JORIS-KARL HUYSMANS


CONTROCORRENTE II


NOTIZIA DELL'AUTORE ALLA PRIMA EDIZIONE (1884)

A giudicare dai pochi ritratti di famiglia conservati nel castello di Lourps, i Floressas des Esseintes discendevano nei tempi da atletici soldatacci, da arcigni masticamustacchi. Stretti, pigiati nelle vecchie cornici che sbarravano con le gagliarde spalle, essi intimidivano con la fissità dello sguardo, coi baffoni a scimitarra, con la possanza del petto che s'avanzava a riempire l'enorme guscio della corazza.
Questi, gli antenati. Mancavano i ritratti dei loro discendenti; c'era una lacuna nell'iconografia della famiglia. Solo una tela serviva di ponte tra il passato ed il presente: un viso astuto ed enigmatico, dai tratti scialbi e sbattuti, dai pomelli avvivati da un tocco di belletto, i capelli intrecciati di perle, il collo che colorito si protendeva dalle pieghe d'un rigido collaretto.
Già in quell'immagine d'uno dei più intimi amici di casa del duca d'Epernon e del marchese d'O. le tare d'un sangue impoverito, in predominanza linfatico, erano palesi.
La decadenza di quell'antica famiglia aveva evidentemente seguìto il suo corso fatale; l'infemminirsi della linea maschile s'era andato via via accentuando. Quasi a precipitare l'opera del tempo, durante dei secoli i Des Esseintes avevano accoppiato i figli fra loro, consumando quel po' di forza di cui ancora disponevano in unioni fra consanguinei.
D'una famiglia ancora poco prima così numerosa da avere rappresentanti in quasi tutte le terre dell'Ile-de-France e della Brie, un solo rampollo ormai sopravviveva, il duca Giovanni: un gracile trentenne, gli occhi d'un freddo azzurro metallico, il naso dilatato eppure diritto, le mani esili ed aride.
Per un interessante caso di atavismo, l'ultimo discendente somigliava all'antico avo, a quello gentile; di quello aveva la moschetta d'un biondo slavatissimo e l'espressione ambigua, al tempo stesso stanca e astuta.
Tetra era stata la sua infanzia. Minacciato da scrofole, insidiato da febbri ostinate, era riuscito tuttavia, a forza di cure e di vita all'aperto, a superare le secche della pubertà; allora i nervi avevano preso il sopravvento, avuto ragione dei languori e delle prostrazioni dell'anemia e condotto a buon esito la crescenza.
La madre, un'alta donna bianca e taciturna, morì d'esaurimento; ed a sua volta il padre soccombette ad una malattia non bene precisata, mentre il figlio toccava i diciassett'anni.
Dei genitori, egli non conservava che un ricordo spaurito, nel quale non entrava né affetto né gratitudine. Il padre ch'era sempre via, a Parigi, l'aveva conosciuto appena; la madre, la ricordava coricata immobile in una stanza semibuia del castello di Lourps. Di rado i due si trovavano insieme; e di quei giorni il figlio rammentava gli squallidi incontri fra i genitori, rivedeva padre e madre seduti uno in faccia all'altro, davanti ad un tavolino rischiarato esso solo da una lampada accecata da un grande paralume - la luce viva ed il rumore davano infatti alla duchessa crisi di nervi -; ed in quel semibuio, era tanto se i coniugi si scambiavano due parole. Dopodiché, freddo freddo lui rinfilava l'uscio, diretto alla stazione dove saltava sul primo treno.
Una vita meno triste e maggiore benevolenza Giovanni trovò nel collegio di gesuiti dove fu spedito a fare gli studi. I Padri fecero festa a quel ragazzo che li stupiva per la sua intelligenza: ma per quanto facessero non riuscirono ad ottenere che seguisse con regolarità gli studi; ad alcuni prendeva gusto, anzi del latino acquistava in breve una conoscenza sorprendente per la sua età; ma per contro non riusciva a cavar senso da due parole di greco e non faceva un passo nelle lingue vive; quando poi si trattò di affrontare lo studio delle scienze, la sua inettitudine si palesò completa.
La famiglia poco si dava pensiero di lui; ogni tanto il padre veniva a trovarlo: “Bongiorno, bonasera, sta buono e studia”. D'estate, il ragazzo tornava al castello per le vacanze; la presenza del figlio non bastava a tirar la madre dal suo trasognamento; era molto se si accorgeva di lui; e se gli fermava qualche secondo l'occhio sopra, sulle labbra le compariva un sorriso quasi doloroso; quindi si risprofondava nella notte fittizia che le spesse tendine mantenevano nella stanza.
I domestici erano vecchi ed annoiati. Abbandonato a se stesso, il ragazzo, nei giorni di pioggia, frugava tra i libri. Col bel tempo vagava per la campagna interi pomeriggi.
Il suo svago maggiore era scendere nella valle, raggiungere Jutigny, una borgata a pie' delle colline, un mucchietto di casupole incappucciate di stoppia donde spuntava qua e là un ciuffo di rosalelia e lustravano cuscinetti di borraccina. Si sdraiava sul prato, all'ombra dei fienili, l'orecchio al sordo strepito dei mulini ad acqua, bevendo la frescura che veniva su dalla Voulzie.
A volte si spingeva sino alle torbiere, sino alla borgata verdenera di Longueville, oppure s'arrampicava sulle colline spazzate dal vento, di dove si godeva un immenso panorama. Di lassù dominava da una parte la vallata della Senna che fuggiva a perdita d'occhio sino a confondersi con l'azzurro dell'ultimo orizzonte; vedeva profilarsi sul cielo le chiese e la torre di Provins che parevano, col sole, tremolare nel pulviscolo dorato dell'aria.
Leggeva o s'abbandonava alle sue fantasticherie, abbeverandosi sino a scuro di solitudine.
A forza di rimuginare sempre gli stessi pensieri, la sua mente si concentrò, le sue idee, sin allora indecise, maturarono.
Dopo ogni periodo di vacanze, tornava ai suoi insegnanti più sicuro di sé e più caparbio; mutamenti che non sfuggivano ai Padri. Perspicaci ed astuti, abituati dal loro mestiere a sondare in profondità le anime, essi non si illusero sul conto di quella intelligenza sveglia ma indocile; capirono che mai quell'allievo contribuirebbe alla gloria del loro Ordine, e, siccome la famiglia era ricca e pareva disinteressarsi dell'avvenire del figlio rinunziarono dal principio ad avviarlo alla proficua carriera dell'insegnamento. Sebbene il giovane discutesse volentieri sulle dottrine teologiche che per la loro sottigliezza e cavillosità lo attiravano, i Padri non pensarono neanche a destinarlo agli ordini, perché nonostante i loro sforzi la sua fede restava tiepida. Finché per prudenza, per timore dell'ignoto, lasciarono che s'applicasse agli studi che gli piacevano e trascurasse gli altri; non volevano alienarsi quello spirito indipendente, importunandolo con osservazioni da prefetto di collegio laico.
Visse così completamente felice, avvertendo appena il giogo paterno dei frati; proseguì a modo suo nello studio del latino e del francese; e, sebbene la teologia non figurasse tra le materie d'insegnamento, ne completò lo studio, iniziato al castello, nella biblioteca lasciata in eredità dal prozio, il reverendo Padre Prospero, già priore dei canonici regolari di Saint-Ruf.
Il giorno venne tuttavia che dovette lasciare l'istituto dei gesuiti; maggiorenne, entrava in possesso della sua fortuna; il cugino e tutore Di Montchevrel gli rese i conti.
Le relazioni che corsero fra i due furono di corta durata: tra quel tutore vecchio ed il giovane pupillo non poteva nascere vera intesa. Per curiosità, per non aver di meglio da fare, per educazione, Des Esseintes frequentò quella famiglia; e parecchie volte in casa propria, in via della Chaise, si sobbarcò ad opprimenti serate, durante le quali dovette sorbirsi da parte di quella incartapecorita parentela interminabili discorsi di quarti di nobiltà, di lune araldiche, di cerimoniali desueti.
Più ancora di questi parenti, i tipi che una partita di whist raccoglieva, si rivelavano fossilizzati e nulli. In quelle riunioni i discendenti degli antichi prodi, gli ultimi rampolli delle grandi famiglie feudali, apparvero a Des Esseintes sotto l'aspetto di vecchiardi catarrosi e maniaci, occupati a rimasticare insipide ciance, frasi centenarie. Come nel gambo reciso di certa felce, nella polpa rammollita di quei vecchi crani, non doveva trovarsi che l'impronta d'un fiordaligi.
Il giovane sentì un'immensa pietà per quelle mummie già composte nei loro ipogei pompadour, rivestiti di legno scolpito a rocciame, per quei tetri e stizzosi dorminpiedi che tiravano avanti nella perpetua attesa non avrebbero saputo dire di quale terra di Canaan, di quale fantastica Palestina. Gli bastò partecipare qualche volta a quelle sedute per giurarsi, nonostante le insistenze e i rimprocci, di non rimetterci piede.
Prese allora a frequentare giovani della sua età e del suo ceto.
Gli uni, allevati come lui in istituti religiosi, dell'educazione ricevuta serbavano qualche cosa che li distingueva. Andavano a messa, si comunicavano a Pasqua, frequentavano i circoli cattolici; e, abbassando gli occhi, negavano, come si trattasse d'un delitto, di insidiare la virtù delle donzelle. Erano per la maggior parte dei bellimbusti di scarsa intelligenza e privi di carattere, dei Pessimi scolari irreducibili che avevano stancato la pazienza dei maestri e che pure dei maestri avevano esaudito il voto che è quello di restituire alla società degli esseri passivi e bigotti.
Gli altri, allevati nei collegi laici o nei licei, erano meno ipocriti e più indipendenti; ma non erano né più interessanti né di vedute più larghe. Si davano alla bella vita, s'appassionavano per l'operetta e per le corse, giocavano a lanzichenecco e a baccarà, rischiavano delle fortune su un cavallo, a carte, in tutti i passatempi cari alla gente vuota.
In capo ad un anno, lo prese una grande sazietà di quella compagnia: le loro orgie le trovò meschine e a portata di mano, fatte senza discernimento, non già nella sovreccitazione dei nervi e nell'accecamento del sangue, senza insomma vera febbre.
Poco a poco li piantò per accostarsi agli uomini di lettere; in essi sperava di trovare maggiore affinità di idee, una compagnia che lo mettesse più a suo agio.
Fu una nuova delusione: li udì trinciare giudizi gretti e dettati da livore che lo rivoltarono. La loro conversazione era la più piatta che si potesse immaginare; le loro discussioni, in cui il valore d'un libro veniva giudicato dalla tiratura e dalle rese del libraio, disgustose. Con essi conobbe dei liberi pensatori, dei dottrinari della borghesia; individui che reclamavano per sé tutte le libertà di cui si sarebbero valsi per turare la bocca a chi la pensasse diversamente; avidi e impudenti puritani che giudicò per educazione dammeno del ciabattino di faccia.
Il suo disprezzo per l'umanità s'accrebbe; capì finalmente che il mondo è costituito in maggioranza di imbecilli e di farabutti. Nessuna speranza più dunque di poter trovare chi dividesse i suoi odi ed amori; nessuna speranza di accoppiarsi ad un'anima cui sorridesse, come a lui, una vecchiaia dedita allo studio; nessuna speranza d'accompagnarsi, lui, uno spirito così acuto e disincantato, con uno scrittore o un uomo di lettere.
Abbattuto, scontento di tutto, sdegnato dell'insulsaggine delle idee scambiate e ricevute, diventava come quelli di cui parla Nicole che si sentono doler dappertutto. Arrivava a torturarsi continuamente da sé; a soffrire delle baie patriottiche e sociali, ammanite ogni mattina dai giornalisti; ad irritarsi, più che non ne valesse la pena, del successo che il pubblico onnipotente riserva sempre ad ogni costo alle opere senza idee e senza stile.
Già vagheggiava una tebaide da raffinato, un deserto non privo di comodi, un'arca senza traballii e riscaldata dove rifugiarsi lontano dal diluvio senza schiarita della umana stupidità.
Una sola passione, la donna, avrebbe potuto fargli accettare il disgusto che lo soffocava, di tutto; ma quella passione era anch'essa venuta a fine.
Ai banchetti della carne egli s'era accostato con l'appetito d'un uomo soggetto a subitanee nausee ed a bizzarri capricci, d'uno affetto da malacia, aggredito da fami disordinate ed improvvise; d'un uomo dal palato facile ad ottundersi ed a stuccarsi di tutto.
Al tempo che frequentava i nobilucci aveva preso parte a quei cenoni dove, alla frutta, donne alticcie si mettono in libertà e, ribaltate, urtano del capo la tavola. Così pure aveva corso le quinte, palpeggiato attrici e cantanti; scontato la delirante vanità delle cattive attrici, venuta ad aggiungersi, come non bastasse, all'innata stupidità delle donne; aveva mantenuto donnine già celebri e contribuito alla fortuna di quelle agenzie che procacciano a chi li paga piaceri suscettibili da parte del cliente di contestazione.
Infine, satollo, stanco di quel lusso stereotipo, di quelle carezze sempre eguali, s'era tuffato nei bassifondi, nella speranza che il contrasto gli ridesse l'appetito, che la scarsa pulizia agisse da cantaride sui suoi sensi assopiti. Ma checché tentasse, un opprimente tedio lo accompagnava. Si accanì; ricorse alle pericolose carezze delle virtuose dell'erotismo; ma allora la sua salute se ne risentì, il sistema nervoso s'esasperò; già si sentiva la nuca e la mano tremava: ferma ancora quando stringeva un oggetto pesante, sussultava e si inclinava quando l'oggetto era leggero, ad esempio un bicchierino.
I medici che consultò lo spaventarono. Era tempo di arrestarsi sulla china, di rinunciare ai maneggi che gli minavano le forze. Per qualche tempo si mantenne saggio; ma presto il cervelletto s'infiammò, suonò la sveglia. Come quelle monelle che la pubertà affama di cibi corrotti o abbietti, si trovò a sognare, a praticare gli amori anormali, i piaceri deviati. Allora, fu la fine; quasi paghi d'aver tutto provato, quasi paralizzati dalla fatica, i suoi sensi caddero in letargo; fu ad un passo dall'impotenza.
Si ritrovò in istrada, a sbornia smaltita, solo, tremendamente spossato, a implorare una fine che solo la viltà della carne gli impediva di darsi.
L'idea si rafforzò in lui di rintanarsi lontano dal mondo, di chiudersi in un eremo, dove non sentisse più che affievolito - come per certi infermi si ottiene lastricando di paglia la strada - l'incessante frastuono dell'implacabile vita.
Era del resto tempo di decidersi; il conto che fece di quanto gli restava lo allarmò; in follie, in bagordi aveva dato fondo alla maggior parte del patrimonio; la parte investita in terreni non fruttava che una rendita irrisoria.
Deliberò di vendere il castello di Lourps dove non andava più e dove non lasciava alcun ricordo cui tenesse, alcun rimpianto. Liquidò pure tutti gli altri suoi beni, investì il ricavo in titoli di Stato, mettendo insieme in tal modo una rendita annua di cinquantamila lire e trattenendosi in più una somma rotonda che destinò all'acquisto ed all'arredamento della casetta dove si proponeva di immergersi in una pace definitiva.
Frugò i dintorni della capitale e sopra Fontenay-aux-Roses scoprì ch'era in vendita una bicocca in un punto fuori mano, senza soggezione di vicini, in prossimità del forte.
Il suo sogno si realizzava. In quel paese, poco infestato dai parigini, si sentiva al sicuro. La difficoltà delle comunicazioni, garantite sì e no da una buffa ferrovia facente capo ad un'estremità del paese e da tramvaietti che partivano e compivano il tragitto quando e come potevano, lo rassicurava.
Alla prospettiva della nuova vita che si sarebbe formato, provava una grande esultanza; si vedeva abbastanza al di qua dalla sponda perché la fiumana di Parigi non lo raggiungesse più con i suoi flutti; e nello stesso tempo abbastanza vicino per non sentire il desiderio di rituffarvisi. Visto infatti che basta trovarsi nella impossibilità di recarsi in un dato sito, perché subito ci colga la smania di corrervi, col non sbarrarsi del tutto la via, egli aveva qualche probabilità di non essere assalito da alcuna nostalgia della società, da alcun rimpianto.
Affidò ai muratori la casa acquistata; ed un giorno, di punto in bianco, senza mettere alcuno al corrente dei suoi progetti, si sbarazzò del vecchio mobilio, congedò la servitù e sparì senza lasciare indirizzo.

I

Dovevano passare più di due mesi prima che Des Esseintes potesse immergersi nel silenzio e nella quiete della sua casa di Fontenay; più di due mesi che consumò ad andare su e giù per Parigi, a battere da un capo all'altro la città, in acquisti di ogni genere.
Eppure non si poteva dire che non avesse preso le sue misure; a quante elucubrazioni non s'era abbandonato prima di affidare l'alloggio ai tappezzieri che glielo arredassero!
Egli conosceva per lunga esperienza i colori che non mentiscono all'attesa e quelli che la eludono.
Un tempo, quando riceveva donne in casa, s'era fatto fare un'alcova dove, tra mobiletti intagliati nel pallido legno del laurocanfora del Giappone, sotto una specie di padiglione rosa di raso indiano, le carni si coloravano dolcemente alla luce ammaestrata che setacciava la stoffa. Quella stanza dove specchi si facevano riscontro e si rimandavano a perdita d'occhio sfilze di alcove color rosa, era stata celebre nel mondo delle sue frequentatrici; le quali prendevano gusto a immergere la loro nudità in quel bagno di tiepido incarnato che profumava l'odor di menta sprigionato dal legno del mobilio.
Ma a parte i vantaggi di quell'aria truccata che si sarebbe detto facesse scorrere nuovo sangue sotto le pelli appassite e sciupate dall'uso dei lisci e dall'abuso delle notti, egli gustava per proprio conto, in quell'ambiente pieno di languore, gioie sue, piaceri che acuiva e sino a un certo punto creava il ricordo dei mali passati, della amarezza d'un tempo.
Così, in odio e spregio dell'infanzia, aveva appeso alla volta di quella camera, in una gabbiuzza d'argento, un grillo che cantava come già nelle ceneri del focolare al castello di Lourps. Quando ascoltava quel verso tante volte udito, tutte le mortificate sere trascorse in silenzio presso la madre nella casa materna, tutta la solitaria giovinezza sofferente e impedita d'espandersi, riaggallava tumultuosamente alla memoria; ed allora, ai sussulti della femmina che accarezzava macchinalmente e che col suo ridere o le sue parole lo richiamava bruscamente in terra, alla realtà di quell'alcova, una frenesia si scatenava in lui, una sete di vendicarsi delle tristezze patite, una smania d'insozzare con atti turpi ricordi di famiglia; un furibondo desiderio di spasimare su guanciali di carne, d'esaurire sino in fondo le più acute e cocenti follie della carne.
Altre volte ancora, quand'era prigioniero di una malinconia senza causa, nelle giornate di pioggia, quando lo assaliva tedio della strada, della casa, del cielo di giallo fango, del plumbeo materasso delle nubi, si rifugiava là; imprimeva una lieve oscillazione alla gabbia e la guardava riflettersi all'infinito nel gioco degli specchi, sino a che gli occhi abbarbagliati vedevano la gabbia ferma ed oscillare invece e rotearle intorno la stanza, riempiendo la casa d'un rosa danzante.
Così - quando ancora riteneva necessario distinguersi dagli altri - Des Esseintes aveva progettato e fatto eseguire degli arredamenti d'una fastosa stravaganza, dividendo, ad esempio, il salotto in tante nicchie variamente tappezzate, ognuna delle quali per sottili analogie, vaghe rispondenze di tinte festose o cupe, delicate o barbariche, s'accordava con questo o quel genere di opere - latine o francesi - che amava. A seconda dell'opera alla quale il capriccio del momento gli guidava la mano, sceglieva per leggerla la nicchia che meglio a suo avviso rispondeva, per il modo ch'era decorata, al carattere dell'opera.
Infine, una grande sala, fatta preparare a questo scopo, l'aveva destinata a ricevere i fornitori; e, come questi avevano ordinatamente preso posto in stalli di chiesa, egli saliva su una cattedra donde teneva un sermone sulla perfetta eleganza; intimando ai sarti ed ai calzolai d'attenersi, in materia di taglio, ai suoi “brevi” nel modo più rigoroso; e minacciandoli di scomunica pecuniaria se non eseguivano alla lettera le norme illustrate nei suoi monitorii e nelle sue bolle.
La reputazione che s'acquistò di eccentrico, la corroborò vestendosi di velluto bianco, sfoggiando panciotti ricamati come piviali, inserendo a mo' di cravatta nello scollo della camicia un mazzo di violette di Parma, imbandendo ai letterati pranzi che suscitavano larga eco. Rinnovando tra l'altro una stramberia registrata nelle cronache del diciottesimo secolo, inscenò un pranzo a lutto per commemorare il più futile degli infortuni.
Nella sala da pranzo addobbata di nero, che dava sul giardino trasformato per l'occasione - polvere di carbone cospargeva ora i viali; la piccola vasca, chiusa adesso da un orlo di basalto, ondeggiava di inchiostro; pini e cipressi mascheravano i boschetti - il pranzo era stato imbandito su una tovaglia nera, guarnita di cestelli di viole e di scabbiose, rischiarata da candelabri lingueggianti di fiamme verdi e da lucerne in cui ardevano ceri.
Mentre un'orchestra invisibile faceva udire marce funebri, servivano in tavola negre ignude coi piedi in babbucce di foggia sacra, calzate di tessuto d'argento cosparso di lagrime.
In piatti orlati di nero, era stata servita zuppa di testuggine; con pane di segala russa, olive mature di Turchia, caviale, bottarga di muggine, s'eran poi avvicendate salsicce affumicate di Francoforte, caccia in salsa color tra di liquorizia e di lucido da scarpe; un passata di tartufi; quindi creme ambrate di cioccolato, bodino all'inglese, pesche, noci, sapa, more e ciliege acquaiole. In bicchieri scuri s'eran bevuti vini della Limagne e del Roussillon; del Tenedo, del Val di Peñas e del Porto; gustato, dopo il caffè e l'acquavite di mallo, del kwas, del porter e dello stout.
La cerimonia commemorava una panna di virilità; e le lettere d'invito somigliavano tipograficamente a partecipazioni di morte.
Ma di queste stravaganze, di cui un tempo menava vanto, s'era presto stuccato. Adesso disprezzava quelle ostentazioni puerili e sorpassate, quegli scarti nel vestire, quel momentaneo compiacersi in cornici stravaganti.
Ormai aspirava semplicemente a crearsi - pel proprio piacere, non più per sbalordire altrui - un interno provvisto d'ogni comodità, eppure messo in modo non comune; a formarsi un nido singolare e tranquillo, adatto ai bisogni della futura solitudine.
Quando l'architetto cui l'aveva affidata, gli consegnò la casa allestita di tutto punto in conformità dei suoi piani e desideri; quando non restò più che fissarne l'arredamento e la decorazione, daccapo egli riprese a suo agio in esame tutti i possibili colori e le loro gradazioni.
Voleva dei colori che si affermassero alla luce fittizia delle lampade; poco gli importava che a quella del giorno risultassero sfacciati o scialbi.
Quasi solo di notte viveva, stimando che di notte in nessun luogo si stava bene come in casa, in nessun luogo era più solo e che l'anima non spiccava il volo e non fiammeggiava che nell'immediata vicinanza dell'ombra. Trovava pure un particolare godimento a restare in una camera bene illuminata, desta e all'erta essa sola, tra tante case piene di buio e di sonno; godimento in cui entrava forse una punta di vanità; compiacimento affatto egoistico, che conosce chi lavora sin tardi, quando, alzando le tendine della finestra, constata che tutto intorno a lui è spento, tutto è muto, tutto è morto.
A suo agio, scelse a una a una le tinte.
L'azzurro, alla luce delle candele, dà in un verde posticcio; se è carico, come l'indaco e il cobalto, diventa nero; se è chiaro, volge al grigio; se è limpido e tenero come la turchese, s'offusca e si ghiaccia. A meno dunque di associarlo come complementare ad un altro colore, non c'era da pensare di farne la nota dominante d'un ambiente.
D'altra parte, i grigi ferro, alla luce artificiale, s'imbronciano di più e s'appesantiscono; i grigi perla perdono l'azzurro e si mutano in bianco sporco; i bruni, s'addormentano e si raffreddano; quanto ai verdi carichi, come sarebbe il verde-imperatore ed il verde-mirto, si comportano nello stesso modo dei verdi densi e si fondono coi neri.
Restavano dunque i verdi più chiari, come il verde-pavone, i cinabri e le lacche; ma allora la luce artificiale esilia il loro azzurro, per non serbare che il giallo, il quale non conserva a sua volta che un tono falso, un sapore equivoco.
Neanche c'era da pensare ai colori salmone, granoturco; né ai rosa: l'effeminatezza di queste tinte contraria i propositi d'isolamento. Non c'era infine da prendere in considerazione i violetti, i quali si spogliano: solo il rosso che contengono viene a galla la sera; e che rosso! un rosso vischioso, la feccia d'un vino ignobile. Giudicava d'altronde affatto inutile ricorrere a questo colore quando, ingerendo una certa dose di santonina, si vede violetto: ciò che rende agevole mutare, lasciandole al loro posto, la tinta delle tappezzerie.
Scartati questi colori, non ne rimanevano che tre: il rosso, l'arancione, il giallo.
A tutti preferiva l'arancione. Trovava così in se stesso conferma ad una teoria ch'egli dichiarava pressoché matematicamente esatta: che una armonia, una rispondenza esiste tra la natura sensuale d'un vero artista ed il colore che i suoi occhi apprezzano meglio e cui sono più sensibili.
Trascurando infatti la grande maggioranza degli uomini che han la retina così grossolana da non apprezzare né la cadenza propria a ogni colore né l'arcano fascino delle gradazioni e delle sfumature; trascurando del pari l'occhio del borghese, insensibile alla pompa e al vittorioso squillo dei toni alti e vibranti; non prendendo in considerazione che gli individui dalla pupilla squisita, educata dalla letteratura e dall'arte, gli pareva fuori dubbio che l'occhio di quello fra di essi che sogna l'ideale, che reclama delle illusioni, che implora dei veli nei tramonti, è di solito accarezzato dall'azzurro e dai colori che ne derivano, quale il malva, il lilla, il grigio perla: purché tuttavia essi restino tenui e non varchino il limite oltre il quale divengon altri, si trasformano in violetti puri, in meri grigi.
Quelli invece che procedono a passo di carica, i pletorici, i bei sanguigni, i solidi maschi che disdegnano i preludi e gli intermezzi e s'avventano perdendo subito la testa, per la maggior parte costoro applaudono ai luccichii sfacciati dei gialli e dei rossi, ai colpi di tamburo dei cinabri e dei cromi che li accecano e li sborniano.
Insomma, l'occhio delle persone deboli e nervose che han bisogno, per risvegliare l'appetito, di cibi affumicati o piccanti; l'occhio di chi è sovreccitato ed estenuato predilige, quasi sempre, l'arancione: questo colore dagli splendori fittizi, dalle febbri acide.
La scelta di Des Esseintes non lasciava dunque adito a dubbi; ma innegabili difficoltà si presentavano ancora. Se il rosso e il giallo s'esaltano alla luce, lo stesso non sempre si può dire del loro composto, l'arancione: che si tramuta ben spesso in rosso-nasturzio, in rosso-fuoco.
Alla luce delle candele studiò tutte le sue gradazioni e ne scoperse una che gli parve non dovesse subire squilibri ed eludere la sua attesa.
Ottenuto questo primo risultato, si propose di scartare, per quanto possibile - nell'addobbo almeno dello studio - stoffe e tappeti orientali, diventati, oggidì che i mercanti arricchiti se li procurano con poca spesa negli empori di novità, così stucchevoli e così ordinari. Tutto considerato, decise di far fasciare le pareti come si rilegano i libri: di marocchino a grana grossa schiacciata, con pelle del Capo resa lustra da robuste lastre di acciaio sotto un torchio pesante.
Quando le pareti furono addobbate, fece dipingere i tondini e la cimasa in indaco carico, in un indaco laccato simile a quello che si adopera per i pannelli delle carrozze; e la volta, un po' arrotondata, rivestita del pari di marocchino, schiuse, come un'immensa finestra tonda incastonata nella sua buccia d'arancio, un cerchio di cielo in seta azzurro-del-re, nel quale si libravano ad ali spiegate serafini d'argento, recentemente ricamati dalla Confraternita dei Tessitori di Colonia per un antico piviale.
La sera, quando ogni cosa fu a posto, tutto si conciliò, s'affatò, prese unità. Lo zoccolo immobilizzò il suo azzurro, sostenuto per così dire, riscaldato dagli arancioni: che, a loro volta, si mantennero schietti, appoggiati e in certo modo attizzati che furono dall'incalzare dei blu.
Quanto a mobilio, Des Esseintes fece presto a trovare quel che gli occorreva, l'unico lusso dell'ambiente dovendo consistere in libri e fiori rari. Rimandando a poi d'animare di qualche disegno o di qualche quadro le pareti rimaste nude, si limitò a coprirne il maggior spazio con palchetti e scansìe di biblioteca in legno d'ebano; a tappezzare il pavimento di pelli di belva e di volpi azzurre; ad allogare, presso una massiccia tavola di cambiavalute del quindicesimo secolo, comodi seggioloni ad appoggia-tempia; ed un vecchio leggio di cappella, di ferro battuto, uno di quegli antichi leggii sul quale il diacono squadernava un tempo l'antifonario e che ora reggeva uno dei pesanti in-folio del Glossarium medioe et infimoe latinitatis di Du Cange.
Le finestre dai vetri crepati, azzurrognoli, seminati di fondi di bottiglia dalle prominenze picchiettate d'oro, che intercettavano la vista della campagna e lasciavano filtrare una luce fittizia, si rivestirono alla loro volta di tendine ricavate da vecchie stole, dove l'oro opaco e quasi affumicato si spegneva nella trama d'un rosso moribondo.
Finalmente, sul camino - parato anch'esso della sontuosa stoffa d'una dalmatica fiorentina - tra due ostensori bizantini di rame dorato, provenienti dall'antica Abbaye-au-Bois de Bièvre, una magnifica cartagloria di chiesa, a tre scomparti lavorati come un pizzo, accolse sotto il vetro della sua cornice, copiati su autentico velino in ammirevoli caratteri da messale e con splendida alluminatura, tre composizioni di Baudelaire: a dritta e a manca, i sonetti: La Mort des Amants, L'Ennemi; in mezzo il poemetto intitolato: “any where out the world”: “non importa dove, fuori del mondo”.
II

Terminata la vendita dei beni, Des Esseintes conservò i due vecchi domestici che avevano assistita sua madre e fatto da amministratori e al tempo stesso da portieri al castello di Lourps per tutto il tempo ch'era rimasto disabitato.
La coppia aveva fatto l'abitudine ad assistere ammalati, a propinare con regolarità d'infermieri ogni ora cucchiai di pozioni e decotti, a mantenere l'assoluto silenzio dei frati di clausura, a non comunicare coll'esterno, a vivere in camere con porte e finestre sbarrate.
A Fontenay, l'uomo ebbe l'incarico della pulizia e della spesa; la donna, quello della cucina. Des Esseintes cedette ai due il primo piano; li obbligò a portare spesse scarpe di feltro senza suola; alle porte ben lubrificate fece adattare delle bussole e stendere sul pavimento alti tappeti che spegnessero sul suo capo ogni rumore. Combinò con loro il linguaggio di certe sonerie, il significato, variante col numero e la durata, degli squilli di campanello; fissò sulla scrivania il punto preciso dove ogni fin di mese, dovevano mettergli, mentre dormiva, il libro dei conti; non trascurò misura, insomma, per dover loro parlare e vederli il meno possibile.
Nondimeno, poiché la donna doveva, per recarsi al ripostiglio della legna, passar davanti alla casa, per evitare d'essere offeso dalla sua apparizione quando veniva ad inquadrarsi nel vano della finestra, le fece fare un abito di taglia fiamminga con cuffia bianca e largo cappuccio nero calato, come ne portano ancora a Gand le beghine. L'ombra di quel copricapo riflettendosi nel crepuscolo sui vetri, gli dava la sensazione di trovarsi in un chiostro; gli evocava quei devoti e taciturni villaggi, quei morti quartieri, chiusi e celati in un angolo della città animata e in faccende.
Stabilì pure l'ora, che non doveva mutare, dei pasti. Erano del resto pasti semplici e quanto mai frugali; il suo stomaco era troppo malandato per consentirgli piatti grevi o variati.
D'inverno, alle cinque, appena giù il sole, sorbiva per colazione due ova e una tazza di tè con crostini: verso le undici pranzava; lungo la notte beveva caffè, a volte tè o vino; e prima di coricarsi, verso le cinque del mattino, piluccava qualcosetta.
Prendeva i suoi pasti - che ad ogni inizio di stagione venivano fissati una volta per sempre in tutti i loro particolari - ad un tavolo al centro di una stanzetta, separata dallo studio da un corridoio imbottito, a chiusura ermetica, che non lasciava filtrare né rumori né odori in nessuno dei due ambienti cui serviva di passaggio.
Questa stanza da pranzo aveva l'aspetto d'una cabina di nave, col suo soffitto a volta munito di travi a semicerchio, con gli assiti e il pavimento d'abete d'America, la finestrella che si apriva nel rivestimento di legno come un oblò in un sabordo.
A somiglianza di quelle scatole giapponesi che rientrano le une nelle altre, questa stanza era compresa in una più grande: la stanza da pranzo propriamente detta, nel progetto dell'architetto. In questa, due finestre s'aprivano; una - ora invisibile - nascosta da un assito ribaltabile a volontà per dar aria all'una come all'altra stanza da pranzo; l'altra, visibile (trovandosi giusto in faccia all'oblò aperto nel legno), ma condannata; infatti il grande aquarium occupava tutto lo spazio compreso tra questo oblò e la vera finestra aperta nel vero muro. La luce traversava quindi, per arrivare alla cabina, la finestra - i cui vetri erano stati sostituiti da uno specchio senza stagnola - l'acqua e finalmente il vetro fisso del sabordo.
D'autunno, quando il bricco del tè fumava sulla tavola, nel momento che il sole stava per sparire, l'acqua dell'acquario, lungo tutta la mattina vitrea e torbida, s'arrossava e filtrava sulle bionde paratie riflessi di brace.
A volte, nel pomeriggio, se per caso era sveglio e in piedi, Des Esseintes faceva agire il congegno di condotti e tubi di scarico che vuotavano l'acquario e vi rinnovava l'acqua. Nell'acqua limpida faceva versare una, due gocce d'essenze colorate; si godeva così, senza scomodarsi, i toni verdi o salmastri, opalini od argentati che assumono i fiumi in natura a seconda del colore del cielo, del sole più o meno vivo, della minaccia di pioggia più o meno imminente; a seconda insomma della stagione e dello stato dell'aria.
S'immaginava allora d'essere su un brigantino, sottocoperta; e incuriosito osservava dei meravigliosi pesci meccanici, caricati come orologi, passare davanti al vetro del sabordo, impigliarsi in finte erbe; oppure, respirare l'odor di catrame immesso nella stanza prima che lui entrasse, esaminava delle stampe a colori appese al muro, quali se ne vedono nelle agenzie dei piroscafi e dei Lloyd, rappresentanti dei vapori in rotta per Valparaiso o per la Plata; e delle tabelle incorniciate, recanti l'itinerario della linea del Royal mail steam Packet, delle compagnie Lopez e Valéry, i noli e gli scali dei servizi postali dell'Atlantico.
Quand'era stanco di questo passatempo, riposava gli occhi sui cronometri e le bussole, i sestanti ed i compassi, i binoccoli e le carte sparpagliate su un tavolo. Sopra il tavolo, un solo libro, rilegato in pelle di foca: le Avventure d'Arthur Gordon Pym, in esemplare stampato appositamente per lui, su carta vergata puro filo, scelta foglio per foglio, con un gabbiano in filigrana.
Né mancavano canne da pesca, reti scurite dalla concia, rotoli di vele rosse, una minuscola ancora di sughero, intonacata di nero: il tutto gettato alla rinfusa presso la porta che comunicava con la cucina per un corridoio, imbottito anche questo e che come l'altro smaltiva in sé odori e rumori.
Così, senza muoversi di dov'era, senza fare un passo, Des Esseintes compendiava in un minuto, in meno ancora, le sensazioni che gli avrebbe dato un lungo viaggio di mare. Il piacere di spostarsi, questo piacere che non esiste insomma che grazie al ricordo e quasi mai nel presente, nell'atto del viaggio, egli lo godeva in pieno, a suo agio, senza fatica, senza arrabattamenti, in quella cabina dal disordine voluto, dall'arredamento provvisorio, posticcio quasi, che s'accordava benissimo col poco tempo che vi restava, il tempo dei pasti; e che era invece in contrasto con lo studio: un ambiente, questo, definitivo, ordinato, stabile, fornito del necessario per vivervi a lungo in pantofole.
Muoversi gli pareva del resto inutile se la fantasia può, come stimava, facilmente supplire alla plebea realtà dei fatti.
A suo avviso, era possibile appagare i desideri ritenuti nella vita normale più difficili ad esaudire; e ciò grazie ad un piccolo sotterfugio: falsificando d'un niente l'oggetto del desiderio.
Nei ristoranti rinomati per le loro cantine il buongustaio, ad esempio, non si estasia centellinandosi vini di marca, ottenuti con vinelli qualunque trattati col procedimento di Pasteur? Ora, questo vino sofisticato ha lo stesso aroma, lo stesso colore, la stessa fragranza dell'autentico; e di conseguenza il piacere che si prova gustandolo, nulla ha da invidiare a quello che si proverebbe bevendo il vino ch'esso imita e che neanche a prezzo d'oro sarebbe possibile procurarsi.
Applichiamo questo capzioso scarto, questa sottile menzogna alle cose dell'intelletto. Nessun dubbio che si possa altrettanto facilmente godere chimeriche gioie, simili in tutto alle vere; nessun dubbio, ad esempio, che si possano compiere lunghissimi viaggi standosene nel cantuccio del fuoco: basterà, occorrendo, stimolare la fantasia pigra o restìa con la suggestiva lettura di lontani viaggi. Come non v'ha dubbio che si può, senza allontanarsi da Parigi, procurarsi la ristorante sensazione d'un bagno di mare: non c'è che recarsi al bagno Vigier, sito su un battello in piena Senna.
Ivi, salando l'acqua della propria vasca e mescendovi, come insegna il ricettario, solfato di soda, idroclorato di magnesia e calcio; aspirando l'odor di mare d'un pezzetto di gomena o d'un gomitolo di lenza come se ne possono trovare, impregnati ancora di salino (che s'avrà avuto cura di non lasciar svaporare) nei magazzeni e nei sottosuoli, odoranti di porto e di marea, delle ben fornite corderie; concentrandosi nella contemplazione d'una riuscita fotografia dello stabilimento balneare dove si vorrebbe essere, e commentandosela con l'avida lettura della guida Joanne, laddove descrive gli incanti di quella spiaggia; lasciandosi quindi cullare dalle onde che suscita, nell'acqua in cui si è immersi, il risucchio dei vaporetti che rasentano il pontone; tenendo infine l'orecchio ai lagni del vento che a due passi da voi, sul vostro capo, s'ingolfa sotto le arcate del Pont Royal ed al sordo traino degli omnibus che lo scuotono, l'illusione che s'ha del mare è innegabile, prepotente, da giurarvi su.
Tutto sta saper fare, saper concentrare l'attenzione su un unico punto; sapersi astrarre abbastanza da produrre l'allucinazione e da sostituire alla realtà reale la realtà fantasticata.
L'artifizio del resto Des Esseintes lo considerava il segno distintivo del genio. Per dirla con le sue parole, la natura ha fatto il suo tempo: essa ha per sempre stancato con la stucchevole monotonia dei suoi paesaggi e cieli la pazienza e l'aspettativa dei raffinati.
A ben pensarci, che trivialità d'operaia specializzata, la sua! d'operaia che non vede al di là di ciò che sa fare! che grettezza di piccola bottegaia, che tiene un solo articolo ad esclusione di tutti gli altri! Il suo, che monotono emporio di alberi e prati! che banale spaccio di mari e montagne!
Non c'è d'altronde una sola delle sue trovate - e prendi pure la più sottile o la più imponente - che il genio dell'uomo non possa emulare; nessuna foresta di Fontainebleau, nessun chiaro di luna che scenari inondati da fasci di luce elettrica non creino; nessuna cascata che l'idraulica non sappia imitare da farla scambiare per vera; nessuna roccia che la cartapesta non rifaccia; nessun fiore che un po' di cartavelina a colori e la delicatezza di certi taffetà non imitino alla perfezione.
Non c'è dubbio: questa sempiterna barbogia ha ormai stancato la sempliciotta ammirazione dei veri artisti; e il tempo è venuto di soppiantarla, sin dove si potrà, con l'artifizio.
E poi, a ben considerare, quella fra le sue opere che è stimata la più squisita, quella delle sue creazioni che, per universale consenso, è la più perfetta e originale, la donna, non ha forse l'uomo, a sua volta, messo al mondo da sé solo una creatura viva e fittizia che come bellezza plastica, nulla ha da invidiare alla donna?
Esiste forse quaggiù un essere concepito nelle gioie della fornicazione ed uscito dalle doglie di una matrice, il cui modello sia più abbagliante, più perfetto delle due locomotive in servizio sulle ferrovie del Nord?
L'una, la Crampton, un'adorabile bionda dalla voce squillante, dalla taglia imponente e delicata imprigionata in uno scintillante busto di rame, dalle mosse elastiche e nervose di gatta; una bionda azzimata e dorata, d'una straordinaria grazia, d'una grazia che incute spavento allorché, irrigidendo i muscoli d'acciaio, grondando dai caldi fianchi sudore, mette in moto l'immenso rosone della snella ruota e, prepotente di vita, s'avventa in testa alle rapide e alle maree.
L'altra, la Engerth, una maestosa e fosca bruna, dal grido sordo e rauco, dalle reni possenti prese in una corazza di ghisa; mostruoso animale dalla criniera scarmigliata di negro fumo, che poggia su sei tozze coppie di ruote, quale tremenda forza sviluppa, allorché, facendo tremare la terra, rimorchia, greve e massiccia, il pesante codazzo delle sue mercanzie!
Indarno cerchereste tra le fragili beltà bionde e le maestose beltà brune, tipi di delicata sveltezza e di terrificante forza che reggano al confronto. Senza tema di smentita, lo si può proclamare: nel suo genere l'uomo non è riuscito men bene del Dio nel quale crede.
A Des Esseintes veniva di fare questa riflessione quando la brezza recava sino a lui il fischio sfiatato della minuscola ferrovia che gioca a trottola tra Sceaux e Parigi. La sua casa distava una ventina di minuti dalla stazione di Fontenay; ma s'inerpicava così in alto ed era così isolata che non le giungeva il chiasso della sconcia folla che immancabilmente richiama alla domenica la vicinanza d'una stazione.
Quanto al villaggio, appena lo conosceva. Una notte aveva contemplato dalla finestra il silenzioso paesaggio che si spalanca in discesa sino al piede d'una collina, sulla cui sommità si rizzano le batterie del bosco di Verrières.
Nell'oscurità, a dritta e a manca, masse confuse digradavano, dominate in lontananza da altre batterie e da altri forti; sotto la cupezza del cielo, le loro alte scarpate, parevano, al chiar di luna, scialbate a guazzo d'argento.
Accorciata dall'ombra che proiettavano le colline, la pianura si sarebbe detta, al centro, infarinata d'amido e spalmata di cold-cream. Nell'aria tiepida, che ventilava l'erba stinta e diffondeva un dozzinale odor di spezie, gli alberi, ingessati di luna, arruffavano il pallido fogliame e si sdoppiavano, sbarrando di neri solchi con l'ombra dei loro tronchi il suolo di biacca, dove strati di ghiaia mettevano un lucore di stoviglie in frantumi.
Così artefatto e truccato, il paesaggio non dispiaceva a Des Esseintes. Ma di giorno nelle strade dell'abitato egli non aveva più messo piede, dal pomeriggio che vi aveva passato in cerca di casa.
La vegetazione del luogo non presentava del resto ai suoi occhi alcun interesse, non offrendo neppure la dolente, delicata attrattiva che esercita la vegetazione malaticcia dei dintorni di Parigi, quando spunta a fatica tra le macerie all'ombra dei bastioni.
Senza dire che, quel pomeriggio, nel villaggio aveva fatto a tempo a vedere dei borghesi con pancia e fedine e dei personaggi in uniforme con tanto di mustacchi, i quali portavano a spasso, con la compunzione con cui si reca il Santissimo, grinte di funzionari e di militari: ciò che aveva accresciuto ancora, se possibile, il suo orrore per la faccia umana.
Negli ultimi giorni del suo soggiorno parigino, quando, disgustato di tutto, torturato dall'ipocondria, in preda al più nero pessimismo, era giunto a tale eccitabilità di nervi che la vista di un oggetto o d'un essere che lo urtasse gli si stampava profondamente nel cervello ed occorrevano parecchi giorni perché la spiacevole impressione si attenuasse - rasentare il suo simile per via era diventato uno dei peggiori supplizi.
Soffriva fisicamente alla vista di certe fisionomie; prendeva quasi per un insulto personale l'espressione arcigna o paterna di certi visi; sentiva la voglia di schiaffeggiare il signore a spasso che socchiudeva gli occhi con aria saputa, quell'altro che si dondolava sorridendo alla sua immagine nella vetrina; quell'altro che pareva curvare il capo sotto il pondo di chi sa quali cognizioni e, così corrucciato, divorava pasticcini e cronaca spicciola di giornali.
Fiutava in essi una stupidità così inveterata, una tale avversione per le sue idee, un così massiccio disprezzo per la letteratura, l'arte, per tutto ciò ch'egli adorava - avversione e sprezzo radicati nei loro angusti cervelli di mercanti, unicamente preoccupati di carpire e d'ammucchiar denaro, curiosi solo di politica, questo basso svago dei mediocri - che rincasava furente e si chiudeva a chiave coi suoi libri.
Infine e con tutte le forze odiava le generazioni che venivano su; questi vivai di cialtroni che in trattoria ed al caffè sentono il bisogno di parlare e rider forte, sui marciapiedi ti spintonano senza chieder scusa; che senza chieder scusa e senza salutare ti cacciano tra i piedi la carrozzella con dentro il marmocchio.

III

Parte delle scansie che rivestivano le pareti dello studio blu e arancio, erano riservate a quella letteratura latina che i cervelli mortificati dalle Sorbone, pappagallescamente designano sotto il nome generico: “la decadenza”.
Ché il latino, come lo si scrisse nel secolo che i professori si ostinano tuttora a chiamare il secolo d'oro, non lo attirava granché. Quella lingua ristretta, dai giri di frasi contati, pressoché invariabili; irrigidita nella sua sintassi, senza colore né sfumature; quella lingua lisa in ogni costura, accuratamente potata delle espressioni meno corrette ma a volte quanto mai efficaci delle età precedenti; poteva a rigore enunciare le pompose banalità, i vaghi luoghi comuni che rimasticavano retori e poeti; ma emanava un tale disinteresse, un tale tedio che per trovare un'altra lingua altrettanto mortificata di proposito, altrettanto solennemente grigia e massacrante, il filologo doveva scendere sino allo stile francese del secolo di Luigi XIV.
Fra tutti, l'ineffabile Virgilio, colui che i prefetti di camerata chiamano il cigno di Mantova - evidentemente perché non è nato in tale città - gli appariva non solo uno dei più esosi pedanti, ma anche uno dei più sinistri rompiscatole che l'antichità abbia mai prodotto. I suoi pastori, usciti pur mo' dal bagno ed azzimati di tutto punto, che si scaricano a vicenda sul capo filastrocche di versi sentenziosi e gelati; il suo Orfeo ch'egli paragona a un usignolo in lagrime; il suo Aristeo che piagnucola per delle api; il suo Enea, questo personaggio indeciso e ondeggiante che si muove come un'ombra cinese, con mosse di marionetta, dietro il trasparente malfermo e male oliato del poema, lo mettevano fuori dei gangheri.
E ancora, egli sarebbe passato sopra alle noiose scemenze che quei burattini si scambiano a vuoto; avrebbe chiuso un occhio sugli impudenti plagi di cui fan le spese Omero, Teocrito, Ennio, Lucrezio; sul furto bell'e buono, di cui ci informa Macrobio, costituito dal secondo libro dell'Eneide, copiato si può dire parola per parola da un poema di Pisandro; su tutta insomma la indicibile vuotaggine di quel centone di canti; ma ciò cui non poteva passar sopra era la fattura di quegli esametri che rendon suono di latta, di fiasca di latta vuota; che alternano le lunghe e le brevi di parole pesate a chilo secondo l'immutabile schema d'una prosodia arida e pedante; l'ordito di quei versi rasposi e burbanzosi, nella loro tenuta ufficiale, nella loro bassa soggezione alla grammatica; di quei versi meccanicamente spezzati da un'impassibile cesura, turati in coda sempre allo stesso modo dall'inciampare d'un dattilo in uno spondeo.
Tolta in prestito alla perfezionata officina di Catullo, quella invariabile metrica, senza fantasia, senza discrezione, impinzata di parole inutili, di zeppe, di appigli sempre eguali e previsti; quella miseria dell'epiteto omerico che torna ogni momento e non dice nulla, non evoca nulla; tutto quell'indigente vocabolario sordo e piatto, lo mettevano alla tortura.
Ma se la sua ammirazione per Virgilio era delle meno calorose e dei più modesti e sordi il fascino che esercitavano su lui le evidenti cacate di Ovidio, una sconfinata avversione provava per le grazie elefantesche di Orazio, per il balbettìo di questo insopportabile centochili che fa lo smorfioso con lazzi di vecchio saltimbanco infarinato.
Nella prosa la verbosità, le ridondanti metafore, le gratuite disgressioni del Cece, non lo allettavano di più. La jattanza delle sue apostrofi, l'alluvione di luoghi comuni patriottici, l'enfasi delle sue concioni, la greve compattezza del suo stile carnoso, ben nutrito ma degenerato in grasso, privo d'osso e di midolla; le intollerabili scorie degli avverbi sesquipedali coi quali apre le frasi, l'inalterabile schema su cui son calcati i suoi adiposi periodi, mal cuciti insieme dal filo delle congiunzioni; infine il tedioso vezzo della tautologia, lo seducevano mediocremente. Né molto di più di Cicerone lo entusiasmava Cesare, famoso pel suo laconismo; perché l'eccesso contrario diventava in questo aridità da caporalmaggiore, secchezza da appunto, stitichezza incredibile e sconveniente.
Tirate le somme, non trovava di che pascersi né in questi né in quegli altri scrittori che pure fan la delizia dei falsi letterati: Sallustio, ancorché meno sbiadito degli altri; Tito Livio, patetico e pomposo; Seneca, turgido e scialbo; Svetonio, linfatico ed embrionale; Tacito, il più nerboruto tuttavia nella sua voluta concisione, il più aspro, il più muscoloso di tutti costoro.
In poesia, lo lasciavano freddo Giovenale, nonostante qualche verso ben battuto; quanto Persio, nonostante le sue oscure allusioni. Trascurando Tibullo e Properzio, Quintiliano e i due Plinio, Stazio, Marziale di Bilbili, lo stesso Terenzio e Plauto (di Plauto gli sarebbe piaciuto il gergo pieno di neologismi, di parole composte, di diminutivi; ma lo torturava la sua comicità plebea, il suo sale grosso di cucina); Des Esseintes cominciava ad interessarsi con Lucano. Con Lucano il latino si liberava delle sue pastoie, diventava meno mortificato, più espressivo. Quell'armatura cesellata, quei versi smaltati, ingioiellati se lo cattivavano; ma la preoccupazione esclusiva della forma, quelle sonorità verbali, quegli squilli di metallo non riuscivano a celargli del tutto il vuoto del pensiero, le ampollosità che seminano di tumori la superficie della Farsalia.
L'autore che amava davvero, che gli faceva bandire per sempre dalle sue letture le roboanti tirate di Lucano, era Petronio.
Eccolo finalmente un acuto osservatore, un fine analista, un pittore meraviglioso. Tranquillamente, senza partito preso, senza animosità di sorta, Petronio descriveva la vita d'ogni giorno a Roma, fermava nei vivaci corti capitoli del Satyricon i costumi del tempo.
Annotando via via i fatti, consegnandoli in una forma definitiva, egli faceva passare sotto gli occhi del lettore la minuta vita del popolo con le sue peripezie, le sue bestialità, le sue foie.
Qui è l'ispettore alle locande che viene a chiedere il nome dei viaggiatori ultimi arrivati. Là, lupanari dove i clienti girano intorno a donne nude che si esibiscono in piedi tra cartelli; mentre per gli usci mal chiusi delle stanze si intravedono coppie sollazzarsi. Là ancora, in ville d'un lusso sfacciato, d'una ricchezza e d'un fasto pazzeschi, o in miserabili taverne che si susseguono coi vivai di piattole dei loro giacigli a cinghia disfatti, s'agita la società del suo tempo. Osceni marioli, quali Ascilto ed Eumolpo, in busca d'una buona bazza; vecchi sporcaccioni dalla veste rimboccata, le guance intonacate di cerussa e rossetto; gitoni sedicenni, paffuti e riccioluti; donne in preda ad attacchi isterici; genitori a caccia di eredità nell'atto di offrire figli e figlie alle voglie dei testatori; tutti passano schizzati nelle pagine, si vedono discorrere per le vie, palpeggiarsi nei bagni, caricarsi di botte come in una pantomima.
E tutto questo, raccontato in uno stile d'un colorato preciso, d'un brio indiavolato; in una lingua che attinge a tutti i dialetti, toglie in prestito modi di dire a tutti gli idiomi portati a spasso per Roma; in una sintassi che non conosce barriere, sciolta dalle pastoie del cosidetto secolo d'oro, e che fa parlare a ciascuno il suo idioma: ai rozzi liberti, il latino plebeo, il gergo della strada; agli stranieri il loro dialetto barbarico, imbastardito d'africano, di sirio e di greco; ai pedanti imbecilli, come l'Agamennone del libro, un retoricume di parole posticce. Tutti questi personaggi sono schizzati d'un solo tratto di penna, mentre, abbruttiti intorno ad una tavola, scambiano sceme frasi da ubbriachi, spacciano massime barboge, insulsi proverbi, il grugno volto verso Trimalcione che si stuzzica i denti, offre orinali ai convitati, li intrattiene sullo stato del suo ventre e dei suoi intestini, li invita a mettersi a lor agio.
Questo romanzo verista, questa fetta di vita romana tagliata nel vivo, che non si preoccupa, checché si dica, né di riformare né di satireggiare i costumi; che fa a meno d'una conclusione e d'una morale; questa storia senza intreccio, dove non succede nulla, che mette in scena le avventure della selvaggina di Sodoma; che analizza con imperturbabile acutezza gioie e dolori di codesti amori e di codeste coppie; che, senza che l'autore faccia mai capolino, senza che si lasci andare a un solo commento, senza che approvi o maledica gli atti o i pensieri dei suoi personaggi, dipinge in una lingua da orafo i vizi d'una civiltà decrepita, d'un impero che si va sfasciando - conquideva Des Esseintes, il quale nella raffinatezza dello stile, nell'acutezza dell'osservazione, nel fermo piglio con cui la narrazione veniva condotta, intravvedeva singolari parentele, curiose analogie con i pochi romanzi del tempo suo che non gli dispiacevano.
Inutile aggiungere ch'egli rimpiangeva amaramente l'irrimediabile perdita delle altre due opere di Petronio, menzionate da Planciade Fulgenzio; l'Eustion e l'Albutia; ma di quella perdita consolava il letterato il bibliofilo che era in lui, e che del Satyricon poteva religiosamente maneggiare la splendida edizione di sua proprietà: l'in-ottavo, recante il millesimo 1585 e il nome di J. Dousa, stampatore a Leyda.
A partire da Petronio, s'entrava nel secondo secolo dell'era cristiana.
La collezione saltava Frontone, il declamatore dal vocabolario antiquato, malamente rabberciato e rinverniciato; scavalcava le Notti attiche di Aulo Gellio, discepolo di Frontone e amico suo: mente sagace e indagatrice, ma, come scrittore, impegolato in una melma attaccaticcia; e sostava davanti ad Apuleio, presentato nell'edizione principe, in-folio, stampata a Roma nel 1469.
Questo africano gli richiamava in volto il sorriso.
Nelle sue Metamorfosi il latino raggiungeva la pienezza: travolgeva seco limi, acque diverse, affluite da tutte le provincie; e tutte si mescevano, si confondevano in una tinta bizzarra, esotica, quasi nuova. Vezzi, particolari nuovi della società latina trovavano la loro piena espressione in neologismi scaturiti, in quell'angolo d'Africa romano, dalle necessità della conversazione.
Inoltre lo divertiva quella sua esuberanza d'uomo evidentemente pingue, quella sua esuberanza meridionale. Apuleio gli appariva così come un gaio e salace mattacchione vicino agli apologisti cristiani che fiorivano nello stesso suo secolo: il soporifero Minucio Felice, un falso classico che spaccia nel suo Octavius le emulsioni, inspessite ancora, di Cicerone; nonché lo stesso Tertulliano, che probabilmente Des Esseintes conservava più per l'edizione aldina che per l'opera in sé.
Sebbene fosse ferrato in teologia, le dispute dei montanisti contro la Chiesa cattolica, le polemiche sulla gnosi, lo lasciavano freddo; dimodoché, sebbene di Tertulliano lo interessasse lo stile - uno stile conciso, pieno di anfibologie, che si regge sui participi, scoppietta di antitesi, gremito di giochi di parole e di frizzi, screziato di vocaboli pescati nel giure e nella lingua dei Padri della Chiesa - non apriva quasi più l'Apologetico né il Trattato sulla Pazienza; tutt'al più scorreva qualche pagina di quel De cultu feminarum dove l'autore scongiura le -donne di non pararsi di gioielli e di stoffe preziose ed interdice loro l'uso dei cosmetici perché s'arrogano di emendare la natura e di abbellirla.
Queste idee, diametralmente opposte alle sue, lo facevano sorridere. Aggiungi che la parte sostenuta da Tertulliano come vescovo di Cartagine, gli pareva dar materia a divertenti riflessioni. Più dell'opera, era l'uomo che lo attirava.
Sebbene infatti vivesse in tempi procellosi, agitati da paurosi torbidi, sotto Caracalla, sotto Macrino, sotto lo stupefacente Pontefice di Emesa, Elagabal, egli preparava imperterrito i suoi sermoni, gli scritti di dogmatica, le difese, le omelie, intanto che l'impero romano vacillava dalle fondamenta, mentre le follie dell'Asia, le sozzure del paganesimo scorrevano come fiume in piena. Raccomandava con la maggiore serietà l'astinenza carnale, la frugalità nel cibo, la modestia nel vestire, mentre, incedendo su polvere d'argento e sabbia d'oro, cinto di tiara il capo, i paludamenti tempestati di gemme, Elagabal accudiva nel cerchio dei suoi eunuchi a lavori donneschi; si faceva chiamare Imperatrice e mutava ogni notte di Imperatore, eleggendoselo di preferenza tra i barbitonsori, i rovinasalse ed i cocchieri di circo.
Questo contrasto estasiava Des Esseintes. Aggiungi che il latino, giunto con Petronio all'apice della perfezione, cominciava a corrompersi; la letteratura cristiana, imponendosi, introduceva con le nuove idee nuove parole, costrutti inusitati, verbi sconosciuti, aggettivi di senso lambiccato, vocaboli astratti: rari sin allora nella lingua romana, e che Tertulliano era stato il primo ad adottare.
Senonché questo processo di deliquescenza, proseguito dopo la morte di Tertulliano dal suo discepolo San Cipriano, da Arnobio, dal pesante e goffo Lattanzio, era senza attrattiva. Era un infrollirsi lento e parziale con sgraziati ritorni all'enfasi ciceroniana; cui mancava ancor quel particolare sentore che nel IV secolo e soprattutto nei secoli che gli seguiranno il cristianesimo comunicherà alla lingua pagana, ormai corrotta come selvaggina; e che si sbriciolerà via via che s'andrà sgretolando la civiltà del vecchio mondo, via via che crolleranno sotto l'urto dei Barbari gli Imperi putrefatti dalla sanie dei secoli.
Un solo poeta cristiano, Commodiano di Gaza, rappresentava nella biblioteca l'arte del terzo secolo. Il suo Carmen apologeticum, scritto nel 259, è una raccolta di precetti, torti in acrostico, composto in esametri popolareschi messi insieme senza badare alla quantità e lo hiatus ed accompagnati sovente di rime; di quelle rime di cui il latino chiesastico darà in seguito numerosi esempi.
Quei versi stentati, cupi, che san di selvatico, pieni di termini della parlata, di vocaboli distratti dal loro primiero significato, lo attiravano, lo interessavano anche più dello stile mézzo e già frollo degli storici Ammiano Marcellino e Aurelio Vittore, dell'epistolografo Simmaco e del compilatore e grammatico Macrobio; sinanco li preferiva agli autentici versi scanditi, alla lingua screziata e superba che parlarono Claudiano, Rutilio e Ausonio.
Eran questi allora i maestri, i cui gridi riempivano l'Impero agonizzante: il cristiano Ausonio, col suo Centone Nuziale e coll'esuberante e fastoso poema La Mosella; Rutilio, coi suoi inni alla gloria di Roma, gli anatemi contro monaci e giudei, col suo viaggio dall'Italia alla Gallia in cui riesce a rendere mirabilmente certe sensazioni ottiche: l'incertezza dei paesaggi riflessi nell'acqua, le morgane che crea il vapor acqueo, lo staccarsi dai monti e l'involarsi del nebbione che li avviluppava; Claudiano, una specie di reincarnazione di Lucano, che domina tutto il quarto secolo col clangore guerriero dei suoi versi; il fabbro d'un esametro smagliante e sonoro che tra un grande sprizzar di faville foggia d'un colpo di martello l'epiteto, animando l'opera d'un afflato possente, attingendo una specie di grandezza.
Nell'Impero d'Occidente, che sempre più si va sfasciando, nel cruento pantano dei massacri che si susseguono incessanti intorno a lui, nella perenne minaccia dei Barbari che si pigiano ormai in folla alle porte dell'Impero e ne fan scricchiolare i cardini, Claudiano resuscita l'antichità, canta il ratto di Proserpina, sfida il tempo con lo smagliare dei suoi colori, passa con tutti i suoi fuochi accesi nel buio che inghiotte il mondo.
Torna con lui il paganesimo a suonare la sua ultima fanfara; alza in lui il suo ultimo grande poeta al disopra del Cristianesimo, che sommergerà d'ora in poi completamente la lingua e che, per sempre ormai, resterà unico maestro d'arte: con Paolino, allievo d'Ausonio; col prete spagnolo Juvenco che parafrasa in versi l'Evangelo; con Vittorino, l'autore dei Maccabei; Sanctus Burdigalensis che in un'ecloga, imitata da Virgilio, fa lamentare ai pastori Egone e Bucolo le malattie dei loro greggi; con tutta la serie dei Santi: Ilario di Poitiers, il difensore della fede di Nicea, l'Atanasio dell'Occidente come vien chiamato; Ambrogio, autore d'indigeste omelie, tedioso Cicerone cristiano; Damaso, il fabbricante di epigrammi lapidari; Gerolamo, il traduttore della Vulgata ed il suo avversario Vigilanzio di Comminges, che se la prende col culto dei santi, l'abuso dei miracoli, i digiuni; e che già predica, con argomenti che i secoli riprenderanno da lui, contro i voti monastici ed il celibato dei preti.
Infine, nel quinto secolo, Agostino, vescovo di Ippona.
Questo, Des Esseintes non lo conosceva che troppo: non era lo scrittore più apprezzato della Chiesa, il fondatore dell'ortodossia cristiana, colui che i cattolici tengono in conto di oracolo, di maestro dei maestri?
Sicché non lo apriva più, sebbene nelle Confessioni avesse cantato il fastidio del mondo e sebbene nella Città di Dio la sua gemebonda devozione avesse cercato d'alleviare con la cullante prospettiva di destini migliori la paurosa angoscia del tempo. Bazzicava ancora la teologia, che già Des Esseintes era ristucco delle sue prediche e geremiadi, delle sue teorie sulla predestinazione e sulla grazia, delle sue polemiche contro gli Scismi.
Preferiva sfogliare la Psychomachia di Prudenzio, l'inventore del poema allegorico che doveva poi imperversare nel Medio Evo; e l'opera di Sidonio Apollinare, l'autore di quelle lettere che lo attiravano, lardellate com'erano di arguzie, di frecciate, d'arcaismi, di indovinelli. Con diletto si rileggeva i panegirici dove questo vescovo per dar forza ai suoi vanitosi encomi, invoca le deità pagane; e, nonostante tutto, sentiva un debole per le affettazioni ed i sottintesi di quelle poesie, opera d'un ingegnoso operaio che ha cura della sua macchina, ne olia gli ingranaggi, ne inventa all'occorrenza di complicati e di inutili.
Dopo Sidonio, bazzicava ancora il panegirista Merobaude; Sedulio, autore di poemi rimati e d'inni abbecedari, di cui la Chiesa s'appropriò certe parti per i bisogni dei suoi offizi; Mario Vittore il cui tenebroso trattato sulla Pravità dei costumi s'illumina qua e là di slucciolii fosforescenti; Paolino di Pella, il poeta dell'infreddolito Eucharisticon; Orienzio, vescovo di Auch, che nei distici dei suoi Monitori scoppia in invettive contro la dissolutezza delle donne che col loro viso, afferma, mandano i popoli alla perdizione.
L'interesse che Des Esseintes portava alla lingua latina, non s'affievoliva neanche ora che, completamente putrefatta, essa penzolava, perdendo membro a membro, colando marcia; neanche ora che da tanta corruzione restavano illese poche parti che gli scrittori cristiani staccavan via per marinarle nella salamoja della loro nuova lingua.
La seconda metà del quinto secolo era venuta; l'epoca spaventosa in cui la terra sembrò vacillare sulle sue fondamenta. I Barbari saccheggiavano la Gallia; Roma paralizzata, messa a ferro e fuoco dai Visigoti, avvertiva il gelo della fine; vedeva le sue più lontane provincie, l'Oriente e l'Occidente, dibattersi nel sangue, ogni giorno più esaurirsi.
In mezzo allo sfacelo generale, mentre uno dopo l'altro i Cesari cadevano assassinati, fra gli urli che s'alzavano dalle carneficine di cui l'Europa da un capo all'altro s'insanguinava, più forte d'ogni voce, dominando ogni clamore, un urrà raccapricciante echeggiò. Sulla riva del Danubio, migliaia d'uomini, piantati su piccoli cavalli, avviluppati in casacche fatte di pelli di topo, dei Tartari orrendi, con enormi teste, nasi schiacciati, menti scavati da sfregi e cicatrici, glabre facce di itterici, si precipitano ventre a terra, circondano d'un turbine le terre dei Bassi Imperi.
Tutto sparì nella polvere che il loro galoppo sollevava, nel fumo degli incendi. La notte si fece; ed i popoli interroriti tremarono udendo passare col rombo d'un tuono il ciclone devastatore. L'orda degli Unni spianò l'Europa, irruppe nella Gallia, dove nelle piane di Châlons Ezio la macellò in una memorabile carica. La pianura, imbevuta di sangue, schiumò come un mare di porpora. Duecentomila cadaveri, sbarrando la strada, infransero l'impeto di quella valanga, che, deviata, precipitò con schianti di folgore sull'Italia, dove le città messe a sacco arsero come mucchi di fieno.
All'urto, l'Impero d'Occidente crollò; la vita di moribondo che trascinava nell'imbecillità e nel lordume si spense. La fine del mondo pareva del resto vicina: le città risparmiate da Attila, le decimava la fame e la peste. Il latino sembrò restar schiacciato pur lui sotto le macerie del mondo.
Anni trascorsero; gli idiomi barbarici cominciarono a cristallizzarsi, ad uscire dalla loro ganga, a formare dei veri linguaggi. Il latino, salvato nello sfacelo dai chiostri, si confinò nei conventi e nelle parrocchie. Qua e là, qualche poeta fiorì, tardo e freddo: l'africano Draconzio col suo Hexameron; Claudio Mamert, coi canti liturgici; Avito di Vienna; poi dei biografi, come Ennodio che narra i prodigi di Sant'Epifanio, il venerato e perspicace diplomatico, il probo e vigilante pastore; come Eugippo, che ci racconta l'incomparabile vita di San Severino, questo misterioso eremita, quest'umile asceta, apparso quale un angelo di misericordia ai popoli in pianto, impazziti di terrore e di patimenti; scrittori come Veranio del Gévaudan, che lasciò un trattatello sulla castimonia; come Aureliano e Ferreolo che compilarono cànoni ecclesiastici; storici come Roterio d'Agde, famoso per una storia, che andò perduta, degli Unni.
Rare si facevano nella biblioteca di Des Esseintes le opere dei secoli che seguirono. Il secolo sesto v'era tuttavia rappresentato da Fortunat, vescovo di Poitiers: i suoi inni ed i Vexilla regis, ricavati nel corpo decomposto della lingua latina, drogati dagli aromati della Chiesa, certi giorni lo calamitavano; da Boezio, il vecchio Gregorio di Tours e Jornandès. Poi, per i secoli settimo e ottavo, dove - se si eccettua il basso latino dei cronisti, dei Fredegario e dei Paolo Diacono e quello delle poesie accolte nell'antifonario di Bangor (di questo, egli ridava qualche volta un'occhiata all'inno alfabetico e monorime cantato in onore di San Comgill) - la letteratura si rifugia quasi unicamente nelle biografie dei santi, nella leggenda di San Colombano scritta dal cenobita Jonas, in quella del beato Cuthbert, stesa da Beda il Venerabile, sulla scorta degli appunti d'un monaco anonimo di Lindisfarn; - Des Esseintes si limitava a sfogliare nei momenti di noia l'opera di questi agiografi, a rileggere qualche brano della vita di Santa Rusticola e di Santa Redegonda, dovuta la prima a Defensorio, sinodita di Ligurgé, l'altra alla modesta e ingenua Baudonivia, monaca di Poitiers.
Ma lo allettavano di più le curiose opere della letteratura Anglosassone in latino: era tutta la serie degli enimmi di Adelmo, di Tatwine, d'Eusebio, questi discendenti di Sinfosio; e soprattutto gli enimmi composti da San Bonifacio in strofe acrostiche dove la soluzione era data dalle iniziali dei versi.
Col finire di questi due secoli, l'interesse di Des Esseintes scemava. Poco entusiasta insomma dei pesanti e numerosi scrittori in latino carolingi, gli Alcuni e gli Eginardo, si contentava, quando voleva assaggiare la lingua del nono secolo, delle cronache dell'anonimo di Saint Gall, di Fréculfe e di Réginon; del poema sull'assedio di Parigi composto da Abbo il Curvo; dell'Hortulus, poema didascalico del benedettino Walafrid Strabo: il suo capitolo consacrato alla gloria della zucca, simbolo di fecondità, lo esilarava; del poema di Ernoldo il Nero, celebrante le gesta di Luigi il Bonario: poema scritto in esametri regolari, in uno stile austero, quasi tetro, in un latino di ferro temprato in acque conventuali, non senza qua e là nella durezza del metallo falle di sentimento; del De viribus herbarum, il poema di Macro Florido che lo divertiva specialmente per le sue ricette in versi e le mirabolanti virtù che l'autore prestava a certe piante, a certi fiori: all'aristolochia, verbigrazia, che mescolata a carne bovina e tenuta da un'incinta sul basso ventre la fa infallantemente sgravarsi d'un maschio; al decotto di borrana che spruzzato in una sala da pranzo, mette i commensali di buonumore; alla peonia, la sua radice triturata guarisce per sempre dall'epilessia; al finocchio: se una donna se lo pone in seno, le chiarifica le orine ed ovvia ai suoi ritardi mestruali.
A parte alcuni volumi d'un genere speciale, non catalogati, moderni o senza data; dei trattati di cabala, di medicina e di botanica; a parte alcuni tomi scompagnati della Patologia di Migne nei quali erano poesie cristiane introvabili, e l'antologia dei poeti minori latini di Wernsdorff; a parte il Meursius, il manuale classico di Forberg sull'erotologia, la moechialogia ed i diaconali ad uso dei confessori, che raramente gli accadeva di spolverare; la sua biblioteca latina s'arrestava all'inizio del decimo secolo.
A questo punto infatti il latino cristiano perdeva la sua complicata ingenuità ed insieme ogni interesse. D'ora in poi invaderebbe il campo la grigia confusa folla dei filosofi e degli scoliasti, inaugurando il regno della logomachia medioevale; inquinerebbero l'aria di fuliggine la cronaca e il libro storico; grevi come pani di piombo, sorgerebbero a cataste i cartularii.
Morta la balbettante grazia, la goffaggine a volte incantevole con cui i monaci allestivano pii intingoli con le reliquie poetiche dell'antichità; perite le officine di verbi dal senso sottile, di sostantivi odoranti d'incenso, d'aggettivi bizzarri, rozzamente cesellati nell'oro col gusto barbaro e affascinante dei gioielli goti.
Le vecchie edizioni che Des Esseintes amava tanto, finivano - e con un pauroso salto nel tempo, i libri che si schieravano ora sui palchetti, scavalcando a piè pari un intervallo di secoli, arrivavano di colpo alla letteratura francese dell'Ottocento.
IV

Un giorno verso sera una vettura si fermò davanti alla casa di Fontenay.
Siccome Des Esseintes non riceveva visite, e il postino nel suo giro non si avventurava neanche in quei paraggi disabitati, non avendo né riviste né giornali né lettere da recapitare, i domestici esitarono ad aprire; e solo al perentorio squillare del campanello, s'arrischiarono a far giocare lo spioncino della porta e videro un tizio corazzato dal mento alla cintola da un immenso scudo d'oro.
Avvertirono il padrone di casa che stava facendo colazione.
“Benissimo: fate salire”. Ricordava infatti di aver dato il proprio indirizzo ad un lapidario per metterlo in grado di recapitargli un lavoro che gli aveva commissionato.
Introdotto, l'uomo salutò e depose sul pavimento lo scudo. Lo scudo oscillò, si sollevò un tantino; sporse di sott'esso il capo serpentino d'una testuggine che, spaurita, si ritrasse tosto nel suo guscio.
Era andata così. Qualche tempo prima di partire da Parigi, a Des Esseintes era venuto il ghiribizzo di possedere una tartaruga ed ecco come.
Un giorno che contemplava un tappeto orientale a riflessi e si faceva accarezzare gli occhi dai bagliori argentei che si propagavano per l'ordito giallo aladino e viola prugna della lana, s'era detto: - Su questo tappeto andrebbe bene qualche cosa di cupo che si movesse: la vivacità delle tinte se ne avvantaggerebbe.
Posseduto da questa idea, aveva vagato a caso per le vie; e giunto al Palais Royal, in vetrina da Chevet aveva visto ciò che faceva al caso suo: un'enorme testuggine che nuotava in una vasca.
A casa, aveva messo in libertà l'animale sul tappeto; e, seduto di contro, s'era indugiato a contemplarlo, strizzando l'occhio.
Ahimè: il marron scuro di quel guscio, la sua tonalità di terra di Siena cruda, sporcava, senza ravvivarli, i riflessi del tappeto; il lucore, che vi dominava, dell'argento scintillava adesso appena, arrampicandosi con toni freddi di zinco scalfito agli orli di quel coccio opaco e duro.
Così no. Come conciliare quel connubio? come ovviare al deciso divorzio di quei toni? Cercava.
Finalmente scoprì che la sua prima idea, d'attizzare la vivacità della stoffa col contrasto d'un oggetto scuro che vi tentennasse sopra, era errata; il tappeto era troppo vistoso, troppo petulante, troppo nuovo; i suoi colori non s'erano ancora smussati abbastanza, abbastanza attenuati.
Occorreva fare tutto il contrario: smorzar quei toni, spegnerli col contrasto d'un oggetto abbagliante che dominasse solo, riverberando sul pallore dell'argento riflessi d'oro.
Così impostato, il problema diveniva di più facile soluzione. Decise pertanto di rivestir d'oro la corazza della tartaruga.
Una volta che l'esperto, che l'aveva presa a pensione, l'ebbe riportata, la testuggine raggiò come un sole; sul tappeto che si arrese, sfolgorò, rutilante scudo visigoto, lavorato a squame embriciate da un artista barbarico.
Des Esseintes alla prima restò incantato dell'effetto. Poi s'avvide che il gigantesco gioiello era appena abbozzato; perché fosse perfetto, occorreva incastonarlo di gemme rare.
In una collezione di disegni giapponesi, uno ne scelse ove da un gambo da nulla si spiccava, a mo' di razzo, uno sciame di fiori. Schizzò una cornice ovale che lo contenesse e si recò da un gioielliere; il quale trasecolò quando si sentì dire che ogni fiore, ogni petalo, ogni foglia andava eseguita in pietre preziose, incastrate nel guscio stesso dell'animale.
Le difficoltà cominciarono quando si trattò di scegliere le pietre. Diamanti? Ormai non c'è pizzicagnolo che non ne ostenti uno al mignolo.
Meno avviliti, lo smeraldo ed il rubino d'Oriente, che sprizza lampi d'un rosso brillante; senonché ricordavano troppo i fanaletti, verdi e rossi appunto, che certi omnibus recano ai lati. Quanto ai topazi, bruciati o crudi, sono pietre a buon mercato, care alla piccola borghesia che ci tiene a chiudere a chiave nell'armadio a specchi il suo bravo scrigno. D'altra parte, sebbene la Chiesa abbia conservato all'ametista un carattere sacerdotale, grave e untuoso insieme, il pararsene che ne fanno le macellaie, pur d'appendere senza troppa spesa alle orecchie color bistecca ed infilare ai salsicciotti delle dita gioie autentiche e che pesino, ha discreditato anche questa pietra.
Dalla stupidità dei commercianti e degli abbienti, solo lo zaffiro ha saputo serbare immacolato il suo fuoco. Il crepitare delle sue faville su un'acqua tersa e fredda, ha, chi sa come, preservato da ogni macchia la sua nobiltà discreta e altera. Ma purtroppo, alla luce artificiale il suo limpido fuoco non scoppietta più; l'acqua azzurra rientra in sé, pare cada in sonno, per risvegliarsi crepitando solo al primo accenno del giorno. No, nessuna di quelle pietre, d'altronde troppo civilizzate e troppo note, poteva accontentare Des Esseintes.
Si fece ruscellare tra le dita minerali più sorprendenti e più bizzarri; e finì per scegliere, tra vere e artificiali, una serie di pietre che, mescolate ad arte, non potevano a meno di creare un'armonia, fascinosa a un tempo e sconcertante.
Ecco come tradusse in gemme il mazzo di fiori. A formare le foglie vennero incastonate pietre d'un verde vivace e preciso: crisoberilli verde asparago, peridoti verde pera, olivelle verde oliva; e si staccarono da gambi di almadina e d'uvarovita d'un rosso violaceo pagliettato di pagliuzze d'uno splendore arido: lo splendore delle miche di tartaro che luccicano nell'interno delle botti.
Per i fiori più lontani dal gambo, più aerei, usò della cenere turchina; ma non già ricorrendo alla turchese d'oriente di cui si montano fermagli ed anelli e che, con la triviale perla e l'esoso corallo, fa la gioia del popolino.
Scelse esclusivamente turchesi d'occidente, pietre che sono, a dir vero, che una specie di avorio fossile impregnato di sostanze ramose ed il cui blu verdazzurro è ingorgato, opaco, solforoso; ingiallito, si direbbe, di bile.
Restavano ora da tradurre in gemme i fiori centrali del mazzo, i più vicini al gambo.
Ne incastonò i petali di minerali trasparenti, dai lucori vitrei e malaticci, dai riflessi agri e febbrosi. Compose quei fiori unicamente con occhi-di-gatto del Ceylon, con cimofani e zaffirine. Queste tre pietre sprizzano infatti scintillii misteriosi e perversi, con pena strappati dal fondo gelato della loro acqua torbida: l'occhio-di-gatto d'un grigio verdastro, striato di vene concentriche che parevano inquietarsi, spostarsi ad ogni variar di luce; il cimofano, dai marezzi azzurrini che si propagano sulla tinta lattiginosa che vi fluttua sotto; la zaffirina che, su un fondo cioccolato di un bruno sordo, accende fuochi di fosforo bluastri.
Il lapidario si notava il punto preciso ove ogni pietra andava incastrata.
“E per l'orlo del guscio?” chiese a Des Esseintes.
Per l'orlo, Des Esseintes aveva dapprima pensato a certi opali a certi idrofani; ma sebbene interessanti per l'indecisione del colore, per l'incertezza dei loro fuochi, queste pietre sono troppo insubordinate e infedeli. L'opale ha addirittura una sensibilità da reumatico: umidità e temperatura ne alterano lo splendore; l'idrofano poi, il nome lo dice, non arde che nell'acqua; quantomeno occorre umettarlo perché accenda la sua bragia grigia.
Si decise infine per minerali che verrebbero alternati: per il giacinto di Compostella, rosso acagiù; l'acquamarina, verde-glauca; il balascio, rosa aceto; il rubino di Sudermania, ardesia chiaro. Il loro tenue riflesso bastava a rischiarare la tetraggine del guscio e non toglieva spicco alla fioritura di gemme, ch'esso incorniciava d'una lieve ghirlanda di fuochi fatui.
Ora Des Esseintes poteva a suo agio guardarsi, rannicchiata in un angolo della stanza da pranzo la sua tartaruga, che in quell'ombra rutilava.
Si sentì felice, appagato: l'occhio s'inebriava in quel barbaglio di corolle in fiamma su un fondo d'oro. E poi, contro il solito, quel giorno si sentiva appetito e inzuppava crostini, spalmati d'un burro prelibato, in una chicchera di tè: perfetta miscela di Si-a-Fayuna, di Mo-yu-tann e di Khansky: tè gialli, che eccezionali carovane avevano importato in Russia dalla Cina.
Si centellinava il liquido aroma in maioliche cinesi, cui la leggerezza e la trasparenza meritava il nome di gusci d'ova; e come non ammetteva che quelle adorabili chicchere, così non si serviva di posate che non fossero d'argento dorato autentico; d'un dorato un po' stinto come è quando già l'argento trapela un tantino sotto il liso della rivestitura e conferisce all'oro una tinta dolcemente antica: sfinitissima, morente.
Bevuto l'ultimo sorso e rientrato nello studio, vi fece portare la tartaruga che s'ostinava a non muoversi.
Nevicava. Alla luce delle lampade, una fioritura di gelo serpeggiava dietro i vetri bluastri; e nevischio, simile a zucchero candito, scintillava nei fondi di bottiglia, picchiettati d'oro.
Un profondo silenzio avviluppava la casetta immersa nella tenebra. Des Esseintes s'abbandonava alle sue fantasticherie.
Siccome la legna accatastata nel braciere faceva scottar l'aria, schiuse la finestra.
Come un arazzo picchiettatto di bianco il cielo si levò davanti al lui. Ma, glaciale, una ventata fece più fitta vorticar la neve; i colori si invertirono; l'arazzo araldico del cielo si rovesciò, divenne autentico ermellino, e quello che della notte tra fiocco e fiocco trasparì, lo punteggiò di nero.
S'affrettò a chiudere. Il passare di punto in bianco dal calor torrido della stanza al gelo dell'esterno, gli aveva dato un brivido. Si ranicchiò presso il fuoco e sentì il desiderio di buttar giù per riscaldarsi un sorso d'alcole. Passò in sala da pranzo e andò a un armadietto che s'apriva nella parete. Posando su travicelli di sandalo, vi si allineavano in bell'ordine tante botticelle, munite ciascuna d'un rubinetto d'argento. Des Esseintes chiamava quell'assortimento di liquori il suo organo a bocca. Un dispositivo permetteva d'aprire tutti i rubinetti insieme; bastava premere un bottone dissimulato nell'assito perché tutte le spine, voltate a tempo, riempissero i sottoposti bicchierini.
L'organo si trovava adesso aperto; i tiranti sui quali si leggeva: “flauto” “corno” “voce celeste” sporgevano, pronti all'uso.
Des Esseintes assaggiava qui una goccia, un'altra là; orchestrando entro di sé delle sinfonie, arrivava a procurarsi in gola sensazioni non diverse da quelle che all'orecchio dà la musica.
Non per niente egli stimava che ogni liquore corrisponde pel gusto al suono d'uno strumento. Il currasò secco, ad esempio, al clarinetto, dal canto acerbo e vellutato; il kummel, all'oboe sonoro e nasale; la menta e l'anisetta, al flauto, zuccherino insieme e pepato, piagnucoloso e carezzevole; mentre - e si completa così l'orchestra - il kirsch strombetta a perdifiato; gin e whisky portan via il palato coi loro stridenti squilli di pistoni e di tromboni; la grappa fulmina con l'assordante strepito delle tube, ed il tonar dei piatti e della grancassa suonati a braccio teso rintronano il palato quando assaggia il rachi di Chio e le mastiche.
Né, a sentirlo, l'analogia finiva qui: sotto la volta palatina si potevano anche sonare quartetti per istrumenti ad arco.
Rappresenterebbe il violino, la vecchia acquavite, fumosa e delicata, acuta e fragile; la viola, il rumme, più robusto, più rombante, più sordo; il violoncello, il vespetro: straziante e prolungato, malinconico e blandente; il contrabbasso, un vecchio bitter schietto, solido e nero.
E non era tutto: neanche le scale tonali mancavano nella musica dei liquori. Così, per non citare che una nota, il benedettino rappresentava, si può dire, il tono minore di quel tono maggiore degli alcoli che gli spartiti commerciali designano col nome di certosino verde.
Partendo di qui, Des Esseintes era riuscito, grazie a dotti esperimenti, a sonare sulla propria lingua silenziose melodie, mute marce funebri a piena orchestra; ad ascoltarsi in bocca degli a solo di menta, dei duetti di vespetro e di rum.
Arrivava sinanco ad eseguire in bocca veri e propri brani di musica, attenendosi passo passo alla composizione; interpretandoli nel pensiero, negli effetti, nelle sfumature, grazie ad accordi o contrasti di liquori, grazie a sapienti miscele.
Altre volte componeva lui melodie proprie; eseguiva pastorali coll'anodino cassì, che gli gorgheggiava in gola canti perlati di rosignolo; col tenero cacao-chouva che canticchiava sciropposi idilli, quali le romanze di Estelle ed i “Ah ti dirò, mamma...” del tempo che fu.
Ma quella sera Des Esseintes non aveva alcuna voglia d'ascoltare la musica del palato. Si contentò di cavare dalla tastiera del suo organo una sola nota, portandosi di là un bicchierino colmo d'autentico whisky d'Irlanda.
Si riaffondò nella poltrona e religiosamente si sorseggiò quel succo fermentato di orzo e d'avena: un acuto aroma di creosoto gli appestò la bocca.
Sulla traccia di quel sapore che irresistibilmente ne evocava un altro, il pensiero, facendo da battistrada, resuscitò ricordi cancellati da anni. Quel gusto acre, fenicato, gli richiamò imperioso alla memoria l'identico sapore che gli riempiva la bocca quando il dentista gli lavorava le gengive.
Messo su questa via, dopo aver vagato genericamente su tutti i dentisti cui era ricorso, il ricordo si raccolse e concentrò su quell'uno che per i suoi modi brutali gli si era profondamente impresso nella memoria.
Era stato tre anni prima. Aggredito nel cuor della notte da un'atroce raffica di denti, si premeva la guancia, sbatteva del capo nei mobili, misurava a grandi passi, forsennato, la stanza.
Si trattava d'un molare piombato. Impossibile guarirlo; solo rimedio che restava, le tenaglie del dentista. Fuori di sé, aspettava l'alba, risoluto a sottoporsi alla più atroce delle operazioni, pur di uscire da quel patimento.
Tenendosi la mascella, si chiedeva intanto come fare. I dentisti che lo avevano in cura erano dei professionisti arricchiti dai quali non bastava recarsi per essere ricevuti; occorreva con loro prenotarsi, combinare un appuntamento.
“Impossibile: io non posso rimandare d'un minuto” si diceva.
Deliberò di ricorrere al primo venuto, d'andare da un cavadenti qualsiasi; da uno di quegli energumeni dal polso di ferro che, se ignorano l'arte, del resto inutile, di curare le carie e di turare i buchi sanno estirpare con una sveltezza da giocoliere le radici più ostinate; gente che apre bottega all'alba e non fa fare anticamera.
Sonarono alfine le sette.
Si precipitò in istrada e, sovvenendogli il famigerato nome d'un meccanico che si faceva chiamare “dentista per tutti” ed abitava all'angolo d'un lungosenna, si mise di corsa a quella volta, ricacciando il pianto, mordendo il fazzoletto.
Arrivato, con le tempia in sudore, davanti alla casa distinta da un'enorme tabella nera sulla quale spiccava in giallo a lettere di scatola il nome “GATONAX” e da due vetrinette, dove inseriti in gengive di cera rosa, legate fra loro da molle d'ottone facevano bella mostra di sé denti artificiali, si fermò a prender fiato; ed ecco lo colse un tremendo batticuore, un brivido gli corse la schiena, il dolore ebbe tregua, il dente s'azzittì.
Istupidito egli restava lì piantato sul marciapiede.
Finché aveva preso il coraggio a due mani e cacciatosi nel buio della scala, divorandone i gradini a quattro a quattro, era giunto al terzo piano. Là s'era trovato davanti una porta: una targhetta di smalto vi ripeteva in lettere celesti il nome dell'insegna.
Aveva già tirato il campanello, quando lo sguardo, cadendogli sui gradini, li vide costellati di larghi scaracchi appiccicosi e sanguinolenti.
Fu per tornare; già, era deciso a patir di mai di denti per il resto della vita; ma trapassando le pareti, gli lacerò i timpani, riempì la tromba della scala, lo inchiodò allibito dov'era, un urlo disumano; mentre la porta si apriva e una vecchia lo invitava ad entrare.
La vergogna l'aveva vinta sulla paura.
Introdotto in una sala da pranzo, aveva visto spalancarsi con fracasso un uscio, riempire il vano un pauroso granatiere, una specie d'automa in redingotta e pantaloni neri.
Dal momento che, seguendo colui, era passato in un'altra stanza, i suoi ricordi s'annebbiavano. Vagamente ricordava d'essersi come un cencio lasciato andare su una poltrona in faccia a una finestra e d'aver barbugliato indicando il dente: “È già stato piombato: temo non ci sia nulla da fare”.
Ficcandogli in bocca un indice come una trave, già colui gli aveva tolto la parola; quindi, borbottando chi sa che sotto i baffi a zanna impomatati, aveva tolto qualche cosa di su un tavolo.
Allora era venuto il bello.
Aggrappato ai braccioli, Des Esseintes s'era sentito un freddo nella guancia. Poi aveva visto le stelle; sudando di strazio, s'era messo a pestare i piedi ed a belare come un agnello che scannano.
S'udì uno scricchiolio; cedendo, il molare si spezzava.
Gli era parso allora che gli divellessero il capo, gli fracassassero il cranio; perduta la ragione, aveva urlato come un dannato. Furiosamente si era difeso contro l'energumeno che di nuovo gli rovinava addosso quasi volesse fargli entrare il gomito nel ventre e che, arretrando bruscamente d'un passo, tirava su appesa alla mascella la vittima, per lasciarla quindi brutalmente ripiombare sulla poltrona; per poi, tappando di sé la finestra, brandire, ansante, a trofeo, nella morsa della tanaglia un dente cianotico, rosso d'un carniccio che ne pendeva.
Vicino a render l'anima, Des Esseintes aveva sputato sangue da riempire una bacinella; respinto d'un gesto la vecchia ricomparsa ad offrirgli il mozzicone che andava involgendo in un pezzo di giornale; e, sborsati i due franchi di tariffa, era fuggito bersagliando a sua volta di sputo e di sangue i gradini; per ritrovarsi in istrada, raggiante, alleggerito di dieci anni, pieno d'interesse per tutto ciò che vedeva.
“Brrr!” fece; e s'alzò per scuotere da sé l'orribile fascino di quei ricordi.
Tornato alla realtà presente, si preoccupò della tartuca. Continuava a non muoversi. La palpò. Era morta.
Certo, avvezza al trantran della sua esistenza, all'umile vita del suo povero guscio, non aveva potuto sopportare l'accecante lusso che le era stato imposto, il rutilante piviale di cui l'avevan vestita, le gemme di cui le avevano lastricato il dorso, a somiglianza d'un ciborio.

V

Via via che gli si acuiva il desiderio di scampare lontano dalla pacchianeria d'un tempo stupido e gretto come il suo, sempre meno tollerabile gli diventava la vista di quella pittura che ritraeva il suo simile nell'atto che ponza tra quattro mura o che in busca di danaro s'arrabatta per le strade.
Ora ch'era riuscito a disinteressarsi del tempo suo, come di questo tempo accogliere nella sua cella delle larve, che rinverdirebbero in lui ripugnanze e crucci? Così s'era proposto di non ammettervi che una pittura squisita, essenziale, che bagnasse le sue radici in un antico sogno, s'alimentasse d'un'antica corruzione, ignara del nostro tempo, ignara dei nostri costumi.
Per pascervi occhi ed anima, aveva voluto delle opere suggestive, che lo trasportassero in un mondo sconosciuto, gli aprissero nuove prospettive, gli squassassero i nervi con incubi complicati, con dotte isterie, con spettacoli gelidi e atroci.
Fra tutti, un artista esisteva che lo gettava in lunghe estasi e del quale aveva acquistato ambedue i capolavori: Gustave Moreau.
Della sua tela che rappresentava Salomé, Des Esseintes indugiava in contemplazione intere notti.
Simile all'altar maggiore d'una cattedrale, un trono s'ergeva sotto una fuga a perdita d'occhio di volte, in cui si placava l'impeto di colonne, tozze come pilastri romani; colonne smaltate di piastrelle policrome, incastonate di mosaici, incrostate di lapislazzuli e di sardoniche - dentro un palagio simile ad una basilica, d'una architettura musulmana e al tempo stesso bizantina.
Al centro del tabernacolo che sorgeva in cima all'altare e cui si saliva per gradini a semicerchio, sedeva il Tetrarca Erode, coperto d'una tiara, le gambe raccolte, le mani sui ginocchi.
La sua faccia era gialla, incartapecorita, gualcita di rughe concentriche, devastata dall'età; sulle stelle di gemme che gremivano la tunica ricamata d'oro, aderente al petto, la barba ondeggiava come candida nuvola.
Intorno a quella statua immota, congelata in una posa ieratica da nume indù, profumi bruciavano attorcendo spire di fumo che trapassavano, quasi fosforescenti occhi di belva, i fuochi delle pietre preziose che ingemmavano il trono; quindi il vapore saliva, si perdeva in volute sotto le arcate, mescendo il suo azzurro al pulviscolo d'oro che a fasci cadeva dalle cupole.
Tra quegli effluvi perversi, nell'aria surriscaldata di quella chiesa, Salomé, il braccio sinistro disteso in atto di comando, con la destra reggendo all'altezza del viso un grande loto, avanza adagio sulle punte, agli accordi d'una chitarra che pizzica una donna accoccolata.
L'espressione raccolta, solenne, augusta quasi, Salomé dà inizio alla lubrica danza che deve ridestare i sensi del vecchio Erode.
I seni ondeggiano; stuzzicati dalle collane che vorticano, i capezzoli s'ergono; nel madore della pelle, i diamanti scintillano; sulla veste trionfale, rabescata d'argento, laminata d'oro, dalle costure di perle, il busto, preso in una maglia di gemme, entra in combustione, dardeggia serpentelli di fuoco, brulica sulle carni compatte, sul rosa tea della pelle, simile ad un visibilio d'insetti dalle elitre abbaglianti, marmorizzate di carminio, punteggiate di giallo aurora, screziate di blu acciaio, striate di verde pavone.
Assorta, gli occhi fissi, pari a una sonnambula, essa non vede né il fremente Tetrarca né la madre - la feroce Erodiade - che la sorveglia; né l'ermafrodito o l'eunuco che si tiene, con la sciabola in pugno, a pié del trono: terribile, velato; la mammella di castrato che, come una fiaschetta, penzola sotto la tunica variegata d'arancione.
La figura di Salomé, così tentatrice per gli artisti e i poeti, ossessionava da anni Des Esseintes.
Quante volte nella vecchia Bibbia di Pierre Variquet, tradotta dai dottori in teologia dell'Università di Louvain, s'era letto il Vangelo, laddove San Matteo in brevi ingenue frasi narra la decapitazione del Precursore! quante volte queste righe lo avevano fatto sognare.
“Il giorno del festino della Natività d'Erode, la figlia di Erodiade danzò nel mezzo e piacque ad Erode.
“Per cui egli le promise con giuramento che le darebbe qualunque cosa chiedesse.
“Essa dunque, indotta dalla madre, disse: &Mac220;Dammi la testa di Giovanni Battista.&Mac221;
“E il re fu dolente; ma, a cagione del giuramento, e di coloro che secolui erano a tavola assisi, ordinò che la testa le fosse data.
“E spedì a decapitare Giovanni in prigione.
“E venne il capo di costui su un piatto recato e dato alla figlia; ed essa lo presentò a sua madre”.
Ma né San Matteo né San Luca né gli altri evangelisti aggiungevano parola sul delirante fascino, sul perverso ascendente della danzatrice.
La sua figura restava in ombra; enigmatica, squassata da erotici spasmi, si perdeva nella nebbia dei tempi: incomprensibile agli spiriti limitati e gretti, intuìta solo dai cervelli scossi, acuiti, resi pressoché visionari dalla nevrosi; impossibile a raffigurare per i pittori della carne, per Rubens che ne fa una macellaia fiamminga; inintelligibile per gli scrittori, dei quali nessuno poté mai rendere l'inquietante frenesia della danzatrice, la raffinata grandezza dell'assassina.
Nell'opera di Gustave Moreau, concepita al di fuori di tutti i dati del Testamento, Des Esseintes vedeva finalmente realizzata l'insolita e sovrumana Salomé che aveva vagheggiato.
Essa non era più soltanto la danzatrice che strappa ad un vecchio, con una contorsione lasciva di reni, un grido di desiderio e di foia; che spezza l'energia, piega la volontà d'un re, turbinando i seni, scotendo il ventre, vibrando la coscia; essa diventava per così dire il simbolo indiato della insopprimibile Lussuria, la dea dell'immortale Isteria; la Beltà maledetta, eletta fra tutte dalla Catalessi che le fa di marmo le carni, di ferro i muscoli; la Bestia mostruosa, indifferente, irresponsabile, che come Elena di Troia avvelena tutto ciò che accosta, tutto ciò che vede, tutto ciò che tocca.
Intesa in questo modo, essa apparteneva alle teogonie dell'Estremo Oriente; non aveva più che fare con la tradizione biblica; neppure poteva essere presa per la personificazione di Babilonia, identificata con la regale Prostituta dell'Apocalisse, come lei abbigliata di gioielli e di porpora, come lei fucata - perché, quella, non era stata una forza ineluttabile né lo strapotere del Fato a precipitarla nell'adescante voragine dell'abbiezione e della dissolutezza.
Il pittore sembrava, del resto, aver voluto affermare la propria volontà di prescindere dal tempo, di non precisare né tradizione né paese né epoca; collocando il suo personaggio al centro di quell'insolito palagio, d'uno stile incerto e grandioso; parandolo di vesti sontuose e chimèriche; sormontandone il capo d'un equivoco diadema a foggia di torre fenicia come quello che porta Salambò; mettendole in mano lo scettro d'Iside, il sacro fiore dell'India e dell'Egitto, il grande Loto.
Di questo emblema, Des Esseintes cercava di penetrare il senso. Aveva esso il significato fallico che gli prestano i culti primordiali dell'India; annunziava al vecchio Erode una verginità che gli si offriva, un baratto di sangue; lo sollecitava ad aprire un'impura ferita all'espressa condizione che consentisse ad un omicidio; o rappresentava l'allegoria della fecondità, il mito indù della vita, un'esistenza che una donna tiene tra le dita e che le strappa e gualcisce la convulsa mano d'un uomo colto da demenza, accecato da un delirio della carne?
Fors'anche, armando la sua enigmatica dea del sacro loto, il pittore aveva pensato alla danzatrice, alla donna mortale, al Vaso contaminato, causa di tutti i peccati e di tutti i delitti; s'era forse ricordato dei riti dell'antico Egitto, delle cerimonie sepolcrali dell'imbalsamazione, allorché sacerdoti ed esperti coricano su un banco di diaspro la morta; con aghi ricurvi le estraggono per le nari il cervello; i visceri, per un'incisione nel fianco sinistro; poi prima di indorarle unghie e denti, prima di impregnarla di bitume e d'essenze, le insinuano nelle parti sessuali, per purificarle, i casti petali del divin fiore.
Comunque fosse, un soggiogante fascino si sprigionava da quella tela.
Eppure l'acquarello intitolato “L'Apparizione” era forse anche più inquietante.
Qui il palazzo di Erode si lanciava, come una Alhambra, su lievi colonne iridate di quadrelle moresche, cementate si sarebbe detto fra loro da una malta d'argento, da un calcestruzzo d'oro. Arabeschi partivano da losanghe di lapislazzuli, correvano tutto lungo cupole, dove, su tarsie di madreperla, si propagavano bagliori di arcobaleno, fuochi di prisma.
L'omicidio era consumato; ora il carnefice si teneva impassibile, le mani sul pomo della lunga spada, maculata di sangue.
Dal piatto deposto sul pavimento, il mozzo capo del Santo s'era alzato: livido, la bocca schiusa, esangue, il collo paonazzo, grondando lacrime guardava. Un mosaico circondava il viso, dal quale s'irraggiava un'aureola che proiettava raggi sotto le arcate, circonfondeva di luce l'ascendere del capo, accendeva il vitreo globo delle pupille che fissavano, impugnavano sto per dire, la danzatrice.
In un gesto di spavento, Salomé respinge la terrificante apparizione che la inchioda, senza fiato, sulle punte; ha gli occhi sbarrati; si stringe con la mano convulsa la gola.
È quasi ignuda; nella frenesia della danza, i veli si sono disfatti, i broccati son caduti. Non è più vestita che d'un luccichio minerale, d'un baglior d'ori; una gorgiera la serra, a mo' di corsaletto, alla vita; e, a mo' di superbo fermaglio, un meraviglioso gioiello sfreccia lampi nell'incavo dei seni. Più giù, una cintura le abbraccia le anche, cela l'alto delle cosce, battute da un gigantesco ciondolo rutilante di carbonchi e smeraldi; mentre sul corpo che resta scoperto, tra la gorgiera e la cintura, il ventre s'incurva e l'ombelico vi mette il suo sigillo d'onice, latteo, d'un rosa tenero d'unghia.
Percossa dai fulgori che emana il capo del Precursore, tutta quella gioielleria s'incendia, arde in ogni faccetta come bragia; le gemme s'animano; a tratti incandescenti disegnano il corpo della donna; la pungono al collo alle gambe alle braccia di stilettate di fuoco, di marchi di fuoco: vermigli come tizzoni, violacei come fiamma di gaz, azzurri come alcole che brucia, bianche come raggi di stelle.
La spaventosa testa fiammeggia; seguita a perder sangue; appende grumi di fosca porpora ai capelli, alla barba.
Visibile solo per Salomé, essa non abbraccia nel suo sguardo né Erodiade che cova il suo odio alfine appagato, né il Tetrarca che, sporto un po' in avanti, le mani sulle ginocchia, ansa ancora, ossessionato da quella nudità di donna, esalante un odor bestiale, conciata dai balsami in cui s'è rotolata, odorante d'incensi e di mirre.
Non diversamente dal vecchio re, Des Esseintes stava senza fiato, annientato, in preda a vertigine, davanti a quella danzatrice; meno maestosa, meno altera, ma più inquietante della Salomé del quadro ad olio.
Nell'insensibile e spietata statua, nell'innocente e pericoloso idolo l'erotismo, il terrore della creatura umana s'era fatto strada; il grande loto era sparito, la dea era svanita; un incubo spaventoso strangolava ora l'istriona, ancora stordita dal vorticar della danza, la cortigiana pietrificata, ipnotizzata dallo spavento.
Qui Salomé era femmina veramente; obbediva al suo temperamento di donna ardente e crudele; era viva d'una vita più raffinata e selvaggia, più esecrabile e più squisita; più imperiosamente ridestava i sensi in letargo dell'uomo; ne stregava, ne domava meglio la volontà col suo fascino di grande fiore venereo, nato in amplessi sacrileghi, allevato in empie serre.
Mai, come Des Esseintes diceva, mai, in nessuna epoca l'acquarello aveva attinto un tale splendore di colorito; mai la povertà delle nostre tavolozze aveva fatto corruscare in quel modo le gemme, folgorar le vetrate percosse dal sole; dato alle stoffe e alle carni uno spicco così portentoso, così abbacinante.
Perso in contemplazione, Des Esseintes si domandava da chi potesse derivare un artista come quello; un pagano mistico, un visionario come Moreau, capace di astrarsi dal mondo al punto da vedere in piena Parigi sfolgorare le crudeli visioni, le fantasmagoriche apoteosi delle età defunte.
Derivazioni? Des Esseintes riconosceva a stento qua e là vaghe reminiscenze di Mantegna e di Jacopo de' Barbarj; dubbi influssi di Leonardo, febbri di colori alla Delacroix. Ma l'influenza di quei maestri s'avvertiva, insomma, appena: la verità era che Gustave Moreau non derivava da nessuno; senza vero maestro, senza possibili scolari, egli restava unico nell'arte contemporanea.
Col rifarsi all'alba delle stirpi, alle origini delle mitologie delle quali riaffrontava e scioglieva i cruenti enimmi; col riunire, col fondere in una sola le leggende venute dall'Estremo Oriente e trasformate dalle credenze degli altri popoli, egli giustificava l'architettura composita, le mescolanze lussuose ed inattese di stoffe, le ieratiche e sinistre allegorie dei suoi quadri: prodotto d'una inquietudine e d'una nevrosi tutta moderna.
Egli restava l'artista costituzionalmente tormentato, ossessionato dai simboli delle perversità e degli amori sovrumani, degli stupri divini consumati senza abbandoni e senza speranze.
Emanava dalle sue opere disperate e dotte, un incanto singolare, una malia che rimescolava nel profondo, simile a quella che sprigionano certe poesie di Baudelaire. Si restava sbalorditi, sconcertati, pensosi davanti a quell'arte che varcava i limiti della pittura; toglieva in prestito all'arte dello scrivere le sue più sottili evocazioni, all'arte del Limosino i suoi splendori più vivi, all'arte del lapidario e dell'incisore le sue più squisite finezze.
Le due immagini di Salomé, per le quali Des Esseintes nutriva un'ammirazione sconfinata, palpitavano vive sotto i suoi occhi, appese nel suo studio, su pannelli ad esse riservati tra le scansie dei libri.
Ma non si limitavano a questi gli acquisti di quadri che aveva fatto nell'intento di addobbare la sua solitudine.
Nel salottino che aveva fatto tappezzare di rosso vivo, pendevano ad ogni parete, chiuse in cornici d'ebano, stampe di Jan Luyken, un antico incisore olandese, quasi sconosciuto in Francia.
Di questo artista, lunatico e macabro, impetuoso e selvaggio, Des Esseintes possedeva la serie delle “Persecuzioni religiose”: raccapriccianti tavole che facevan passare sott'occhio tutte le torture che la follia delle religioni ha inventato; tavole nelle quali urlava lo spettacolo dell'umano patire: corpi rosolati su bracieri, crani scoperchiati da spade, trapanati da chiodi, morsi da seghe; intestini dipanati dal ventre, avvolti su rocchetti; unghie lentamente estirpate con tanaglie, pupille accecate, palpebre rovesciate e imbullettate; arti slogati, infranti pezzo per pezzo, ossa messe a nudo, accuratamente scarnificate con lame.
Queste opere, piene d'un'abominevole fantasia, che puzzavano di bruciato, grondavano sangue, dalle quali salivano grida d'orrore e d'imprecazione, raccapricciavano Des Esseintes e lo trattenevano senza fiato nel rosso salottino.
Ma - a parte i brividi che mettevano addosso, a parte il talento che testimoniavano nel loro autore, la straordinaria vita di cui egli aveva animato i personaggi - in quel pullulare di folle, in quel mareggiare di popolo, colto con una agilità di tocco da ricordare Callot, ma anche con una potenza espressiva che non ebbe mai questo divertente scarabocchiatore - si scoprivano interessanti ricostruzioni d'ambienti e d'epoche; l'architettura, il vestire, i costumi del tempo dei Maccabei a Roma, durante le persecuzioni dei cristiani; in Ispagna, sotto l'infierire dell'Inquisizione; in Francia, nel Medio Evo ed al tempo delle San Bartolomeo e delle Dragonate, erano osservate con cura meticolosa, fermate con grandissima esattezza.
Quelle stampe erano delle miniere di notizie; non ci si stancava di contemplarle per ore intere; suggerendo un'infinità di considerazioni, aiutavano spesso Des Esseintes ad ammazzare i giorni in cui gli era negata la compagnia dei libri.
Aggiungeva attrattiva ai disegni la vita dell'artista; essa spiegava del resto un'opera così allucinata.
Calvinista fervente, settario indurito, fanatico di cantici e di preghiere, egli componeva poesie religiose e le illustrava; parafrasava in versi i salmi; s'immergeva nella lettura della Bibbia e ne usciva estasiato, truce, pieno il cervello di ispirazioni cruente, storta la bocca dalle maledizioni della Riforma, dai suoi canti di terrore e di collera.
Disprezzava inoltre il mondo, dava tutto il suo ai poveri contentandosi d'un pezzo di pane; ed aveva finito per imbarcarsi in compagnia d'una vecchia serva infanatichita di lui; e, dappertutto dove la nave approdava, andava predicando il Vangelo, cercando il modo di far a meno di cibo; poco meno che pazzo, tornato poco meno che selvaggio.
Nella stanza vicina, più ampia, nel vestibolo fasciato di cedro color scatola da sigaro, altre stampe, altri bizzarri disegni erano esposti.
La “Commedia della Morte” di Bresdin, dove in mezzo ad un paesaggio inverosimile, irto d'alberi, di boschi ceduli, di macchioni simulanti forme di demoni e fantasmi, popolato d'uccelli con teste di topo, radiche per coda, da un terreno seminato di vertebre, di costole, di crani, dei salici si rizzano, tutti nodi e spaccature, sormontati da scheletri che agitano, a braccia in aria, un mazzo, intonando un canto di vittoria; mentre un Cristo si dà alla fuga per un cielo a pecorelle, un eremita medita col capo tra le mani in fondo ad una grotta, ed un poveraccio, sfinito dalle privazioni, muor di fame, steso sul dorso, coi piedi che toccano uno stagno.
Il “Buon Samaritano” dello stesso: vasto disegno a penna, tirato su pietra: un incredibile groviglio di palme, sorbi, querce, cresciuti tutti insieme a dispetto delle stagioni e dei climi: un pullulare di foresta vergine brulicante di scimmie, di barbagianni, di civette, gibbosa d'antichi ceppi, deformi come radici di mandragola; un bosco irreale, al cui centro s'apre una radura che lascia laggiù intravvedere, dietro un cammello ed il gruppo del Samaritano col ferito, un fiume, quindi una città fatata, che dà la scalata all'orizzonte, assunta in un cielo mai visto, punteggiato di uccelli, increspato d'onde, come gonfio di balle di nuvole.
Si sarebbe detto il disegno di un primitivo, di un vago Alberto Dürer, il parto d'un cervello sotto l'influsso dell'oppio; ma per quanto gustasse la finezza di particolari e il piglio imponente di quella tavola, Des Esseintes sostava di preferenza davanti agli altri quadri della stanza.
Recava la firma di Odilon Redon. Dalle cornicette di pero grezzo filettato d'oro che le racchiudevano, le apparizioni più inaspettate venivano incontro: una testa di stile merovingio offerta su una coppa; un uomo barbuto, tra il bonzo e il concionatore di folle, che tocca del dito il proiettile d'un colossale cannone; un ragno spaventoso che al centro del corpo ha un viso umano.
C'erano poi dei carboncini che spingevano l'audacia anche oltre, precipitavano nel terrore e nel delirio d'un sogno sgomentante. Qui, in un enorme dado da gioco, ammiccava un occhio triste; là, paesaggi aridi, desolati, distese di terra calcinata, sconvolgimenti tellurici, sollevarsi di vulcani che s'alzavano sino a mescolarsi con cieli lividi e stagnanti, con nubi in rivolta.
Talora, persino, i soggetti parevano tolti in prestito agli incubi della scienza, attinti dalla preistoria: una flora mostruosa tripudiante su rocce; dovunque massi erratici, fanghi glaciali, esseri di tipo scimmiesco che con lo spessore dei mascellari, l'arco ciliare sporgente, la fronte sfuggente, il cranio in alto appiattito, evocavano la testa ancestrale, la testa, quale appare nel primo periodo quaternario, dell'uomo ancora vegetariano, sprovvisto ancora di favella, contemporaneo del mammut, del rinoceronte dalle narici a tramezzi, del grande orso delle spelonche.
Questi disegni andavano oltre ogni limite per la maggior parte, scavalcavano d'un salto le frontiere di ogni pittura, inauguravano un genere di fantastico tutto loro, il morboso fantastico del delirio.
Infatti alcuni di quei visi divorati dagli occhi, da occhi da pazzo; taluni di quei corpi sproporzionatamente grandi o deformi, come visti di là d'una boccia d'acqua, rinnovavano in Des Esseintes ricordi di febbre tifoidea, ricordi rimasti indelebili di notti brucianti, di spaventose visioni dell'infanzia.
Colto da un indefinibile malessere davanti a quei disegni come al cospetto di certi “Proverbi” di Goya, ch'essi richiamavano; colto dallo stesso malessere che gli dava la lettura di Poe - del quale Odilon Redon pareva aver trasferito in una altr'arte i miraggi allucinatori e le terrificanti suggestioni - egli si stropicciava gli occhi e rifugiava lo sguardo su una raggiante immagine, che schiudeva quasi una oasi di pace e di serenità fra tutte quelle tavole ossesse; una immagine della Malinconia, assisa di contro il sole, su rocce in atteggiamento triste ed abbattuto.
Per incanto, le tenebre si dissipavano; una seducente tristezza, una desolazione che non pungeva, non doleva più, scendeva nei suoi pensieri; meditabondo, s'indugiava a contemplare quell'opera che coi suoi punteggi a guazzo seminati nella matita grassa, metteva un chiarore di verde acqua e d'oro pallido nell'ostinato nero di tutti quei carboncini e di quelle incisioni.
Oltre quella collezione d'opere di Odilon Redon, che rivestiva quasi interamente i pannelli del vestibolo, Des Esseintes aveva appeso nella camera da letto un disordinato abbozzo di Theotocopuli, un Cristo d'una tonalità strana, d'un'anatomia esagerata, d'una tinta atroce, sconcertante di forza; un quadro della seconda maniera di questo pittore, del periodo in cui voleva ad ogni costo sottrarsi alla soggezione del Tiziano.
Questa pittura sinistra, che pareva fatta con lucido da scarpe e verde di carne che si putrefà, rispondeva per Des Esseintes a certi suoi criteri d'arredamento.
Non c'erano, secondo lui, che due modi di arredare una camera da letto: o se ne faceva un'eccitante alcova, un luogo di dilettazioni notturne; oppure un ambiente di solitudine e di riposo, un ritiro propizio alla meditazione, una specie di oratorio.
Nel primo caso, lo stile Luigi Quindici s'imponeva ai raffinati, agli individui, in particolare, esauriti da erotismi cerebrali. Solo il Settecento ha saputo infatti circondare la donna d'un'atmosfera viziosa, dare al mobilio la grazia delle sue curve, comunicare al legno, al rame - coll'ondularlo e torcerlo - qualche cosa dei suoi atteggiamenti, dei suoi spasimi nel piacere; drogando il languore dolciastro della bionda, mediante una decorazione vivace e chiara; attenuando il sapido della bruna con tappezzerie blande, acquose, quasi sciape. Una camera di questo genere egli l'aveva già avuta a Parigi. Vi aveva allogato un vasto letto bianco laccato, che costituiva un piccante di più, una depravazione di vecchio libertino che nitrisce davanti alla finta innocenza, all'ipocrito pudore delle minorenni di Greuze, che s'impenna davanti al fittizio candore d'un letto sporcaccione che sa di bambina e d'adolescente.
Nell'altro caso - il solo adottabile adesso che intendeva romperla con gli eccitanti ricordi del passato - della camera bisognava fare una cella; ma allora sorgeva un mucchio di difficoltà, visto che non poteva, lui almeno, rassegnarsi all'austero squallore dei ritiri di penitenza e di preghiera.
A forza di esaminare il problema d'ogni lato, venne a concludere che la soluzione non poteva essere che questa: con oggetti fastosi aggeggiare un ambiente triste; o piuttosto, mantenendo alla stanza il carattere di squallore, dargli nell'insieme una specie di eleganza e distinzione; fare il contrario di ciò che fa il teatro, dove tessuti andanti la pretendono a stoffe costose e di lusso; ottenere l'effetto opposto, servendosi di magnifiche stoffe che dessero l'impressione di cenci; allestire insomma una camera che avesse l'aria d'una cella di certosino, ma, beninteso, solo l'aria.
Ecco come fece. Per imitare l'intonaco color ocra, il giallo amministrativo e clericale, fece parare i muri di seta zafferano; per mantenere lo zoccolo color cioccolato, solito in tali ambienti, rivestì le pareti d'assiti d'un violetto, incupito d'amaranto.
L'effetto era incoraggiante: ricordava benissimo, non esaminato da vicino, l'urtante rigidità del modello che seguiva trasformandolo.
Il soffitto fu a sua volta tappezzato di bianco crudo, in modo da simulare il gesso, senza averne tuttavia gli striduli lucori. Quanto a quello che doveva essere il gelido pavimento della cella, gli fu facile ottenerlo grazie ad un tappeto rosso a quadri; le lacune biancastre, lasciate qua e là di proposito nella lana, simulavano assai bene il logorio prodotto da scarpe e da sandali.
Ammobigliò la stanza d'un lettuccio di ferro, d'un falso giaciglio da cenobita, messo insieme con vecchi ferri battuti e bruniti; lo nobilitavano, alla testa ed ai piedi, folti fregi: tulipani in pieno sboccio intrecciati a pampini, provenienti dalla superba ringhiera d'un antico palazzo.
Come tavolino da notte, adottò un antico inginocchiatoio, che poteva celare un vaso e sul quale posava un eucologio. In faccia, appoggiò alla parete un banco da fabbricieri, sormontato da un ampio baldacchino, lavorato a traforo, guernito di tarsie corali. I candelabri chiesastici li fornì di candele di cera vergine; se le procurava da una Ditta specializzata in oggetti sacri; per la candela stearica come per il petrolio, il gaz, l'acetilene e tutti insomma i mezzi moderni di illuminazione, così vistosi e brutali, egli nutriva una spiccata avversione.
Destandosi all'alba o prima d'addormentarsi, poteva contemplare, senza neanche alzare il capo dall'origliere, il suo Theotocopuli; l'atroce colore del Cristo castigava il sorriso della seta gialla, la richiamava a maggiore serietà. E Des Esseintes si credeva allora a cento miglia da Parigi, lontano dal mondo, seppellito in fondo ad un chiostro.
Ed in fin dei conti l'illusione non era difficile: era forse molto diversa da quella d'un frate la vita che conduceva?
Della vita conventuale aveva i vantaggi senza subirne gli inconvenienti: che sono la disciplina soldatesca, la poca cura della persona, la sporcizia, la vita in comune con altri, la monotonia del non far niente.
Come s'era fatto della cella una camera riscaldata e provvista di comodi, così s'era reso la vita tranquilla, dolce, libera, occupata, e circondata di benessere.
Non meno d'un eremita, egli era maturo per l'isolamento; affranto dalla vita, più nulla attendeva da essa. Non meno d'un monaco, sentiva un'immensa stanchezza, il bisogno di raccogliersi, il desiderio di non aver più nulla in comune col prossimo; composto, ai suoi occhi, di profittatori e d'imbecilli.
Insomma, sebbene non sentisse alcuna vocazione per lo stato di grazia, nutriva una vera simpatia per il frate che si chiude in un convento, per il monaco perseguitato da una astiosa società, che non gli perdona né il sacrosanto disprezzo che egli ha per essa, né la volontà ch'egli professa di riscattare, d'espiare col silenzio la sempre crescente sfacciataggine dei suoi vaniloqui stupidi o assurdi.