
Il mercante di cavalli, che notò una strana somiglianza fra lei e la sua defunta moglie Lisabetta, tanto che avrebbe potuto domandarle se non fosse la nonna di lei, poiché non soltanto i tratti del suo viso, e le mani, che, per quanto ossute, erano ancora belle, e soprattutto il suo modo di muoverle mentre parlava, gliela ricordavano nel modo più vivo, ma egli notò perfino sul collo di lei un neo simile a quello di sua moglie, il mercante di cavalli, dunque, la pregò, mentre in lui si incrociavano strani pensieri, di mettersi a sedere, e le domandò che cosa mai la conducesse da lui, per affari del ciambellano. La donna, mentre il vecchio cane di Kohlhaas le annusava le ginocchia, e scodinzolava alle carezze della sua mano, rispose che l'incarico che il ciambellano le aveva affidato era quello di svelargli quale fosse la misteriosa risposta contenuta nel foglietto alle tre domande importanti per la corte di Sassonia; doveva mettere in guardia lui, Kohlhaas, da un inviato, che si trovava a Berlino per impossessarsene, e pertanto chiedergli la consegna del foglio, con il pretesto che al suo collo, dov'egli lo portava, non era più sicuro. Ma l'intenzione con la quale era venuta era invece di fargli sapere che la minaccia di privarlo del biglietto con l'astuzia o con la forza era una sciocchezza, un vuoto spauracchio; che, sotto la protezione del principe Elettore di Brandeburgo, alla custodia del quale era affidato, non aveva proprio nulla da temere per il biglietto; che, anzi, il foglio era assai più sicuro presso di lui che presso di lei, e che si guardasse bene dal farsene privare, consegnandolo a chiunque, sotto qualunque pretesto. E concluse, comunque, che le pareva saggio fare del biglietto l'uso per il quale glie'aveva dato alla fiera annuale di Jüterbock: porgere orecchio alla proposta che gli era stata fatta presso il confine da parte del barone di Stein, e consegnare il foglio, che a lui ormai non serviva più, al principe Elettore di Sassonia, in cambio della libertà e della vita.
Kohlhaas, che esultava per il potere che gli era dato di ferire a morte il tallone del suo nemico, nel momento in cui ne veniva calpestato, rispose: "Per niente al mondo, nonnina; per niente al mondo!". E, premendo la mano alla vecchia, volle soltanto sapere che specie di risposte a quelle arcane domande fossero contenute nel foglietto.
La donna, prendendosi in grembo il più piccolo, che si era accoccolato ai suoi piedi, disse: "Non per il mondo, Kohlhaas: ma per questo piccolo, dolce bambino biondo!", e, nel dir questo, gli sorrise, lo strinse a sé e lo baciò, mentre il bambino la guardava con i suoi grandi occhi, e gli porse, con le sue mani ossute, una mela che portava nella bisaccia.
Kohlhaas disse, confuso, che i bambini stessi, se fossero stati grandi, l'avrebbero lodato per il suo comportamento, e che per loro, e per i loro nipoti, non avrebbe potuto fare nulla di più benefico che conservare il biglietto. Inoltre, domandò, chi, dopo l'esperienza che aveva fatto, l'avrebbe garantito da un nuovo inganno? Non avrebbe, alla fine, sacrificato invano al principe Elettore il foglio, come aveva fatto in passato con la banda da lui raccolta a Lützen?
"Con chi mi ha mancato di parola una volta", disse, "io non impegno più la mia parola; solo una tua richiesta, precisa e inequivocabile, mi separerà, nonnina, dal foglio attraverso il quale mi viene data, in modo così straordinario, soddisfazione per tutto ciò che ho sofferto".
La donna, deponendo a terra il bambino, disse che, da più di un punto di vista, aveva ragione, e che poteva fare e non fare ciò che voleva. E con queste parole riprese le sue stampelle e fece per andarsene. Kohlhaas ripeté la sua domanda, a proposito dello straordinario biglietto; e avrebbe voluto, dopo che lei ebbe brevemente risposto che, sì, poteva aprirlo, fosse pure soltanto per mera curiosità, che lei gli spiegasse ancora mille altre cose, prima di lasciarlo, chi fosse in realtà, di dove venisse la scienza che era in lei, e perché non avesse voluto dare al principe Elettore il biglietto, per il quale pure l'aveva scritto, e perché proprio a lui, che non aveva mai avuto desiderio della sua scienza, avesse consegnato, fra tante migliaia di uomini, il prodigioso foglietto. Ma avvenne che, proprio in quel momento, si udisse un rumore, prodotto da alcune guardie che stavano salendo le scale; tanto che la donna, presa dall'improvviso timore di essere colta da loro in quelle stanze, rispose: "Arrivederci Kohlhaas! Se ci incontreremo di nuovo, la risposta a tutto questo non ti mancherà!". E, voltandosi verso la porta, gridò: "Addio, bambini, addio!", baciò i piccoli, uno dopo l'altro, e se ne andò.
Nel frattempo il principe Elettore di Sassonia, in preda ai suoi tormentosi pensieri, aveva fatto venire due astrologi, di nome Oldenholm e Olearius, che erano allora in Sassonia in grande rinomanza, e li aveva consultati a proposito del contenuto del foglio misterioso, così importante per lui e per tutta la stirpe dei suoi discendenti; e poiché i due uomini, dopo un'approfondita indagine, che proseguì per molti giorni, nella torre del palazzo di Dresda, non riuscirono ad accordarsi se la profezia si riferisse ai secoli a venire o al tempo presente, e se non volesse forse alludere alla corona di Polonia, con la quale i rapporti erano ancora assai ostili, la dotta disputa, invece di dissipare l'inquietudine, per non dire la disperazione, in cui si trovava l'infelice sovrano, non fece che acuirla, accrescendola, da ultimo, a un punto tale, che divenne per il suo animo del tutto insopportabile. A ciò si aggiunse che, più o meno in quei giorni, il ciambellano incaricò sua moglie, che era sul punto di seguirlo a Berlino, di portare, con parole adatte, a conoscenza dell'Elettore, prima di partire, di quanto fossero scarse, dopo il tentativo fallito da lui compiùto per mezzo di una donna che non s'era più fatta vedere, le speranze di venire in possesso del foglio conservato da Kohlhaas, poiché la sentenza di morte pronunciata contro di lui era stata, dopo un esame minuzioso degli atti, ormai firmata dall'Elettore di Brandeburgo, e il giorno dell'esecuzione era già fissato, per il lunedì seguente la domenica delle Palme; notizia alla quale il principe, con il cuore lacerato dal dolore e dal rimorso, si chiuse, come un uomo privo di ogni speranza, nella sua camera, per due giorni, sazio della vita, non toccò cibo, e il terzo, improvvisamente, dopo aver brevemente annunciato al governo che si sarebbe recato a caccia presso il principe di Dessau, sparì da Dresda.
Dove realmente andasse, e se si fosse diretto a Dessau, è questione che lasciamo aperta, poiché le cronache dal cui confronto noi ricaviamo questa relazione si contraddicono in modo strano, e reciprocamente si annullano, su questo punto. Certo è che, a quel tempo, il principe di Dessau non era in condizione di andare a caccia, poiché giaceva malato a Braunschweig, ospite di suo zio, il conte Enrico; e che, la sera del giorno seguente, donna Eloisa arrivava a Berlino presso il ciambellano, messer Corrado, suo consorte, in compagnia di un certo conte di Königstein, presentato da lei come suo cugino.
Nel frattempo, per ordine dell'Elettore, venne letta a Kohlhaas la sentenza di morte, gli furono tolte le catene e gli furono riconsegnati i documenti relativi al suo patrimonio, che a Dresda gli erano stati tolti; e, poiché i consiglieri messi a sua disposizione dal tribunale gli domandarono in che modo volesse procedere, dopo la morte, ai beni che possedeva, egli redasse, con l'aiuto di un notaio, un testamento a favore dei figli, ed elesse, come tutore di questi, l'onesto balivo di Pontekohlhaas, suo amico. Dopo di ciò, la tranquillatà e la contentezza dei suoi ultimi giorni furono senza pari; poiché, per una particolare e straordinaria concessione del principe Elettore, pochi giorni dopo anche le porte del carcere in cui si trovava furono aperte, e fu concesso libero accesso a lui, giorno e notte, a tutti gli amici, che erano molti, che aveva in città. Ed egli ebbe perfino la soddisfazione di veder entrare nella sua prigione il teologo Giacomo Freising, inviato dal dottor Lutero, con una lettera di questi, scritta di suo pugno e senza dubbio assai notevole, la quale, però, è andata perduta, e di ricevere da questo sacerdote, alla presenza di due decani brandeburghesi, che coadiuvarono al rito, il beneficio della santa comunione.
E così, tra la generale agitazione della città, che ancora non riusciva a mettere da parte la speranza in un atto d'imperio che lo salvasse, giunse il fatale lunedì delle Palme in cui avrebbe dovuto pagare al mondo il prezzo della riconciliazione, per il troppo precipitoso tentativo di reintegrare da sé il proprio diritto. Stava per l'appunto uscendo, accompagnato da una poderosa scorta, con due dei suoi bambini in braccio (concessione che egli aveva espressamente richiesto al cospetto del tribunale), dalla porta della sua prigione, preceduto dal teologo Giacomo Freising, quando, nel fitto accalcarsi dei conoscenti che gli stringevano la mano, e prendevano, tristemente, commiato, si fece strada fino a lui, con il volto turbato, il castaldo del palazzo dell'Elettore, e gli diede un foglio che, così disse, gli era stato consegnato per lui da una vecchia. Kohlhaas, guardando con stupore quell'uomo, che conosceva appena, aprì il foglio, il cui sigillo, impresso nella ceralacca, gli ricordò immediatamente la zingara a lui ben nota. Ma chi potrebbe descrivere il suo sbalordimento, quando vi lesse il seguente messaggio: "Kohlhaas, il principe Elettore di Sassonia è a Berlino; egli ti ha preceduto sulla piazza dell'esecuzione, e, se ti preme, potrai riconoscerlo dal suo cappello, ornato da piume bianche e azzurre. L'intenzione che l'ha condotto non occorre che te la dica: vuole, non appena tu sia sepolto, far dissotterrare la capsula, e aprire il foglio che vi si trova.- La tua Lisabetta".
Kohlhaas, girandosi, del tutto sconvolto, verso il castaldo, gli domandò se sapeva chi fosse la misteriosa donna che gli aveva consegnato il foglio. Ma quando il castaldo rispose: "Kohlhaas, la donna...", e a metà del discorso, in modo strano, s'interruppe, egli, trascinato dal corteo, che proprio in quel momento si era rimesso in moto, non poté udire le parole che l'uomo, che sembrava tremare in tutto il corpo, pronunciava.
Quando giunse sulla piazza dell'esecuzione, vi trovò in attesa, fra una sterminata moltitudine, il principe Elettore del Brandeburgo a cavallo, con il suo seguito, fra il quale era presente anche il Gran Cancelliere, messer Enrico di Geusau: alla destra del principe l'avvocato imperiale, Francesco Müller, con una copia della sentenza di morte in mano; a sinistra del principe l'avvocato di questi, il giurisperito Antonio annoiare, con le conclusioni del tribunale di corte di Dresda; e, in centro al semicerchio, chiuso in fondo dal popolo, un araldo con un fagotto in mano, e i due morelli, lustri e ben pasciuti, che battevano il terreno con gli zoccoli. Infatti il Gran Cancelliere, messer Enrico, aveva vinto la causa intentata a Dresda, in nome del suo sovrano, contro il barone Venceslao di Tronka, punto per punto e senza la minima limitazione; e di conseguenza i cavalli, resi al loro onore dallo sventolio di una bandiera sopra le loro teste, e poi ritirati dalle mani dello scortichino che li nutriva, erano stati ingrassati dalla gente del barone, e, alla presenza di una commissione insediata a questo scopo, erano stati consegnati all'avvocato, sulla piazza del mercato di Dresda.
Il principe Elettore, quando Kohlhaas, accompagnato dalla sua scorta, avanzò sul rialto davanti a lui, parlò così:
"Ecco, Kohlhaas: oggi è il giorno in cui ti è resa giustizia! Guarda! Io ti riconsegno ora tutto ciò che ti fu con la violenza sottratto al castello di Tronka, e che io, come tuo sovrano, ero tenuto a farti restituire: i morelli, il fazzoletto, i fiorini, la biacheria, e anche le spese per le cure al tuo servo Erziano, caduto presso Mühlberg. Sei contento di me?".
Kohlhaas, posati a terra accanto a sé i due bambini che aveva in braccio, lesse velocemente, con gli occhi spalancati e raggianti, le conclusioni del processo, che, a un cenno del Gran Cancelliere, gli erano state consegnate; e poiché vi trovò anche una clausola con la quale il barone Venceslao era condannato a due anni di prigione, si lasciò cadere, da lontano, sopraffatto dai suoi sentimenti, in ginocchio davanti all'Elettore, con le mani incrociate sul petto. Egli assicurò con voce lieta al Gran Cancelliere, alzandosi e portandosi la mano al petto, che il più gran desiderio che aveva in terra era adempiuto; si avvicinò ai cavalli, li esaminò, ne palpò il collo sodo; e dichiarò allegramente al Cancelliere, ritornando verso di lui, che "li regalava ai suoi due figli, Enrico e Leopoldo".
Il Cancelliere, messer Enrico di Geusau, volgendosi a lui benevolmente da cavallo, gli promise, in nome del principe Elettore, che la sua ultima volontà sarebbe stata religiosamente rispettata, e lo invitò a disporre come meglio riteneva anche delle altre cose contenute nel fagotto. Allora Kohlhaas invitò la vecchia madre di Ersiano, che aveva scorto sulla piazza, a uscire dalla folla che aveva intorno, e consegnandole il fagotto le disse: "Ecco, nonna, tutto ciò ti appartiene"; aggiungendo al denaro che si trovava nel fagotto anche la somma che aveva ricevuto come proprio indennizzo, che volle darle in regalo, a sostegno e conforto dei suoi tardi giorni.
"Adesso, Kohlhaas, mercante di cavalli", esclamò il principe Elettore, "al quale è stata data in questo modo soddisfazione, preparati a dare a tua volta soddisfazione a Sua Maestà l'imperatore, l'avvocato del quale è al mio fianco, per la rottura della pubblica pace!".
Kohlhaas, levandosi il cappello e gettandolo al suolo, disse che era pronto! Affidò i suoi bambini, dopo averli presi su da terra ancora una volta, e stretti al petto, al balivo di Pontekohlhaas, e, mentre questi, con lacrime silenziose, li conduceva via dalla piazza, si avvicinò al ceppo. Stava per l'appunto sciogliendosi il fazzoletto dal collo, e aprendosi il giustacuore, quando, a uno sguardo fuggevole sul cerchio formato dal popolo, scorse, a breve distanza da sé, fra due cavalieri che lo coprivano a metà coi loro corpi, l'uomo ben noto dalle piume bianche e azzurre. Con uno scarto improvviso, che sorprese la scorta che lo circondava, Kohlhaas gli andò proprio davanti, si sciolse dal petto la capsula, ne trasse il foglio, ruppe il sigillo e lo scorse: e, con gli occhi fissi sull'uomo dalle piume bianche e azzurre, che già cominciava a dar corso a dolci speranze, lo mise in bocca e lo inghiottì. L'uomo dalle piume bianche e azzurre, a quella vista, preso da convulsioni, cadde svenuto. Kohlhaas, mentre gli accompagnatori di quell'uomo si chinavano, affranti, su di lui, e lo tiravano su da terra, si volse verso il patibolo, dove il suo capo cadde sotto la scure del boia.
Qui finisce la storia di Kohlhaas. Si depose la salma nella bara, fra il compianto unanime del popolo; e, mentre i necrofori la sollevavano, per darle degna sepoltura nel camposanto fuori città, il principe Elettore chiamò a sé i figli del defunto e, dichiarando al Gran Cancelliere che dovevano essere educati nella scuola dei paggi di corte, li armò cavalieri. Il principe Elettore di Sassonia ritornò poco dopo, straziato nel corpo e nell'anima, a Dresda, e ciò che segue va letto nella storia. Ma di Kohlhaas nel secolo scorso vivevano ancora nel Meclemburgo alcuni lieti e gagliardi discendenti.