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LAURETO RODONI

ALLESTIRE E INTERPRETARE VERDI:
RIGOLETTO ALLA SCALA




Il Rigoletto che va in scena in questo periodo alla Scala non presenta molti motivi di interesse per il fruitore esigente. Si è addirittura sfiorata la routine, perché lo spettacolo di Gilbert Deflo-Frigerio-Squarciapino, pur perfetto e sontuoso nel suo genere per così dire ricostruttivo-museale, risale al 1994 e già all’epoca non brillava certo per originalità e profondità.
Leo Nucci (a des. nella foto) è ancora uno straordinario interprete del rôle en titre, ma un grande Teatro come la Scala dovrebbe osare maggiormente, soprattutto in occasione della ripresa di un vecchio spettacolo, nella scelta del cast, che, non mi si fraintenda, nel complesso si può considerare di buon livello: Elena Mosuc è Gilda; Stefano Secco, il Duca; Mariana Pentcheva, Maddalena.  È però significativo che, a parere di molti, sia stato Marco Spotti (a sin. nella foto) nei panni di Sparafucile (ruolo secondario) l’interprete più interessante di questa produzione.
Consapevole del rischio-routine, il sovrintendente Lissner ha affidato la direzione del capolavoro verdiano a
James Conlon, uno dei direttori d’orchestra più colti e raffinati sulla scena mondiale, magistrale interprete di grandi ma poco conosciuti o misconosciuti compositori del Novecento come Zemlinsky, Ullmann, Schreker, Weill, Korngold, Hartmann, Schulhoff, Krenek, quasi tutti iscritti nella famigerata lista nazista denominata Entartete Musik (musica degenerata).
Già a partire dal preludio è chiara la cifra stilistica predominante della lettura di Conlon: l’estrema cura nel far emergere dalla partitura i timbri orchestrali che di volta in volta creano le diverse atmosfere del dramma, meglio di qualsiasi scenografia. Timbri che Verdi ottiene con un’orchestrazione calibrata e finissima che Osborne non esita a definire «degna di un Berlioz». Si tratta, da parte del direttore, di un lavoro di concertazione molto complesso con i vari settori dell’orchestra. Esso denota prima di tutto un profondo rispetto della partitura: sembra un’affermazione banale, ma è una condizione assolutamente imprescindibile per dirigere il giovane Verdi, al fine di evitare le trappole dei ritmi apparentemente banali, allegramente cavalcati dai (devastanti) routiniers o battisolfa che dir si voglia.

Ogni scena dell’opera, grazie a Conlon, è sorprendente. Memorabili il preludio (uno tra i più sinistri che abbia mai ascoltato in teatro), l’irrisione di Rigoletto a Monterone e il successivo duetto tra il gobbo e il sicario Sparafucile, in cui Conlon mette in rilievo la straordinaria abilità di Verdi di coordinare il suo intuito psicologico con il suo genio melodico. Mai la tensione narrativa subisce cali sotto l’attenta bacchetta del direttore americano (da questo punto di vista il terzo atto è un capolavoro interpretativo di un vertice verdiano assoluto).
Magnifici inoltre gli accompagnamenti, sempre pertinenti gli stacchi dei tempi, fantasioso il fraseggio. Insomma, una grande lezione di esegesi verdiana che mi piace pensare abbia lusingato il grande vecchio, «genio di formato superiore all’ottica dell’uomo comune, dalla leonardesca potenza d’intelletto», come lo definì Massimo Mila (vero e proprio nomen omen nell’ambito della critica verdiana), seduto nell’Olimpo dei Compositori, accanto, sempre secondo Mila, a Monteverdi e a Beethoven.
Repliche il 29, 31 gennaio e il 3 e 5 febbraio.
Per approfondimenti si veda la Website su Verdi curata da chi scrive www.rodoni.ch/verdi/


LA RECENSIONE DI PAOLO ISOTTA
SUL CORRIERE DELLA SERA

È indimenticabile il «Rigoletto»
con James Conlon

Ha quasi 60 anni e sembra un ragazzino. Minuto, elegante. È il maestro James Conlon, sul podio dell' ultimo Rigoletto eseguitosi il 15 alla Scala. Certo, quando il protagonista sia Leo Nucci, alla sua quattrocentoquarantesima interpretazione del personaggio, non si hanno orecchie che per lui. Ma merita altrettanta attenzione Conlon. Reduce da un intero "Ring" di Wagner, passa con disinvoltura alla più opposta possibile concezione del teatro musicale. Egli parla perfettamente l'italiano, e lo si vede per il suo implacabile inseguimento della «parola scenica» alla quale i cantanti oggi cercano di sfuggire come cosa che non li riguardasse. Va da sé che Leo Nucci della parola scenica è maestro, e la sua voce, ora morbida e duttile, ora possente, «passa» nei momenti di maggior peso orchestrale. Ma un Rigoletto così, grazie alla concertazione di Conlon, è da non dimenticare. Il maestro è autorevole e riesce a una provvisoria riparazione, o lucidatura, dell' orchestra della Scala, dagli archi agli ottoni. Ha una perfetta concezione dei rapporti drammaturgici di tensione e distensione; conosce ed applica le «tradizioni» interpretative come un direttore d' altra generazione. D'altronde il suo dominio sulla partitura è ferreo, e lo si vede subito nell'eleganza con che dirige le danze arcaiche della prima scena e il momento di oscena supplica del Duca alla contessa di Ceprano. Insomma, Conlon è uno di quei maestri che dovrebbero avere un posto fisso in ogni stagione e nel repertorio più vario. Il suo successo nel «raunar le fronde sparte» nel Rigoletto lo dimostra. Se nel ruolo protagonistico dell'opera vi sia Leo Nucci, credo la riuscita sia assicurata, anche perché da lui, così mite e buono, sapido conversatore nelle sedute a tavola nonché studioso di fisica acustica a un livello professionale, emana un sorta di metus reverentialis che induce tutta la compagnia a dare il meglio di sé. L' esempio della sua serietà è di chi non smette mai di studiare e non quello d'intervenire distrattamente alla prova generale e basta. In Elena Mosuc, interprete di Gilda, incontriamo una regina della coloratura (il suo Caro nome è un modello) ma una cantante che non sa nulla di fonazione articolata, così da render incomprensibili tutte le sue parole. Il Monterone di Ernesto Panariello è possente e lo Sparafucile di Marco Spotti temibile e misterioso. Il Duca è Stefano Secco, che «spinge» un po' troppo, e la sua adorata Maddalena Mariana Pentcheva.