Repubblica — 28 gennaio 1986
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sezione: CULTURA
LONDRA-PARMA-ZURIGO - Alla Matthiesen Gallery di Londra, nella mostra
che espone, di Wally Varlin, le opere dipinte in Inghilterra nei due
soggiorni del 1955 e del 1957 ("Varlin in Britain"), si può vedere un
quadro intitolato Vista del Tamigi (Albert Bridge): notturno, grigio di
nebbia fumo e pioggia battente, tutto fuso in un' atmosfera caliginosa
di cui sembrano fatti anche i lampioni, il Lungo Tamigi, l' uomo che vi
cammina e, sul fondo, le strutture in ferro del ponte, rotto qua e là
da chiarori sinistri, trapassato dalle rigature di pioggia che sembran
brillare un attimo come fossero colpite dalla luce di qualche faro.
Abbiamo visto la nebbiosità luminosa gravare sul Tamigi confondendo
aria e acqua nei quadri londinesi di Monet, o quella dorata e spessa di
Turner; abbiamo letto dell' aria tetra e intristita attraversata da
voli di gabbiani nell' Ulysses di Joyce; ma per trovare qualcosa che
possa stare dietro il tristissimo sprofondamento di questo quadro,
dobbiamo puntare su Dickens, sulla Londra, sul Tamigi e sue rive di Il
nostro comune amico, per esempio. Quella nebbia pesante e fitta, quelle
acque fangose ci danno lo stesso brivido della "veduta" dipinta da
Varlin, ci fanno allo stesso modo stringere il cuore. Ed ecco che,
inoltrandoci nella mostra londinese, troviamo un altro quadro dove è
dipinto un lungo caseggiato popolare, malinconico, nonostante i colori
vivaci, per quelle lunghe file di porte e, più su, di finestre tutte
uguali: La casa dove è nato Charlie Chaplin. Non sta a me, e non in
questa sede, richiamare i rapporti tra Chaplin e Dickens; molti altri
lo hanno già tentato. Mi preme invece indicare come i fatti si leghino;
e come - per riassumere - molta amarezza e molta satira, molto dolore e
molta buffoneria, miseria e divertimento, si fondano insieme,
formandone le spinte essenziali, nella pittura di Varlin, secondo l'
esempio di quei suoi due grandi predecessori e maestri. Alla Galleria
Sanseverina di Parma, dove è in corso un' altra mostra di Varlin, che
comprende una cinquantina di opere variamente scelte nell' ampio spazio
di quasi tutta la sua attività dal 1935 al 1975, si può vedere un
Autoritratto del 1975, una delle sue ultime opere, poichè la malattia
che lo portò a morire due anni dopo gli rendeva difficile ormai il
lavoro. Nella camera da letto più disadorna, più miserabile e squallida
che si possa immaginare (di fronte alla quale la camera da letto di Van
Gogh è un trionfo di lindore e di felicità) sta il pittore in camicia
da notte bianca, da cui emergono scarne le braccia e le gambe,
accigliato e tragico il volto, come il fantasma che ormai si apprestava
a diventare, ma ancor vivo e doloroso di carni pallide e di bisogni
corporali. Entro questo spazio quasi senza tempo e pur pregno dell' ora
precisa, anzi del momento, e posto solamente, sul fondo, il letto di
ferro su cui materasso e lenzuola son nell' estremo disordine della
miserabilità e della malattia; mentre davanti a tutto, e quasi sotto i
piedi del pittore, il pavimento è attraversato da una grossa linea
nera, come fosse l' orlo del sepolcro. Capolavoro, questo, come lo era
la Veduta del Tamigi, di fattura un poco variata e di spirito simile, a
vent' anni di distanza. Infine al Kunstsalon Wolfsberg di Zurigo, un'
altra mostra completa la triplice, contemporanea, apparizione di Varlin
in tre diversi punti d' Europa. Vi si può scegliere un quadro diverso
dagli altri due citati, del Varlin più ironico, quasi piacevole, quasi
gioioso, descrittore minuto degli oggetti, degli ambienti e della vita
in essi, Bar in Malaga, 1959: camerieri, uomini che bevono al banco,
tavolini, file di bottiglie e i grandi manifesti delle corride che
gridano dai muri, tutto nei caldi colori di Spagna, una pittura veloce,
di getto, mossa, violenta, una materia consumata e impura, una
gestualità quasi, ma nel rispetto dello spazio e della trama, sempre
ricca di valore, che l' esistenza intesse in ogni luogo e in ogni
momento. L' uomo che ha dipinto questi quadri, nato a Zurigo nel 1900,
vissuto dieci anni a Parigi nei tempi eroici delle avanguardie, tornato
in Svizzera, ancora a Zurigo, rifugiato poi nel piccolo paese montano
di Bondo entro la stessa valle dove viveva Giacometti, è un grande
pittore, tra i maggiori della seconda generazione del secolo; poco
conosciuto finora, e misconosciuto o quasi in Italia, dove solo
Giovanni Testori, inascoltato, non si stanca di proclamarlo tale, da
anni. Ha ragione Vittorio Sgarbi nel testo che introduce la mostra di
Parma: vien da dubitare di se stessi e della presenza degli altri,
della realtà stessa insomma, a vedere un pittore così indubitabilmente
grande, non guardato o non degnato di considerazione dal più della
critica; "è una cosa strana in un' epoca in cui non esistono
incompresi, in un' epoca in cui non si nega a nessuno il
riconoscimento, anche convenzionale, di un valore, o la forza di una
testimonianza". Come è possibile che ciò avvenga? Perchè, scrive
Testori nel catalogo di Londra, Varlin è sì un protagonista, ma
totalmente "alternativoe, dunque, appartato, ritirato e incantinato".
Perchè, come molti artisti e molti poeti che per questo fan fatica ad
entrare nella notorietà, desiderava non il potere, ma il non-potere: la
libertà, gaiezza, equilibrio che dà il non-potere. E la stessa
assunzione dello pseudonimo con cui lo conosciamo ne è come un emblema;
chiamandosi Guggenheim, già negli anni in cui viveva a Parigi, cambiò
quel nome "da bravo e ricco borghese", per suggerimento del mercante d'
arte Zborowski, con quello di Varlin, in ricordo di uno degli uomini
più sconosciuti e coraggiosi della Comune, morto in modo eroico ed
orribile durante la "settimana di sangue". Ma un' altra ragione è da
cercarsi nei soggetti della sua pittura, che sono sempre miserabili:
ambienti di squallore e disordine, oggetti usati, sgangherati,
corrotti, persone che stanno nei bar, nelle cucine, camminano per le
strade e son visti con quell' ironia e con quella pietà come se fossero
usciti da un film di Chaplin. Nessuno deve scandalizzarsi se Varlin
dipinge un ombrello rotto, un letto sfatto, un gatto morto, un vecchio
clochard, una via lunga, stretta e con lenzuola stese di Napoli, un
atrio tristissimo di stazione, una poltrona sventrata, o il proprio
atelier ricolmo degli oggetti più diversi, del disordine più
angoscioso, delle incrostazioni più informi (come neanche lo è l'
atelier di Bacon, che conosciamo solo in fotografia). Nessuno si
scandalizzi, perchè Varlin ne fa meraviglie di pittura, grumi di
esistenza dove l' artistico e il vissuto si sovrappongono e si
intrecciano. La Londra che appare nei quadri inglesi nessun turista l'
avrà mai potuta vedere; simile piuttosto, come ho detto, a quella di
Dickens o a quella illustrata da Dorè per il "viaggio" di Blanchard
Jerrold. E quando venne in Italia Varlin volle stabilirsi a Napoli; fu
tanto affascinato e innamorato della città, cioè dei suoi abitanti, che
al momento di lasciarla scrisse una "lettera", così terminandola:
"Mentre stava per dire addio a Parigi, il poeta tedesco Hebel scrisse:
"se tutte le città del mondo dovessero sparire, che Parigi esista per
sempre!". Valga questo anche per Napoli. Napoli, parola magica; che tu
possa sempre essere te stessa". Varlin rappresenta nel modo più estremo
e drammatico l' "altra" Svizzera, quella segreta, disordinata e folle
che sta tra Fssli e Robert Walser: il lato proprio opposto della
faccia, o facciata, che ci mostra, per esempio, Max Bill, per citare un
nome di artista quasi coetaneo di Varlin e di lui molto più conosciuto
Max Bill è la Svizzera del design impeccabile, delle fotografie a
colori perfette, delle cartolerie invitanti e multicolori; quanto Bill
è asettico e puro, tanto Varlin è infetto; sembra che molti spettatori
e critici abbiano paura, ad avvicinarlo, di contagiarsi, di sporcarsi,
in molti sensi. Ma che poesia straziata e dolente esce dalla sua opera,
e verità dell' esistenza; che sublime clown della pittura, che tragico
avventuriero è Varlin! -
di ROBERTO TASSI