LETTERE DI FERRUCCIO BUSONI
A MARIO CORTI

Per ora mi limito alla pubblicazione delle lettere di Busoni a Corti (già pubblicate da Gustavo Marchesi nella rivista LA SCALA, aprile 1958, nº 101, pp. 61-66, ma in mio possesso anchesotto forma dattiloscritta. In futuro metterò on line anche quelle, pure di grande interesse, di Mario Corti. Se una rivista è interessata alla pubblicazione integrale di questo carteggio, ampiamente commentato e con riferimenti a Boccioni e ad altri pittori futuristi, scriva al curatore di questo sito [cfr. HOMEPAGE].

Mario Corti, violinista, docente e compositore italiano (Guastalla, Reggio Emilia, 19-1-1882 - Roma, 18-II-1957). Dopo aver studiato sotto la guida del padre Angelo, fu allievo, al Liceo Musicale di Bologna, di Massarenti per il violino e di Martucci e Bossi per la composizione. Iniziò quindi in giovane età la carriera del didatta: dal 1907 al '13 tenne la cattedra di violino al Conservatorio di Parma; nel '14-'15 insegnò al Conservatorio Scharwenka di Berlino e dall'ottobre del '15 al Conservatorio di S. Cecilia in Roma. Negli anni '27-'29 fu negli Stati Uniti, ove tenne corsi sull'arte violinistica italiana alla Mannes School di New York. A Venezia fu commissario del Festival Internazionale di Musica Contemporanea nel decennio '36-'46 (con Casella e in seguito con Petrassi), dal '40 al '46 fu sovrintendente al Teatro La Fenice e dal '46, a Roma, direttore artistico dei concerti dell'Accademia di S. Cecilia. Suonò anche in duo, con A. Brugnoli e E. Consolo, e in trio, con A. Casella e G. Crepax. Fu segretario dell'Accademia di S. Cecília; fu inoltre primo violino del Quintetto «Mugellini».
Compose pezzi per violino e curò la pubblicazione di numerose revisioni e un'antologia di libere trascrizioni di pagine italiane del secolo XVIII, «Classici violinisti italiani».
Mario CORTI, violinista (Guastalla, 9 gen. 1882 - Roma, 18 feb. 1957). Figlio di Angelo, insegnante dal 1º lug. 1878 di strumenti ad arco e direttore del Teatro di Guastalla (Pavia, 1850 - Guastalla, 4 lug. 1905), durante gli studi letterari praticò quelli musicali, prima con il padre, poi al Liceo musicale di Bologna: qui studiò violino con Adolfo Massarenti e composizione con Giuseppe Martucci e Marco Enrico Bossi , diplomandosi nel giu. 1902 con la lode. Ritornato a Guastalla, passò 2 anni a perfezionarsi, indi iniziò a dare concerti in Italia e all'estero da solo, in duo con Attilio Brugnoli o con Ernesto Consolo, in trio con Alfredo Casella (pf) e Gilberto Crepax (cello), e come primo violino del Quintetto di Bruno Mugellini. Nel 1905 fu acclamato membro ad honorem dell'Accademia Filarmonica di Bologna e su 19 concorrenti nel 1906 a 25 anni vinse per concorso la cattedra di violino al Conservatorio di Parma, che lasciò nel 1914 in quanto chiamato a Berlino al Scharwenka Conservatorium per sostituire Arrigo Serato: allo scoppio della guerra dovette lasciare la Germania. Nell'ott. 1915 fu nominato per concorso docente al Liceo musicale di Roma, dove fece parte del Quartetto Accademico. Nel 1927-29 tenne corsi sull'arte italiana del violino alla Mannes School di New York; dal 1936 al 1946, prima con Casella, poi con Petrassi, diresse il Festival di musica contemporanea alla Biennale di Venezia, dal 1940 al 1946 fu sovrintendente del Teatro La Fenice di Venezia, insegnante al Conservatorio Benedetto Marcello e direttore artistico dei concerti dell'Accademia di S. Cecilia di Roma. Era sposato con la pianista parmigiana Maria Anelli, diplomata nel 1904 al Conservatorio di musica di Parma, con la quale dette concerti in duo.
Fu autore di una Sonata per vl e pf (Na, 1925), un grande numero di opere didattiche e tecniche, di revisioni, trascrizioni, rielaborazioni; con la casa editrice Carisch (Mi, 1914) pubblicò i "Classici violinisti italiani", raccolta di composizioni inedite per violino del XVIII sec.

BIBLIOGRAFIA: DBI; De Angelis; Gasperini; Recupito.
Dal Dizionario della musica e dei musicisti dei territori del Ducato di Parma e Piacenza dalle origini al 1950 di Gaspare Nello Vetro
«[...] L'illustre violinista Mario Corti, parlava di lui, anche nella vecchiaia, con una comprensiva e devota dimostrazione di affetto. Un giorno nebbioso della nostra valle padana, egli mi riferiva di questi rapporti col Busoni e si rammaricava che l'amico non avesse potuto realizzare pienamente quell'ideale artistico che dentro gli viveva. "Non è riuscito" - diceva pensieroso - "non è riuscito... Voleva di più da se stesso, credeva di poter dare di più... Ma la sua vita e le sue opere sono ben sufficienti a rappresentare un grand'uomo!". E, quasi per confermarmi questa convinzione, mi lasciò, morendo, le dodici lettere che Busoni gli mandò tra il '15 e il '23, nell'ultima parte della sua faticata attività. Sono, per essere precisi, dieci lettere e due cartoline.
Corti aveva conosciuto il grande empolese in veste di interprete a Bologna nella primavera del 1903. In seguito l'amicizia si era via via saldata al punto che già nella prima lettera dall'America - dove Busoni era riparato fuggitivo da Berlino in seguito al conflitto che poco dopo avrebbe travolto anche l'Italia - il colloquio fra i due musicisti si svolge più che mai cordiale e sincero. [...]» [Gustavo Marchesi]
Carissimo maestro,
si figuri se le sue righe furono ben accette! Vivo nel sentimento dell'esilio e tutto mi conforta quando proviene dalla mia gran patria: l'Europa. Poichè questa guerra mi ha aperto gli occhi e riconosco nell'Europa una sola nazione, da cui ho attinto quel poco che so e per la quale nutro tutto l'affetto di cui sono capace. Non posso altrimenti definire il mio sentimento, che spiega la mia attitudine e che Lei forse, meglio d'un altro, comprenderà. La mia collezione di libri commenta e specchia questa mia affermazione ed è, come Ella sa, cosmopolita ed imparziale. Per quanto ammiratore e discepolo dei grandi maestri tedeschi, Lei ha avuto occasione di constatare da vicino lo stato di opposizione in cui mi trovo (e mi esercito) contro le opinioni e le interpretazioni germanico-musicali. Nell'animo sono rimasto latino e un istinto di coscienza e di parentela - durante la mia vita ed a più riprese - mi ha costantemente respinto verso l'Italia, dove credetti dover scorgere il compito supremo dei miei tentativi artistici. L'ultimo esperimento fu un'amara disillusione e di ciò mi dolgo per i Bolognesi. Il Comune persistette a trattarmi da impiegato municipale - (ancora dopo quella mia lettera abbastanza espressiva e indiscutibilmente leale) - e mi impose la data del 1º Aprile come limite del mio ritorno per quanto fosse perfettamente informato dell'impossibilità materiale di questa condizione. Considerai che que sta formula equivaleva alla provocazione di un congedo e mi astenni dal rispondere oltre: non avendo io mai domandato di venire, non era logico ch'io esprimessi il desiderio d'andarmene. Eccole i fatti autentici, che aggiunti alla corrispondenza di cui Ella fu testimonio a Berlino, costituiscono la verità su questo caso. Le sarà grato se Ella vorrà divulgarla. Cosa fa la Società del Quartetto? L'orchestra stabile? La «pro aedificanda aula?». Io mantengo tuttora l'idea che l'unione di queste tre organizzazioni potrebbe risultare a forte importanza non solo per Bologna, ma per una buona parte dell'Italia. E non dispero ancora di questa possibilità. Se io fossi chiamato a dedicarmi a quest'impresa, indipendentemente dal Liceo, lo farei con sincera convinzione. Infine conto di rivedere Bologna. Mi saluti tutti quelli che pensano un po' di bene sul mio conto. Io serbo a tutti un simpatico ricordo... » (New York, I7 Aprile 1915).
«D'altra parte» scrive Marchesi «proprio per queste ragioni di isolamento, l'esperienza americana non deve avergli procurato grandi soddisfazioni (come già nel I89I) se scrive malinconicamente da Zurigo nel dicembre dello stesso anno: "... Ieri, per la prima volta, ricevemmo notizie dalla sig.na Elisabetta R., americana. Anche a Nova Jork, come da per tutto, la vita si svolge in limiti ristretti e circolari. Le comunicazioni col resto del mondo diminuiscono ed ovunque, come su un battello, appaiono periodicamente le medesime figure. Et in terra pax hominibus bonae voluntatis. Che la buona volontà sia scomparsa davvero? Io non vorrei cessare di credere...".
[...] Fuori dai confini dell libera Svizzera la guerra irrompe con tremendi pericoli e gli rapisce l'affezionatissimo Boccioni rivisto per l'ultima volta a Pallanza. L'andamento della lettera 29 Gennaio 1917 è quindi stanco, lento persino nella grafia che si espande per tutto il foglio quasi a voler compensare la mancanza di vitalità. Ringrazia il Corti per il desiderio di includere nei suoi programmi una delle sonate per vio lino e pianoforte, ma l'abbattimento traspare dall'ironia di chiamare «esperimento» questa intrapresa del valoroso violinista. Il finale è accorato, dei più scoperti.
Si figuri se io mi trovai felice di sapere il mio giovanile lavoro affidato alle sue cure artistiche! La in grazio e sarei un po' curioso di conoscere l'esito dell'«esperimento». Dunque, sia buono, e mi mandi una relazione autentica dell'andamento della udizione. La sua lettera di Natale mi pervenne e mi emozionò. Se non risposi, questa mancanza ed inciviltà mia, le metta sul conto di molto lavoro, di sofferenze morali, d'indecisioni, e un po' dell'inerzia umana. Dunque scriva sempre. L'abbraccio affettuosamente....
«Ma la guerra passa, i concerti riprendono. Il Corti rivede Busoni a Roma nel maggio del '21 e suona con lui direttore il concerto per violino e orchestra. Nel giugno dello stesso anno l'Artista scrive all'amico italiano alcune parole che vibrano di ringraziamento sotto una appannatura di malinconia (a Roma il concerto fu criticato malevolmente) subito dissipata da una curiosa notiziola su una fanatica ammiratrice e da un netto pensiero, sulla varia forma del compositore, che, per la sintesi con la quale è dettato, mi sembra uno dei più efficaci di Busoni. Anche le due operine rappresentate con successo a Berlino sembrano rientrare in questo ordine di idee, nel quale si comprende che un vero artista deve rivolgersi ad aspirazioni sempre maggiori.»
Mio carissimo Corti,
abbiamo pensato a lei, parlato di Lei, spesso, e sempre con affetto. Lei fu il mio buon angelo a Roma, ed io so esser grato. La collezione iniziata, e poi abbandonata, di articoli intorno al mio soggiorno colà, la considero di valore trascurabile (come così considero l'atteggiamento dei pubblici). Però qui abita una signora, che ha accumulato una specie di archivio Busoniano, e che non disdegna alcun documento, che possa accrescere il suo catalogo. Le accludo una busta col suo indirizzo, qualora Ella volesse prendersi la pena cli empirla di ritagli (s'intende: la busta). Notizie sui miei lavori suoneranno sempre «contradditorie» (guai all'Autore, che - sul colpo - gode o soffre d'un giudizio unanime!) però le posso asserire con buona coscienza che il successo fu ottimo, e che si mantiene. L'errore che commettono tutti, amici e avversari, sta nel considerare le due operine [Arlecchino e Turandot] come stile e risultato finale e definitivo delle mie creazioni; mentre in verità esse non sono che un «intermezzo», quasi uno scherzo, un mio divago, un riposo, per economizzare le forze, che si accingono a compito superiore...».
«Nell'agosto gli riscrive sempre da Berlino. Le sue speranze, i suoi contatti, le sue vedute, riaffiorano ancora, quasi d'impeto, malgrado la stanchezza delle tournèes. Parla dei musicisti italiani, dei suoi gusti di irrequieto viaggiatore che ora più che mai gli sono rientrati nel sangue (e ancora quel senso di universalità ricompare), del Tagliapietra, del Casella e infine dei suoi progetti e delle sue conquiste di compositore. Venezia, esaltata dal Corti, gli sembra troppo snervante per i suoi desideri di movimento. Di nuovo la calligrafia comincia ad inclinarsi dal basso verso l'alto, volitiva. Nomina dieci composizioni terminate a Berlino, fra le quali certamente la toccata per pianoforte, il Tanzwalzer, la Romanza e scherzo per pianoforte e orchestra...»

[...] Vi ringrazio della lettera. Quasi contemporaneamente mi scrissero il Boghen, Calza [Arturo] e Renzo Bossi [Rinaldo Renzo Bossi, didatta e compositore, figlio di Marco Enrico, 1883-1885, n.d.c.] (con cui ebbi un piacevole scambio di opinioni) di modo che mi sentii più legato a voi cari, compatriotti e confratelli. Sì, Venezia e bella e curiosa, ma altro è ammirare un quadro, altro il dover rimanervi davanti per un lungo tratto di vita. Non potrei vivere a Venezia. Infine, sì, potrei; (ed ho vissuto forzatamente in luoghi assai più meschini!) ma non mi troverei nè libero, nè soddisfatto! Non son fatto per nutrirmi spiritualmente di memorie e di visioni. Mutatis mutandis - provo dei sentimenti analoghi rimpetto alle bellezze campagnole. Del resto: la «Natura» è dappertutto, per chi la sa riconoscere; e non comprendo perchè uno si renda in luoghi e ambienti scomodi, credendo cli esserle così più vicino. Mi rallegro tanto della vostra buona opinione sul Tagliapietra, a cui voglio bene e che apprezzo onestamente. La sarebbe una fortuna s'egli venisse a Roma. Ho fiducia in lui - anch'io fui tocco simpaticamente dall'articolo del Casella, e (riconoscente) gli dedicai la nuova composizione per piano e orchestra [Romanza e scherzoso], che è uno dei dieci lavori che ho potuto compiere, da chè son ritornato a Berlino. Fui, infatti, diligentissimo, e per quanto stanco, sono abbastanza contento. Mi azzardo assai timidamente a scrivere per il violino, per la mia poca cognizione dell'istrumento. Il mio sogno è un quartetto ad archi, che dovrebbe coronare tutti i miei sforzi passati. Se vi riesco, lo avrete....

«Ancora vivace quella del 25 gennaio 1922, arguta [...]. Anche in questa lettera si parla del «giovane classicismo» [Junge Klassizitàt] [...].
[.... ]Non appare chiaramente dal suo scritto, se Lei sia stato soddisfatto in Isvizzera quanto lo meritava l'intrapresa artistica, ma l'accennare Suo ad una prossima rivista di quella repubblica rusticana mi conferma l'esito riportato. Dunque me ne rallegro. Lessi, un giorno prima, anche la lettera del Pizzetti a Malipiero nel «Pianoforte», che mi piacque più per il suo contenuto, che non per lo stile. Ho già predetto la fine dell' «espressionismo» (ad libitum!) a Zurigo, e proclamata la nuova scuola ch'io battezzai «giovane classicismo», e che già incomincia ad avere degli intelligenti seguaci. Il verbo «giovane classicismo», poi, è divenuto proverbiale; in modo che non si sà più chi fu il primo a lanciarlo. Anche il culto di Mozart rivive. Ultimamente suonai io qui sei Concerti di fila (in clue serate) e tre di questi ne dovetti ripetere (in una terza). A Parigi, dove mi recherò da Londra, in tre differenti occasioni sono richiesto di suonare del «Mozart». Allorchè lo feci all'Augusteo l'esperimento era precoce, il pubblico mal educato alla purezza, ed incapace di riconoscere in essa la grandiosità e la perfezione. Ecco perchè la lettera di Pizzetti mi parlò direttamente al cuore e alla mente (offendendo, ripeto, alquanto il mio gusto letterario)... Davvero non so se il tempo e le forze mi permetteranno di proseguire da Parigi a Roma. Io ne sarei felicissimo. Ma se venissi a Roma, dovrei assolutamente scendere a Bologna e inoltrarmi fino a Napoli... Ieri sera ebbimo il telegramma sulla morte di Nikisch. Nel suo (progettato) concerto del 5 febbraio aveva (per la prima volta in sua vita) messo sul programma tre delle mie composizioni. Veda un po' la mia fortuna di compositore! Fu Nikisch un abbagliante «virtuoso della bacchetta» - e qui termina l'orazione funebre. Senza esser punto cattivo, fu indolente: e di ciò tutta una generazione se ne risentì...
«Di nuovo si intrattiene sugli italiani e precisamente elogia Corti che suonerà a Zurigo il «Concerto gregoriano» di Respighi, mal sopportato all'Augusteo. Ma quella frase della precedente («guai all'Autore che - sul colpo - gode o soffre d'un giudizio unanime!») quì si amplia in un definito assalto al pubblico del nostro paese, già rimbeccato per l'indifferenza dimostrata al Mozart. Tuttavia, ad un certo punto del discorso, la responsabilità di certe critiche avventate, sensibilmente ottuse, non viene a ricadere (se ben si guarda) sulla massa impotente, bensì su quella inevitabile logica evolutiva del gusto che, mutando ad ogni volgere di tempo, determina il fenomeno da lui stesso chiamato «un malinteso fra artista e pubblico». Tanto è vero che subito si sente in dovere di chiarire dove stia il male d'una mancata educazione musicale degli italiani e quale ne dovrebbe essere il rimedio, dato e concesso che ogni pubblico ha la sua struttura - più o meno giusta - di abitudini, caratteri, intelligenza. E il suo impegno polemico giunge al punto di difendere persino l'animosità d'una nazione quando, per inciso, si lascia sfuggire quell'obiezione al Preludio del «Parsifal». Ho rilevato che tutto questo è più da intendersi come azzardo dell'impeto, perchè egli stesso scrive al Corti d'essere sempre passato sopra ai vari patriottismi.»

[...] Faccia onore al Respighi e non dia troppo peso all'accoglienza dei pubblici. In questo punto Ella sente troppo italianamente. Cosa varrebbe Mozart se lo si giudicasse dall'atteggiamento dell'Augusteo verso i suoi lavori!!? L'impudenza del nostro pubblico è una calamità di cui i nostri artisti stessi sono responsabili. Difatti, in Italia, - di un nuovo lavoro - non si domanda quanto esso valga, ma invece: «come ha piaciuto?». Al punto che quando, talvolta (Dio sa per qual miracolo) qualcosa di meritevole «piace», io me ne risento, e vedo un'ombra proiettare sul merito dell'opera acclamata. Non so se Lei mi seguirà in questo contrappunto psicologico. Voglio dire, che fra artista e pubblico c'è sempre un malinteso, anche quando sembrano d'accordo. Osservi, che dissi «artista e pubblico» e non «pubblico e artista». Questa finezza l'ho appresa in Inghilterra. L'inglese dice: «quando lei ed io ci incontrammo» - e mai direbbe: io e Lei (per quanto che «io» sia l'unica parola che l'inglese scrive con lettera maiuscola!)... Per la nostra nazione il passo più importante è quello di ritornare alle sorgenti italiane e di liberarsi dalla «preziosità impotente» della Francia, e dalla pesantezza opprimente tedesca, perfettamente avversa al nostro spirito, al nostro sentire; inoculata artificiosamente per la stupenda «organizzazione» del Direttore scenico R. Wagner, produttore di lungaggini che dovrebbero offendere il nostro pubblico impaziente e spontaneo (senza voler dir bene di questo) e che invece furono applicate speditissimamente come tante sanguisughe, da chi ha saputo estrarre il sangue di molte Nazioni, di parecchie generazioni! Evviva dunque il Toscanini a proposito del «Rigoletto». Ma non gli-perdoneró mai d'aver festeggiato la conclusione della pace con l'esecuzione del Preludio al «Parsifal»! Valeva la pena d'immolare 500mila giovani italiani per arrivare a tanto! [...]

«Siamo così giunti alla lettera riassuntiva, scritta quando già l'Artista era preda del male. [...] Tutto vi troviamo di lui, dai progetti, alle tendenze, ai consigli, firmato alla fine, quale simbolico suggello col suo nome scritto per intero, il che (almeno nelle lettere al Corti) gli avvenne di fare una volta sola prima di questa.»
[...] Lei sa (o non sa) che il mio soggiorno a Berlino fu ed è una lotta continuata contro il gusto tedesco: con ciò ho sempre affermato il mio sentimento latino e mi son creato degli avversarj tanto quì, che in Italia. Pur non potendo negare i miei istinti innati verso il gusto italiano, sono e rimango perfettamente estraneo ai trasporti patriottici. Ho percorso ripetutamente varie parti del mondo e dappertutto scorgo «uomini» deboli e forti, buoni e cattivi, stupidi e intelligenti. Un Cervantes, un Goethe, uno Shakespeare, mi valgono quanto il Dante, e - secondo i momenti e lo stato d'animo - talvolta anche di più. Ho - grazie a Dio - degli amici devoti in tutti i luoghi. Non vedo differenza fra le nazioni; riconosco invece distintamente la eguaglianza nelle classi. Un poliziotto, un critico d'arte, una cortigiana, sono i medesimi ovunque: ed ammettendo con convinzione la bellezza del nostro cielo e la vivacità della mente italiana, non posso sottrarasi al fascino d'un tramonto in Iscozia, d'un dipinto francese, o dell'atmosfera moralmente e fisicamente purissima dell'America centrale. - Ecco. Molto m'interessò il Suo giudizio - o piuttosto la Sua impressione - intorno alla Sarabanda. Io la considero intanto la mia migliore ispirazione e la più accurata fattura. Qui l'esecuzione avrebbe (secondo le sue parole) forse oscurato la costruzione del pezzo. Ha letto Lei la partitura? La lettura dello spartito dovrebbe - a mio parere - dissipare i dubbi, ed io - in questo caso - rispondo con la miglior coscienza d'ogni battuta. Nell'ultimo mio modo di scrivere, la mancanza di SENSUALITÀ colpisce l'uditore in una forma che non gli è famigliare. Accanto alle insistenze spasmodiche e brutali d'un Wagner (alle quali i nostri Italianissimi si sono arresi senz'altro!) i miei suoni devono necessariamente sembrare astratti «inafferrabili» come l.ei dice, ma non «spasmodici»: anzi piuttosto riflessivi e riservati. E uno dei miei conscii ideali di arrivare all'«illimitato» nella espressione musicale mantenendo una forma perfettamente concreta e costruttiva, e sono ancora ben lontano dall'averlo raggiunto! - La mia opera Il dottor Faust tenta di avvicinarsi maggiormente alla meta prescritta e aspirarla. Purtroppo la composizionc fu interrotta per sei mesi (!) in causa d'un mio malessere, di cui ancora sono convalescente. Ho dovuto rinunziare quest'anno a tutti i miei concerti ed ho sofferto indicibilmente d'un ozio forzato, che non rescii a vincere. Il mese di Febbraio sembra iniziare un nuovo periodo d'attività; mi fu concesso di compilare quattro lavori minori; prigioniero, come mi trovo, del letto in parte, e completamente dell'abitazione! Evvivano dunque i rinascimenti! - Dalle composizioni che mi giunsero (Firenze, Bologna) non ho potuto rilevare una pronunciata «italianità». Anzi ultimamente, a proposito d'uno spartito che m'inviò un mio ex-allievo, a questi mi son permesso d'impartire una lezioncina, consigliandolo di studiare più il Monteverdi che il Richard Strauss. Se io fossi in Italia, mi farei un alto dovere d'esercitare una~ buona influenza (secondo le mie viste e le mie limitate facoltà) - ma là mi hanno rifiutato nettamente. Lei (ed altri due o tre) sono dei rarissimi che mi desiderano... ) [Berlino, marzo 1923).
«Nell'ultima lettera «serpeggia quella burbera severità che dimostrò anche a Bologna con gli allievi di composizione: ma quanto è pensierosa qui, quanto ricca di esperienze! Chi può dimenticare quel «lungo cammino» a cui accenna?»
Il giovanetto che lei conosce è già amico di casa. Simpatico, pieno di zelo, e di buone attitudini. È ancora mezzo bambino, tanto nella vita che nell'arte. Non so ancor dire se sia nato pianista. In ogni modo ha un lungo cammino davanti a sè e per un pajo d'anni ancora non dovrebbe rimanere affidato a se stesso. Eseguisce, ma non interpreta; eseguisce esattamente, da buon allievo, ed esclusivamente quelle tante note che ha studiato. - Dopo tanti anni che non avevo più dato insegnamento, l'attività in qualità d'istruttore mi piace ed interessa di nuovo. Ho buona fiducia che il giovane ne profitti... » (30 Ag. 1923).
Gustavo Marchesi, musicologo (Guastalla, 13 dic. 1933 - vive).
Ha iniziato gli studi musicali con il padre e li ha continuati poi con Roberto Lupi. Vari contatti con Attilio Bertolucci , Cesare Zavattini e Riccardo Bacchelli lo hanno indirizzato alla ricerca letteraria e si è laureato all'Università di Bologna con la tesi su Ars Nova e il Trecento letterario-musicale. Con Mario Medici è stato uno dei promotori dell'Istituto di Studi Verdiani, del quale è rimasto collaboratore. Già assistente volontario di storia della musica all'Università di Parma, è stato docente di questa disciplina al Conservatorio di Parma fino al 1996, quando si è ritirato in pensione. Dal 1965 al 1973 è stato critico musicale della G.Pr, ha collaborato con riviste, quaderni di teatri, storie della musica e dell'opera (UTET), tenuto una rubrica settimanale sul melodramma alla Radio Svizzera Italiana e curato voci specialistiche in enciclopedie italiane e straniere.
Ha pubblicato Giuseppe Verdi (To: UTET, 1970); Verdi e il Conservatorio di Parma (Pr: Conservatorio di musica, 1976); Verdi, Merli e Cucù, su documenti ritrovati da G.N. Vetro (Busseto: Biblioteca del Monte, 1979); Verdi (Mi: Fabbri, 1979); Verdi (Mi: IMI, 1981); Sono i posti di Verdi (Pr, 1983); Troppe labbra profane (Pr: Azzali, 1984); Toscanini (To: UTET, 1992); Canto e cantanti (Mi: Ricordi, 1996).
Dal Dizionario della musica e dei musicisti dei territori del Ducato di Parma e Piacenza dalle origini al 1950 di Gaspare Nello Vetro