Attraverso
l’uso soggettivo del colore, ma soprattutto grazie a un segno rapido e
nervoso, Willy Varlin riuscì a cogliere, nell’aggressività deformante
della sua visione, il significato stesso dell’esistenza, spingendosi in
molti dei suoi capolavori fino alla dissolvenza del colore e
dell’immagine, giungendo così all’intima dignità di ogni essere umano.
“Della
pittura di Varlin, di questo misconosciuto, protervo, sgangherato e,
insieme, sublime Maestro, uno dei pochi della sua generazione […] che
abbia l’aria di passare indenne dai complicati tornanti delle mode; uno
dei pochi […] che han preso a dare il massimo di sé quando gli altri
han cominciato da un pezzo a rallentare la corsa del loro treno (di
pittura, intendo, non di vita) e a sclerotizzarsi nella ripetizione; di
questa pittura mi toccherà forzatamente parlare, non solo quale
testimone […] sbalordito, indifeso e, immagino, sbalordente e
ossessionante come un Attila senza più esercito né erba da bruciare,
procombo dentro la pittura di Varlin quasi che tutto di me fosse
riducibile alla testa, al cranio da folle o da imperatore delle case
per i ‘no sani di mente’ […] e vi procombo proprio nel suo momento
d’esplosione più totale, indignata e furente […] Ci fu un tempo in cui
la pittura di Varlin pareva bearsi e fin crogiolarsi dentro la sua
straordinaria, straripante succulenta materia; torcendo, magari, subito
il naso o lasciandosi torcere il collo […] dai reclami montanti oltre
il fondo della sua continua, amara arrabbiatura; arrabbiatura, intendo,
per l’idiozia umana che non vuol vedere, proprio non vuole, da che
parte, fossa, buco, materasso o valigia proviene e verso dove […] è
indirizzata e cammina.”
Era il 1976 quando Giovanni Testori proponeva a Milano,
alla “Rotonda” di via Besana, l’esposizione “personale” di Willy Varlin
- il cui vero nome era Willy Leopold Guggenheim -, (Zurigo, 1900 -
Bondo, 1977), con il quale il celebre critico d’arte aveva avuto un
profondo legame di stima e di amicizia. Oggi, nel trentennale di questo
memorabile evento e dalla scomparsa di Varlin, il Comune di Legnano
(MI) presso “Palazzo Leone da Perego”, presenta una “antologica” -
curata da Flavio Arensi e Patrizia Guggenheim, figlia dell’artefice -
del maestro di Zurigo, uno fra i più illustri ed influenti artefici del
Novecento europeo.
Il progetto ricomincia proprio da quello straordinario
avvenimento che fu l’evento milanese, e soprattutto dalla dissertazione
di Testori fin dal titolo del saggio lirico/visionario del critico
d’arte composto per il catalogo: L’ironia, la cenere, il niente.
L’esposizione - formata da sessanta dipinti, di cui alcuni inediti, e
venti disegni - vuol indagare sul rapporto fra Varlin e l’umanità, la
stessa che amava ritrarre. Non scordando che fra i suoi “modelli” vi
furono scrittori e drammaturghi svizzeri del calibro di Frisch e
Dürrenmatt, famosi fotografi come il celeberrimo - e forse anche troppo
celebrato - Cartier Bresson e, naturalmente, Giovanni Testori -
drammaturgo, poeta, romanziere, nonché pittore. Di questi intellettuali
Varlin scrisse con caustica benevolenza “[…] col tempo scopro il
masochismo degli intellettuali che vengono a farsi fare il ritratto da
me. La loro gioia autolesionista me ne porta sempre nuovi.
L’associazione dei danneggiati di Varlin annovera nomi sempre più
illustri.” Le parole del “maestro” risalgono all’epoca in cui aveva
finalmente ottenuto - pur non avendola mai cercata - la meritata fama,
e introducono ad uno dei punti fermi della sua arte: il ritratto,
soprattutto i suoi cosiddetti “ritratti danneggiati”. All’estesa tesi
sui “danneggiati”, che sono ormai considerati il punto focale della sua
osservazione umana, si aggiungono gli scorci veneziani e francesi
catturati dal talento dell’artista, in particolare le sgargianti
“vedute” veneziane ed i “d’après” Goya.
Solo ora vengono esposti i suoi due primi dipinti del
1921, il più commovente dei quali è un viso librato nel vuoto, con un
cappello ed una bambola: Il gioco preferito di Erna, la sua gemella
ancora bambina. A fare da naturale contrappeso vi sono i suoi ultimi
tre lavori realizzati l’anno prima della sua scomparsa, uno su tutti:
Stare a letto, l’appassionato autoritratto dell’artista steso nel
proprio giaciglio, ovvero il suo commosso saluto alla amata terra.
Immune dalle influenze dei più difformi movimenti d’avanguardia, Willy
Varlin ha sempre nutrito il suo stile dipingendo la fragilità
quotidiana e i sentimenti umani, in primis la malinconia e la
solitudine. All’inizio della carriera non furono in molti ad apprezzare
il suo lavoro, difatti durante la gioventù l’artista subì in più
occasioni lo smacco professionale. Vi fu un addirittura un’impresa che
gli rifiutò un posto, giustificandosi in seguito così: “Non era nemmeno
capace di temperare una matita”. In realtà la capacità di giudizio si
arrestava davanti al suo modo di vivere e fare arte - una via di mezzo
fra il clown e il bohèmien -, senza basarsi su un serio
approfondimento analitico dei suoi quadri, che erano lo strumento
rivelatore delle proprie connessioni con l’umanità. Fedele alla pittura
figurativa, Willy Varlin non cercò mai scappatoie - come accadde ad
altri artisti di chiara fama -, fu l’unico a partecipare alla
“Biennale” veneziana del 1960 con i suoi dipinti non oggettivi.
Non è possibile indicare con sicurezza i precedenti di
Varlin, anche se per la loro intensa carica espressiva potrebbero
essere accostati a quelli di Kokoschka e Soutine, pur apparendo più in
sintonia con il suo conterraneo Giacometti - che era nato nei pressi di
Bondo - e alla maniera del “maudit” Francis Bacon, soprattutto a causa
della sua personalissima intuizione spaziale. Nell’arte contemporanea
il più assimilabile a Varlin - “L’irrimediabilmente figurativo”, come
lo definì lo scrittore e drammaturgo Dürrenmatt, suo amico e “critico”
- potrebbe essere considerato Alessandro Papetti.
Fra le altre opere esposte si notano e si gustano le
belle vedute di Bondo e di Montepulciano, oltre ai classici ritratti
dalle figure allungate ed eleganti degli amici cosmopoliti con
un’espressione di stampo mitteleuropeo, percependo in questo modo il
soffio vitale del secolo appena trascorso, come si nota nel Ritratto di
Hans Theler, (1963). Varlin era però anche un ottimo autore di delicati
nudi artistici, come ha dimostrato nel bel Ritratto della moglie
Franca, (1953).
Attraverso l’uso soggettivo del colore, ma soprattutto
grazie a un segno rapido e nervoso, Willy Varlin riuscì a cogliere,
nell’aggressività deformante della sua visione, il significato stesso
dell’esistenza spingendosi, in molti dei suoi capolavori, fino alla
dissolvenza del colore e dell’immagine, giungendo così all’intima
dignità di ogni essere umano. Uno fra gli incontri decisivi nella
storia artistica di Varlin fu appunto quello con Testori, suo grande
estimatore. Fra i due s’instaurò un forte sodalizio che portò
all’imponente mostra milanese del 1976. Non sentendosi ancora pronto,
l’artista posticipò più volte la data dell’esposizione, ma pur essendo
malato iniziò a dipingere con reiterata passione delle tele sempre più
imponenti, raffigurandovi gli oggetti quotidiani più umili,
glorificandoli nella loro sofferta, misera, ma umanissima storia.
Stesso discorso per i ritratti dove il personaggio, sia pur trafitto
dalla sardonica ironia dell’artista, trionfa nell’esplosione della sua
carica vitale.
L’anno successivo Varlin morì nella sua casa di Bondo,
in Val Bregaglia. Rimane per fortuna di lui uno straordinario
documentario della televisione elvetica, che lo ritrae in pieno
inverno, mentre appende i suoi dipinti ad asciugare sui rami degli
alberi che circondano la sua abitazione. L’artista era talmente
assuefatto alla propria ironia che Dürenmatt si ricordava ancora di
quando, il giorno successivo alla scomparsa dell’artista, passò “ […]
da solo per il paese. L’entrata del cimitero era sbarrata. Andai
all’atelier; anche qui non fu possibile entrare. Sulla porta era
affisso un biglietto con la calligrafia di Varlin: ‛Chiuso per ferie’.”
Nel catalogo - pubblicato da Silvana editoriale - in
aggiunta al testo di Flavio Arensi, sono riportati i saggi critici di
Stefano Crespi, Giovanni Testori, Roberto Tassi e Vittorio Sgarbi.