WILLY LEOPOLD GUGGENHEIM

VARLIN

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GIOVANNI TESTORI

L’ironia, la cenere, il niente



Della pittura di Varlin, di questo misconosciuto, protervo, sgangherato e, insieme, sublime Maestro, uno dei pochi della sua generazione (che coincide con l’alba, cioè a dire con l’uè-uè smaniante e avanguardistico del nostro secolo) che abbia l’aria di passare indenne dai complicati tornanti delle mode; uno dei pochi – e questo è già definibile – che han preso a dare il massimo di sé quando gli altri han cominciato da un pezzo a rallentare la corsa del loro treno (di pittura, intendo, non di vita) e a sclerotizzarsi nella ripetizione; di questa pittura mi toccherà forzatamente parlare, non solo quale testimone (per averla, cioè, inseguita e perseguita da anni) bensì, come ogni visitaore può vedere, quale oggetto o soggetto in causa. Infatti ve ne faccio franantemente e tragicamente parte; sono caduto (e risorto), ecco, dentro di essa. Immane visitatore notturno di posti negri e fatali (quelle croci dappertutto, dio mio!); sorta di fagocitante impresario della distruzione e del nulla; sadico, anche; succhiatore di sangue (e di anime); rapinatore di non so chi o che cosa; sporco e porco, ma, insieme, pulito e, forse, alla fine, perdonato dalla vanità e dal dolore del tutto, per me, ormai, non c’è più scampo. Inchiodato, come sono, alla paurosa grandezza e, insieme, al pauroso vacillamento delle sue invenzioni; ingrandito da loro e da loro subito vanificato; massa di carne e, nello stesso tempo, buia nube ingolfata nelle nebbie e negli smog cittadini; triste, insolente, ossessionato, sbalordito, indifeso e, immagino, sbalordente e ossessionante come un Attila senza più esercito nè erba da bruciare, procombo dentro la pittura di Varlin quasi che tutto di me fosse riducibile alla testa, al cranio da folle o da imperatore delle case per «i no sani di mente» (doveva aver occhi pressappoco così l’orafo di Chiavenna della «Cattedrale», quando scrutava l’apparire d’altri occhi – i lapislazzulacei, i turchesici, i celesti; in ogni caso i disperati e gementi – o quando sbalzava i suoi mostruosi, uricemici crocifissi o gli altri, sacri e re g ali gioielli; ma queste son cose che Varlin non sa); e vi procombo proprio nel suo momento d’esplosione più totale, indignata e furente; il momento del sisma, del terremoto. Il momento che si vorrebbe altresì dei lauri e degli allori; quando cioè un poeta o, nel nostro caso, un pittore, dopo aver lavorato in disparte, solo e randagio, tutta quanta la propria vita, dovrebbe vedersi deporre sulla fronte da qualche dea o deessa (fosse pure un bue o una buessa) il diadema della grandezza. Varlin lo getterebbe subito nella fogna (la fogna della vita, intendo) quel diadema, con una risata e con uno sputo, da quel gnomo irrefrenabile dei Quattro Cantoni che è; o anche da demonio (dei medesimi Cantoni); talmente il dio dell’ironia lo nutre e devasta da che è apparso alla vita. Il fatto è che Varlin m’ha gettato, schiacciato, non una, ma due, tre, quattro, cinque, sei, sette volte sulle sue immense tele, mai preparate, velate sempre e solo da una mano di colla, la quale, poi, regolarmente, ingiallisce, ritirandosi o debordando, come se fosse l’atto orinale (la piscia) di qualche cane o di qualche cristiano di passaggio nel suo studio (affetto , magari, da prostatite, rivelata o no che sia da visita medica); ovvero l’impronta della carogna di qualche gatto lasciato a marcire e a disfarsi sopra uno dei tavolacci del medesimo studio (quello, ora finalmente unico, di Bondo); d’estate, intendo; poiché d’inverno se ne starebbe intatto, il gatto, quasi fosse ibernato (ne lo muoverebbero i vermi) talmente vi fa freddo e si gela, posto com’è lo studio (e il gatto, se vi stesse dentro) al limite del paese, con le balze dei monti e le foreste che v’imminiscono, principe e re dai diamanti di ghiaccio il gran Badile, e, appena fuori, i rami e i tronchi dei meli, nudi, ma ingioiellati poi all’infinito, come si conviene a cortigiani di tal re, dai ricami grigi e verdastri dei licheni (d’un giallore, sulle punte, da ematoma topazico). M’ha preso? M’ha gettato? M’ha scaraventato? M’ha schiacciato? M’ha spiaccicato? I verbi potrebbero non finire più. M’ha afferrato, tanto per cominciare, con l’uncino, di là dalle lenti, dei suoi occhi imperdonabili e trafiggenti; e, insieme, col chiodo, di per sé molliccio, ma reso di ferro dalla sua perpetua incazzatura inferiore, del carboncino, con il quale principia sempre a cercare, prima riluttante, quindi ridente, poi, via, via, inguaiato nel pasticcio del «pignere» fin allo spasimo, sul vuoto angoscioso e piscioso della tela, il punto da cui cominciare; il punto in cui riconoscere, insomma, il suo «problema », la sua angoscia e la sua piscia (e il «problema», l’angoscia e la piscia di chi gli sta davanti, fermo e protervo, in posa). Quel punto non è niente più che un ombelico, un ciuffetto di canapa che salta su dall’ordito, una formica, una piattola, una zecca, una pulce, la lagrima fuligginosa di qualche diavolessa (lagrima da congiuntivite cronica, beninteso); le diavolesse o streghe bondasche! Ne parleremo, un giorno ne parleremo! Si sentono arrivare, la sera, a stormi, da ben più su che Solio; cavalcano le nubi, rotolando giù dal Maloja (Maloggia) come ombre invendicate e saccheggiatrici... «C’est dróle, Testori! Je n’ai jamais vu quelque chose de pareille: vous ne bougez mème pas d’un centimètre...». E, intanto che, fisso davanti a lui, non mi muovo neppure d’un centimetro, il chiodo del carboncino, spi-zac-crac, si sfracella; il resto si sfarina giù, in una nuvoletta di polvere («momento qui pulvis es et in pulvere...»); o lo schiaccerà poi lui, col suo stesso piede, in quella specie di danza o balletto che fa, avanti e indietro, dalla tela al vuoto, rinculando e andando a sbattere sempre contro qualcosa: una sedia; un pezzo di legno; una poltrona sfondata; il letto di ferro; una giacca; un giocattolo di Bica (Bica, la figlia ormai sul punto di diventar signorina); una camicia; un paio di mutandoni; una scarpa sfasciata; gettato lì, tutto, a caso; anzi, a casino. Si volta; fa un gesto da clown; allontana per un attimo – o così crede e s’illude – l’inguaiamento e l’annesso spasimo; poi torna adosso alla tela. Si prova per un po’ con quel rimasuglio che gli si sta sfarinando anch’esso (geme e guaisce la povera polvere carboncinica); s’aiuta con l’unghie, che proprio per questo son sempre, in qualunque ora e stagione, profilate di nero; un nero che va molto più dentro della possibilità che, normalmente, un’unghia off re d’esser tagliata (a meno di tagliar via anche una falange...). Dalle mie parti, in casi come questi, si dice, anzi si domanda: «t’è morto il gatto?» E dalli, col gatto! Mi spiego: le dieci, piccole falci nere dell’unghie sarebbero il segno, la prova del lutto, proprio come la lista con cui s’usava decorare, partecipazione visualizzata al dolore, l’avambraccio sinistro; o il bottone, anch’esso nero, infilzato nell’occhiello. Ma, per un gatto? No. Non c’è solo il gatto o il cane (Zita, prima; Lapponio, adesso) nella fauna varliniana e bondasca. Ci sono anche i topi; e corrono, in lungo e in largo , l’intero studio; e brucano e rodono, pervicaci e sicuri, quasi fossero certi di diventar, prima o poi, loro e solo loro, i padroni del tutto (il che è ben più che probabile); brucano e rodono le tele ancor arrotolate , quelle già distese, i legni dei telai, gli stracci, e soprattutto, i materassi; i quali offron poi alla vista le loro orrende ventraie sventrate, le loro impudiche, svergognate vagine, dilatate in più da chissà che enormi forcipi e arnesi. Le offrono? Le squadernano , come grandi, purulenti e sbellicantesi ferite; giusto come fanno, poco più in là, le valigie, vecchie troie sdentate; da venir voglia di cacciarci dentro le mani per aprirle e sfondarle ancor di più, per insultarle e maledirle, ecco, sì, loro, le partorienti intronate (messe su, sul trono) e felici! Ma, al fondo, che si troverà mai? Un mucchio di paglia, o di crine; pelo indurito e incattivito, mentr’era così tenero quando la carne viveva (quando vivevano quelle ferite, quelle valigie, quei materassi, anzi quelle «materasse» del cazzo che ci han fabbricati ed espulsi); quello, più o meno (e, nelle valigie, forse, un biglietto per la Zurigo- Basilea, ma di venti, trent’anni fa); e il buio, ecco, sì; il buio immane da cui usciranno, nottetempo, le risate silenziose, le silenziose beffe dei fantasmi; di tutti i fantasmi che han vinto la prigionia dei cimiteri, delle tombe, dei coperchi di legno lucidato, infissovi sopra il crocefisso, il nome, il cognome, la data di nascita e quella di morte (mi dispiace per Mister Eliot, ma la data della copula se la porta con sé, religioso mistero, il cadavere; anche perché, normalmente, non d’una data si tratta, quanto d’una interminabile lista o catena, tutta incrostata di macchie, bavosità rapprese e lumacose di sperma; lista che pure fu ed è la beatitudine unica e sola concessa a noi dalla vita! La quale poi si vendica, come se il resto non bastasse, e ce la fa chiamare e gridare amore, quella lista; amore, sì, amore; mio, tuo, suo, nostro, vostro, loro: «j’ai deux amours...»: quanti? Non racconti storie, per favore...); i fantasmi che han vinto tutto questo e, in barba al «problema», escon fuori e vanno, vanno, vanno. Verso dove? Cerca e trova (cosa non frequentissima), in una farr agine angosciosa di tubi, tubetti, tolle, flaconi dove le vernici son diventate dure come pietre, barattoli, sacchetti di polveri colorate (da sbianchino, non temete; nulla più che da sbianchino di terza o quarta categoria, comprate, la maggior parte, a Chiavenna), stracci, pezzi, croste e incrostamenti di colori asportati, pennelli più duri nell’apice dei peli che nei manici, pennellesse di tutte le dimensioni, spatole, lamette da rasoio (lo strumento preferito per le raschiature, parziali o totali che siano); in mezzo a tutto questo e, in più, tra un fazzolettone rosso che s’è attaccato a quegli incrostamenti e non c’è verso di strapparlo via, e un altro color raffreddore, anzi color muco nasale e pettorale; cerca e trova, ecco, un secondo, miracoloso carboncino. Mi fissa a lungo. Rigetta gli occhi sulla tela: è veramente il punto buono? È veramente quello infallibile e inevitabile? È veramente la piattola giusta, il giusto ombelico quello da cui poco prima ha incominciato? Sembra indeciso. Non risulta forse, ancor troppo prevedibile lì com’è, nel centro? – sembra domandarsi, guardando l’immensa tela e pencolando tutto da una parte. Sì, è troppo lì, nel centro. Fa troppo, diciamo così, sezione aurea; aurea classicità (sezione aurea, aure a classicità in Varlin, figurarsi!). E poi la testa, lui, la vuole tagliata in due; dalla ghigliottina del telaio; giusto sopra la fronte; che il sadico, il porco, l’Attila dal cuore frantumato paia venir fuori dal quadro e camminar oltre; andare, ecco, adosso agli osservanti, sì che essi sian costretti a ritrarsi per lasciargli libero passo a nuovi macelli, a nuove orrende distruzioni (anche di sé – di Attila, intendo – sissignori, anche di sé!). Allora prende uno straccio (cosa facilissima, essendovene dentro lo studio una caterva, seppur tutta aggrovigliata, impolverata e appestata dall’odor dei cani, dei gatti, dei topi, dei cristi e dei cristiani); e con colpi indecenti e furiosi, via! Via tutto! Come se volesse sfondar la tela; come se volesse misurare e, insieme, vanificare a bracciate lo spazio che sente potrebbe includervi; perché questo, proprio questo è il gioco, l’equilibrio ultimativo, il volo, il salto mortale doppio e triplo di Varlin. Risucchiare lo spazio, questa strana, impalpabile entità in cui viviamo ed espellerlo subito fuori, giudicato, stracciato, smerdato; dilatarlo, ecco, fino alla nientificazione e, con lo stesso gesto, riassumerlo riducendolo tutto a un sol punto; quel punto. E, adesso? Adesso che deve trovare proprio quel punto, quella pulce, quel neo di coagulazione, quel niente e nientissimo, che tuttavia esiste, lui ne è certo, lì, sui metri quadrati della tela, che paion quelli che sono, ma che potrebbero centuplicarsi o azzerarsi? Vive, adesso, l’esitazione disperata d’uno che stia per cader, di colpo, nella cecità più assoluta; o che dalla cecità si desti e si trovi abbacinato, stranito. Allora, è lì? No, no, è là! È qui? No, no, è su! È giù? È sopra? È sotto? No, no, e lì! È lì? Sì, è lì! Un colpo di fioretto, come un fischio rauco, un grido strozzato. La lama balucina per un attimo, riflesso dell’iddio (o del satana), nel grigiore dello studio. Sono caduto in errore ; chiedo venia. Benché paia tale, il colpo, in verità, è di coltello; gli gnomi, si sa, aman meglio commerciar con le armi dei barbari che con quelle degli illuministi. Il carboncino gira, forsennato, attorno a quel punto, come una trottola funebre; scricchiola, come se stesse per venir maciullato; o come se stesse per maciullare e trapanare lui, cacciavite introdottosi nella fatalità degli incontri psico-paranoici, la tela. Dalla parte dove sto, mi par di vederlo fuoruscire, quasi avesse trivellato un’intera montagna; poniamo, il Badile. Varlin fa un salto. Sprizza, come fosse pus, la gioia balorda, inconsapevole e oscena d’un bambino che «venga» per la prima volta e, insieme, l’ebbrietudine folle d’un medium o di un vecchio che conosca i segreti, tutti, dell’arte; e della vita. È quello, sì, è quello! Il punto, finalmente, è trovato; trovato l’ombelico dell’ironia, dello scempio, della vivisezione tragicobuffonesca, dello squartamento sentimental-viscerale che seguiranno; il neo del ghigno e, altresì, della gloria. Se c’è gloria, come c’è, anche per la cenere. Ne nascerà un monumento: di polvere, di stracci, di brandelli, di vuoti; stracci, polvere, brandelli e vuoti della notte, dei fantasmi che la popolano, delle diavolesse che la devastano e dei sadici, dei lunatici e malinconici che, difesi dalla sua complicità, s’avventurano ogni volta appresso ai cimiteri, come se volessero dissotterrarvi i morti, mirarne i cadaveri, specchiarvi dentro i loro visi e le loro turbe, rubarne le tibie, le ganasce, i malleoli, dato che quel che la vita off re, ai suddetti malinconici, non basta; e par loro che dia di più, molto, ma molto di più, la morte... Poi, fissato quel punto, spostando freneticamente gli occhi dalla tela a me e da me alla tela, procombendovi sopra e, di scatto, allontanandosene come una molla, Varlin lancia via sciabolate che la percorrono su e giù, giù e su, da un capo all’altro, e che talvolta ne fuoriescono come se per quell’operazione non potesse e, soprattutto, non dovesse esistere limite e margine alcuno; sciabolate larghe e tronituanti, come colpi di vento e di tempesta; ovvero secche e dritte, come cristalli che s’infrangano; storte; stortissime; a sghimbescio; di traverso; con arresti e frenate sull’orlo del precipizio (e vuoti, vuoti, sotto, di secoli e di millenni; della psiche, intendo, di tutti i secoli e i millenni che han formato la nostra storia, fin da quando bazzicava la terra, non già l’uomo, bensì l’ominide); con vampe di rossore sul viso varliniano (e cader di gocce, come sudore di martire, dalla fronte tutta tirata dal raptus maciullante); con sigarette accese e buttate subito via, quasi fossero merda, veleno; con salti; scivolate dentro la catasta degli stracci; cancellature; riprese ossessive d’una stessa linea, d’una stessa curva; con infinite, impellenti necessità d’altri, miracolosi carboncini (ma dove, come trovarli?); con l’intera mano, o un dito o due, che aiutano carboncini e stracci a fare e disfare; con sguardi furtivi, oltre la finestra, per vedere come si va con la luce... Dio mio, la sera! Come cala presto, questa porca, dolcissima, atro c e , infame bestia, ammantata d’agonie e pentimenti, sfinitezze ed illusioni! E così, in quell’alternanza che altro non è se non la protrazione di quel primo rischio e di quel primo pericolo, furiosamente piano si realizza sulla tela quella che resterà, di me, l’impronta o, se preferite, l’impianto carboncinico: dilatato, allungato, slargato, slogato, sbattuto, abbattuto, rialzato, ingigantito, annullato; plasticamente certissimo e, poi, di colpo, inane; guardate lì: vuoto, ecco, sì, vuoto; come se in quel punto mi fossero venute a mancar le ossa o mi si fossero spostate più giù (o più su), magari per qualche terribile intervento di chirurgia plastica; quasi, che, dopo aver afferrato il punto che tiene e terrà in eterno (il chiodo, insomma, cui appendere il nuovo impiccato della serie), Varlin cercasse famelicamente i punti che, invece, non tengono, quelli che si disfano e si sfasciano dentro l’anatomia regalataci dal buon Dio; ovvero dalla scimmia; in ogni caso dall’abbraccio oscuro, libidinoso, lucertolante, sfingico, sarabandico, tragico e demente delle cellule paterne e materne; quei punti che, a opera finita, ci faranno schiattar dalle risa e, insieme, stringer i denti, gelar le ossa, montando in noi l’ansia e la paura, perché rendendoci simili a padre, madre, scimmia e Dio, avran fatto di noi una sorta di pietoso e grigio monumento, non già alla bellezza, scoperchiata dall’arte di Varlin in tutti i suoi fondi d’ingiusta e atroce falsità, bensì alla malformazione; che è, dice Varlin, l’unica, vera, reale formazione. A questo punto, nemmeno pensare alla scimmia basta più. E neppure all’orango. Ma, allora, a chi mai? A chi, dunque? Ci fu un tempo in cui la pittura di Varlin pareva bearsi e fin crogiuolarsi dentro la sua straordinaria, straripante succulenza materica; torcendo, magari, subito il naso o lasciandosi torcere il collo (e così contraddicendo se stessa) dai reclami montanti oltre il fondo della sua continua, amara arrabbiatura; arrabbiatura, intendo, per l’idiozia umana che non vuol vedere, proprio non vuole, da che parte, fossa, buco, materasso o valigia proviene e verso dove (fossa, buco, materasso, valigia, cassa o terra) è indirizzata e cammina. La presente Esposizione non mostra quel tempo di proposito; o lo mostra quando la grande, vendicativa, scuoiante e sbellicante ironia varliniana sta già riducendo sotto le sue fruste ogni bellezza pittorica delibata in sé e per sé; intendo nei suoi spessori, nei suoi tasselli, nelle sue congiunzioni, nelle sue sovrapposizioni, nelle sue croste e sovracroste, nei suoi ghirigori violacei, nelle sue strollate zafferaniche, nelle sue sbavate e nelle sue irritazioni posthodleriane (tutte cose, di per sé, meraviglianti, ma non funzionali ancora all’appieno sismico della medesima ironia che pure, qua e là, traluce; anzi, traoscura); lo mostra anche in gesti, come quello, stupendo di trattenuta pietà, del «Ritratto della madre», un capo d’opera che dice «di che lagrime grondi e di che sangue» la desolata desolazione e il disastroso disastro dell’ultimo atto varliniano; e lo stridio cupo e cinereo che lo sovrasta, come la sirena di un’immensa autoambulanza che fili portando su di sé l’intero genere umano. E dice altresì come Varlin conoscesse bene e ben sapesse fin d’allora da che dolci, straziati materassi usciamo; e il bene che perpetuamente ci insegue (del materno grembo); anche ove noi lo volessimo rifiutare. Il che offre poi più forza, caparbietà e diritto d’esistere, insistere, ferire, rasoiare, sconvolgere, capovolgere e stravolgere, al suo presente, infernale girone, facendo traballare, che dico?, sfarinando, ecco la parola, la terra stessa che ci sta sotto i piedi (e le dimensioni, le leggi, le prospettive e i significati che ne dovrebbero derivare). A quei tempi, la pittura di Varlin poteva parer intermedia tra post-impressionismo ed espressionismo; con moti alterni d’adesione e di ripulsa, ora verso l’uno, ora verso l’altro; ma l’occhio stava sempre ben puntato su colui che fra tutti i suoi precedenti, sentiva essergli maggiormente fratello (o, per rispettare in qualche modo i rapporti generazionali, zio in seconda); intendo il Toulouse- Lautrec fulminante degli appunti, quello del non-finito (tanto più grande e anticipatore del Lautrec chiuso e bloccato); il Lautrec delle tele e delle carte semivuote, dove lo spazio è una pura ipotesi per l’accendersi repentino d’una silhouette, d’un fantasma psico-fisiologico o d’una difformità psico-fisico-morale, rapacemente riconosciute e gettate giù con la velocità d’una firma che contenga il giudizio e la condanna. Se poi si vuol andar più indietro, i Maestri che Varlin predilige sono il Goya nero (la sua caverna, cioè, di mostri) e il nero, funebre finale di Franz Hals; quest’ultimo più di tutti. E lo si capisce. Non che Varlin abbia mai negato la sua appartenenza alla tradizione svizzera; e perché poi? Son cose che corrono nel sangue. Così il cromatismo di Hodler, il suo plasticismo a tacche simboliste (quelle tacche che egli chiama «timbres», cioè francobolli : che è una bellissima definizione critica), di tanto in tanto Varlin deve gettarseli dalle spalle anche adesso (sputata, da sempre, è chiaro, la chiave simbolista che non lo riguardò, a dio piacendo, proprio mai); si tratta, tuttavia, di niente più che coriandoli, i quali s’agitano appena, ricordi d’una festa ormai impossibile e lontana, e cadon poi giù, dentro la gran sarabanda d’inanità, di tristezze, di vuoto e di morte. È tuttavia da dire che, pur in quei tempi, di tanto, in tanto, qualcosa di grigio e di fumoso, qualcosa che tirava infallantemente alla sua presente, suprema sporcizia e lordura, qualcosa, ecco, di trasgrediente e di forante e perforante gli spessori stessi e le stesse paste del prestigio e della bellezza pittorica, come un tarlo che forasse e trapassasse un cumulo d’ossa; tutto questo, dico, e la riduzione improvvisa al monocromo sfasciante, quasi nebbioso, quasi novembrino (da foglia marcia, ecco), di tanto in tanto, appariva. Erano le premonizioni, gli allarmi, i segnali; era l’aggallare di ciò che sarebbe stato il suo gran futuro (e, oggi, il suo gran presente). È probabile che, a quei tempi, simili atti passassero per momenti di ripiegamento, d’auscultazione dolorosa dell’ombre dentro il fragore della grancassa pittorica, della pittorica orchestra: un’orchestra, una grancassa e una banda a timbri fragorosi e tumultuanti; dove vedremo affacciarsi però, di colpo, atroci e grifagne, le prime maschere dell’umano carnevale o serraglio o covo di malmessi, di straccioni e di pazzi che siamo; e, assieme a loro , i primi, indimenticabili e irredimibili ceffi dell’ordine della dignità, dell’economica potenza e della legge. Cosa si nasconde e cosa si muove dietro un ceffo? Si muove e si nasconde qualcosa di trasformisticamente orrendo, poliziesco, carcerario e fregativo: una forbice dentro il naso, una lama nei globi degli occhi, una rivoltella nelle tasche per compiere qualche turpe sevizia, o furto, o ingiustizia, o assassinio. Ceffo sta vicino a ceffone. Bene, Varlin, fin d’allora, nonostante le delizie e le cupidigie pittoriche, comincia a lasciar andare sulle facce dei modelli i suoi sonori, sacramentanti ceffoni; diciamolo più chiaramente: le sue irritate, violentissime sberle e i suoi calci giustizieri e feroci: in faccia, nei coglioni e nel culo; e con tanto più coraggio quanto più paion emergere dalla tentazione di tutte quelle paste svizzero- post-impressioniste o svizzero-espressioniste (paste, qui, sta per emulsioni di croma, ma altresì per «gàteaux», quelli che si mangiano, scelti dagli allineamenti prestigiosi che ne fanno, entro le loro vetrine, le pasticcerie zurighesi, viennesi e parigine). Voi vi credete questo? – sibila Varlin ai suoi modelli –. E invece no: siete quest’altro. E, intanto, un groppo comincia a chiudergli l’anima; la pasta (quella da mangiare) gli si ferma nella gola e l’altra (quella da depositare sulla tela) ha come un rinculo, lì, sul pennello, una sorta d’urto, di virata, un rutto da digestione andata a ramengo; il sibilo s’invetrisce fin al fischio; l’intelligenza e l’indignazione del pittore che stavano per sganasciarsi nel riso o nella risata, finiscono nel gemito; comincia a scricchiolare, ecco, sui cardini mal oliati, la gran porta attraverso cui entreranno poi, a folate, i fantasmi. Del resto, esiste un riso che sia vero, il quale non faccia calare su chi lo suscita e su chi l’osserva la sinistra cupezza del malessere? Forse quelli degli sciocchi (e ancora). Ma l’altro, quello che parte dalla coscienza di cos’è veramente l’uomo; di cos’è la società da lui, in tanti secoli, costrutta; di cosa sono le sue città, i suoi grattanti grattacieli, le sue infinite, mefitiche industrie e iperindustrie, le sue strade e autostrade, i suoi metrò, i suoi intasamenti (di macchine, d’oggetti, di prodotti, di rifiuti, di feci, di cart e da cesso, di tutto) e le sue blindatissime banche (figurarsi un po’, vivendo a Zurigo, pio rifugio di miliardi senza carta d’identità apparente, ma con però un numero ben preciso, ai cui formarsi scatta la serratissima serratura e s’aprono le bocche dei «coffres»); la coscienza che parte dal marchio, dalla timbratura (proprio come s’usa fare alle bestie da macello) regalataci all’atto della nascita, se proprio non si vuol dire della fecondazione. Quella timbratura, a fuoco, sulla pelle tenerissima da neonato (o sul grumo colloso del bauscento incrocio spermatozoico) a Varlin fu fatta dal demone, anzi dalla diavolessa dell’ironia; errante e avarissima dispensatrice della di lei firma e del connesso genio: che sarà duro peso a portarsi, poiché gli uomini non amano molto gli specchi che ne riflettono l’immagine spogliata, denudata, elettrocardiogrammata o, comunque, sbugiardata, sconfessata, demenzognizzata, smutandata (davanti e didietro), tirate giù anche le calze a mostrarne la sporcizia lì, tra le dita dei piedi, o le croste alle caviglie, e poi l’altra sporcizia, a lavar la quale non bastano tutti i saponi, le pietrepomice e i «profumi d’Arabia». La diavolessa (o musa) dell’ironia beccò Varlin al primo istante; vogliamo esser generosi? Al primo vagito; e non lo mollò più. Ora, per chi riceve quella beccata il mondo non potrà mai essere un’architettura od una formazione, bensì e solo una crollante rovina e una deformantesi deformazione. Di che? Del suo stesso valore? Del suo stesso senso e significato? Varlin sembrò subito non veder altro che cose che non vanno. Ed a ragione: perché, in verità, cosa c’è qui, sulla terra, che mostri d’andare per il verso giusto? E poi, nel fondo dei fondi, cos’è mai e dove mai si trova questo benedetto o maledetto «giusto»? La beccata della musa-diavolessa Varlin se l’è presa, certo (e gloria sia alzata a lui); ma se l’è presa per poter vedere quali e quante mai beccate del no invece che del sì, dell’imperfezione invece che della perfezione, del ridicolo invece che del glorioso, del disgustante e vomitevole invece che del gustabile e del digeribile, al momento di nascere e, poi, durante gli infiniti atti del vivere, ci diamo e ci prendiamo tutti quanti; come galline inviperite dentro un pollaio stipato di gas. E abbiam voglia, poi, di salvarci! Abbiam voglia di redimerci con legiferazioni, decaloghi, trattati, ordini, imperii, dominii, controimperii, controdominii, rivolte, barricate, bandiere, sangue, maquillages, tirate su di seni e di guancie, tinture e tupé (per le calvizie del cranio e per quelle dell’anima), le beccate dell’esistere e del nostro interior marcio restano lì, come artriti minacciose; storcono ciò che cerchiamo di raddrizzare; ingobbiscono ciò che ci affatichiamo ad appianare; scatenano ciò che ci affanniamo a rinserrare e a inchiavardare. Alla fine, tutto diventa più miserando e mortale di quanto non fosse già in partenza; e sulla molteplicità dell’imperfetto e del ridicolo cala giù, come l’ombra orrenda d’una nube di pipistrelli, la coda senza fine della fisica e metafisica «tristitia». Da cui, ad un certo punto, la necessità e la fatalità del grigio, della polvere, della cenere, del niente; e quella volontà e quel bisogno sadici e folli di grattar via tutto, di tutto cancellare, quasi che lui, Varlin, il beccato dal genio dell’ironia, non voglia lasciar del mondo altro che l’orma d’un gran polverone; e, poi il resto? Il resto, Willy, è silenzio. Né gli angeli scendono più su di noi, come sul cadavere di Amieto, per sollevarci e portarci in paradiso; o in qualsiasi altro cielo. E non tutti hanno un Franzese che vada in giro per le strade del mondo a raccontare la nostra «strampalatissima storia». «E, adesso?» – chiedo a Varlin. «On continue»; si continua; malgrado la sera abbia già invaso il regno bondasco e, in esso, anche la cascina stalla o capanna dello studio, rendendola più grigia e piena d’ombre di quanto già non fosse al punto in cui ho voluto intromettere, dentro la «varlinata», qualche critica nota ovverosia meditazione. Nel frattempo, sulla tela, dall’impronta lui è passato ai colori. Colori? Vorrete scherzare! Uno, ecco, uno, qualunque e qualunquissimo, che passasse di qui, con tutto questo imminire e premere d’ombre (un esercito; la semovente foresta, ecco, macbettiana); con tutta questa buiezza o buità; quell’uno penserebbe: addesso tirerà fuori, non foss’altro che per vederlo, qualche colore, non si dice chiaro, ma di sopportabile decenza. Un corno! Più la sera avanza, famelica, schifosa nella sua disastrata dolcezza invernale – la porca, bestia sera che induce i lunatici e i malinconici a pensare che sarebbe meglio chiuderla anzitempo questa bottega d’articoli misti che è l’esistenza; come, del resto, la porca e bestia mattina; l’ore, cioè, che nella giornata segnano il nascere e il morire, quanto a dire la stessa, medesimissima cosa; più, dicevo, la cavalcata dell’infame crolla giù, dentro, sopra, sotto, in ogni angolo dei mobili, dei quadri, dei letti, dei materassi, delle «materasse», delle valigie, oltre che delle ossa e degli stracci di me e di lui, e più Varlin dà nella violastrità dei paramenti di morte e nella cavernosità dei suoi funesti incantesimi di nero su nero su più nero e poi più nero ancora, come se il nero e solo lui avesse diritto ai templi, alle cattedrali, all’infinito; e, quando non bastano più nè polveri, nè colori, spalma sulla tela il carboncino che, con furie istantanee, ha spiaccicato fra le dita; sembra che stia facendo schiattare corpi schifosi di seppie e di rospi; o che getti sul «Ritratto» pisciate oscene di asini nutriti a cassia, fuliggine e catrame. Ma, adesso? O dio, adesso, Varlin? Adesso che non si vede proprio più un’ostia che è un’ostia, ove pur ella volesse illuminarsi di tutti i suoi liturgici splendori? Di colpo, prendendosela con la brevità spaventosa ed ingiusta del giorno, Varlin getta sul tavolo la pennellessa che gli è restata fra mano; fissa ancora una volta il me ingigantito e stravolto dal suo lui; brontola qualcosa (il paletot mi salva dal gelo contro cui lotta, scricchiolando, anche la stufa a gas), poi mi dice: «venez voir...». Esco dall’intirizzimento; vado a vedere. Per riassunto e ingigantito che m’abbia, le beccate che ho dato e ricevute nella vita ci son tutte; come se avesse potuto contarne le croste, le ferite, le cicatrici, i segni, i pentimenti, i rimorsi. Nero, annego nel nero; son fatto di quelle seppie, di quei rospi, di quelle pisciate. Squilla solo il rosso della sciarpa: una mitragliata che m’ha ferito lì, sotto la gola; e il sangue ne cola giù ancora (rimetterà tutto in sesto l’indomani, allorché riprenderà il lavoro; ma, intanto, il tentato omicidio è stato perpetrato). Chi sono? L’agente segreto d’una banda di ribelli sfiatati e senza più speranza? Un re di imperi malinconicamente decaduti e finiti? Un maiale? Un romano dissepolto in qualche tomba lasciata, che so, a Plus (Piuro; due passi giusto da Bondo) dalle legioni imperiali durante i loro passaggi verso le Gallie? Un maratoneta in cerca d’anime da trascinare a conversioni sadiche e atroci? Sto forse andando in qualche chiesa dissacrata a celebrare una cupa, sanguinolenta messa nera? Sono un satanico squartatore di giovinezze innocenti? Un bandito braccato? Un beota? Un folle? Un santo votato, invece che al paradiso, al regno di Papè Satàn? Un’infetta carogna? Il bersaglio pel tiro-a-segno dei presenti e futuri vincitori? O invece, e tutto assommando, un fantasma? «On est tous des fantómes...» – mormora Varlin con una sorta di consapevole, devastata tristezza; ombre in aspetto d’uomini; o in aspetto d’alberi, gatti, scimmie, elefanti, cani. E più ci crediamo determinanti nel destino delle «magnifiche sorti e progressive» (bum! bum! – picchiano gli spettri contro la porta del cesso bondasco; e giù uno scroscio d’acqua. Sarebbe, forse, la loro gola a ingoiare quanto rotola giù dal water e dai tubi? Ma, poi, chi mai ha tirato la corda? Bica, forse? Si, lei; poco dopo che il padre l’ha colta in quello che resta uno dei suoi più grandi atti d’umanità e di perfidia, l’una e l’altra arrivate al grembo di se stesse e a vedere con empietà smisurata e, insieme, con smisurata pietà e tenerezza, l’animaletto irrefrenabile, la donna, ecco, sì, la donna, l’Eva già ammiccante, tentatrice e vincente, che striscia in «Bica che piscia». Dio mio, quel culetto che traluce fra la sottana alzata e le mutande, chi lo dimenticherà più? E chi, quegli occhi, come di vespa, pronti a mordere chissà quanti ragazzini?). Più, dicevo, ci crediamo necessari e indispensabili e più la nostra sostanza si demistifica e si sfalda, denunciandosi per quello che è: incorposità occupante; presunzione violatrice e stipatrice di spazi, che compie gesti su gesti; s’affanna; cerca disperatamente da mangiare per non crepare; cerca lavoro per non crepare del non mangiare che altrimenti avrebbe; e cerca altresì sguardi , occhi, in cui riconoscere il segno della corrispondenza e della sopportabile complicità. Sì, ma anche quando abbia la fortuna di trovarli, che so, unti, velati da una tristezza così antica da parer quasi fatale, lì, ad un angolo della periferia; ovvero stravolti ed esaltati, all’arivo d’una corsa, dopo che han macinato sotto le ruote della bici, per chilometri e chilometri, la speranza da re o da dio del quartiere; o sulle sponde della Senna (e sarà il trionfo, la cancellazione di tutto il prima e di tutto il poi, il fulmine stesso dell’iddio, la goccia d’oro lasciataci cadere dal sole perché la si riceva nelle braccia, nel cuore, e se ne viva); o anche sui vagoni della Nord – d’inverno – trasvolante sui propri passi come una rondine, con quel sorriso dolce come il miele e aspro come il mirtillo; e a tutti voialtri che mi leggete, nei modi in cui vi sarà pur accorso; anche allora, ecco... Oh, non si vorrebbe porsi, allora, la domanda, il «problema»! Non si vorrebbe che, anche in quella occasione, la sostanza fantomatica, nuvolosa e annebbiante dell’essere ci tradisse; perché è nube di sangue, fantasma che si getta su altri fantasmi e soffre, piange, stringe, ride, bacia; sempre che abbia trovato prima il pane; perché, se non l’ha trovato, non bacia, non piange, non stringe e non ride più, ma semplicemente e sacrosantemente si ribella, uccide o si chiude nel silenzio e muore. Fantasmi, sì! Ma quale pena, quale fatica dover sostenere per anni questo enorme, affannoso, dolente peso d’inanità e di vuoto! Ercoli senza muscoli o con muscoli sempre inferiori alla bisogna; piccoli agnelli, anche se feroci come leoni; per sbranare cosa, poi? Altri fantasmi impastati d’ossa e carne; altr’aria impregnata di sangue. Che gli dei abbiano pietà; se pietà essi stessi conoscono. Un brivido che si diparte dalla schiena, come dal suo epicentro, e si dirama poi giù e fa la corrente elettrica che accende, per qualche tempo, la lampadina d’ognuno; la luminaria, a vedersi, è straziante; ci si può perdere testa, dignità, lavoro, onore, probità, averi. Poi il filo del tungsteno salta, si spacca: un infarto, qualche orribile scontro, uno qualunque degli infiniti nomi che formano il dizionario della diavolessa che ha nome medicina. Fantasmi, ecco, ma con le loro brave visite, con le loro brave medicine e, poi, alla fine, le loro brevissime o lunghissime agonie. Poeti, diseredati, ribelli, lunatici, malinconici, stringetevi alle ossa; stringetevi alle orme dei fantasmi che siamo; ai baci, alle pagnotte e ai gesti che ci torturarono e resero felici! A quest’appello Varlin ha già risposto, tanto più umanamente plorante quanto più satanicamente irridente; e ha risposto proprio con le sue ultime tele e i suoi ultimi teloni; indimenticabili sipari che scendono e salgono sulla rappresentazione della vita; arrotolati e srotolati di continuo; fatti di tutto e di niente. Chi ha esaltato il colore come lui, come lui distruggendolo e obbligandolo al corpo-acorpo prima, all’angolo e al K.O. definitorio e definitivo, poi? Perché, cosa sono mai queste sue ultime, silentissime, grondanti ed enormi rovine pittoriche se non il conteggio fatto dall’arbitro della vita ad ogni sontuosità o prestigio della pitturante pittura? Varlin pittura, sì; ma nel dipingere, adesso, detronizzata la dea; pittura, ecco, depitturando. Dipinge, disdipingendo. Da anni e anni, senza togliere bellezza alla sua arte se non per guadagnarne altra, incondita, fatta di grigi, di neri, di vuoti, di iati, di lacerate sospensioni e di violentissimi evacuazioni (del tempo e dello spazio, intendo, e dei loro fisici e metafisici significati). Varlin ha preso a gettar tutto in acquaragia o trementina impudiche, luride, dissacranti; o, addirittura, in letame (come la strollata messa nel culo della vacca; quasi a sfigurare, per amor d’ironizzata verità, il tema tanto svizzero-engadinese del latte e dei suoi derivati); letame di bestie e letame di cristiani. Così nel momento in cui tutto s’ingigantisce, tutto si depaupera. Quasi sia diventata, la sua pittura, l’impero stesso della sporcizia. Sì, la sporcizia Varlin l’ha fatta salire sul trono d’uno spazio mai prima visto: uno spazio forato, perforato, trapassato, sfondato; come le vagine delle sue «materasse» e quelle delle sue valigie; e anche più; poiché attorno a quello sfondamento non sono rimasti né peli, né crini. Il trono della pittura varliniana è fatto di quattro legni incrociati; e sta sospeso su quel vuoto crostoso, piscioso e pisciante. Che se, per le feste di maggior richiamo, vuol mettersi qualche decorazione, bene, s’impiastra adosso un un pezzo di straccio ovvero la cupa beffa di qualche paramento da pompa, ma da pompa funebre; e funeraria. Negata, dunque, e rifiutata ogni bellezza, ogni sua memoria, ogni suo segno? È questione d’intenderci; poiché una bellezza deformemente solenne e deformemente sublime sibilante nella sua voragine e nella sua perdizione d’un nero più nero dei fori stessi da cui nasciamo e da cui defechiamo, è presentissima e, anzi, intona e incarna lo stesso dissistemato sistema dell’ultimo Varlin; ed è da delibarsi come una risata che si faccia «complainte» sulla cisterna, tre sull’orinatoio, sul vespasiano e sulla latrina dell’universo mondo; e degli universi cieli. Ma, oltre a tutto questo, fate ben attenzione; in quelle voragine, in quei precipizi, in quegli iati, esistono occhi che v’attendono al varco: celesti, azzurri o neri, essi, possono fulminarvi lì, per sempre, con la forza e l’ipermalia medianica di gioielli fabbricati da un vero e proprio terrorista psichico; in essi s’è infatti coagulato tutto ciò che, per anni e anni, era stato il rutilante splendore della materia e delle trombe pittoriche varliniane; esistono bocche che possono aprirsi, mord e rvi, addentarvi, baciarvi; facce che possono ipnotizzarvi e obbligarvi a seguirle in eterno, giusto come sembra fare l’Alain della «sovrapporta», il quale, munito per l’occasione di baffi, procede a vincere il mondo (il niente), consapevole bellimbusto cui s’apra attorno le spalle un’aureola di grigi (grigi che paion d’oro vanificato, di vanificati diamanti e altresì di nevischio, di brina). Cosa sarà mai quest’aureola? – mi son chiesto non so quante volte. Un omaggio di Willy a quello per cui un giorno, prima di farne il meravigliante «Ritratto » in lunga, completa nudità, dove la carne gareggia con le peonie e le viole, aveva detto: «ca c’est pas pour moi. Ca c’est du Donatelle!». È questo? Intanto, sul fondo della medesima «sovrapporta», piccolissima e acutissima icona, Elda cerca di raggiungere il profeta della bellezza imbaffettata, il quale ha su, per sopramercato, quella camicia rosa (rosa-fragola, rosabacio, rosa - amore); un rosa che potrebbe far marcire d’invidia gli oleandri della primavera... E se può similmente far marc i re fiori come quelli, voi capite quale mai tenerezza e sapienza sostenga la rovina, la frana; e quali mai scrigni di tesori si nascondano sotto il revertirsi di tutto «in pulvere». Tesori; trasalimenti di p i e t re combuste e sfinite; smarrimenti; ansie; fiati; smagate ombre della vita (dell’indicibile gemellaggio con Erna); spettri di là dalla vita, ormai, e dalla morte ; saluti; addii; nubi sfasciate dai silenzi; nevi come coltri di destini senza scampo; striscio di vomiti; lagrime; brillanti di felicità a svendere, data la cecità dei vivi; topazi e rubini defecati dai gatti e dai cani; merde come gelsomini; gelsomini come merde. No, non passate via così; bisogna fermarsi e guardare; guardare a fondo nel gran polverone, nel gran disfacimento del tutto. Esistono, voi vedrete, mani che potrebbero farvi cadere su di un letto o su d’un prato (per abbracciarvi o per strozzarvi). Non ve lo dice forse, saluto e annuncio prima dell’oltranza nientificatrice di quest’ultimo tempo, il didietro, il culo, ecco, il culo a dir poco divino di Franca, cerva indomita della Bondasca? Chi mai s’era torto in quel modo e su dei panni così sporchi di miserie e di oscene lordure? Chi mai ci aveva guardati e chiamati con così lancinante trafittura di desideri e di passione? E poi, per converso, nel colmo del presente, la montagna decomposta forsennata e smisurata, del «Nudo» di Leni; questa nutrice di vitelli, di manzi e di porc i ; questa allattante; questa soddisfattrice di tutti i possibili giochi dell’amore («J’ai deux amours ...»; trentacinque, settantasei); cose da casini!; «la vuole alla spagnola? »; «oppure vuoi la bocca?»; ecco, sì, la bocca; e quel ventre, madre santa, da corrervi e cercarvi rifugio quando verrà il giorno dei fulmini; questa «grosse Margot » dei tempi nostri, stupenda nella sua oscena grandezza, gioiello di fatale chiamata alla destituzione, alla prostituzione (e alla deflagrazione), «ciàpel de chi, ciàpel de là»; «mater matuta» e regina dei bordelli ; tutto insieme, in un solo, carnalissimo, disfattissimo e memorando capolavoro; e, intanto, fuori, nella nebbia della notte, passa qualcuno e canta: «quattro colpi alla pecorina – poi la lascio in libertà» . Esiste il sangue, così denso, così caldo, da toccare, ecco, sì, da toccare, dentro il buio inferno, di Zita sdraiata e partoriente; esiste la solitudine infinita, l’infinito odio-amore dei due fratelli, lui, Willy, lei, Erna (e già ne ho accennato): uno di qui, l’altra di là, come se li separasse sempre proprio quello che sempre li unisce, fagottelli fatti di piume, cicche, ricordi: due cose da niente, nello sfasciarsi senza pace dei muri, dei plafoni, dei pavimenti, delle prospettive, ma come cariche poi di pena, di rimangiate lagrime e di ricacciati dolori (ricacciati giù, nella gola)! Esiste lo sguardo, avido e sapidissimo, di Lapponio, il suo pelo, il suo rictus quasi elettrico. Esistono gemme e tumefazioni sulle labbra, sulle carni, sui ventri; caverne dentro le bocche spalancate nello sbadiglio (nell’urlo, cioè, dell’inedia). Esiste il pittore, il Gran Maestro dell’Ordine dell’Ironia, malato: sgorbio bianco, bianchissimo Socrate dentro i letti della vanità e del nulla. Esiste, ancora, il qui scrivente; la sua testa, anzi, isolata come in un’iperbole totemica e saturnina; esiste appoggiato al letto, torto allora in sé e con una paurosa neoromantica fascinazione da e verso la morte; esiste seduto, come un testimone o uno sbrindellato evangelista del disastro, come un suo contabile, come un suo catalogatore angosciato e irrefrenibilmente sfidante (ma sfidante chi e cosa? Il causatore, il colpevole del medesimo disastro?); seduto, dicevo, nella frantumazione d’una città-cimitero, da dove salgon su miasmi, spettri, antichi morti, presenti vendicatori, grida di sgozzati, urla di giovinezze prese, offese, rubate, esaltate, lasciate, lacerate, di madri senza più nè casa, nè famiglia, di donne che imprecano e maledicono i maschi, la terra, i cieli, i poteri, i troni, le dominazioni... La verità è che in questi enormi, dissennati e rovesciati teloni, il coito e l’assassinio son sempre lì, a un passo; a un passo il tranello che non da scampo; la «scoriera» che scenderà e deturperà la calza di seta dell’universo, affinché ne ridano i cani; e i demòni. Anche perché, capitanate dalla beccatrice, vi folleggiano le diavolesse (bondasche e no); e vi danzano, abbracciati in una baraonda mai vista, una baraonda da giudizio universale sganasciato e finente poi nella più fallimentare e totale liquidazione che si conosca, loro (noi): quelli che si credono vivi; cioè a dire, le piscie dell’esistere; i fantasmi del gran ballo che è la vita; e del suo inevitabile abbattersi e risorgere nella perpetuazione del dolore e del niente.

Legnano, 3 maggio 2007

* in Giovanni Testori, Willy Varlin, catalogo della mostra alla Rotonda di via Besana di Milano, Milano 1976 - Estratto dal testo in catalogo Silvana editoriale
FONTE WEB: CPL