CAPITOLO 1

 

Penso che non si possano creare dei personaggi senza aver studiato a fondo gli uomini, come non si può parlare una lingua che a patto di averla imparata seriamente.

Non avendo ancora raggiunto l'età nella quale s'inventa, mi accontento di riferire.

Invito pertanto il lettore a convincersi della realtà di questa storia, di cui tutti i personaggi, tranne la protagonista, sono ancora vivi.

Del resto, a Parigi molti potrebbero testimoniare la maggior parte dei fatti che qui descriverò, e potrebbero confermarli, se la mia sola testimonianza non fosse sufficiente, ma, per una particolare circostanza, soltanto io posso narrarli, perché solo a me furono confidati gli ultimi particolari, senza i quali sarebbe stato impossibile fornire un racconto interessante e compiuto.

Ecco in che modo mi furono resi noti quei fatti. Il 12 marzo 1847, in rue Laffitte, potei leggere un grande manifesto giallo che annunciava una vendita all'asta di mobili e di rare curiosità. La vendita avveniva in seguito alla morte del proprietario, sull'avviso non era scritto il nome del defunto, ma si diceva che la vendita si sarebbe tenuta il giorno 16, da mezzogiorno alle cinque, al numero 9 di rue d'Antin.

Il manifesto annunciava inoltre che il 13 e il 14 si sarebbe potuto visitare l'appartamento con i mobili.

Sono sempre stato un amatore di oggetti rari, e mi riproposi perciò di non perdere l'occasione di vedere questi, e forse anche di acquistarli.

L'indomani, mi recai al numero 9 di rue d'Antin. Nonostante fosse ancora mattina presto, l'appartamento era già invaso dai visitatori e anche da visitatrici che per quanto vestite di velluto, avvolte in cachemire e attese alla porta dalle loro eleganti carrozze, contemplavano con stupore, e anche con ammirazione, quel lusso che si offriva ai loro occhi. Quell'ammirazione e quello stupore mi furono chiari più tardi, quando, guardandomi intorno, potei accorgermi di essere nell'abitazione di una mantenuta.

Ora, se c'è una cosa che le signore della buona società desiderano conoscere - e infatti quelle visitatrici appartenevano appunto alla buona società - è proprio la casa di quelle donne il cui guardaroba quotidiano supera per fasto il loro, e che hanno, come loro e accanto a loro, palchi riservati all'Opéra e al Théâtre des Italiens, e che sfoggiano, per le strade di Parigi, l'insolente abbondanza della loro bellezza, dei loro gioielli, dei loro scandali.

Colei che viveva nell'appartamento mi trovavo era morta: e dunque le signore più virtuose potevano finalmente entrare fino nella sua stanza da letto.

La morte aveva purificato l'aria di quella splendida fogna; e d'altronde le visitatrici avevano come scusa, qualora ce ne fosse stato bisogno, il fatto di essere venute per una vendita all'asta senza conoscere il nome della padrona di casa.

Avevano letto un manifesto, e ora volevano vedere e scegliere gli oggetti che quel manifesto prometteva: nulla di più semplice, il che tuttavia, non impediva loro di cercare, in mezzo a tutte quelle meraviglie, le tracce di quella vita dissoluta sulla quale, certo, avevano udito tanti strani racconti.

Ma purtroppo i misteri erano morti con la loro dea; e malgrado la loro buona volontà, quelle dame riuscirono a scoprire solo ciò che era in vendita dopo la morte, e non ciò che si vedeva quando la padrona di casa era ancora viva.

Del resto, c'era davvero di che acquistare. L'arredamento era splendido. Mobili di Boule e in legno di rosa, vasi cinesi e di Sèvres, statuette di Sassonia, stoffe di raso, velluti, merletti, non mancava niente.

Io mi aggiravo nell'appartamento, seguendo le nobili curiose che mi avevano preceduto. Esse entrarono in una stanza tappezzata di stoffe persiane, e anch'io stavo per entrarvi, quando ne uscirono quasi a precipizio, sorridendo come vergognose di quella nuova intrusione.

Il mio desiderio di entrare in quella stanza ne fu aumentato.

Era lo spogliatoio, fornito di ogni specie di strumenti nei quali pareva essersi espressa al massimo la prodigalità della defunta.

Su un grande tavolo accostato al muro, grande tre piedi per sei, splendevano tutti i tesori di Ancoe e di Odiot. Era proprio una magnifica collezione, e fra tutti quegli oggetti, così indispensabili a una donna come quella presso la quale ci trovavamo, non ce n'era uno che non fosse d'oro o d'argento.

Tuttavia quella raccolta non poteva essere stata fatta che poco alla volta, e non era certo stato un solo amore a completarla.

Io, che non mi scandalizzavo certo alla vista dello spogliatoio di una mantenuta, mi divertivo a osservarne i particolari, di qualsiasi tipo, e mi accorsi che tutti quegli utensili mirabilmente cesellati portavano monogrammi vari e corone diverse.

Guardavo tutti quegli oggetti, ognuno dei quali significava ai miei occhi un passo avanti della poverina sulla strada della prostituzione, e mi andavo dicendo che Dio era stato misericordioso verso di lei poiché non aveva permesso che giungesse al solito castigo, consentendole di morire nel pieno del suo lusso e della sua bellezza, prima di conoscere la vecchiaia, che è la prima morte delle cortigiane.

Che c'è infatti di più triste della vecchiaia del vizio, specialmente nella donna? Essa non ha in sé nessuna dignità e non ispira interesse.

Quel continuo pentirsi, non di avere percorso una cattiva strada, ma di avere sbagliato i propri calcoli e di avere mal impiegato il proprio denaro, è una delle cose più tristi che si possano immaginare.

Ho conosciuto un'antica prostituta alla quale non restava del passato che una figlia bella quasi quanto lo era stata lei, a detta dei contemporanei. Quella povera fanciulla, alla quale la madre non aveva mai detto: "Sei mia figlia" se non per ordinarle di sfamare la sua vecchiaia come lei aveva sfamato la sua infanzia, quella povera creatura si chiamava Louise, e, obbedendo a sua madre, si concedeva senza volontà, senza passione, senza piacere, come avrebbe fatto qualsiasi mestiere che avessero pensato di insegnarle.

Il continuo spettacolo della corruzione, della corruzione precoce, alimentata dalla salute sempre precaria della ragazza, aveva soffocato in lei quella conoscenza del bene e del male che forse Dio le aveva dato ma che nessuno aveva pensato a sviluppare.

Ricorderò sempre quella ragazza, che passava sui viali quasi tutti i giorni alla stessa ora.

Sua madre l'accompagnava sempre, con un'assiduità di una vera madre che accompagnasse la propria vera figlia.

Ero molto giovane, a quel tempo, e pronto ad accettare per me stesso la facile morale del mio secolo; mi ricordo però che la vista di quella scandalosa sorveglianza mi ispirava disprezzo e disgusto.

Si aggiunga che nessun viso di vergine avrebbe potuto riflettere lo stesso sentimento di innocenza, una simile espressione di malinconica sofferenza. La si sarebbe detta un'immagine della Rassegnazione. Un giorno, il volto di quella fanciulla si rischiarò. In mezzo alla corruzione di cui sua madre reggeva le fila, sembrò alla peccatrice che Dio volesse concederle la felicità.

E perché, dopo tutto, Dio che l'aveva creata senza forza avrebbe dovuto lasciarla senza conforto, sotto il peso doloroso della sua vita? Un giorno, dunque, si accorse di essere incinta, e quella parte di lei che era rimasta incontaminata trasalì di gioia. L'anima umana ha una strana capacità di evasione.

Louise corse ad annunciare alla madre quella notizia che la rendeva così felice. E' vergognoso dirlo, ma, d'altra parte, noi non facciamo qui sfoggio di immoralità, raccontiamo un fatto vero che sarebbe forse meglio tacere, se non fossimo convinti che è necessario, a volte, rendere noto il martirio di quegli esseri che vengono condannati senza ascoltarli, disprezzati senza giudicarli; è vergognoso, ripetiamo, ma la madre rispose a sua figlia che quello che avevano era appena sufficiente per due e che non sarebbe certo bastato per tre; che certi bambini sono inutili e che una gravidanza è tempo perso.

Il giorno dopo, una levatrice, che indichiamo qui solamente come amica della madre, visitò Louise, che rimase qualche giorno a letto, per rialzarsene più pallida e debole che mai.

Tre mesi dopo, un uomo ebbe pietà di lei e tentò di guarirla moralmente e fisicamente; ma l'ultimo colpo era stato troppo grave, e Louise morì per le conseguenze dell'aborto.

La madre è ancora viva: come? Solo Dio lo sa.

Questa storia mi era tornata in mente mentre guardavo i servizi da toletta in argento, e avevo passato un po' di tempo in queste riflessioni, a quanto pareva, perché nell'appartamento non eravamo rimasti che io e un custode che, sulla porta, vigilava con attenzione che non rubassi niente.

Mi avvicinai allora al brav'uomo a cui ispiravo timori così gravi.

"Signore", gli chiesi, "potreste dirmi il nome della persona che abitava qui?".

"Era mademoiselle Marguerite Gautier".

Conoscevo quella ragazza di nome e di vista.

"Come!", esclamai, "Marguerite Gautier è morta?".

"Sì, signore".

"Quando?".

"Da tre settimane, credo".

"E come mai permettono che si visiti l'appartamento?".

"I creditori pensano che sia un modo per far salire il prezzo di vendita. La gente può vedere in anticipo quale effetto fanno le stoffe e i mobili; voi capite, questo incoraggia all'acquisto".

"Aveva dunque debiti?".

"Oh, signore, una quantità!".

"Ma la vendita riuscirà a coprirli?".

"Ce ne sarà d'avanzo".

"A chi andrà il di più, dunque?".

"Alla famiglia".

"Aveva dunque una famiglia?".

"Sì".

"Grazie, signore".

Il custode, rassicurato circa le mie intenzioni, mi salutò e io me ne andai.

"Poverina" dicevo tra me e me rincasando, "dev'essere morta molto tristemente, perché nel suo ambiente si hanno amici solo a patto di star bene in salute", e mio malgrado mi impietosivo sulla sorte di Marguerite Gautier.

Questo sembrerà ridicolo a molti, ma io ho una immensa compassione per le cortigiane, e non mi sogno neppure di metterla in discussione.

Un giorno, mentre andavo alla prefettura per ritirare il mio passaporto, vidi in una delle strade adiacenti una ragazza trascinata da due gendarmi. Non conosco la colpa di quella ragazza, ma posso dire soltanto che piangeva a calde lacrime stringendo a sé un bambino di qualche mese dal quale l'arresto la separava.

Da quel giorno, non ho mai più disprezzato una donna alla prima impressione.

 

 

 

CAPITOLO 2

 

La vendita era fissata per il 16.

Era stato lasciato un giorno d'intervallo tra quello destinato alle visite e quello dell'asta, perché i tappezzieri avessero il tempo di staccare i parati e le tende.

Ero appena tornato da un viaggio. Era abbastanza naturale che non avessi saputo della morte di Marguerite come di una di quelle grandi notizie che gli amici si affrettano a comunicare a chi fa ritorno nella capitale delle novità.

Marguerite era bella, ma se così tanto scalpore suscita la vita stravagante di quelle donne, altrettanto poco ne suscita la loro morte.

Sono stelle che tramontano così come sorsero, senza fulgore.

Quando muoiono in età giovane, la notizia della loro morte viene saputa contemporaneamente da tutti i loro amanti, perché a Parigi quasi tutti coloro che sono stati intimi con una donna nota sono amici tra di loro; essi si scambiano allora qualche ricordo su di lei, e la vita di tutti continua senza che l'avvenimento la turbi, fosse pure con una sola lacrima.

Al giorno d'oggi, quando si hanno venticinque anni, le lacrime sono diventate una cosa tanto preziosa da non poter essere concessa alla prima venuta.

E' già molto se i genitori, che pagano per essere pianti, lo sono in ragione della somma spesa.

Quanto a me, benché il mio monogramma non si trovasse su nessuno degli oggetti di Marguerite, quell'istintiva indulgenza, quella naturale compassione che poco fa ho confessato, mi faceva riflettere sulla sua morte più a lungo, forse, che di quanto non meritasse.

Mi ricordavo di aver incontrato spesso Marguerite lungo gli Champs- Elysées, dove andava ogni giorno, assiduamente, in un calessino azzurro, tirato da due splendidi cavalli bai; avevo notato in lei un portamento poco comune alle sue pari, che faceva risplendere maggiormente una bellezza già fuori dell'ordinario.

Quelle sciagurate creature, quando escono di casa, sono sempre accompagnate non si sa da chi.

Dato nessun uomo acconsente a mostrare pubblicamente l'amore notturno che ha per loro, e siccome esse odiano la solitudine, si portano dietro o quelle che, meno fortunate, non possiedono una carrozza, o qualcuna di quelle vecchie elegantone di cui niente giustifica l'eleganza e alle quali ci si può rivolgere senza scrupoli, quando si desidera avere qualche notizia su coloro che accompagnano.

Ma non era così per Marguerite. Arrivava agli Champs-Elysées sempre da sola, cercando di nascondersi il più possibile nella sua carrozza, d'inverno avvolta in un gran cachemire, d'estate vestita con assoluta sobrietà; e benché lungo la sua passeggiata abituale si trovassero persone che conosceva, quando per caso sorrideva loro, quel sorriso era visibile solo a queste: una duchessa non avrebbe sorriso in un altro modo.

Non passeggiava mai dal rond-point fino all'imbocco degli Champs- Elysées, come le sue colleghe di allora e di oggi; i suoi cavalli la portavano rapidamente al Bois e lì scendeva dalla carrozza, passeggiava per un'ora, risaliva nella sua vettura, e tornava a casa al gran trotto.

Tutti questi particolari, di cui qualche volta ero stato testimone, sfilavano davanti alla mia mente, e rimpiangevo la morte di quella donna come si può rimpiangere la totale distruzione di un'opera d'arte.

Era, insomma, impossibile trovare una bellezza più affascinante di quella di Marguerite.

Alta e snella, fin troppo, aveva al massimo grado l'arte di far scomparire quel difetto della natura con una sapiente maniera di vestirsi.

Il suo cachemire, lungo fino a terra, lasciava sfuggire qua e là i larghi "volants" di un vestito di seta, e l'ampio manicotto, in cui nascondeva la mani stringendolo al petto, era circondato da pieghe così abilmente disposte, che l'occhio più esigente non avrebbe trovato niente da ridire sul contorno di quelle forme.

La splendida testa era fatta oggetto di una speciale civetteria.

Era molto minuta, e sua madre, come avrebbe detto De Musset, sembrava averla fatta così per poterla fare con maggior cura. Mettete in un ovale di indicibile grazia due occhi neri ornati da sopracciglia dall'arco così puro da sembrare disegnato; velate quegli occhi di lunghe ciglia che, abbassandosi, ombreggino le guance rosate; tracciate un naso sottile, dritto, spirituale, con le narici leggermente dilatate da un anelito di vita sensuale; disegnate una bocca regolare, le cui labbra si schiudano dolcemente su denti bianchi come il latte; colorite la pelle col tono vellutato che avvolge le pesche non ancora sfiorate da alcuna mano, e avrete l'immagine di quella testa deliziosa.

I capelli neri come il carbone, ondulati naturalmente, o forse no, si dividevano sulla fronte in due larghe bande, e si perdevano dietro la testa, mostrando i lobi delle orecchie sui quali brillavano due diamanti di quattro o cinquemila franchi ciascuno.

Come potesse quella vita intensa lasciare intatta sul viso di Marguerite quell'espressione verginale, quasi infantile, che lo caratterizzava, è una cosa che dobbiamo accontentarci di constatare, senza poterla comprendere.

Marguerite aveva un magnifico ritratto fattole da Vidal, il solo uomo il cui pennello fosse stato in grado di riprodurne l'aspetto. Dopo la sua morte, ebbi per qualche giorno a casa mia quel ritratto, di una somiglianza così stupefacente, che mi è servito a descrivere ciò per cui forse la sola memoria non mi sarebbe bastata.

Alcuni particolari li ho conosciuti soltanto più tardi, ma li riferisco subito per non doverci tornare su, quando inizierò il racconto aneddotico della vita di questa donna.

Marguerite assisteva a tutte le prime rappresentazioni, e trascorreva le sue serate al teatro o ai balli.

Ogni volta che si recitava una nuova commedia, si poteva essere sicuri di incontrarla, con tre cose che non la lasciavano mai, e che occupavano sempre il parapetto del suo palco di prima fila: il binocolo, un sacchetto di dolci e un mazzo di camelie.

Per venticinque giorni del mese le camelie erano bianche, e per cinque erano rosse; non si è mai conosciuta la ragione di questo cambiamento di colore, che io racconto senza saperlo spiegare, e che era stato notato anche dai suoi amici e dai frequentatori abituali dei teatri dove si recava più spesso.

Marguerite non era mai stata vista con altri fiori che camelie, tanto che dalla sua fioraia, madame Barjou, avevano finito col chiamarla "La signora dalle camelie", e il soprannome le era rimasto.

Sapevo inoltre, come del resto tutti quelli che a Parigi frequentano un certo ambiente, che Marguerite era stata l'amante dei giovani più eleganti, che lei lo proclamava con orgoglio e che essi se ne vantavano, il che significava che gli uni e l'altra erano reciprocamente soddisfatti.

Tuttavia da circa tre anni, dopo un viaggio a Bagnères, lei viveva soltanto, si diceva, con un vecchio duca straniero, enormemente ricco, che aveva cercato di allontanarla il più possibile dalla sua vita passata, cosa che del resto lei sembrava avergli permesso di buon grado.

Ecco quello che mi fu raccontato a tale proposito.

Nella primavera del 1842, Marguerite era così debole, così diversa dal solito, che i medici le ordinarono una cura di acque, e lei partì per Bagnères.

Là, tra i malati, c'era la figlia di quel duca, la quale non solo soffriva della stessa malattia, ma aveva anche lo stesso viso di Marguerite, al punto che si sarebbe potuto prenderle per due sorelle.

Ma la duchessina era ormai alla terza fase della tisi, e morì pochi giorni dopo l'arrivo di Marguerite.

Una mattina il duca, rimasto a Bagnères come si rimane nella terra nella quale abbiamo sepolto una parte di noi stessi, vide Marguerite all'angolo di un viale.

Gli sembrò allora di veder passare l'ombra di sua figlia e, andatole incontro, le prese le mani, la baciò piangendo e, senza neppure domandarle chi fosse, supplicò che gli fosse permesso di vederla e di amare in lei la viva immagine della figlia morta.

Marguerite, sola a Bagnères con la cameriera, non temendo affatto, d'altra parte, di compromettersi, accordò al duca quanto le chiedeva.

A Bagnères, c'erano persone che la conoscevano e che andarono a informare ufficialmente il duca della vera posizione di mademoiselle Gautier. Fu un grave colpo per quel vecchio, perché la rassomiglianza con sua figlia finiva, ma era troppo tardi. La giovane donna era diventata indispensabile al suo cuore, e il solo pretesto, la sola ragione per la quale continuava a vivere.

Non le rivolse alcun rimprovero, perché non ne aveva il diritto, ma le chiese se si sentisse capace di cambiare la sua vita, offrendole in cambio di quel sacrificio tutti i compensi che poteva desiderare. Lei promise.

Bisogna dire che a quell'epoca Marguerite, natura generosa, era ammalata. Il passato le sembrava come una delle principali cause della sua malattia, e una specie di superstizione la indusse a sperare che Dio le avrebbe lasciato la bellezza e la salute in cambio del suo pentimento e della sua conversione.

In effetti, la cura delle acque, le passeggiate, il sonno che la ristorava dalla stanchezza naturale, l'avevano, alla fine dell'estate, quasi ristabilita in salute.

Il duca la accompagnò a Parigi, dove continuò a visitarla come a Bagnères.

Questo legame, di cui nessuno poteva conoscere né la vera origine né il vero motivo, suscitò una grande sensazione, perché il duca, noto per le sue grandi ricchezze, si faceva ora conoscere per la sua prodigalità. Si credette di ravvisare la causa di questo attaccamento del vecchio duca alla giovane donna in una passione senile di libertino, comune a molti vecchi danarosi.

A tutto si pensò, tranne che alla verità. Tuttavia il sentimento di quel padre per Marguerite era di natura così casta, che gli sarebbe sembrato incestuoso ogni altro rapporto con lei che non fosse esclusivamente d'affetto, e mai le rivolse una sola parola che una figlia non avrebbe potuto ascoltare.

Lontana da noi l'idea di fare della nostra protagonista una persona diversa da quella che fu in realtà; diremo dunque che fino a quando rimase a Bagnères, non le fu difficile mantenere la promessa fatta al duca, e la mantenne; ma appena fu tornata a Parigi, sembrò a quella donna, abituata alla vita dissoluta, ai balli, perfino alle orge, che la solitudine, interrotta solo di tanto in tanto dalle visite del duca, l'avrebbe fatta morire di noia, e gli ardenti ricordi della sua vita di prima le avvamparono insieme la testa e il cuore.

Aggiungete a questo che Marguerite era tornata dal suo viaggio più bella che mai, che aveva vent'anni, e che la malattia, assopita ma non vinta, continuava a suscitarle desideri febbrili, quasi sempre legati alle malattie di petto.

Il duca provò quindi un gran dolore quando i suoi amici, sempre in agguato per sorprendere uno scandalo nella vita della donna con la quale, secondo loro, si andava compromettendo, gli rivelarono e gli provarono che quando era sicura che egli non sarebbe andato da lei riceveva visite, e che tali visite si protraevano spesso fino alla mattina dopo. Interrogata, Marguerite confessò ogni cosa al duca, consigliandogli, senza riserve mentali, di smettere di occuparsi di lei, perché non si sentiva così forte da mantenere gli impegni presi, e non voleva accettare più la generosità di un uomo che lei ingannava.

Il duca rimase otto giorni senza farsi vedere, ma non poté fare di più, e, l'ottavo giorno, venne a supplicare Marguerite di riceverlo ancora, promettendole che l'avrebbe accettata così com'era, purché gli fosse concesso di frequentarla, e giurandole che, a costo di morirne, non le avrebbe mai rivolto un solo rimprovero. Ecco a che punto stavano le cose tre mesi dopo il ritorno di Marguerite, cioè nel novembre o dicembre 1842.

 

 

 

CAPITOLO 3

 

Il 16, all'una, andai in rue d'Antin.

Già dal portone si sentivano gridare i banditori. L'appartamento era pieno di curiosi.

C'erano tutte le più eleganti celebrità del mondo del vizio, sbirciate di sottecchi da alcune grandi dame che avevano colto ancora una volta il pretesto di quella vendita per poter vedere da vicino donne che altrimenti non avrebbero mai avuto occasione di incontrare, e che forse invidiavano in segreto per i loro facili piaceri.

La duchessa de F. stava gomito a gomito con mademoiselle de A., uno dei più malinconici esempi di moderna cortigiana; la marchesa de T.

esitava nel contendere l'acquisto di un mobile a madame D., l'adultera più elegante e più nota della nostra epoca; il duca d'Y., che a Madrid credevano si rovinasse a Parigi e che a Parigi credevano si rovinasse a Madrid, e che, alla fine dei conti, non dava neppure fondo alle sue rendite, chiacchierando con madame M., una delle nostre più spiritose narratrici, che si degna di tanto in tanto di scrivere ciò che dice e di firmare ciò che scrive, scambiava occhiate confidenziali con madame de N., la bella peripatetica degli Champs-Elysées, quasi sempre vestita di rosa o di azzurro, la cui carrozza è tirata da due grandi cavalli neri che Tony le ha venduto per diecimila franchi e che lei ha pagato; mademoiselle A., infine, alla quale il solo ingegno frutta il doppio di quanto frutti alle signore della buona società la dote, e il triplo di quel che frutta alle altre l'amore, era venuta, nonostante il freddo, a fare qualche acquisto, e non era certo la meno osservata.

Potremmo continuare a indicare le iniziali di molte persone riunite in quel salone, peraltro assai stupite di trovarsi insieme; ma avremmo timore di annoiare il lettore.

Diciamo solo che tutti erano in preda a un'allegria sfrenata, e che fra tutte quelle donne che si trovavano là, molte avevano conosciuto la morta, ma non sembravano ricordarsene. Si rideva forte; i banditori gridavano a squarciagola; i mercanti che avevano occupato i banchi disposti di fronte ai tavoli di vendita, cercavano invano di imporre il silenzio, per concludere in pace i propri affari. Mai riunione fu più varia e più rumorosa. Mi insinuai con discrezione in mezzo a quel tumulto, e mi rattristava il pensiero che avveniva accanto alla camera dove era morta la sventurata, i cui mobili venivano posti in vendita per pagarne i debiti. Venuto per osservare piuttosto che per acquistare, guardavo le facce dei fornitori che avevano voluto l'asta, e i cui volti si illuminavano ogni volta che un oggetto saliva a un prezzo che essi non avrebbero sperato. Persone dabbene che avevano speculato sulla prostituzione di quella donna, che avevano guadagnato su di lei il cento per cento, che avevano perseguitato con la carta bollata gli ultimi istanti della sua vita, e che venivano, dopo la sua morte, a raccogliere il frutto dei loro onesti calcoli insieme con gli interessi dei loro vergognosi crediti. Come avevano ragione gli antichi, che attribuivano lo stesso Dio ai mercanti e ai ladri! Vesti, pellicce, gioielli, erano venduti con incredibile rapidità. Non trovavo niente che mi interessasse, e aspettavo ancora. A un tratto, udii gridare: "Un volume, perfettamente rilegato, col taglio dorato, dal titolo Manon Lescaut. Vi sono alcune parole scritte sulla prima pagina. Dieci franchi". "Dodici", disse una voce dopo un silenzio piuttosto lungo. "Quindici", replicai io. Perché mai? Non lo sapevo.

Certo per quelle "parole scritte". "Quindici", ripeté il banditore.

"Trenta", disse il primo offerente con un tono che sembrava voler scoraggiare ogni offerta successiva.

L'asta diventava una lotta.

"Trentacinque!", esclamai con lo stesso tono.

"Quaranta".

"Cinquanta".

"Sessanta".

"Cento".

Confesso che se avessi voluto fare impressione ci sarei pienamente riuscito, perché a questa mia offerta si fece un gran silenzio, e tutti mi guardarono per cercare di capire chi fosse quel signore che sembrava così deciso a entrare in possesso di quel volume.

Pareva che il tono dato alla mia ultima offerta avesse convinto il mio antagonista, il quale preferì abbandonare una lotta che sarebbe servita solo a farmi pagare quel volume dieci volte il suo prezzo, e, inchinandosi, mi disse molto cortesemente, anche se un po' in ritardo:

"Non insisto, signore".

Nessun altro parlò, e il libro mi fu aggiudicato.

Dato che temevo una nuova ostinazione alla quale il mio orgoglio non avrebbe forse ceduto, ma che certo avrebbe messo la mia borsa a mal partito, feci registrare il mio nome e mettere da parte il libro; poi me ne andai. Dovetti certo dare molto da pensare a chi era stato testimone di quella scena e si domandava senza dubbio a quale scopo avevo finito col pagare cento franchi un libro che avrei potuto avere dovunque per dieci o quindici franchi al massimo.

Un'ora dopo mandai a ritirare il mio acquisto.

Sulla prima pagina era scritta a penna, con grafia elegante, la dedica del donatore del libro. La dedica consisteva in queste sole parole:

MANON A MARGUERITE.

UMILTA'.

Era firmato: Armand Duval.

Che significava la parola: Umiltà?

Manon, seguendo l'opinione di quel signor Armand Duval riconosceva in Marguerite una superiorità di corruzione o di sentimento?

La seconda interpretazione era certo la più verosimile, perché la prima non sarebbe stata altro che l'espressione di un'impertinente franchezza che Marguerite non avrebbe mai accettata qualunque fosse la sua opinione su se stessa.

Uscii di nuovo, e non mi occupai più del libro se non la sera quando tornai a casa.

Certo, quella di Manon Lescaut è una storia commovente di cui conosco ogni particolare, eppure quel volume, ogni volta che mi capita sotto mano, suscita in me nuova simpatia; allora lo apro per rivivere per la centesima volta la storia dell'eroina dell'abbé Prévost. Quella protagonista tanto vera, che mi sembra di averla conosciuta. In quelle nuove circostanze, il tipo di confronto fatto tra lei e Marguerite forniva a quella lettura un'attrattiva inattesa, e alla mia indulgenza si aggiunse pietà, quasi amore, per la povera ragazza dalla quale avevo ereditato il volume. Manon era morta in un deserto, è vero, ma pur sempre tra le braccia di un uomo che l'amava con tutte le forze dell'anima e che, dopo morta, le scavò la fossa, la cosparse di lacrime e vi seppellì il proprio cuore; mentre Marguerite, peccatrice come Manon, come lei forse pentita, era morta in mezzo a un lusso fastoso, a voler credere a ciò che avevo visto, e nel letto del suo passato, ma anche in mezzo al deserto del cuore, molto più arido e sconfinato, molto più spietato di quello nel quale Manon aveva trovato sepoltura.

Infatti Marguerite, come seppi da alcuni amici che conoscevano gli ultimi avvenimenti della sua vita, non aveva avuto al suo capezzale nessun conforto durante i due mesi della sua lenta e dolorosa agonia.

Poi, da Manon e da Marguerite il mio pensiero si soffermava su quelle che conoscevo e che vedevo incamminarsi, cantando, verso una morte sempre uguale.

Povere creature! Se amarle è male, il meno che si possa fare è certo compiangerle. Si compiange il cieco che non ha mai visto la luce del sole, il sordo che non ha mai udito gli accordi della natura, il muto che non ha mai espresso la voce dei suoi sentimenti, e sotto un falso pretesto di pudore, non si vuol compiangere quella cecità del cuore, quella sordità dell'anima, quel mutismo della coscienza che rendono folle la povera afflitta e che la rendono, suo malgrado, incapace di vedere il bene, di udire il Signore e di parlare il linguaggio puro dell'amore e della fede.

Hugo ha creato "Marion Delorme", Musset "Bernerette", Alexandre Dumas "Fernande", i pensatori e i poeti di tutti i tempi hanno offerto alle cortigiane la loro pietà, e qualche volta un uomo generoso le ha riabilitate col suo amore e anche col suo nome. Se insisto tanto su questo punto è perché, tra quelli che mi leggeranno, forse molti sono già pronti a gettare via questo libro, nel quale temono di trovare soltanto un'apologia del vizio e della prostituzione, e certo l'età dell'autore contribuisce a motivare un simile timore. Quelli che pensano così si ricredano, e continuino pure a leggere, se è solo questo timore a trattenerli.

Sono semplicemente convinto di questo principio: per la donna che non è stata educata a distinguere dove sia il bene, Dio apre quasi sempre due vie che possono ricondurcela; queste vie sono il dolore e l'amore.

Sono vie ardue, quelle che vi si avventurano si insanguinano i piedi, si lacerano le mani, ma al tempo stesso lasciano sui rovi della strada gli ornamenti del vizio, e arrivano in cima vestite di quella nudità della quale non si arrossisce davanti al Signore.

Coloro che incontrano queste coraggiose viandanti, devono aiutarle e dire a tutti che le hanno incontrate, perché rivelandolo indicano loro la strada giusta.

Non basta mettere semplicemente all'imbocco della via due cartelli, uno con l'iscrizione "Via del bene", l'altro con l'avvertimento "Via del male", e dire a coloro che si presentano: "Scegliete"; bisogna, come Cristo, mostrare i sentieri che riconducono dalla seconda alla prima quelli che si erano lasciati tentare dalle lusinghe, e soprattutto non bisogna che gli inizi di quel cammino siano troppo dolorosi o appaiano troppo impenetrabili.

Il cristianesimo è presente, con la sua meravigliosa parabola del figliol prodigo, per spronarci all'indulgenza e al perdono.

Gesù era pieno d'amore per le anime ferite dalle passioni umane, e amava curarne le ferite estraendo dalle ferite stesse l'unguento che doveva guarirle.

Così Egli disse a Maddalena: "Molto ti sarà perdonato perché molto hai amato". Sublime perdono che doveva suscitare una fede sublime.

Perché dunque dovremmo noi essere più severi di Cristo?

Perché, tenendoci ostinatamente attaccati ai pregiudizi di questo mondo che si fa spietato perché lo si creda forte, dovremmo respingere, come lui, delle anime che spesso sanguinano per ferite dalle quali, come dal sangue infetto di un malato, si spande tutto il male del loro passato e che non invocano che una mano amica che le curi e restituisca loro la convalescenza del cuore?

E' alla mia generazione che mi rivolgo, a quelli per i quali fortunatamente le teorie di Voltaire non esistono più, a quelli che, come me, si rendono conto come l'umanità sia impegnata da quindici anni in uno dei suoi più audaci balzi in avanti. La conoscenza del bene e del male è acquisita per sempre; si ricostituisce la fede, ci è restituito il rispetto delle cose sacre, e se il mondo non è diventato del tutto buono è diventato perlomeno migliore. Gli sforzi di tutti gli uomini intelligenti mirano allo stesso scopo, e tutte le grandi volontà si riallacciano allo stesso principio: siamo buoni, siamo giovani, siamo veri! Il male è solo vanità, abbiamo dunque la fierezza del bene, e soprattutto non disperiamo. Non disprezziamo la donna che non è madre, né figlia, né moglie; non riduciamoci ad apprezzare solo la famiglia, a essere indulgenti solo verso l'egoismo.

Poiché in cielo si fa più festa per un peccatore pentito che per cento giusti senza peccato, cerchiamo dunque di dare gioia al cielo, che ci verrà resa maggiorata. Spargiamo sulla nostra strada l'elemosina del nostro perdono per quelli che i piaceri terreni hanno perduto e che forse saranno salvati solo da una speranza divina, e, come dicono le vecchiette che consigliano uno dei loro rimedi, se questo non farà bene, non nuocerà di certo.

Senza dubbio devo sembrare molto ambizioso quando pretendo di far scaturire risultati così grandi dalla tenue vicenda che sto raccontando, ma io sono di quelli che credono che il tutto stia nel poco. Il bambino è piccolo, ma racchiude l'uomo; il cervello è limitato, ma ospita il pensiero, l'occhio non è che un tutto, ma copre le miglia.

 

 

 

CAPITOLO 4

 

Due giorni dopo, la vendita era finita. Aveva fruttato centocinquantamila franchi.

I creditori avevano diviso fra loro i due terzi, e il resto era andato alla famiglia, composta da una sorella e da un nipotino.

La sorella aveva spalancato tanto d'occhi quando il notaio le aveva scritto per annunciarle un'eredità di cinquantamila franchi. Non vedeva ormai sua sorella da sei o sette anni, dal giorno in cui questa era sparita senza che si fosse mai potuto conoscere, né da lei stessa né da nessun altro, il più piccolo particolare della sua vita successiva all'allontanamento.

Si era dunque precipitata a Parigi, e grande fu lo sbalordimento di quelli che conoscevano Marguerite, quando seppero che la sua unica erede era una bella ragazzona di campagna che prima di allora non aveva mai lasciato il paese.

Trovò un patrimonio fatto, d'improvviso, senza neppure sapere da quale fonte le venisse quella fortuna insperata.

Tornò, mi dissero in seguito, al suo paese, ricordando la sorella morta con grande tristezza, confortata tuttavia dall'impiego del capitale al quattro e mezzo per cento.

Tutti questi avvenimenti, riferiti a Parigi, città madre dello scandalo, stavano già per essere dimenticati, e io stesso non ricordavo quasi più la parte che avevo avuto in quei fatti, quando un nuovo caso mi fece conoscere tutta la vita di Marguerite e mi rese noti particolari così commoventi da invogliarmi a scrivere questo libro che, infatti, scrivo.

Da tre o quattro giorni l'appartamento, svuotato di tutti i mobili, che erano stati venduti, era stato posto in affitto, quando una mattina qualcuno suonò alla mia porta.

Il mio domestico, o meglio il portiere che mi faceva da domestico, andò ad aprire e mi portò un biglietto di visita, dicendomi che la persona che gliel'aveva dato desiderava parlarmi.

Diedi un'occhiata al biglietto e vi lessi queste due parole: Armand Duval.

Cercai di ricordarmi dove avevo visto quel nome, e mi venne in mente la prima pagina di Manon Lescaut.

Che cosa poteva desiderare da me la persona che aveva regalato quel libro a Marguerite? Dissi di far entrare immediatamente il signore che aspettava.

Vidi allora un giovane biondo, alto, pallido, con un abito da viaggio che sembrava avere indosso da qualche giorno e che egli non si era dato la pena di spazzolare arrivando a Parigi, perché era coperto di polvere.

Monsieur Duval, molto commosso, non fece nessuno sforzo per nascondere la sua emozione, e con le lacrime agli occhi, la voce tremante, mi disse:

"Vi prego, signore, vogliate scusare la mia visita e il mio abbigliamento; ma a parte il fatto che tra persone giovani non è il caso di fare complimenti, desideravo tanto vedervi oggi stesso, che non mi sono neppure concesso il tempo di scendere all'albergo al quale ho spedito il mio bagaglio, per correre subito da voi, temendo tuttavia, per quanto sia presto, di non trovarvi in casa".

Pregai monsieur Duval di sedersi davanti al fuoco, il che egli fece tirando fuori di tasca il fazzoletto col quale nascose per un attimo il viso.

"Voi non potete capire", riprese sospirando tristemente, "che cosa voglia questo visitatore sconosciuto, a quest'ora, in un simile abbigliamento, piangendo in questo modo. Vengo soltanto, signore, a chiedervi un grande favore".

"Parlate, signore, sono a vostra disposizione".

"Voi avete assistito all'asta di Marguerite Gautier?". A questa parola, l'emozione che il giovane era riuscito per un istante a dominare fu più forte di lui, ed egli fu obbligato a coprirsi gli occhi con le mani.

"Devo sembrarvi ben ridicolo", aggiunse, "scusatemi ancora per questo, e credete che non dimenticherò mai la pazienza con la quale vi degnate di ascoltarmi".

"Signore", risposi, "se il favore che, a quanto sembra, io sono in grado di farvi può in qualche modo placare il vostro dolore, ditemi subito in che cosa posso esservi utile, e troverete in me un uomo felice di servirvi".

Il dolore di monsieur Duval mi ispirava simpatia, e a ogni costo avrei voluto fargli cosa gradita.

Egli mi disse allora:

"Voi avete comperato qualcosa alla vendita di Marguerite?".

"Sì, signore, un libro".

"Manon Lescaut?".

"Appunto".

"Lo avete ancora?".

"E' nella mia stanza da letto".

Armand Duval, a questa notizia, sembrò sollevato da un gran peso e mi ringraziò come se avessi cominciato a fargli un favore soltanto conservando quel libro.

Allora mi alzai, andai a prendere il libro nella mia stanza e glielo consegnai.

"E' proprio questo", disse guardando la dedica sul frontespizio e sfogliando qua e là, "è proprio questo".

E due grosse lacrime caddero sulle pagine.

"Ebbene, signore", disse alzando lo sguardo verso di me e non cercando più neppure di nascondermi che aveva pianto e che stava per piangere di nuovo, "tenete molto a questo libro?".

"Perché, signore?".

"Perché sono venuto a pregarvi di cedermelo".

"Perdonate la mia curiosità", gli risposi, "ma siete dunque voi che l'avete regalato a Marguerite Gautier?".

"Io stesso".

"Allora questo libro è vostro, signore, riprendetelo, sono ben felice di potervelo restituire".

"Ma", riprese Duval, imbarazzato, "lasciate almeno che vi restituisca la somma che avete pagato per averlo".

"Permettetemi di offrirvelo. Il prezzo di un solo volume in una vendita del genere è un'inezia, e io non mi ricordo neanche più quanto l'ho pagato".

"L'avete pagato cento franchi".

"E vero", risposi imbarazzato a mia volta, "come fate a saperlo?".

"E presto detto, io speravo di poter arrivare a Parigi in tempo per la vendita di Marguerite, ma non sono arrivato che stamattina. Volevo assolutamente avere un oggetto che le fosse appartenuto, e mi sono precipitato dal commissario estimatore a chiedergli il permesso di esaminare la lista degli oggetti venduti e dei nomi degli acquirenti.

Ho visto che questo libro era stato comperato da voi, e ho pensato di pregarvi di cedermelo, per quanto la somma che avete pagato mi abbia fatto temere che voi stesso siate legato a quel libro da qualche ricordo personale".

Così parlando, si vedeva chiaramente come Armand temesse che anch'io avessi conosciuto Marguerite come l'aveva conosciuta lui.

Mi affrettai perciò a rassicurarlo.

"Non ho conosciuto mademoiselle Gautier che di vista", gli dissi, "la sua morte ha prodotto su di me l'impressione che sempre la morte di una bella donna produce su un uomo a cui faceva piacere incontrarla.

Ho voluto comperare qualcosa all'asta della sua roba e mi sono ostinato a far alzare il prezzo di questo libro, non so neanch'io perché, forse per il piacere di far inquietare un signore che vi si accaniva e sembrava sfidarmi a comprarlo. Ve lo ripeto dunque, signore, questo libro è vostro, e io vi prego ancora di accettarlo perché non l'abbiate da me come io l'ho avuto da un banditore, e perché costituisca tra noi il pegno di una più lunga conoscenza e di una più intima amicizia".

"Bene, signore", disse Armand tendendomi la mano e stringendo la mia, "accetto, e per tutta la vita vi sarò riconoscente".

Avevo una gran voglia di interrogare Armand su Marguerite, perché la dedica del libro, il viaggio del giovane, il suo desiderio di possedere quel volume stimolavano la mia curiosità; ma temevo che se avessi interrogato il mio ospite avrei avuto l'aria di aver rifiutato il suo denaro per conservarmi il diritto di immischiarmi nei fatti suoi.

Si sarebbe detto che egli mi avesse letto nel pensiero, perché mi disse:

"Avete letto questo libro?".

"Da cima a fondo".

"Che cosa pensate della mia dedica?".

"Ho capito subito che ai vostri occhi la sventurata ragazza alla quale dedicavate il volume non apparteneva a una categoria comune; non volevo infatti vedere in quelle righe un complimento banale".

"E avete ragione, signore. Quella fanciulla era un angelo". Prendete", mi disse, "leggete questa lettera".

E mi tese un foglio che sembrava essere stato letto e riletto molte volte. Lo aprii, ed ecco quello che vi era scritto:

"Mio caro Armand, ho ricevuto la vostra lettera, vi siete conservato buono e ne ringrazio Iddio. Sì, amico mio, sono ammalata, di una di quelle malattie che non perdonano; ma l'interessamento che volete ancora dimostrarmi diminuisce di molto le mie sofferenze. Certo non vivrò tanto a lungo da poter avere il bene di stringere la mano che ha scritto la generosa lettera che ho appena ricevuto e le cui parole potrebbero guarirmi, se qualcosa ancora potesse guarirmi. Non vi vedrò più, perché sono molto vicina alla morte, e centinaia di miglia ci separano. Povero amico! la vostra Marguerite di una volta è molto cambiata, ed è forse meglio che voi non la rivediate più piuttosto che la vediate com'è adesso. Mi chiedete se vi perdono; oh! di tutto cuore, amico mio, perché il male che mi avete fatto non era che una prova del vostro amore. E' un mese che sono a letto, e tengo tanto alla vostra stima che ogni giorno scrivo il diario della mia vita, da quando ci siamo lasciati fino a quando non avrò più la forza di scrivere.

"Armand, se l'interesse che mi dimostrate è sincero, al vostro ritorno andate da Julie Duprat. Vi consegnerà quel diario. Vi troverete la ragione e la scusa di quanto è accaduto tra noi. Julie è molto buona con me; insieme parliamo spesso di voi, e quando è arrivata la vostra lettera, abbiamo pianto insieme, leggendola.

"Nel caso in cui non mi aveste dato vostre notizie, era incaricata di consegnarvi quei fogli al vostro arrivo in Francia.

"Non me ne siate grato. Rievocare ogni giorno i soli istanti felici della mia vita mi fa un gran bene, e come voi troverete nella lettura di quel diario la giustificazione del passato, così io trovo nello scriverlo un quotidiano sollievo.

"Vorrei lasciarvi qualcosa che mi ricordasse sempre al vostro cuore, ma qui tutto è sotto sequestro, e più niente mi appartiene.

"Capite, amico mio? io sto per morire, e dalla mia stanza da letto sento nel salone i passi del custode che i miei creditori hanno installato qui perché niente sia portato via e perché non mi resti niente nel caso che io sopravviva. Speriamo che per vendere aspettino almeno la mia fine.

"Oh! come sono spietati gli uomini! o piuttosto, mi sbaglio: è Dio che è giusto e inflessibile.

"Ebbene, amore caro, venite alla vendita della mia roba, e comprate qualche cosa, perché se mai io nascondessi per voi il più piccolo oggetto e lo si scoprisse, sarebbero capaci di accusarvi di sottrazione di beni pignorati.

"Com'è triste la vita che lascio!

"Come sarebbe buono il Signore, se mi permettesse di rivedervi prima di morire! Con tutta probabilità, addio, amico mio; perdonatemi se non vi scrivo più a lungo, ma coloro che sostengono di potermi guarire mi sfiniscono coi salassi, e la mia mano si rifiuta di scrivere oltre.

Marguerite Gautier".

Le ultime parole erano, infatti, appena leggibili.

Restituii la lettera ad Armand, che certo l'aveva riletta nella sua mente come io l'avevo letta sulla carta, perché riprendendola disse:

"Chi potrebbe mai credere che è stata una mantenuta a scrivere queste cose!".

Commosso dai suoi ricordi, contemplò per qualche istante la scrittura di quella lettera, che infine portò alle labbra.

"Quando penso", riprese, "che questa donna è morta senza che io abbia potuto rivederla, e che non la vedrò mai più; quando penso che ha fatto per me cose che neppure una sorella avrebbe fatto, non so perdonarmi di averla lasciata morire così. Morta! morta! e pensando a me, scrivendo e pronunciando il mio nome, mia povera, cara Marguerite".

E Armand, dando libero sfogo ai pensieri e alle lacrime, mi strinse la mano e proseguì:

"Mi giudicherebbero un bambino, se mi vedessero piangere così una morta come quella; perché non sapranno mai quanto ho fatto soffrire quella donna, come sono stato crudele, e come lei è stata buona e rassegnata. Credevo che spettasse a me perdonarla, e oggi mi ritrovo indegno del perdono che mi accorda. Oh! darei dieci anni della mia vita per potere piangere un'ora ai suoi piedi".

E' sempre difficile consolare un dolore che non si conosce, e tuttavia io ero preso da una così viva simpatia per quel giovane, che mi confidava la sua pena con tanta franchezza, che pensai che le mie parole non gli sarebbero state indifferenti e gli dissi:

"Non avete parenti, amici? Sperate, cercate la loro compagnia, ed essi vi consoleranno, perché io non posso che compiangervi".

"E' giusto", rispose alzandosi e mettendosi a passeggiare a grandi passi per la stanza, "io vi annoio. Scusatemi, non ho pensato che il mio dolore può importarvi assai poco, e che vi sto importunando con una cosa che non può e non deve interessarvi per niente".

"Avete frainteso il senso delle mie parole, io sono a vostra disposizione; mi dispiace solo di non essere in grado di consolarvi.

Se la mia compagnia e quella dei miei amici possono distrarvi, se, insomma, avete bisogno di me per qualunque cosa, sappiate bene che avrò molto piacere di potervi fare cosa gradita". "Scusatemi, scusatemi", disse, "il dolore esagera le sensazioni. Lasciatemi rimanere qui ancora per qualche minuto, giusto il tempo di asciugarmi gli occhi perché i curiosi della strada non guardino come una rarità questo giovanottone che piange. Voi mi avete reso veramente felice dandomi questo libro; non saprò mai come mostrarvi la mia riconoscenza per quanto vi devo".

"Accordandomi un po' della vostra amicizia", gli risposi, "e raccontandomi la causa del vostro dolore. A parlare di ciò che si soffre si è consolati".

"Avete ragione; ma oggi ho troppo bisogno di piangere, e non vi direi che parole senza senso. Un giorno, vi renderò partecipe della mia storia, e vedrete se ho ragione a rimpiangere quella sventurata. E adesso", aggiunse asciugandosi ancora una volta gli occhi e guardandosi in uno specchio, "ditemi che non mi considerate troppo sciocco, e permettetemi di tornare a trovarvi". Lo sguardo di quel giovane era buono e dolce, e io fui lì sul punto di abbracciarlo.

Quanto a lui, i suoi occhi ricominciavano a velarsi di lacrime; ma vide che me n'ero accorto, e distolse lo sguardo.

"Su", gli dissi, "coraggio!".

"Addio", mi rispose.

E facendo uno sforzo inaudito per non piangere, scappò, più che uscire, da casa mia.

Alzai la tenda della finestra, e lo vidi risalire nella carrozza che l'attendeva alla porta; ma appena vi entrò, si sciolse in lacrime e nascose il viso nel fazzoletto.

 

 

 

CAPITOLO 5

 

Per qualche tempo non sentii più parlare di Armand, ma in compenso ci furono molte occasioni per parlare di Marguerite.

Non so se l'abbiate mai notato, ma basta che si pronunci una volta davanti a voi il nome di una persona che sembrava dovervi restare sconosciuta o quanto meno indifferente, perché una quantità di particolari prendano corpo a poco a poco intorno a quel nome, e perché sentiate allora tutti i vostri amici parlarvi di cose sulle quali non vi avevano mai trattenuto prima.

Scoprite allora che quella persona quasi vi toccava, vi accorgete che è passata molte volte nella vostra vita senza essere notata, trovate negli avvenimenti che vi vengono raccontati una coincidenza, un'affinità reale con certi casi della vostra vita.

Non era proprio questo il caso di Marguerite, perché io l'avevo vista, incontrata e conoscevo il suo aspetto e le sue abitudini; tuttavia, dopo la vendita il suo nome mi era spesso giunto all'orecchio e, nella circostanza che ho raccontato nel capitolo precedente, questo nome era legato a un dolore così profondo, che il mio stupore ne era stato accresciuto, aumentando la mia curiosità.

Risultato di tutto ciò fu che non avvicinavo più i miei amici, ai quali non avevo mai parlato di Marguerite, senza chiedere loro:

"Avete conosciuto una certa Marguerite Gautier?".

"La signora dalle camelie?".

"Appunto".

"Eccome!".

Questi "eccome!" si accompagnavano a volte a sorrisi sul cui significato sarebbe stato impossibile avere dubbi.

"Ebbene, che tipo di donna era?", continuavo.

"Una buona figliuola".

"Tutto qui?".

"Dio mio! sì, un po' più di spirito e forse un po più di cuore delle altre".

"Non sapete niente di preciso su di lei?".

"Ha rovinato il barone de G...".

"Soltanto?" .

"E' stata l'amante del vecchio duca de...".

"Era la sua amante?".

"Così si dice: comunque, le dava molto denaro".

Sempre le stesse indicazioni generiche.

Sarei stato tuttavia curioso di sapere qualcosa sulla relazione tra Marguerite e Armand.

Un giorno incontrai uno di quei tali che vivono sempre nell'intimità di quelle donne, e lo interrogai.

"Conoscevate Marguerite Gautier?".

Mi fu risposto col solito "eccome!".

"Che tipo di donna era?".

"Una bella e buona ragazza. La sua morte mi ha dato un gran dolore".

"Non aveva un amante che si chiamava Armand Duval?".

"Uno alto e biondo?".

"Sì".

"E' vero".

"Chi era questo Armand?".

"Un ragazzo che ha dissipato con lei il poco che aveva, credo, e che fu obbligato a lasciarla. Si dice che ne fosse pazzamente innamorato".

"E lei?".

"Anche lei lo amava molto, sempre a quanto si dice, ma come possono amare quelle ragazze lì. Non bisogna chiedere loro più dl quello che possono dare".

"Che ne è di Armand?".

"Lo ignoro. Lo abbiamo conosciuto assai poco. E' rimasto cinque o sei mesi con Marguerite, ma in campagna. Quando lei è tornata, lui è partito" "E non l'avete più rivisto?".

"Mai più".

Neppure io avevo rivisto Armand. Cominciavo a chiedermi se, quando si era presentato a me, la recente notizia della morte di Marguerite non avesse esagerato il suo amore di un tempo e quindi il suo dolore, e mi dicevo che forse egli aveva già dimenticato, insieme con la morte, la sua promessa di tornare a trovarmi.

Questa ipotesi sarebbe stata abbastanza verosimile nei confronti di un altro uomo, ma nella disperazione di Armand c'erano stati accenti così sinceri che io, passando da un estremo all'altro, immaginai che il dolore fosse diventato malattia, e che se non avevo sue notizie era perché era malato e forse anche morto.

Mio malgrado pensavo molto a quel giovane.

Forse con questo interesse aveva a che fare anche un certo egoismo; forse avevo intravisto sotto quel dolore una commovente storia d'amore, e forse il mio desiderio di conoscerla aveva una gran parte nella preoccupazione causatami dal silenzio di Armand.

Poiché Duval non tornava da me, mi decisi ad andare da lui. Non era difficile trovare un pretesto, ma sfortunatamente non conoscevo il suo indirizzo, e nessuno di quelli che avevo interrogato era stato in grado di indicarmelo.

Mi recai in rue d'Antin. Forse il portiere di Marguerite sapeva dove abitasse Armand.

Ma il portiere era un altro, e lo ignorava quanto me.

Chiesi allora in quale cimitero fosse stata sepolta mademoiselle Gautier.

Era il cimitero di Montmartre.

L'aprile era tornato, il tempo era bello, le tombe non avevano più quell'aspetto doloroso e desolato che dà loro l'inverno; e infine faceva già abbastanza caldo perché i vivi si ricordassero dei morti e li andassero a trovare.

Mi recai al cimitero, dicendomi: "Mi basterà guardare la tomba di Marguerite per accorgermi se il dolore di Armand dura ancora, e forse saprò cosa ne è stato di lui".

Entrai nel padiglione del custode, e gli chiesi se il 22 febbraio fosse stata sepolta in quel cimitero una donna di nome Marguerite Gautier.

Quello sfogliò il librone dove sono segnati e numerati i nomi di tutti coloro che entrano in quell'ultimo rifugio, e mi rispose che, infatti, il 22 febbraio, a mezzogiorno, era stata sepolta una donna di quel nome.

Lo pregai allora di farmi accompagnare alla tomba, perché è difficile orizzontarsi senza guida in quella città di morti, che ha le sue strade come la città dei vivi.

Il custode chiamò un giardiniere al quale diede le opportune indicazioni. ma questi l'interruppe dicendo:

"Lo so, lo so... oh! la tomba è facilmente riconoscibile", proseguì rivolto verso di me.

"Perché?", gli chiesi.

"Perché ha dei fiori molto diversi dalle altre tombe".

"Siete voi a occuparvene?".

"Sì, signore, e vorrei proprio che tutti i parenti avessero cura dei loro morti come il giovane che mi ha raccomandato quella tomba".

Dopo qualche svolta il giardiniere si fermò e mi disse:

"Eccoci" Avevo infatti sotto gli occhi un'aiuola fiorita, che non si sarebbe mai detta una tomba, se non fosse stato per una lapide di marmo bianco con un nome inciso.

La lapide era sistemata dritta e una ringhiera di ferro delimitava il terreno ricoperto di camelie bianche.

"Che ne dite?", chiese il giardiniere.

"E' bellissimo".

"E ogni volta che una camelia appassisce ho l'ordine di cambiarla".

"Chi vi ha dato quest'ordine?".

"Un giovanotto che ha pianto molto la prima volta che è venuto; uno che doveva aver avuto a che fare con la morta senza dubbio, perché pare che fosse una svelta quella lì. Dicono che fosse molta bella. Il signore l'ha conosciuta?".

"Si".

"Come quell'altro", mi disse il giardiniere con un sorrisetto malizioso.

"No, non le ho neppure mai parlato".

"E venite a trovarla qui; è molto gentile da parte vostra, perché il cimitero non è certo affollato di gente che viene a trovare quella poveretta".

"Non viene dunque mai nessuno?".

"Nessuno, tranne quel giovanotto che è venuto una volta" "Una volta sola?".

"Sissignore".

"E non è più tornato?".

"No, ma verrà al suo ritorno".

"E' dunque partito?".

"Sì".

"Sapete per dove?".

"E' andato, credo, dalla sorella di mademoiselle Gautier" "E che cosa è andato a fare?".

"E' andato a chiedere il permesso di far riesumare la morta per portarla altrove".

"Perché non la lascia qui?".

"Sapete, signore, ognuno ha le sue idee sui morti. Noialtri lo vediamo tutti i giorni. Questo terreno è stato comprato solo per cinque anni, e quel giovane vuole una concessione perpetua e un terreno più grande; nella zona nuova sarà più semplice".

"Che cos'è la zona nuova?".

"I nuovi terreni che sono in vendita adesso a sinistra. Se il cimitero fosse stato sempre tenuto come lo è adesso, non ce ne sarebbe un altro uguale al mondo; ma c'è ancora molto da fare prima che sia perfettamente come deve essere. E poi la gente è così buffa".

"Che volete dire?".

"Voglio dire che l'orgoglio di alcuni dura anche qui. Così questa mademoiselle Gautier sembra che abbia fatto una vita un po' allegra, se mi passate l'espressione. Ora la poverina è morta, e resta di lei esattamente ciò che resta di quelle sulle quali non si ha niente da ridire e che noi annaffiamo tutti i giorni, ebbene, quando i parenti di quelli che sono seppelliti accanto a lei hanno saputo di chi si trattava, non si sono messi in testa di dire che si sarebbero opposti a che fosse messa qui, e che ci dovrebbero essere dei terreni separati per le donne di quella specie, così come per i poveri? Si è mai vista una cosa simile? Li ho squadrati per bene, io; ricconi che non vengono a visitare i loro morti nemmeno quattro volte l'anno, portandosi i fiori da loro, e guardate che fiori! Risparmiano sulla tomba di quelli che dicono di piangere, scrivono sulle lapidi lacrime che non hanno mai versato, e poi fanno i difficili in materia di vicinato. Mi crederete, signore, io non conoscevo quella signorina, non so cos'abbia fatto; ma le voglio bene, a quella povera piccola, e ho cura di lei, e le camelie gliele metto al giusto prezzo. E' la mia morta preferita. Noialtri, signore, dobbiamo ben amarli i nostri morti, perché siamo così occupati che non abbiamo quasi il tempo di amare qualcos'altro".

Guardai quell'uomo, e qualcuno dei miei lettori capirà, senza bisogno di spiegazioni, quale commozione provai a quelle parole.

Egli se ne accorse di certo perché continuò:

"Dicono che c'è stato chi si è rovinato per quella ragazza e che aveva degli amanti che l'adoravano; ebbene, quando penso che non ce n'è uno che venga a portarle un fiore, questo mi sembra strano e doloroso. E ancora questa non ha di che lamentarsi, perché ha la sua tomba, e se non c'è che una persona che si ricorda di lei, questa lo fa per tutti gli altri. Ma ci sono qui delle povere ragazze della stessa specie e della stessa età, che vengono gettate nella fossa comune, e mi si spezza il cuore a sentir cadere i loro poveri corpi nella terra. E nessuno che si occupi di loro, una volta morte! Non è sempre allegro il nostro mestiere, soprattutto finché ci resta un briciolo di sentimento. Che volete? è più forte di me. Io ho una bella figliuola di vent'anni, e quando portano qui una morta della sua età penso a lei e, si tratti di una gran signora o di una vagabonda, non posso impedirmi di essere commosso. Ma certo vi sto annoiando con queste storie, e non è certo per ascoltarle che siete venuto. Mi è stato detto di condurvi alla tomba di mademoiselle Gautier, e ci siete; posso esservi utile in qualche altra cosa?".

"Conoscete l'indirizzo di monsieur Armand Duval?" gli domandai.

"Sì, abita in rue..., almeno è lì che sono andato a riscuotere il prezzo di tutti i fiori che vedete".

"Grazie, amico".

Gettai un ultimo sguardo su quella tomba fiorita, della quale mio malgrado, avrei voluto penetrare la profondità per vedere come la terra avesse ridotto la bella creatura che vi era stata gettata dentro, e mi allontanai tristemente.

"Allora volete vedere monsieur Duval?", riprese il giardiniere che mi camminava accanto.

"Sì".

"Il fatto è che sono sicuro che non è ancora tornato, altrimenti l'avrei già visto qui".

"Siete dunque convinto che egli non ha dimenticato Marguerite?".

"Non solo ne sono convinto, ma scommetterei che il suo desiderio di cambiarle tomba è il desiderio di rivederla" "Come?" .

"La prima cosa che mi ha detto venendo al cimitero è stata: 'Come fare per rivederla?'. Questo si può fare solo cambiando la tomba, e io gli ho spiegato tutte le formalità da osservare per ottenere il cambiamento, perché dovete sapere che per trasferire i morti da una tomba all'altra bisogna riconoscerli, e solo la famiglia può autorizzare questa operazione, alla quale deve assistere un commissario di polizia. È per ottenere questa autorizzazione che monsieur Duval è andato dalla sorella di mademoiselle Gautier, e la sua prima visita sarà certamente per noi".

Eravamo giunti all'ingresso del cimitero; ringraziai di nuovo il giardiniere mettendogli in mano alcune monete, e mi recai all'indirizzo che mi aveva dato.

Armand non era ancora tornato.

Gli lasciai un biglietto, pregandolo di venirmi a trovare appena fosse arrivato, o di farmi sapere dove avrei potuto trovarlo.

L'indomani mattina ricevetti una lettera di Duval, che mi informava del suo ritorno e mi pregava di passare da casa sua aggiungendo che era stanchissimo e perciò gli sarebbe stato impossibile uscire.

 

 

 

CAPITOLO 6

 

Trovai Armand a letto.

Vedendomi, mi tese una mano che scottava. "Avete la febbre", gli dissi.

"Non è niente, la stanchezza di un viaggio precipitoso, ecco tutto".

"Sicché siete stato dalla sorella di Marguerite?".

"Sì, chi ve l'ha detto?".

"Lo so. Avete ottenuto ciò che desideravate?".

"Sì; ma chi vi ha informato del mio viaggio e del suo scopo?".

"Il giardiniere del cimitero".

"Avete visto la tomba?".

Osai appena rispondere, perché il tono di quella frase mi provò che colui che l'aveva pronunciata era sempre in preda all'emozione di cui ero stato testimonio, e che per molto tempo ancora quell'emozione sarebbe stata più forte della volontà, ogni volta che il suo pensiero e le parole di qualcuno lo avessero ricondotto su quel doloroso argomento.

Mi limitai quindi a rispondere con un cenno del capo.

"Ne ha avuto cura?", continuò Armand.

Due grosse lacrime rotolarono sulle guance del malato, che girò la testa per nasconderlo. Finsi di non vederle e cercai di cambiare discorso.

"Sono già tre settimane che siete partito", gli dissi.

Armand si passò una mano sugli occhi e mi rispose:

"Tre settimane esatte".

"E' stato un viaggio lungo".

"Oh! Non ho sempre viaggiato. Sono stato ammalato per quindici giorni, altrimenti sarei tornato da tempo; ma appena sono arrivato laggiù, sono stato colto dalla febbre e sono stato obbligato a restarmene a letto".

"E siete ripartito prima di essere guarito del tutto".

"Se fossi restato ancora otto giorni in quel paese, ne sarei morto".

"Ma ora che siete tornato, dovete aver cura di voi; i vostri amici verranno a trovarvi, io per primo, se me lo permettete".

"Tra due ore sarò alzato".

"Che imprudenza!".

"Devo farlo".

"Che cosa avete dunque di così urgente?".

"Devo andare dal commissario di polizia".

"Perché non incaricate qualcuno di quest'incombenza che potrebbe farvi ammalare più gravemente?".

"E' la sola cosa che può guarirmi. Bisogna che io la veda. Da quando ho saputo della sua morte, e soprattutto da quando ho visto la sua tomba, ho perso il sonno. Non riesco a rendermi conto che quella donna che ho lasciato così giovane e bella è morta. Bisogna che me ne accerti io stesso. Bisogna che io veda quel che Dio ha fatto di quella creatura che ho tanto amato, e forse l'orrore di quella vista sostituirà la disperazione del ricordo; voi mi accompagnerete, no?...".

"Se non vi sarà di peso".

"Che cosa vi ha detto la sorella?".

"Nulla. E' rimasta molto stupita che un forestiero voglia acquistare un terreno e far costruire una tomba per Marguerite, e ha firmato subito l'autorizzazione che le chiedevo".

"Datemi retta, aspettate di essere ben guarito prima di fare la traslazione".

"Oh, sarò forte, state tranquillo. Del resto impazzirei, se non mettessi in opera al più presto questa decisione, il cui compimento è divenuto una necessità per il mio dolore. Vi giuro che non potrò trovare la pace finché non avrò rivisto Marguerite. E' forse l'arsura della febbre che mi brucia, un sogno della mia insonnia, un frutto del mio delirio; ma dovessi, dopo aver visto, farmi trappista come monsieur de Rancé, io la vedrò".

"Capisco", dissi ad Armand, "e sono a vostra disposizione. Avete visto Julie Duprat?".

"Sì. L'ho vista il giorno stesso del mio ritorno".

"Vi ha consegnato le carte che Marguerite le aveva affidate per voi?".

"Eccole".

Armand estrasse di sotto il cuscino un rotolo, e ve lo rimise immediatamente.

"Conosco a memoria quanto è scritto su questi fogli", mi disse. "Da tre settimane li rileggo dieci volte al giorno. Li leggerete anche voi, ma più in là, quando sarò più calmo e potrò farvi capire quanto cuore e quanto amore siano contenuti in questa confessione. Per ora, ho un favore da chiedervi".

"Quale?".

"Avete una carrozza ad attendervi?".

"Sì".

"Bene, volete prendere il mio passaporto e andare a vedere se al fermo posta ci sono lettere per me? Mio padre e mia sorella devono avermi scritto a Parigi, e io sono partito così di fretta che non ho avuto il tempo di informarmene prima della partenza. Quando sarete tornato, andremo insieme ad avvertire il commissario di polizia della cerimonia di domani".

Armand mi consegnò il passaporto, e io mi recai in rue Jean-Jacques Rousseau.

C'erano due lettere indirizzate a Duval; le presi e tornai indietro.

Quando rientrai, trovai Armand completamente vestito e pronto a uscire.

"Grazie", mi disse prendendo le lettere. "Sì", soggiunse dopo aver guardato gli indirizzi, "sì, sono mio padre e mia sorella. Credo che non abbiano capito la ragione del mio silenzio".

Aprì le lettere, le intuì più che leggerle, perché erano lunghe quattro pagine ciascuna, e in un istante le aveva già ripiegate.

"Andiamo", disse, "risponderò domani".

Andammo dal commissario di polizia, al quale Armand consegnò la procura della sorella di Marguerite.

Il commissario gli diede a sua volta un avviso per il custode del cimitero; fu convenuto che la traslazione avrebbe avuto luogo l'indomani mattina alle dieci, e che io sarei passato a prenderlo un'ora prima, per andare insieme al cimitero.

Anch'io ero curioso di assistere a quello spettacolo, e confesso che la notte non chiusi occhio.

A giudicare dai pensieri che mi assalirono, dovette essere una ben lunga notte per Armand.

L'indomani alle nove, quando entrai in casa sua, era terribilmente pallido, ma sembrava calmo.

Mi sorrise tendendomi la mano.

Le candele erano consumate fino in fondo e, prima di uscire, Armand prese una lettera molto voluminosa, indirizzata a suo padre, nella quale certo gli confidava l'ansia della nottata.

Mezz'ora dopo arrivammo a Montmartre, dove il commissario era ad attenderci.

Ci incamminammo lentamente verso la tomba di Marguerite.

Il commissario ci precedeva, Armand e io lo seguivamo a qualche passo di distanza.

"Di tanto in tanto sentivo tremare convulsamente il braccio del mio compagno, come se brividi improvvisi lo percorressero.

Allora lo guardavo; egli capiva il mio sguardo e mi sorrideva, ma da quando eravamo usciti da casa sua non avevamo più scambiato una parola.

Un po' prima della tomba, Armand si fermò per asciugarsi il viso madido di sudore.

Approfittai di quella sosta per riprendere fiato, perché avevo anch'io il cuore stretto come in una morsa.

Da dove viene il doloroso piacere che si prova davanti a simili spettacoli? Quando arrivammo alla tomba, vedemmo che il giardiniere aveva tolto tutti i vasi di fiori, che la ringhiera di ferro era stata divelta e che due uomini scavavano il terreno.

Armand si appoggiò a un albero e guardò.

Tutta la sua vita sembrava concentrata negli occhi.

A un tratto una delle due vanghe sfregò contro un sasso. A quel rumore Armand indietreggiò come colpito da una scossa elettrica, e mi strinse la mano con tanta forza da farmi male.

Un becchino prese una larga pala e vuotò a poco a poco la fossa; poi, quando non vi furono più che le pietre con le quali si ricoprono le bare, le gettò fuori a una a una.

Io tenevo d'occhio Armand, perché temevo che le emozioni che visibilmente si accavallavano in lui lo schiantassero da un momento all'altro; ma egli guardava sempre, con gli occhi fissi e spalancati come nella pazzia, mentre solo un leggero tremito delle guance e delle labbra mostrava come egli fosse in preda a una violenta crisi nervosa.

Quanto a me, posso dire una cosa sola, e cioè che mi pentivo di essere venuto.

Quando la bara fu scoperta del tutto, il commissario disse ai becchini:

"Apritela".

Quelli obbedirono, come se si trattasse della cosa più naturale del mondo.

La bara era di quercia, ed essi si misero a svitare il coperchio.

L'umidità della terra aveva fatto arrugginire le viti, e ci volle un certo sforzo per scoprire la bara. Ne uscì un vivo fetore, malgrado le erbe aromatiche che vi erano state poste.

"Dio mio! Dio mio!", mormorò Armand, sempre più pallido.

Gli stessi becchini indietreggiarono.

Un gran lenzuolo bianco ricopriva il cadavere, del quale lasciava intravedere le forme. Il lenzuolo aveva un lembo quasi completamente corroso, e lasciava scoperto un piede della morta.

Provavo un senso di malessere, e mentre scrivo queste righe il ricordo di quella scena mi appare in tutta la sua imponente realtà.

"Svelti", disse il commissario.

Allora uno dei due uomini allungò la mano, cominciò a scucire il lenzuolo e, tirandolo per un lembo, scoprì bruscamente il volto di Marguerite.

Tremendo da vedere, orribile a descriversi.

Gli occhi non erano più che due buchi, le labbra erano scomparse e i denti biancheggiavano in due file serrate. I lunghi capelli neri e aridi erano incollati alle tempie e nascondevano le cavità verdastre delle gote; eppure riconobbi quel viso, quel viso bianco, roseo e felice che avevo visto tanto spesso.

Armand, senza poter distogliere lo sguardo da quel volto, aveva portato il fazzoletto alla bocca e lo stringeva tra i denti.

Provai l'impressione di un cerchio di ferro che mi stringesse la testa, gli occhi mi si velarono, le orecchie mi ronzavano; infine, aprii un flacone di sali che avevo preso per ogni evenienza e ne respirai profondamente il vapore.

Nello stordimento, sentii il commissario dire a Duval:

"La riconoscete?".

"Sì", rispose il giovane con voce sorda.

"Allora, chiudete e portate via", ordinò il commissario.

I becchini lasciarono cadere di nuovo il lenzuolo sul viso della morta, richiusero la bara, la presero ciascuno da un lato e si diressero verso il luogo che era stato loro indicato.

Armand non si muoveva. I suoi occhi erano inchiodati a quella fossa vuota; era pallido come il cadavere che avevamo visto allora... pareva pietrificato.

Capii quello che sarebbe accaduto quando il dolore, diminuito con lo svanire dell'impressione di quella scena, non lo avrebbe più sorretto.

Mi avvicinai al commissario.

"E' ancora necessaria la presenza di questo signore?", gli chiesi indicando Armand.

"No", mi rispose, "e vi consiglio di condurlo via, perché sembra malato".

"Venite", dissi allora ad Armand prendendolo per un braccio.

"Come?", disse lui guardandomi come se non mi riconoscesse.

"E' finito", soggiunsi, "dobbiamo andarcene, amico mio, voi siete pallido, avete freddo, finirete con l'uccidervi con queste emozioni".

"Avete ragione, andiamocene", rispose meccanicamente, ma senza muoversi. Allora lo presi per un braccio e lo trascinai via.

Si lasciò condurre come un bambino, mormorando solo ogni tanto:

"Avete visto i suoi occhi?".

E si voltava come se quella visione lo richiamasse indietro.

Tuttavia, il suo passo si fece più marcato, sembrava non riuscisse a camminare che a sbalzi; i denti gli battevano, aveva le mani gelate, mentre una violenta agitazione nervosa si andava impadronendo di tutta la sua persona.

Cercai di farlo parlare, ma non mi rispose.

Era irrigidito, si faceva trascinare.

Alla porta trovammo la carrozza. Finalmente!

Appena vi si fu accomodato, i brividi aumentarono, ed ebbe un vero e proprio attacco di nervi, durante il quale, per timore di spaventarmi, mormorava stringendomi la mano:

"Non è niente, non è niente, ho voglia di piangere".

Sentivo il suo petto gonfiarsi, il sangue gli saliva agli occhi, ma le lacrime non uscivano.

Gli feci respirare i sali di cui mi ero servito prima, e, quando fummo arrivati a casa sua, soltanto i brividi continuavano.

Con l'aiuto di un domestico lo misi a letto, feci accendere un gran fuoco nella stanza, e corsi a chiamare il mio medico al quale raccontai ciò che era successo. Egli accorse.

Armand era violaceo, delirava, balbettava parole senza senso, attraverso le quali si distingueva chiaramente solo il nome di Marguerite.

"Ebbene?", chiesi al dottore dopo che ebbe esaminato il malato.

"Ebbene, ha semplicemente una febbre cerebrale, ed è ben fortunato, perché credo, Dio mi perdoni, che sarebbe impazzito. La malattia fisica ucciderà felicemente la malattia morale, e forse tra un mese egli sarà guarito dall'una e dall'altra".

 

 

 

CAPITOLO 7

 

Le malattie come quella che aveva colpito Armand hanno il vantaggio di uccidere sul colpo o di lasciarsi vincere rapidamente.

Quindici giorni dopo gli avvenimenti che ho descritto, Armand era in piena convalescenza, e ci eravamo legati con una stretta amicizia.

Io non avevo quasi mai abbandonato la sua stanza per tutta la durata della sua malattia.

La primavera aveva diffuso dovunque i suoi fiori, le sue foglie, i suoi uccelli, le sue canzoni, e la finestra del mio amico si apriva allegramente sul giardino, le cui salubri esalazioni salivano fino a lui.

Il medico gli aveva permesso di alzarsi, e restavamo spesso a chiacchierare seduti accanto alla finestra aperta, nell'ora in cui il sole è più caldo, da mezzogiorno alle due.

Evitavo accuratamente di parlargli di Marguerite, sempre temendo che quel nome potesse risvegliare un triste ricordo sopito sotto la calma apparente del malato; ma Armand, invece, sembrava parlare di lei con piacere, non più come prima, con le lacrime agli occhi, ma con un dolce sorriso che mi rassicurava sul suo stato d'animo.

Avevo notato che, dopo la sua ultima visita al cimitero, dopo lo spettacolo che gli aveva procurato quella violenta crisi, la misura del dolore morale sembrava essere stata colmata dalla malattia, e che la morte di Marguerite non gli appariva più sotto la stessa luce del passato.

Dall'acquisita certezza sembrava essergli derivata una specie di consolazione, e, per allontanare da sé l'immagine fosca che spesso gli si presentava davanti, egli si immergeva nei ricordi felici della sua relazione con Marguerite, e sembrava non accettasse ormai altro che quelli.

Il corpo era troppo esaurito dall'attacco della febbre e anche dalla convalescenza per permettere al suo spirito un'emozione violenta, e la piena gioia primaverile che circondava Armand riconduceva suo malgrado il pensiero di lui su immagini gioiose.

Si era sempre ostinatamente rifiutato di far conoscere alla famiglia il pericolo che correva, e quando era stato considerato fuori pericolo, suo padre ignorava ancora la sua malattia.

Una sera, ci eravamo trattenuti accanto alla finestra più a lungo del solito; il tempo era splendido e il sole tramontava in un crepuscolo smagliante d'azzurro e d'oro. Sebbene ci trovassimo a Parigi, il verde che ci circondava sembrava isolarci dal mondo, e solo di tanto in tanto il rumore di una carrozza disturbava a malapena la nostra conversazione.

"Fu press'a poco l'anno scorso di questi tempi, e in una sera come questa, che conobbi Marguerite", mi disse Armand, prestando orecchio solo ai propri pensieri e non a quello che gli stavo dicendo.

Io non risposi niente.

Allora si voltò verso di me e mi disse:

"Bisogna pure che vi racconti questa storia, voi ne farete un romanzo al quale nessuno crederà, ma che sarà forse interessante scrivere".

"Mi racconterete tutto più tardi, amico mio", gli risposi, "adesso non siete ancora abbastanza in forze".

"La serata è tiepida, ho mangiato un petto di pollo", mi disse sorridendo; "non ho febbre, non abbiamo niente da fare, e quindi vi racconterò ogni cosa".

"Se proprio lo volete, vi ascolto".

"E' una storia semplicissima", soggiunse allora, "e ve la racconterò seguendo l'ordine dei fatti. Se poi ne farete qualcosa, siete libero di narrarla in altro modo".

Ecco dunque quanto egli mi raccontò; io ho cambiato solo qualche parola al suo commovente racconto.

Sì - riprese Armand, lasciando ricadere la testa sullo schienale della poltrona - sì, era in una serata come questa. Avevo passato la giornata in campagna con uno dei miei amici Gaston R... La sera eravamo tornati a Parigi, e non sapendo che fare, entrammo al Théâtre des Variétés.

Durante un intervallo uscimmo, e, nel corridoio, vedemmo passare una donna alta che il mio amico salutò.

"Chi avete salutato?", gli chiesi.

"Marguerite Gautier", mi rispose.

"Mi sembra molto cambiata, non l'ho neppure riconosciuta" dissi con un'emozione che presto capirete.

"E' stata malata, povera figliuola, e non ne avrà per molto".

Mi ricordo queste parole come se fossero state pronunciate ieri.

Dovete sapere, amico mio, che da due anni la vista di quella ragazza, quando l'incontravo, mi faceva una strana impressione.

Senza che sapessi il perché, impallidivo, e il mio cuore batteva furiosamente.

Uno dei miei amici, cultore di scienze occulte, chiamerebbe quella mia sensazione affinità magnetica; ma io credo semplicemente che fossi destinato a innamorarmi di Marguerite, e che ne avessi il presentimento.

Fatto sta che mi faceva sempre una profonda impressione, e molti dei miei amici ne erano stati testimoni, e ne avevano riso molto quando avevano saputo da chi mi veniva quel turbamento.

La vidi per la prima volta in Place de la Bourse, alla porta di Susse.

Un calesse scoperto si era fermato, e ne discese una donna vestita di bianco. Un mormorio di ammirazione accolse il suo ingresso nel negozio.

Me ne restai inchiodato al mio posto, dal momento in cui era entrata fino a quello in cui uscì.

Attraverso i vetri la guardai scegliere e acquistare. Avrei potuto entrare, ma non osai. Non sapevo chi fosse quella donna, e temevo che potesse intuire la ragione del mio ingresso nel negozio e ne fosse offesa. Tuttavia, non credevo che l'avrei rivista.

Era vestita con eleganza; indossava un abito di mussola a 'volants', uno scialle indiano quadrato con gli angoli ricamati d'oro e di fiori di seta, un cappello di paglia italiano, e un solo braccialetto, una catena d'oro che stava diventando di moda a quel tempo.

Risalì nel calesse e si allontanò.

Uno dei commessi del negozio rimase sulla porta, seguendo con lo sguardo la carrozza dell'elegante cliente. Mi avvicinai a lui e lo pregai di dirmi chi fosse quella signora.

"E' mademoiselle Marguerite Gautier", mi rispose.

Non osai chiedergli l'indirizzo, e me ne andai.

Il ricordo di quella visione, perché non si può parlare d'altro, non voleva lasciare la mia mente, come le altre che avevo avuto fino ad allora, e mi misi a cercare dappertutto quella dama in bianco così regalmente bella.

Dopo qualche giorno ebbe luogo uno spettacolo di gala all'Opéra- Comique.

Vi andai. La prima persona che vidi in un palco di proscenio fu Marguerite Gautier.

L'amico che era con me la riconobbe, e mi disse, nominandola:

"Guardate quella bella donna".

In quel momento, Marguerite puntava il binocolo verso di noi; riconobbe il mio amico, gli sorrise, e gli fece segno di raggiungerla.

"Vado a salutarla", mi disse lui, "e vi raggiungo subito".

Non potei fare a meno di dirgli: "Beato voi!".

"Perché?" .

"Perché andate da quella donna".

"Ne siete forse innamorato?".

"No", dissi arrossendo, perché non sapevo bene che rispondergli, "ma ci terrei a conoscerla".

"Venite con me, vi presenterò".

"Domandategliene prima il permesso".

"Oh, perbacco, non c'è bisogno di fare complimenti con lei; venite".

Quello che mi disse mi turbò; tremavo al pensiero di dovermi forse convincere che Marguerite non meritava quello che provavo per lei.

In un libro di Alphonse Karr, dal titolo "Aru Ranchen", si racconta di un uomo che, una sera, segue una donna molto elegante di cui si è innamorato a prima vista per la sua bellezza. Pur di baciare la mano di quella donna, egli si sente la forza per qualsiasi impresa, la volontà per qualsiasi conquista, il coraggio per qualsiasi ardimento.

Egli osa appena sfiorare con lo sguardo la caviglia sulla quale lei solleva con civetteria la veste per impedirle di impolverarsi.

Mentre sogna tutto quanto farebbe per possedere quella donna, lei lo ferma all'angolo di una strada e gli chiede se vuole salire a casa sua.

Egli gira la testa da un'altra parte, col cuore amareggiato, se ne torna a casa.

Quello scritto mi torna in mente, e mentre avrei voluto soffrire per quella donna, temevo che mi accettasse troppo presto, e mi concedesse con troppa prontezza un amore che avrei voluto pagare con una lunga attesa o con un gran sacrificio. Noi uomini siamo fatti così, ed è una fortuna che la fantasia lasci ai sensi tanta poesia, e che il desiderio fisico faccia così posto ai sogni dello spirito.

Insomma, se mi avessero detto: "Questa donna sarà vostra stasera, e domani verrete ucciso", avrei accettato.

Se mi avessero detto: "Date dieci luigi, e sarete il suo amante", avrei rifiutato, e ne avrei pianto come un bambino che al risveglio vede svanire il castello intravisto in sogno.

Tuttavia, volevo conoscerla: era quello il solo mezzo per sapere come mi sarei dovuto regolare con lei.

Dissi dunque al mio amico che tenevo a che essa gli concedesse il permesso di presentarmi a lei, e mi aggiravo nel corridoio, pensando che di lì a poco mi avrebbe visto, e che non avrei saputo quale contegno assumere sotto i suoi occhi.

Cercai di mettere insieme fino da allora le parole che le avrei detto.

Che bambinata sublime, l'amore!

Poco dopo il mio amico mi raggiunse. "Ci aspetta", mi disse.

"E' sola?", gli chiesi.

"C'è un'altra donna".

"E nessun uomo?".

"Nessuno".

"Andiamo".

Il mio amico si diresse verso la porta del teatro.

"Beh, non è mica da quella parte", gli dissi.

"Andiamo prima a cercare dei dolci: me li ha chiesti". Entrammo da un pasticciere vicino all'Opéra.

Avrei voluto comprare tutto il negozio, e mi guardavo intorno per cercare come comporre il pacchetto, quando il mio amico disse:

"Datemi una libbra di uva candita".

"Siete sicuro che le piaccia?".

"Non mangia altri dolci, è risaputo. Ah", continuò dopo che fummo usciti, "sapete che donna sto per presentarvi? Non crediate che sia una duchessa, è solo una mantenuta, la più mantenuta delle donne, caro mio, non fate dunque complimenti, e dite pure tutto ciò che vi verrà in testa".

"Bene, bene", balbettai seguendolo, e dicendomi che sarei ben presto guarito dalla mia passione.

Quando entrammo nel palco, Marguerite rideva sonoramente.

Avrei preferito che fosse triste.

Il mio amico mi presentò. Marguerite mi rivolse un leggero cenno del capo, e disse:

"I miei dolci?".

"Eccoli" .

Prendendoli mi guardò. Abbassai gli occhi arrossendo. Lei si chinò all'orecchio della vicina, le mormorò qualche parola a bassa voce, ed entrambe scoppiarono a ridere. Ero io il motivo di quell'ilarità; il mio imbarazzo raddoppiò. A quell'epoca avevo per amante una piccola borghese molto tenera e molto sentimentale, il cui sentimentalismo e le cui lettere malinconiche mi facevano ridere.

Capii il dolore che dovevo darle da quello che stavo provando io, e per cinque minuti l'amai come mai una donna è stata amata.

Marguerite mangiava la sua uva senza più occuparsi di me. Il mio amico non volle più lasciarmi in quella ridicola posizione.

"Marguerite", disse, "non dovete stupirvi se monsieur Duval non vi dice niente, perché voi lo turbate a tal punto che non riesce a trovare le parole".

"Io credo piuttosto che il signore vi abbia accompagnato qui perché vi annoiava venirci da solo".

"Se fosse vero", dissi a mia volta, "non avrei pregato Ernest di chiedervi il permesso di esservi presentato".

"Era forse solo il pretesto per ritardare il momento fatale".

Per poco che si abbia esperienza di donne del genere di Marguerite, si sa il piacere che provano nel fare dello spirito a sproposito e a prendere in giro la gente che vedono per la prima volta.

E' certo una rivincita sulle umiliazioni che spesso sono costrette a subire da parte di quelli che esse vedono tutti i giorni.

E' necessario quindi, per poter rispondere loro, una certa dimestichezza col loro mondo, cosa che io non avevo; e poi, l'idea che mi ero fatta su Marguerite esagerò ai miei occhi l'importanza dello scherzo. Nulla che venisse da quella donna mi lasciava indifferente.

Così, mi alzai dicendole con un tono di voce alterata che mi fu impossibile nascondere del tutto:

"Se è questo che pensate di me, signora, non mi resta che chiedervi scusa per la mia indiscrezione, e congedarmi da voi assicurandovi che la cosa non si ripeterà".

Così detto, salutai e uscii.

Appena ebbi chiuso la porta, udii un nuovo scoppio di risa. Mi sarebbe piaciuto molto che in quel momento qualcuno mi prendesse a spintoni.

Tornai al mio posto.

Fu battuto un colpo che annunziava l'alzarsi del sipario. Ernest tornò da me.

"Ma che fate?", mi disse sedendosi. "Vi hanno preso per pazzo".

"Che cosa ha detto Marguerite, quando me ne sono andato?" .

"Ha riso, e mi ha assicurato di non aver mai visto un tipo così buffo, ma non dovete credervi sconfitto; non fate mai a certe donne l'onore di prenderle sul serio. Esse non sanno cosa siano eleganza e buone maniere; sono come i cani, i quali se mettete loro dei profumi, trovano che hanno un cattivo odore e vanno a rotolarsi nelle pozzanghere".

"Dopo tutto che m'importa?", dissi cercando di assumere un tono indifferente. "Non rivedrò più quella donna, e se pure mi piaceva prima di conoscerla, ora che la conosco, è tutto molto diverso".

"Bah! non dispero di vedervi un giorno nel suo palco, e di sentir dire che vi state rovinando per lei. Del resto, avreste ragione, è maleducata ma varrebbe la pena averla come amante".

Per fortuna si alzò il sipario e il mio amico tacque. Mi sarebbe impossibile dirvi quale commedia si rappresentava. Tutto ciò di cui mi ricordo è che di tanto in tanto alzavo gli occhi sul palco dal quale ero così bruscamente uscito, e che ogni volta vi intravedevo il viso di un nuovo visitatore.

Tuttavia, ero ben lontano dal non pensare più a Marguerite. Un altro sentimento si era impadronito di me. Mi sembrava che avrei dovuto far dimenticare il suo insulto e la mia ridicola figura; mi dicevo che, avessi dovuto spendere tutto quel che possedevo, avrei avuto quella ragazza e avrei preso di diritto il posto che avevo abbandonato così in fretta.

Prima che lo spettacolo finisse, Marguerite e la sua amica lasciarono il palco.

Mio malgrado, lasciai anch'io il mio posto.

"Ve ne andate?", mi chiese Ernest.

"Sì" "Perché?".

In quel momento, si accorse che il palco era vuoto. "Andate, andate", mi disse allora, "e buona fortuna, o piuttosto, migliore fortuna".

Uscii.

Udii nelle scale fruscii di seta e bisbigli di voci. Mi tirai da un lato e vidi passare, non visto, le due donne e i due giovani che le accompagnavano.

Sotto il portico del teatro, un piccolo domestico si avvicinò a loro.

"Di' al cocchiere di aspettarci davanti al Café Anglais", disse Marguerite, "andremo fin là a piedi".

Qualche minuto dopo, passeggiando sul boulevard, vidi alla finestra di uno dei salottini di quel ristorante Marguerite, appoggiata al davanzale, che sfogliava a una a una le camelie del suo mazzo.

Uno dei due uomini era chino sulla sua spalla e le parlava sottovoce.

Andai a sedermi alla Maison-d'Or, nei saloni del primo piano, senza perdere di vista quella finestra.

All'una del mattino, Marguerite risaliva in carrozza coi suoi tre amici. Presi una vettura e la seguii.

La carrozza si fermò al numero 9 di rue d'Antin.

Marguerite ne discese ed entrò da sola in casa.

Si trattava certo di un caso, ma un caso che mi rese molto felice.

Da quel giorno incontrai spesso Marguerite al teatro e agli Champs- Elysées. Sempre in lei la stessa allegria, in me sempre lo stesso turbamento.

Passarono tuttavia quindici giorni senza che la rivedessi in alcun luogo. Mi incontrai con Gaston al quale chiesi notizie.

"La poverina è molto ammalata", mi rispose.

"Che cos'ha?".

"Ha che è tisica, e siccome ha fatto una vita che non è certo la più adatta a guarirla, è a letto e sta morendo".

Il cuore è strano: fui quasi contento di quella malattia. Andai tutti i giorni a prendere notizie dell'ammalata, senza tuttavia firmare o lasciare il biglietto di visita. Seppi così della sua convalescenza e della sua partenza per Bagnères.

Passò poi qualche tempo, e l'impressione, se non il ricordo, parve cancellarsi a poco a poco dal mio animo. Viaggiai; relazioni, abitudini, occupazioni, sostituirono quel pensiero, e quando ricordavo quella prima avventura, non volevo vedervi che una di quelle passioni che si hanno finché si è giovani, e delle quali si ride qualche tempo dopo.

Del resto, non ci sarebbe stato alcun merito a trionfare di quel ricordo perché avevo perso di vista Marguerite dopo la sua partenza, e, come vi ho detto, quando mi passò accanto nel corridoio del Variété, non la riconobbi. Era velata, è vero; ma per quanto velata, due anni prima non avrei avuto bisogno di vederla per riconoscerla:

l'avrei indovinata. Ma questo non impedì al mio cuore di battere quando seppi che era lei; e i due anni trascorsi senza vederla, e il risultato che pareva aver prodotto quella separazione, svanirono nella nebbia al solo contatto della sua veste.

 

 

 

CAPITOLO 8

 

Tuttavia - continuò Armand dopo una pausa - pur rendendomi conto che ero ancora innamorato, mi sentivo più forte di prima, e nel mio desiderio di rivedere Marguerite c'era anche la volontà di mostrarle che le ero diventato superiore.

Quante strade e quante ragioni crea il cuore per arrivare a quello che vuole!

Così, non potei restare più a lungo nel corridoio, e tornai al mio posto lanciando una rapida occhiata per la sala, per vedere in quale palco lei si trovasse.

Era nel palco di proscenio di prim'ordine, sola. Era cambiata, come vi ho detto, non ritrovavo più sulla sua bocca quel sorriso indifferente.

Aveva sofferto, e soffriva ancora.

Per quanto si fosse già in aprile, era ancora vestita come d'inverno, e tutta coperta di velluto.

La guardavo con tanta insistenza, che il mio sguardo attirò il suo.

Mi osservò per qualche istante, prese il binocolo per guardarmi meglio e credette certo di riconoscermi, senza poter dire con precisione chi fossi, perché, quando depose il binocolo, un sorriso, il delizioso saluto delle donne, le passò sulle labbra per rispondere al saluto che sembrava attendere da me; ma io non risposi affatto, come per assumere un nuovo atteggiamento e fingere di aver dimenticato nel momento in cui lei ricordava.

Credette allora di essersi sbagliata, e distolse lo sguardo. Si alzò il sipario.

Ho visto molte volte Marguerite a teatro, e non l'ho mai vista prestare la minima attenzione a quello che si rappresentava.

Quanto a me, lo spettacolo mi interessava assai poco, e non mi occupavo che di lei, facendo tuttavia ogni sforzo perché non se ne accorgesse.

La vidi scambiare occhiate con la persona che occupava il palco di fronte al suo; portai lo sguardo su quel palco e vi riconobbi una donna con la quale ero abbastanza in confidenza.

Questa donna era stata una mantenuta, e aveva cercato di fare del teatro senza riuscirvi; allora, siccome poteva contare sulle relazioni con le donne più eleganti di Parigi, si era data al commercio e aveva aperto un negozio di mode.

Vidi in lei il modo di incontrare Marguerite, e approfittai di un momento in cui guardava dalla mia parte per salutarla con la mano e con gli occhi.

Accadde quanto avevo previsto: mi chiamò nel suo palco. Prudence Duvernoy, tale era il felice nome della modista, era una di quelle quarantenni già sformate, con le quali non è necessario usare troppa diplomazia per fare dir loro quello che si vuole sapere, soprattutto quando ciò che ci interessa è semplice quanto ciò che io avevo da chiederle.

Approfittai di un momento in cui riprendeva a scambiare cenni con Marguerite, per domandarle:

"Chi guardate così?,.

"Marguerite Gautier".

"La conoscete?".

"Certo: sono la sua modista e abita vicino a me" "Abitate dunque anche voi in rue d'Antin?".

"Sì, al numero 7. La finestra del suo spogliatoio guarda sulla finestra del mio".

"Dicono che sia una donna affascinante".

"Non la conoscete?".

"No, ma vorrei tanto conoscerla".

"Volete che le dica di venire nel nostro palco?".

"No, preferisco esserle presentato".

"A casa sua?".

"Sì".

"E' più difficile".

"Perché?".

"Perché è la protetta di un vecchio duca molto geloso".

"Delizioso quel 'protetta'".

"Sì, protetta" riprese Prudence. "Povero vecchio, non gli sarebbe facile esserne l'amante".

Prudence mi raccontò allora come Marguerite avesse conosciuto il duca a Bagnères.

"E' per questo", continuai, "che è qui da sola?".

"Appunto".

"Ma chi la riaccompagnerà a casa?".

"Lui".

"Verrà a prenderla, allora?".

"Tra poco".

"E voi, chi v'accompagnerà?".

"Nessuno".

"Lo farò io".

"Ma siete qui con un amico, mi pare".

"E allora lo faremo insieme".

"Chi è il vostro amico?".

"Un ragazzo piacevole, molto spiritoso, che sarà felice di conoscervi".

"Va bene, d'accordo, ce ne andremo tutti e tre dopo questo atto, perché l'ultimo lo conosco".

"Volentieri, vado ad avvertire il mio amico".

"Andate. Ah!" mi disse Prudence mentre stavo per uscire "ecco il duca che entra nel palco di Marguerite".

Guardai. Infatti, un uomo sulla settantina si stava sedendo dietro la giovane donna e le porgeva un sacchetto di dolci nel quale lei infilava la mano sorridendo, per posarlo subito dopo sul parapetto del palco facendo a Prudence un segno che poteva tradursi in:

"Ne volete?".

"No" rispose Prudence.

Marguerite riprese il sacchetto e, girandosi, si mise a chiacchierare col duca.

Il racconto di tutti questi particolari può sembrare puerile ma tutto ciò che riguarda quella donna è così presente nella mia memoria, che non posso impedirmi, oggi, di ricordarlo.

Scesi ad avvertire Gaston di quanto avevo deciso per lui e per me.

Egli accettò.

Lasciammo i nostri posti per salire nel palco di madame Duvernoy.

Appena aperta la porta del corridoio dei palchi, dovemmo farci da parte per lasciar passare Marguerite e il duca che se ne andavano.

Avrei dato dieci anni della mia vita per essere al posto del vecchio gentiluomo.

Usciti nel boulevard, la fece sedere in un calesse, che lui stesso guidava, e si allontanarono, portati via al trotto da due splendidi cavalli.

Entrammo nel palco di Prudence.

Quando l'atto finì, scendemmo a prendere la carrozza da nolo che ci condusse al numero 7 di rue d'Antin.

Alla porta di casa, Prudence ci invitò a salire per mostrarci il negozio, che non conoscevamo e del quale sembrava molto orgogliosa.

Potete immaginare con quale gioia accettai l'invito. Mi sembrava di accostarmi un po' a Marguerite. Ben presto feci ricadere la conversazione su di lei.

"Il vecchio duca è dalla nostra vicina?", chiesi a Prudence.

"No, dovrebbe essere sola".

"Si annoierà terribilmente", disse Gaston.

"Passiamo quasi tutte le serate insieme, perché, quando rientra, mi chiama da lei. Non si corica mai prima delle due del mattino. Non riesce ad addormentarsi prima".

"Perché?" .

"Perché è malata di petto e ha quasi sempre la febbre".

"Non ha nessun amante?", chiesi.

"Non vedo mai nessuno che resti da lei quando me ne vado io; ma non sono in grado di dire se non vada nessuno dopo che me ne sono andata; spesso incontro da lei, la sera, un certo conte de N... che crede di raggiungere i suoi scopi facendole visita alle undici di sera, mandandole tanti gioielli quanti può desiderare; ma lei non lo può vedere neppure dipinto, Ha torto, è un ragazzo molto ricco. Ho un bel dirle di tanto in tanto: 'Figliuola mia, è l'uomo che ci vuole!'. Lei, che di solito mi dà abbastanza retta, mi gira le spalle e mi risponde che è troppo stupido. Che sia stupido, ne convengo, ma sarebbe per lei una sistemazione, mentre quel vecchio duca potrebbe morire da un momento all'altro. I vecchi sono egoisti; la sua famiglia gli rimprovera senza posa il suo affetto per Marguerite: ecco due ragioni perché non le lasci niente. Le faccio la predica, e lei mi risponde che sarà sempre in tempo a prendersi il conte alla morte del duca. Non è sempre divertente", proseguì Prudence, "vivere come lei. So bene che mi piacerebbe poco e che manderei ben presto a spasso quel brav'uomo.

Non sa di niente, quel vecchio; la chiama 'figlia mia', si occupa di lei come di una bambina, le sta sempre addosso. Sono sicura che a quest'ora uno dei suoi domestici passeggia nella strada per veder chi esce, e soprattutto chi entra".

"Ah! povera Marguerite!", disse Gaston sedendosi al pianoforte e accennando un valzer, "non sapevo niente di tutto ciò. Comunque, mi ero accorto che da qualche tempo aveva un'aria meno allegra".

"Zitto!", disse Prudence tendendo l'orecchio.

Gaston tacque.

"Mi sta chiamando, mi pare".

Ascoltammo. Infatti, una voce chiamava Prudence.

"Allora, signori, andate via", disse madame Duvernoy.

"Ah, è così che intendete l'ospitalità!", disse Gaston ridendo. "Ce ne andremo quando ci piacerà".

"E perché dovremmo andarcene?".

"Perché vado da Marguerite".

"Vi aspetteremo".

"E' impossibile".

"Allora verremo con voi".

"Peggio".

"Io, Marguerite la conosco", disse Gaston, "posso pur sempre andare a farle una visita".

"Ma Armand non la conosce".

"Glielo presenterò".

"E' impossibile".

Udimmo di nuovo la voce di Marguerite che continuava a chiamare Prudence, la quale corse nello spogliatoio. La seguii con Gaston. Lei aprì la finestra.

Ci nascondemmo in modo da non essere visti dall'esterno.

"Sono dieci minuti che vi chiamo", disse Marguerite dalla sua finestra, con tono quasi imperativo.

"Che volete?".

"Che veniate subito da me".

"Perché?" .

"Perché il conte de N... è ancora qui e io mi annoio da morire".

"Adesso non posso".

"Cosa ve lo impedisce?".

"Ci sono da me due giovanotti che non vogliono andarsene".

"Dite loro che dovete uscire".

"Gliel'ho detto".

"Allora lasciateli a casa vostra; quando vedranno che siete uscita, se ne andranno".

"Dopo aver messo tutto a soqquadro!".

"Ma che cosa vogliono?".

"Vedervi".

"Come si chiamano?".

"Uno lo conoscete, è monsieur Gaston R...".

"Ah, sì, lo conosco. E l'altro?".

"Monsieur Armand Duval. Non lo conoscete?".

"No, ma portateli lo stesso, preferirei qualunque cosa al conte. Vi aspetto, fate presto".

Marguerite richiuse la finestra, Prudence fece altrettanto.

Marguerite, che aveva per un istante riconosciuto il mio viso, non ricordava il mio nome. Avrei preferito un ricordo svantaggioso per me a quella dimenticanza.

"Ero sicuro", disse Gaston, "che sarebbe stata felice di vederci" "Felice non è la parola adatta", rispose Prudence mettendosi uno scialle e il cappello, "vi riceve per mandar via il conte. Cercate di essere più divertenti di lui, o, conosco Marguerite, se la prenderà con me".

Seguimmo Prudence per le scale.

Tremavo; presagivo che quella visita avrebbe avuto una grande influenza nella mia vita. Ero ancora più emozionato della sera in cui le ero stato presentato nel palco dell'Opéra-Comique.

Arrivando alla porta dell'appartamento che voi conoscete, il cuore mi batteva così forte che non ragionavo più.

Alcuni accordi di pianoforte arrivarono fino a noi.

Prudence suonò.

Il pianoforte tacque.

Una donna che sembrava più una dama di compagnia che una cameriera venne ad aprirci. Passammo nel salone, e dal salone nel salottino che era, a quel tempo, proprio come voi l'avete visto più tardi.

Un uomo era appoggiato al caminetto.

Marguerite, seduta al pianoforte, faceva scorrere le dita sulla tastiera, accennando dei brani musicali senza concluderli.

Quella scena provocava un'impressione di noia, a causa dell'uomo imbarazzato dalla propria nullità, e della donna annoiata dalla visita di quel tedioso personaggio.

Udendo la voce di Prudence, Marguerite si alzò, e venendoci incontro, dopo aver lanciato uno sguardo riconoscente a madame Duvernoy, ci disse:

"Entrate, signori, e siate i benvenuti".

 

 

 

CAPITOLO 9

 

"Buona sera, caro Gaston", disse Marguerite al mio compagno, "mi fa molto piacere vedervi. Perché non siete venuto nel mio palco al Variétés?".

"Temevo di essere indiscreto".

"Gli amici", e Marguerite calcò su questa parola, come per far capire ai presenti che, nonostante la familiarità con cui lei lo accoglieva, Gaston non era e non era mai stato per lei che un amico, "gli amici non sono mai indiscreti".

"Allora, permettetemi di presentarvi monsieur Armand Duval".

"Avevo già autorizzato Prudence a farlo".

"Del resto, signora", dissi inchinandomi e cercando, per quanto potevo, di emettere dei suoni intelligibili, "ho già avuto l'onore di esservi presentato".

L'incantevole sguardo di Marguerite sembrò cercare nella sua memoria, ma non ricordò, o forse sembrò non ricordare.

"Signora", ripresi allora, "vi sono grato di aver dimenticato quella prima presentazione, perché fui molto ridicolo e debbo esservi sembrato molto noioso. Fu due anni fa, all'Opéra-Comique; ero con Ernest de...".

"Ah, mi ricordo!", riprese Marguerite con un sorriso, "non voi eravate ridicolo, ma io ero dispettosa, come del resto lo sono ancora un poco, ma meno di allora. Mi avete perdonato, signore?".

E mi tese la mano, che baciai.

"E' vero", riprese. "Figuratevi che ho la cattiva abitudine di mettere in imbarazzo la gente che vedo per la prima volta. E molto sciocco. Il mio medico dice che è perché sono nervosa e sempre sofferente: credete al mio medico".

"Ma sembrate in ottima salute".

"Oh! sono stata molto ammalata".

"Lo so".

"Chi ve lo ha detto?".

"Tutti lo sapevano; sono venuto spesso per avere vostre notizie e ho saputo con piacere della vostra convalescenza" "Non mi hanno mai dato il vostro biglietto di visita".

"Non l'ho mai lasciato".

"Sareste dunque voi quel giovane che tutti i giorni veniva a informarsi della mia salute, quand'ero malata, e che non ha mai voluto dire il suo nome?".

"Proprio io".

"Allora voi siete, più che indulgente, generoso. Certo voi, conte, non l'avreste mai fatto", aggiunse voltandosi verso monsieur de N..., dopo avermi lanciato uno di quegli sguardi con i quali le donne fanno capire la loro opinione su un uomo.

"Vi conosco soltanto da due mesi", replicò il conte.

"E il signore mi conosce da cinque minuti appena. Voi rispondete sempre con delle sciocchezze".

Le donne sono spietate con gli uomini che non amano. Il conte arrossì e si morse le labbra.

Mi fece pena, perché sembrava innamorato al pari di me, e la crudele franchezza di Marguerite doveva farlo soffrire molto, soprattutto in presenza di due estranei.

"Stavate suonando, quando siamo entrati", dissi allora, per cambiare discorso, "non mi fareste il piacere di trattarmi come una vecchia conoscenza, continuando?".

"Oh!", disse lei gettandosi sul divano e facendoci segno di sederci, "Gaston conosce bene la mia musica. Va bene per quando sono sola con il conte, ma non vorrei infliggere a voi un simile supplizio".

"Avete questa preferenza per me?", replicò monsieur de N... con un sorriso che tentò di rendere fine e ironico.

"Avete torto di rimproverarmela: è la sola".

Era stabilito che quel povero ragazzo non dovesse aprir bocca. Egli gettò sulla donna uno sguardo veramente supplichevole.

"Ditemi dunque, Prudence", continuò lei, "avete fatto ciò di cui vi avevo pregato?".

"Sì" "Va bene, me lo racconterete più tardi. Dobbiamo discutere, non ve ne andate senza che vi abbia parlato".

"Siamo certo indiscreti", dissi allora, "e adesso che abbiamo, o meglio che io ho ottenuto una seconda presentazione per far dimenticare la prima, Gaston e io possiamo ritirarci".

"Ma nemmeno per sogno! non è per voi che l'ho detto. Voglio invece che restiate".

Il conte tirò fuori un elegantissimo orologio e guardò l'ora.

"Bisogna che vada al circolo", disse. Marguerite non rispose.

Il conte si staccò dal caminetto, e avvicinandosi a lei:

"Addio signora".

Marguerite si alzò.

"Addio, mio caro conte. Ve ne andate di già?".

"Sì, temo di annoiarvi".

"Ma non mi annoiate oggi più degli altri giorni. Quando vi rivedrò?".

"Quando me lo consentirete".

"Addio, allora!".

Diciamolo pure, era crudele.

Il conte aveva per fortuna una perfetta educazione e un ottimo carattere. Si accontentò di baciare la mano che Marguerite gli porgeva con una certa noncuranza, e uscì, dopo averci salutati. Al momento di varcare la soglia, guardò Prudence.

Questa alzò le spalle come per dire:

"Che volete, ho fatto quel che ho potuto".

"Nanine!", gridò Marguerite. "Fa' luce al signor conte".

Udimmo aprire e chiudere la porta. "Finalmente!", esclamò Marguerite riapparendo. "Se ne è andato; quel ragazzo mi dà terribilmente sui nervi".

"Bambina mia", disse Prudence, "siete davvero troppo cattiva con lui, che è con voi così buono, così premuroso. Ecco là sul vostro caminetto un orologio che vi ha regalato e che gli è costato almeno mille scudi, ne sono certa".

E madame Duvernoy, che si era avvicinata al caminetto si mise a giocherellare col gioiello di cui parlava, gettandogli sguardi di cupidigia.

"Mia cara", disse Marguerite sedendosi al pianoforte, "quando metto su un piatto della bilancia quello che mi regala e sull'altro ciò che mi dice, mi accorgo di fargli pagare troppo poco le visite che mi fa".

"Quel povero ragazzo è innamorato di voi".

"Se dovessi dar retta a tutti quelli che sono innamorati di me, non avrei neppure il tempo di far colazione". E fece scorrere le dita sul piano; poi, voltandosi verso di noi, disse:

"Volete prendere qualcosa? Io berrei volentieri un ponce".

"E io mangerei volentieri un po' di pollo", disse Prudence; "e se cenassimo?".

"Benissimo, andiamo a cena", disse Gaston.

"No, ceniamo qui".

Suonò. Nanine apparve.

"Manda a prendere qualcosa per cena".

"Che cosa?".

"Quello che vuoi, ma subito, subito".

Nanine uscì.

"Ecco", disse Marguerite saltando come una bambina, "ceniamo! Com'è noioso quell'imbecille di un conte!".

Più vedevo quella donna, più ne ero incantato. Era stupenda. La magrezza stessa la abbelliva. Ero in contemplazione. Mi sarebbe molto difficile spiegare cosa succedesse dentro di me. Ero pieno di indulgenza per la sua vita, pieno di ammirazione per la sua bellezza.

La prova di disinteresse che ella dava, rifiutando un uomo giovane, elegante e ricco, pronto a rovinarsi per lei, scusava ai miei occhi tutti i suoi passati errori. C'era in quella donna qualcosa che somigliava alla purezza. Si vedeva che era ancora nel primo stadio del vizio. Il suo portamento eretto, la sua figura agile, le sue narici rosee e aperte, i suoi grandi occhi lievemente cerchiati di azzurro, mostravano una natura ardente che diffondeva intorno un profumo di voluttà, come quei flaconi orientali che per quanto ben chiusi, lasciano uscire il profumo del liquore che racchiudono.

Infine, fosse per natura, fosse a causa della sua malferma salute, ogni tanto passavano negli occhi di quella donna lampi di desiderio, la cui soddisfazione sarebbe stata una rivelazione del cielo per colui che lei avesse amato. Ma quelli che avevano amato Marguerite non si contavano più, e quelli che lei aveva amato non si contavano ancora.

Insomma, si riconosceva in quella donna la fanciulla che un niente aveva trasformato in cortigiana, e la cortigiana che un niente avrebbe trasformato nella fanciulla più innamorata e più pura. Vi era anche, in Marguerite, fierezza e senso d'indipendenza: due sentimenti che, se vengono feriti, sanno avere la forza del pudore. Io non parlavo. La mia anima sembrava essersi riversata tutta nel mio cuore e il mio cuore nei miei occhi.

"Così", riprese lei a un tratto, "eravate voi che venivate a chiedere mie notizie quando ero ammalata?".

"Sì".

"Sapete che questo è molto bello? Che cosa posso fare per ringraziarvi?".

"Permettetemi di venire a trovarvi di tanto in tanto".

"Quando vorrete, dalle cinque alle sei, o dalle undici a mezzanotte.

Per favore, Gaston, suonatemi l"'invito al valzer'".

"Perché?" .

"Prima di tutto per farmi piacere, e poi perché non sono capace di suonarlo da sola".

"Che cosa non vi riesce?".

"La terza parte, il passaggio in diesis".

Gaston si alzò, si sedette al pianoforte, e si mise a suonare la meravigliosa melodia di Weber, il cui spartito era aperto sul leggio.

Marguerite, con una mano appoggiata sul pianoforte, guardava il foglio, seguiva con gli occhi ogni nota, accompagnandola sottovoce; e quando Gaston arrivò al passo che lei gli aveva indicato, canticchiò facendo scorrere le dita sul coperchio dello strumento:

"Re, mi, re, do, re, fa, mi, re, ecco quello che non riesco a suonare.

Ricominciate".

Gaston ricominciò, dopo di che Marguerite gli disse:

"Adesso lasciate provare me".

Prese il suo posto e suonò a sua volta, ma le sue dita, ribelli, si sbagliavano sempre su una di quelle note.

"E' incredibile", disse con un tono veramente infantile, "che io non riesca a suonare quel passaggio! Credereste che qualche volta ci sto sopra fino alle due del mattino? E pensare che quell'imbecille del conte lo suona senza spartito, meravigliosamente! credo sia questo che mi rende furiosa contro di lui".

E ricominciò, sempre con lo stesso risultato.

"Che il diavolo si porti Weber, la musica, e i pianoforti!" disse scagliando il fascicolo dall'altro lato della stanza, "come è possibile che non riesca a suonare otto diesis di seguito?".

E incrociò le braccia guardandoci e battendo i piedi.

Il sangue le salì alle gote, e un piccolo colpo di tosse le fece aprire le labbra.

"Suvvia", disse Prudence, che si era tolto il cappello e che si lisciava i capelli davanti allo specchio, "adesso vi arrabbiate ancora e vi sentirete male; andiamo a cena, sarà meglio: io muoio di fame".

Marguerite suonò di nuovo il campanello, poi si rimise al pianoforte e cominciò a canterellare una canzone libertina, nel cui accompagnamento non trovò alcuna difficoltà.

Gaston conosceva la canzone, e fecero una specie di duetto.

"Non cantate queste sconcezze", dissi amichevolmente a Marguerite, con un tono di preghiera.

"Oh! come siete pudico!", mi rispose sorridendo e tendendomi la mano.

"Non è per me, ma per voi".

Marguerite fece un gesto che sembrava dire: "Oh! L'ho finita da un pezzo, io, con la castità".

In quel momento apparve Nanine.

"La cena è pronta?", chiese Marguerite.

"Sì, signora, fra un istante".

"A proposito?" mi disse Prudence, "voi non avete visto l'appartamento; venite, ve lo mostro".

Voi lo sapete, il salone era meraviglioso.

Marguerite ci accompagnò per un po', poi chiamò Gaston e passò con lui in sala da pranzo per vedere se la cena era pronta.

"Toh", disse forte Prudence guardando su una credenza e prendendo una statuetta di Sassonia, "non avevo mai visto questo ometto".

"Il pastorello con la gabbia degli uccellini".

"Prendetelo, se vi piace".

"Ah, non voglio portarvelo via".

"Volevo regalarlo alla mia cameriera, perché lo trovo orribile, ma se vi piace, prendetevelo".

Prudence badò solo al regalo, e non al modo in cui veniva fatto. Mise da parte il suo ometto, e mi condusse nello spogliatoio, dove, mostrandomi due miniature appese una di fronte all'altra, mi disse:

"Ecco il conte de G... che è stato molto innamorato di Marguerite; è lui che l'ha introdotta. Lo conoscete?".

"No. E l'altro?", domandai indicando l'altro ritratto.

"E' il giovane visconte de L... E' stato costretto a partire".

"Perché?".

"Perché si era quasi completamente rovinato. Questo sì che l'amava, Marguerite!".

"E certo anche lei l'amava molto".

"E' una ragazza così strana, non si sa mai che cosa pensarne. La sera del giorno in cui lui partì, lei se ne andò al teatro, come al solito, nonostante avesse pianto fino al momento della partenza". In quel momento apparve Nanine per avvisarci che la cena era servita.

Quando entrammo nella sala da pranzo, Marguerite era appoggiata al muro, e Gaston, tenendole le mani, le parlava a bassa voce.

"Voi siete pazzo", gli rispondeva Marguerite, "sapete bene che non voglio saperne di voi. Non si attende due anni da che si conosce una donna come me, per chiederle di diventare la propria amante. Noi diamo tutto subito, o mai più. Andiamo, signori, a tavola".

E, liberandosi dalle mani di Gaston, Marguerite lo fece sedere alla sua destra, me alla sua sinistra, poi disse a Nanine:

"Prima di sederti, raccomanda alla cuoca di non aprire se suonano alla porta".

Questa raccomandazione era fatta all'una del mattino.

Si rise, si bevve e si mangiò molto, a quella cena. Dopo qualche istante, l'allegria era scesa all'ultimo gradino, e le parole che certa gente trova piacevoli, e che sempre sporcano la bocca di chi le pronuncia, sprizzavano di tanto in tanto tra le grandi acclamazioni di Nanine, Prudence e Marguerite. Gaston si divertiva sinceramente; era un ragazzo pieno di cuore, ma il suo spirito era stato sviato dalle prime abitudini. Per un momento, avrei voluto stordirmi, rendere il mio cuore e il mio pensiero indifferenti allo spettacolo che avevo davanti agli occhi, e prendere parte a quell'allegria che sembrava una delle portate della cena; ma, a poco a poco, mi ero isolato da quel rumore, il mio bicchiere era ancora pieno, ed ero diventato quasi triste nel vedere quella bella creatura di vent'anni bere e esprimersi come un facchino, e ridere tanto più rumorosamente quanto più volgare era quello che si diceva.

Tuttavia quell'allegria, quel modo di parlare e di bere, che negli altri invitati mi sembravano l'effetto dei bagordi, dell'abitudine, o della buona salute, in Marguerite mi sembravano invece effetto di un bisogno di dimenticare, di una febbre, di una irritabilità nervosa. A ogni coppa di champagne, le sue guance si colorivano di un rosso febbrile, e una certa tosse, lieve all'inizio della cena, era diventata via via sempre più forte fino a obbligarla a rovesciare la testa sullo schienale della sedia e a comprimersi il petto con le mani ogni volta che tossiva.

Soffrivo per il male che gli eccessi quotidiani dovevano fare a quel fragile organismo.

Alla fine, accadde una cosa che avevo previsto e che temevo. Verso la fine della cena, Marguerite fu colta da un accesso di tosse più forte di tutti quelli che aveva avuti da quando mi trovavo lì. Mi sembrò che il petto le si lacerasse all'interno. La poverina divenne scarlatta, chiuse gli occhi per il dolore, e si portò alle labbra il tovagliolo, che una goccia di sangue macchiò. Allora si alzò e corse nello spogliatoio.

"Che cos'ha Marguerite?", chiese Gaston.

"Ha riso troppo, e ora sputa sangue", rispose Prudence. "Oh non è niente, le succede tutti i giorni. Tornerà subito. Lasciamola sola, lo preferirà".

Quanto a me, non potei trattenermi, e, con gran stupore di Prudence e di Nanine che mi richiamavano, raggiunsi Marguerite.