VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

IL MISTERO DEL DESTINO


Golaud: «Ebbene, ecco l'acqua stagnante di cui vi
parlavo. Sentite l'odore di morte che sale?...
Vedete il gorgo, Pelléas?... Pelléas?»
(Pelléas et Mélisande, atto III, scena 2)

C'è il mistero e c'è il segreto. La cosa segreta, come l'enigma della sfinge, non è niente di più che un indovinello, la cui problematica è dovuta esclusivamente a termini contorti: tipico è il labirinto di gusto barocco. Nella forma negativa dell'arcano, essa designa semplicemente ciò che è precluso ai profani e riservato ai soli iniziati, ciò che bisogna tacere ma che già è conosciuto da alcuni privilegiati. Il segno distintivo del segreto non è dunque l'inconoscibilità, ma il rifiuto di divulgare, principio, questo, delle società chiuse e dell'egoismo esoterico. Tale è la cifra o la parola d'ordine che i chierici tengono artificiosamente segreta, e che è soppiatteria, non mistero, reticenza, non silenzio. Fattizio, convenzionale e arbitrario, il segreto si costruisce: è il settario che lo nasconde, non la natura.
Tra segreto e mistero c'è la stessa distanza che separa il simbolo grammaticale dal simbolo pneumatico: il primo è mistero verbale o spiritico; il secondo è mistero essenziale; l'uno è rituale, segno di riconoscimento o enigma egiziano, l'altro è mistero, in un senso non più letterale, bensì spirituale. E mentre il segreto isola, essendo segreto di un singolo con un altro singolo - o di un clan con un altro clan, di un «miste» con un altro «miste» - il mistero, segreto in sé, cioè universalmente, eternamente e naturalmente misterioso, è un principio di fraterna simpatia e di comune umiltà, dato che, benché per tutti inconoscibile, non è un tabù né un oggetto di divieto. Ma, ahimè, vivendo in una situazione di inimicizia, obbedendo meno all'amore per il vero - che è bisogno di comprendere - piuttosto che alla indiscreta smania di sapere, gli uomini trattano i misteri come se fossero segreti: per esempio, essi vorrebbero che l'athanasia fosse un segreto, mentre la morte è un mistero; credono che ci siano delle ricette per farsi amare, mentre lo charme è un dono immeritato e una grazia inesplicabile; cercano in ogni problema il segreto di fabbricazione, in senso tecnico, la chiave che aprirà la serratura, il «trucco» che carpirà ai cerchi il segreto della loro quadratura, la pietra filosofale che trasformerà il piombo in oro. E mentre la scienza non manca di rispetto filosofico per il mistero, lo scientismo è invece l'indiscrezione filosofale che prende per segreto il mistero costitutivo e nucleare dell'esistenza. La longevità ha il suo segreto, come la bomba atomica ha la sua formula o la cassaforte la sua combinazione; ma l'immortalità è un mistero, essendo la morte l'elemento problematico di ogni problema ... Qui non è più sufficiente sciogliere nodi ingarbugliati, né chiarire i malintesi o risolvere le sciarade: la morte non è la x provvisoriamente sconosciuta, cioè sconosciuta allo stato attuale dei nostri mezzi e dei nostri algoritmi, ma essa è l'inconoscibile in quanto è l'impossibile a conoscersi. Accomodamento complesso, combinazione nuova di elementi noti, il segreto è, al pari di un geroglifico, essenzialmente decifrabile; ma il mistero, cosa semplice, non può essere svelato. Il mistero è un segreto metaempirico. L'arguto enigma che mette alla prova la nostra sagacia e stuzzica la nostra curiosità, l'enigma eccitante ed euristico non è fatto perché lo si rispetti, ma, al contrario, perché lo si profani. Il mistero, invece, ci induce alla genuflessione. Esso non è più, come il segreto, una «cosa», una res, ma una atmosfera del nostro destino e, letteralmente, un sacramento.
Il mistero è lo specifico della musica. A Maurice Ravel piacevano le equazioni complicate, i rebus e i bizzarri problemi di contrappunto, che sono cose segrete; ma nessun musicista è andato più a fondo di Claude-Achille nella suggestione e nella trascrizione delle cose misteriose. L'inesprimibile che Debussy esprime assomiglia a quell'insolubile che, come dicevamo, è fatto per essere venerato, non per essere risolto... Cosa c'è di meno labirintico della nuda, arida semplicità dell'Étude pour les cinq doigts, delle Tierces alternées o del Doctor Gradus ad Parnassum? Mentre ogni segreto si copre obbligatoriamente di complicazioni profonde, Debussy è esplicito, poiché i suoi misteri sono evidenti! Debussy è misterioso, ma chiaro. Il limpido, che si riassume nella morte, non è il mistero per eccellenza? Questa musica, a dire il vero, è passata solo gradualmente dal segreto al mistero. Non essendo l'ermetismo il suo forte, Debussy certo non è mai stato né prezioso né licofronico [Aggettivo coniato da Jankélévitch, che sta per «oscuro», «complicato». Derivato da Licofrone: poeta drammatico di Calcide nell'Eubea, vissuto intorno al 270 a.C., cui si devono numerosi drammi di forma difficile e complicata, tanto da essere soprannominato «l'oscuro»]. Tuttavia la sua misteriologia all'inizio si alimenta nella Parigi occultista e rosacroce degli anni ottanta, in quella Parigi dello Chat Noir e del sâr Péladan, in cui il misticismo assume talora la forma della mistificazione. Sono solo Gymnopédies, Gnossiennes, Sites auriculaires, Debussy si è inebriato di questo eleusinismo fine-secolo, ma né più né meno di Ravel o Satie. I pretesti mallarmeani, preraffaelliti e cabalistici della sua giovinezza si sono espressi in scenari di iris e, da questi, nella Damoiselle élue. La Damoiselle élue è una Mélisande un po' compassata, come Khamma è un San Sebastiano un po' scolastico; lei, la mistica fanciulla, si porta un dito sulle labbra come per dirci: «Silenzio! non lo ripetete ...»; però non pensa a niente: è più enigmatica che veramente misteriosa, e il segreto di cui è foriera è un messaggio ancora vuoto e formale, senza contenuto. «I suoi occhi erano più profondi dell'abisso delle calme acque la sera»: certo, ma sopra questi occhi la fronte glabra è ancora alquanto inespressiva. Invisibili ali angeliche tremolano sugli archetti dell'orchestra, mentre le voci intonano a mo' di salmo l'ermetica melopea: ma in tutto questo atteggiamento serafico si ravvisa meno l'istintiva propensione al mistero che il gusto per la stranezza. La bizzarria di Pagodes, l'egiziana delle Epigraphes, i preziosismi di Placet futile si collocano sicuramente sulla stessa linea. «Prenez pitié des coeurs, vous la Vierge or sur argent», scriverà più tardi Debussy sotto le ultime battute delle Proses lyriques [De Soir, p. 29. Nell'impossibilità di reperire le fonti e le edizioni degli spartiti musicali di cui l'autore si avvale per le citazioni, i riferimenti sono stati lasciati nella forma originale - N.d.C.-]: oro su argento... proprio come nei cieli ieratici dell'Angelico. Ma il Dio a cui Arkel tende (si rammenti: «Se fossi Dio avrei pietà del cuore degli uomini») [Pelléas et Mélisande, atto 1V, scena 2 (p. 219 dello spartito per canto e piano)] non è certo oro su argento e il suo cielo non è inespressivo. Così come il Saint Sébastien, dove c'è un paradiso tutto bianco e schiere di arcangeli, è pervaso dal palpito del dolore umano.

IL MISTERO DEL DESTINO

Lo spazio che separa il Pelléas dalla Damoiselle, Maeterlinck da Rossetti, misura tutta la distanza che sussiste tra il mistero occulto e il mistero limpido, tra l'arcano di Pulcinella e il mistero destinale dell'esistenza. Debussy sente in modo misterioso anche laddove non c'è alcun mistero: egli prova qualcosa di misterioso in ogni evidenza (ciò che è proprio di ogni poesia). Anche il coprifuoco militare della Boîte à joujoux [P. 31. Cfr. p. 25 e la fine, p. 48 dello spartito per piano. Cfr. Khamma, per piano solo, p. 25. La Damoiselle élue, p. 23. Cfr. A. Magnard, Rambouillet (Promenades)] è in un certo senso misterioso; così come la Brabançonne della Berceuse héroïque risuona in una maniera poetica; ancora poeticamente una Marsigliese, che sembra provenire da un altro mondo, fa eco laggiù all'altro capo dei Préludes... Anche l'affascinante Pezzo per clarinetto in Sol maggiore si conforma in maniera tale da essere un po' misterioso; i bassi in pianissimo dell'innocua Ballade del 1890, i pianissimi nel registro acuto di Hommage a Haydn, la fine del Passepied della Suite bergamasque, l'improvviso Fa diesis maggiore di Lindaraja hanno anch'essi il loro pizzico di mistero. Debussy possiede innato il sensorio extra-lucido grazie al quale l'alone di irrazionale, che circonda la presenza della persona e l'esistenza delle cose fisiche, gli diviene percettibile.

1. MISTERI D'ANGOSCIA

L'uomo passa «attraverso foreste di simboli», cioè tra cose che sono ciascuna al di là di se stessa e che non sono tutto ciò che significano; tutto ciò che è destinato a perire è allegoria, allusione, geroglifico. C'è un'infinità di cose che noi non conosciamo e che solo la musica può esprimere poiché, non avendo l'obbligo di optare, come la logica, tra incompossibili e contraddittori impenetrabili, sa tradurre i presentimenti evasivi e condurre parallelamente, grazie alla polifonia, diverse linee indipendenti di discorso; l'evento viene da essa preconizzato nei suoi più imponderabili prodromi e nei suoi segni precursori, anche i più impercettibili. Al di là di ogni minuziosa delimitazione di luoghi nello spazio, ecco il linguaggio trans-discorsivo dell'onnipresenza, che può anche esser detta universale co-presenza. Ma nessuna musica è stata tanto coestensiva a tale simultaneità universale e multiforme dell'esistenza quanto quella del Pelléas; nessun'altra musica ha avuto la capacità di cogliere al volo un'inafferrabile corrispondenza, di intercettare dei messaggi tele-patici o sim-patici, di sorprendere nell'etere la comunicazione degli animi, di suggerire infine la sensazione equivoca di ciò che è ad un tempo qui e là, vicino e lontano, essere e non-essere. Si tratta di impercettibili sussulti della melodia, i quali, ancor meno che veri e propri «temi», sono piuttosto reminiscenze ellittiche, fuggitive come il pensiero, leggere come il respiro di una fanciulla: è la brezza divina che soffia tra le anime, recapitando dall'una all'altra telegrammi d'amore e di morte.
Il «tema» di Golaud, spesso ridotto a una semplice figura ritmica nel registro grave, talora persino a una sola nota ripetuta più volte, quel tema, con la sua caratteristica terzina e la sua croma puntata, evocatrice di galoppate in lontananza, si presta in maniera peculiare a queste suggestioni allusive e ambigue. Ovunque appaia, è portatore d'angoscia [In particolare: pp. 137, 205, 238, 261-263 e, nella prima ediz. (E. Fromont, 1902), p. 169 (fine del terzo atto: passaggio soppresso nell'ediz. definitiva)]: poiché, fra tutti, il mistero d'angoscia è il primo (1). Esso significa contemporaneamente presenza dell'assenza e assenza della presenza, esistenza inesistente e inesistenza dell'esistente, presenza invisibile di chi non c'è. Quei lontani staccati evocano genericamente non so quali cavalcate del cavaliere maledetto nella fitta foresta batava; e dall'attimo in cui una loro semplice reminiscenza sfiora i bassi dell'orchestra, un inesplicabile e immotivato malessere ci pervade. Alla fine del quarto atto gli amanti odono dei passi furtivi, non «sulla neve» come nel sesto Preludio, ma sul muschio e sulle zolle erbose del grande parco oscuro. Riascolteremo questi passi minacciosi nel mistero di quella pausa che interrompe per un momento l'impetuoso Étude pour les accords, o anche in quella sorta di Pelléas in pupazzetti che è la Boîte à joujoux, il cui Golaud sarebbe Pulcinella. «C'è qualcuno dietro di noi» [Pelléas, atto IV, p. 259. Cfr. anche pp. 193, 196 («io sento parlare dietro questa porta»). Pour les accords (Etudes, II, n. 12), p. 29. Boîte à joujoux, p. 32 (vedi p. 40 e Pelléas, atto IV)]: la presenza assente si aggira e vaga dietro gli alberi e fa scricchiolare nelle tenebre le foglie morte. Gabriel Dupont, nell'Antar, si è ricordato dell'invisibile e minaccioso Golaud del quarto atto, ma senza tuttavia imporne il mistero alla nostra ansietà con tale forza ossessiva. La medesima strana clandestinità, la medesima sensazione di solitudine abitata avvolgono il passaggio del pastore invisibile, il quadro così musorgskijano dei tre poveri addormentati e, alla fine del primo atto, la partenza del vascello fantasma che condusse Mélisande.Attorno a quest'ultima, la sconosciuta Mélisande, principessa lontana, presenza assente, la musica crea come un'aura di mistero che la sottrae alla nostra percezione e ne smorza i tratti: «io ti vedevo altrove» [Pelléas, atto IV, p. 254].

Ma succede anche che l'angoscia si eleva a tal punto da divenire panico; la penosa scena del terzo atto ce ne descrive l'inquietante progressione; non si sa ancora e non si saprà mai ciò che essi hanno visto: in Golaud la gelosia cresce come una marea fino alle due vertigini simmetriche che concludono gli atti terzo e quarto; il terrore del piccolo Yniold ha una corrispondenza con la concitata fuga di Mélisande nella notte; in entrambi i casi la tempesta del delirio inarca le note in un ansimante inseguimento, simile a quella che, nelle ultime tele di Van Gogh, sconvolge le nubi, i campi di grano e l'intera campagna. «Ah! non ho coraggio!»: così si infervora perdutamente la perorazione della Rhapsodie per clarinetto, quando il tema dello scherzo, piegandosi all'agitazione di un vertiginoso accelerando, s'impunta e affretta furiosamente il suo ritmo da galoppo. Anche Fedra, che riunisce in sé la gelosia di Golaud e il panico di Mélisande, esclama: «Fuggiamo nella notte infernale...». Nel quarto atto la crescita d'angoscia ha inizio con gli inquietanti intervalli di seconda [Pelléas, atto IV, p. 255. Per queste seconde, cfr. M. Musorgskij, Dietskaia («La camera dei bambini»), I: Avec Niania], che annunciano, in lontananza, la chiusura delle porte, dopodiché si insinuano subdolamente al di sotto delle voci. Ma ormai soffia il vento del panico su Golaud, allorché egli trascina Mélisande per i capelli, in una scena shakespeariana dove le selvagge terzine e le note ribattute in pizzicato frastornano il gran crescendo d'angoscia. La medesima insistenza furiosa, concitata e incalzante, si scatenerà similmente nella coda finale dell'Etude pour les tierces, come in quel mormorando carico di minacce che presagisce tale esplosione di violenza e lo scoppio del pianissimo in fortissimo. Anche l'Étude pour les cinq doigts e il Noel des enfants qui n'ont plus de maison sembrano andare in collera: si tratta di improvvisi scoppi di rabbia, bruschi atteggiamenti vendicativi che lasciano a nudo il tragico del destino [Pour les tierces (Etudes I, n. 2), pp. 7, 10. Noel des enfants qui n'ont plus de maison, pp. 4-5. Da paragonare agli impauriti passaggi di Khamma, p. 10 e agli strani accordi del Martyre de saint Sébastien, p. 52 dello spartito per piano]. Le altere ed eroiche cavalcate subiscono qui una disfatta miserabile e un incredibile sbaragliamento: Mélisande fugge con una folle corsa, inseguita dalle Erinni del suo destino.

2. MISTERI DI VOLUTTÀ

I misteri di voluttà non sono meno perturbanti dei misteri d'angoscia; essi riempiono di sensualità il terzo atto e d'amore il quarto. Nel corso del terzo atto si dipana, come una corrente elettrica, la Capigliatura, la traboccante capigliatura, con le sue scintille, le sue pagliuzze d'oro e i suoi riflessi sericei.

Ta chevelure est une rivière tiède
Où noyer sans frisson l'àme qui nous obsède
Et trouver ce Néant que tu ne connais pas [S. Mallarmé, Tristesse d'été].

Bilitis, Mélisande dai capelli d'oro e la Fanciulla dai capelli di lino riassumono l'Eterno femminino nel simbolo della sciolta capigliatura, espansione, come dice Camille Soula, della vitalità sessuale della donna. Già la seconda Chanson de Bilitis, che è come una prefigurazione del terzo atto, disvela questo mistero della femminilità, profondo e attraente come il mare. Il fascino si prolunga fino al quarto atto nella meravigliosa carezza delle quinte che, in Mi maggiore, accompagnano il canto di Arkel. Ma forse l'afrodisiaco Eros e l'uranica Afrodite non rappresentano che un unico e identico amore; forse i misteri del corpo e quelli dell'anima non sono che un solo e unico mistero; forse non c'è che un solo Eros, di volta in volta puro o triviale. È probabilmente ciò che ci comunica il sublime dialogo d'amore del quarto atto. Nel silenzio dell'orchestra e nell'oscurità della notte, la voce, balbettando, sussurra, quasi fosse un messaggio dall'al-di-là, quelle due parole così antiche e così nuove, quelle parole semplici e misteriose che nessun uomo può udire senza esserne turbato: «Ti amo - ti amo anch'io». Perché pronunciano così a bassa voce le parole del gran mistero di Pulcinella, le parole sovrannaturali e immemorabili della sempre rinnovata banalità? E quando l'orchestra propone alle voci il sostegno dei bassi, esso permane in regioni talmente profonde e lontane dal canto che questo sembra sospeso tra cielo e terra... L'amore, come la stessa angoscia, si esalta poi fino all'amore panico lungo un irresistibile crescendo che culmina in Si maggiore nel grande e appassionato fortissimo del tema d'amore; ed è questo stesso tema che, inebriato dal pericolo, raggiungerà altezze tali da divenire tema di vertigine, tema d'angoscia voluttuosa.

3. MISTERI DI MORTE

La voluttà, bramando, lancia un richiamo e infligge poi il colpo di spada nella notte; infatti dove c'è l'amore c'è anche la morte. A partire da un certo livello di incandescenza, ciò che è delizioso diventa mortale; e nella musica di Debussy la voluttà è talora così intensa da far male. Il mistero della morte è la chiave dei misteri di voluttà e dei misteri d'angoscia: la mortale sensualità del terzo atto e il mortale spirito erotico del quarto acquistano tutto il loro senso nel quinto atto, che è una «rivelazione di morte»: una thanatofania. In tutta la letteratura musicale troviamo solo i Chants et danses de la mort di Modest Petrovic e forse qualche battuta delle Heures dolentes [La mort rode (Heures dolentes, 1905, XI)] di Gabriel Dupont che riescono a sostenere il confronto con questo quinto atto. «È giunta l'ora dell'estasi» annuncia quella inebriante Sérénade di Musorgskij, in cui la notte, la morte e l'amore si mescolano per formare la pozione di morte in primavera, l'acquavite della morte. La bellezza di Mélisande è una bellezza mortale: è la morte che le conferisce quell'aria strana e lontana propria degli esseri destinati a perire precocemente; l'angelo della morte vaga tra gli accordi dolci e glaciali dell'inizio del quinto atto e già, con la sua ala, sfiora Pelléas. «Cum mortuis in lingua mortua» [M. Musorgskij, Quadri di un'esposizione, VIII]. Ecco la presenza assente, il mistero domestico della morte d'amore, un mistero così familiare che, non appena bussa alla porta ed entra nella camera del malato, tutti lo riconoscono subito: ciascuno ha compreso all'istante ciò che non ha bisogno di spiegazioni e che è la faccenda personale di ogni uomo. Morte improvvisa di Pelléas e agonia progressiva di Mélisande, nex del quarto atto ed eutanasia del quinto: si ha qui il presentimento e la rivelazione di tutte le morti.
È che, va detto, tutti i misteri sono differenti forme del mistero mortale; questo risulta essere così il mistero per eccellenza o il mistero dei misteri, ciò che in ogni problema c'è di problematico; e a sua volta il dolore, in virtù della morte e dell'elemento thanatologico che intimamente lo pervade, è essenzialmente misterioso. In verità Debussy ha esordito dicendo, come Baudelaire: «sii saggio, o mio dolore!» [Cinq Poèmes de Baudelaire, IV: Recueillement]. Ma già in quegli anni giovanili Les Angelus oppongono ai gioiosi suoni da carillon di un Séverac i lamentosi mattutini del loro scoraggiamento. Persino all'indomani del trionfo dell'Après-midi d'un faune, egli si sente, come Mélisande, felice ma triste. «Questa afflizione è senza ragione!». «La mia anima, scrive in De Fleurs, muore di troppo sole»; e in una lettera a Pierre Louys, citata da P. Landormy: «... Mi sento solo e sconfortato. Nulla è mutato nel cielo oscuro che costituisce il fondo della mia vita». Soprattutto nel Martyre de saint Sébastien [Pp. 54-55, 73-86], un amaro dolore riempie lo straziante inno funebre delle prefiche di Biblo, così come la deplorazione senza fine che fa gemere «l'alloro ferito»: «io soffro e sanguino», dice il bell'Adone suppliziato, triste, come Gesù, «usque ad mortem». Ma, al contrario del «disperato» del Christus che, in Liszt, sceglie per esprimersi la curva tortuosa, barocca, un po' berniniana del cromatismo, che evoca quasi necessariamente la «consolazione», la disperazione debussyana ha qualcosa di statico e di inconsolabile. Si dirà che in tutto questo pessimismo c'era una buona parte di neuroastenia letteraria, il cui pathos melanconico si riscontra in Duparc e Chausson non meno che in Jules Laforgue e in tutti i lettori di Schopenhauer: ciò al limite è vero per il giovane Debussy. Ma se la «serenata» della Sonata per violoncello si diverte a canzonare, se l'interludio della Sonata per flauto, viola e arpa si rattrista misteriosamente e se l'intermezzo della Sonata per violino stride e raschia, se En blanc et noir ha per Andante una specie di marcia funebre e se lo stesso Arlecchino della Boîte a joujoux [P. 8; cfr. l'inizio della II parte, p. 25, tanto velato di mistero] sembra talora corrosivo, lo spleen di fine-secolo non c'entra niente: le «serres chaudes» della noia [De Fleurs (dalle Proses lyriques). Cfr. Serres chaudes di E. Chausson, su poesie di Maeterlinck] piene di languidi profumi, di iris viola e di petali neri, non spiegherebbero la crudele precisione dei pizzicati. E la sofferenza pura, la sofferenza gravida di morte, la sofferenza senza nome che, come i denti di una sega, frantuma la scrittura e fa raschiare i violini dell'angoscia.

4. PELLÉAS E PENELOPE

«L'Ade funesto porta via tutto ciò che è bello», lamentano le donne di Biblo. Questa doppia morte, di cui tutto il Pelléas et Mélisande è la profezia, Debussy l'ha sopportata in prima persona come la legge immanente della sua breve esistenza. Infatti il mistero della morte in definitiva non è altro che il mistero del destino, di quel destino che Claude Debussy ha sperimentato come oscuro, opaco, irrazionale: il destino, qui, non bussa alla porta, ma, come nel quarto atto, la chiude piuttosto con il catenaccio. La condizione dell'uomo è sigillata. La pesante ricaduta delle catene e, nel registro grave, la percussione delle seconde dissonanti, precedute dai loro mordenti, non esprimono quel qualcosa di murato, fatale e irrevocabile che è proprio del destino? Il tempo debussyano non è aperto sull'avvenire e sulla speranza, ma esala piuttosto lo charme inesprimibile delle stagioni trascorse o, come diceva Recueillement, il «sorridente rimpianto» degli anni sfioriti; è ciò che ben più tardi, un anno prima della Ballade de Villon à s'amye, scorgeremo nello straziante e glaciale Preludio intitolato Des pas stir la neige: da dove vengono questi passi? Dove vanno? L'uomo, uscito dall'ignoto, torna al mistero e cammina senza meta nella neve; amari rimpianti avvolgono come un sudario il paesaggio dell'abbandono, dell'isolamento e della desolazione. Accanto a questa steppa «solitaria e ghiacciata», accanto a questa sorta di, trattato della disperazione, anche The snow is dancing [Children's corner, IV. Paragonatelo con Le temps de la neige di D. de Séverac e con Neige di G. Dupont (Poèrnes d'automne, V)], con tutta la sua implacabile dolcezza, sembra ancora melodico. Nell'interminabile noia della pianura, una traccia anonima attesta la miseria degli uomini. Questa disgregazione del tempo acquista un'altra forma nel Colloque sentimental [Da paragonare con la versione di Ch. Bordes], che esprime piuttosto l'inebriante nostalgia del passato e delle cose trascorse... Ma in questi due casi il destino è qualcosa di conchiuso e su ogni esistenza veglia una pesante fatalità: gli amanti sentono nella notte il suo passo furtivo e il suo respiro.
Debussy e Fauré rappresentano a questo riguardo i due aspetti eterni dell'uomo: da un lato troviamo una lunga vita, stretta, rettilinea, laboriosa, che termina con la speranza sovrannaturale del Requiem, l'immortalità della Chanson d'Ève e la serena eutanasia del tredicesimo Notturno; dall'altro una vita breve, voluttuosa, sballottata tra il godimento e la sofferenza, troncata alla fine da un male senza rimedio, paragonabile quasi al tragico muro contro il quale venne a scontrarsi, a quarantatré anni, il destino di Chausson. È la serenata interrotta. Si può dire che questi due grandi geni, per i loro particolari destini, si siano essi stessi scritti i propri epitaffi: Gabriel Fauré l'Inscription sur le sable, tutta pervasa da una olimpica saggezza [Cfr. Au cimitière. Si pensi qui al Coin de cimitière au printemps di D. de Séverac], e Claude Debussy l'«Epigraphe antique» Pour un tombeau sans nom, che è puro dolore, concentrato di dolore, lutto inconsolabile, miserando inno funebre abbandonato accanto ad una anonima sepoltura.
Non meno ampia è la distanza tra l'escatologia faureana e quella debussyana: per quest'ultima il dolore non superato, non redento, non addomesticato, l'indomabile dolore richiama come correlato sia l'eternità glaciale sia il non-essere. Al Paradiso del San Sebastiano, dove tutto è bianco, persino il sangue dei martiri e l'alleluia degli arcangeli, a questo paradiso boreale e quasi pietrificato con i suoi icebergs di luce, l'«In Paradisum» finale del Requiem, che è un notturno e una berceuse della morte, oppone l'aerea mobilità della sua immortalità, la quiete della sua Gerusalemme mistica; e parimenti al Pelléas debussyano, che finisce per annullarsi nel silenzio, la conclusione del Pelléas faureano oppone una sorta di marcia funebre che la Chanson d'Ève [I. Paradis, IX. Crépuscule (testo di van Lerberghe). Cfr. il Melisande's song, da Maeterlinck, III, 1], in modo del tutto naturale, trasfigura in tema paradisiaco di beatitudine e di equanimità. Eva non è forse una Mélisande che ha raggiunto la quiete? Voci d'arie e di acque, cosa che soffia e cosa che vola... Quanti fruscii di foglie e fremiti d'ali, quanti canti d'ucceffi e garrule sorgenti nei giardini azzurri dell'Eden faureano! L'opera feconda di Fauré è interamente in accordo con i ritmi maestosi della longevità, e l'aldilà, che ne è il futuro, non si presenta come un nulla, ma come un cominciamento. A sessantacinque anni, nella Chanson d'Ève, Fauré riacquista uno spirito da primo mattino del mondo e in qualche modo ritrova nei «prima verba» tutta la casta giovinezza del Paradiso; a settantacinque anni, nell'Horizon chimérique, egli sogna folli crociere e luoghi favolosi. In Debussy non c'è areazione della vita tramite la speranza, ma piuttosto condensazione, intensificazione e accelerazione di tutti i ritmi dovute al pericolo della morte. Facciamo ancora un confronto tra i due «opus ultimum», il quartetto d'archi di Fauré e la sonata per violino di Debussy: il primo, così semplice e tranquillo, termina con uno scherzo, quasi una burla; l'altra, invece, arde dello stesso fuoco che infiamma la Sonata in Si bemolle minore di Chopin: attraverso queste pagine corte, frettolose, ispirate, incandescenti e così imperiosamente geniali, si può intravedere l'angelo della morte che travolge le note e fa precipitare i passaggi virtuosistici in una sorta di ansia febbrile. Infatti il tempo incalza. Certo Debussy, come Fauré, evolve dalla compiacenza all'austerità: ma quale abisso separa l'austerità crudele dei dodici Etudes dall'austerità raggiante e placata del Jardin dos! L'opposizione del Do maggiore finale di Pénélope, che ha la calma nudità di un cantico, al Do diesis maggiore finale del Pelléas, con la sua luce morente, è come un riassunto di queste antitesi: dove Pelléas separa Pénélope riavvicina. Pénélope racconta un ritorno: come nei racconti a lieto fine, gli amanti si ritroveranno; così questo dramma dei ritrovamenti è polarizzato dalla gioiosa esclamazione di Ulisse nel terzo atto: «D'ora in poi vivremo!» Gli dei non ricongiungono infine quelli che si son cercati con tutto il loro animo? Il dramma medesimo è dunque una prefazione alla felicità, la quale non ha mai storia. Infatti Pénélope è la soluzione di un problema; al contrario Pelléas esclama: «Vattene! Separiamoci» [Pelléas, atto IV, pp. 195-196. Cfr. Coeur du moulin, pp. 58-59 («adieu»); e I. Albéniz, Pepita Jimenez, atto II. Bérénice, IV, 5: «Pour jamais!». G. Mahler, Der Abschied (Das lied von der Erde, VI)], come dicono Berenice e Tito: bisogna separarci... «Sto per fuggire, parto domani», minaccia ogni giorno l'amante lontano... E Mélisande gli risponde: «Perché dici sempre che te ne vai?» [Pelléas, atto I, alla fine: «Oh! perché partite?». Atto III, scena 1. Atto IV, scena 4].Partire, sempre partire! Non fa che parlare di partenze, l'amante lontano... Probabilmente egli è partito prima d'essere arrivato, probabilmente non è mai stato presente; bisogna crederlo: l'amante lontano è già partito fin dal primo incontro. Pelléas rappresenta l'ostacolo, l'insolubile impasse, ossia la situazione lacerata e contraddittoria che si può sciogliere solo con la morte: la quale, appunto, non è una soluzione ma un'assurdità.
La necessità d'amare e l'impossibilità d'amare si smentiscono reciprocamente: ecco tutta la negatività del tragico! «Io muoio di non morire», dice Santa Teresa. Pelléas, come il Coeur du moulin di Déodat de Séverac, è dunque la sonata degli addii e dell'assenza: la sonata degli addii amputata del suo allegro ritorno, la sonata della disperazione e della caccia all'uomo. Pelléas significa il destino chiuso, sigillato, centrifugo; significa lo scacco e il conflitto senza sbocco. E sotto questo aspetto Debussy sembra più raciniano di Fauré: infatti come Bérénice, tragedia stagnante, si oppone alla commedia di Molière, che è scioglimento di quiproquo, sbrogliamento di imbrogli e soluzione di malintesi, così l'immobile Pelléas si oppone alla mobile Pénélope. Pénélope non conosce né la morte dell'innocente né il tragico colpo di spada nella notte, ma solamente la gioiosa strage, che è punizione dei colpevoli e trionfo della giustizia, in modo che l'evidenza e la ragione riacquistano i loro diritti.
Confesso che c'è, alla fine del primo atto, un Ulisse pazzo d'amore, il cui furore dionisiaco farebbe impallidire il duetto d'amore del quarto atto debussyano: ma non dimentichiamo che quest'amante è uno sposo, uno sposo a casa propria, e che il delirio è qui al servizio del diritto. Quanto alla notte, in Pénélope c'è solo la notte intelligente e trasparente del secondo atto, la notte in cui si tramano le astuzie e che precede l'alba radiosa della riparazione; la notte chiara avvolge nel suo manto d'azzurro i benefici stratagemmi e i sotterfugi d'amore; essa asseconda i disegni dei servitori complici e dei pastori cospiratori che ordiscono l'ingegnosa macchinazione, poiché persino la frode è al servizio del buon senso. Philippe Fauré lo indica con grande penetrazione: Penelope ha fiducia nel ritorno di Ulisse; Ulisse ha fiducia che riuscirà a tendere l'arco; e le loro due certezze congiunte esprimono il fatto che l'avvenire è qualcosa di sicuro. Nel Pelléas non ci sono intrighi, dispute e complotti produttivi; c'è solamente l'ingiusta fatalità e la collisione incomprensibile e stazionaria di due destini che si affrontano, si allacciano e dialogano in molteplici contrappunti. «Noi non siamo stati colpevoli», rivela il quinto atto, poiché in effetti nulla è successo e nessuna colpa è stata commessa. Suprema derisione del destino! Questo amore illegale, ma non illegittimo, non fu neanche usurpatore; e il fatto che non venga consumato non costituisce l'ironia minore di un adulterio decisamente bloccato... In Pénélope tutto si impernia attorno all'asse della fedeltà e dell'amorevole attesa, e, nei suoi stessi sotterfugi, lo sposo è attirato verso questo centro magnetico. Il dualismo tra Pelléas e Mélisande invece non si risolverà in unità. L'amore sincero non troverà la sua ricompensa. Che cosa si aspetterebbe allora questa Mélisande felice ma triste, la quale non può essere fedele che ai margini del suo dovere? I due destini dunque si respingeranno eternamente, in virtù di un antagonismo dovuto alla sconnessione della condizione creaturale... «L'inverno è finito?».

La saison est belle et ma part est bonne
Et tous les espoirs ont enfin leur tour...

Ahimè! Il musicista dei Pas sur la neige non ha cantato insieme a Gabriel Fauré la Bonne chanson della speranza, dell'aurora e della gioia. «Ahimè...» non è l'ultima parola di Bérénice?
L'opposizione si prolunga fino al contrasto tra le due stesse amanti. Mélisande è un soffio, un'ombra, l'ombra di un'ombra, ancor meno che una silfide: Mélisande è quasi inesistente. Al contrario, Penelope è una donna di polso, sa ciò che vuole e, forte dei suoi diritti, tiene testa alla muta dei pretendenti. Penelope è la sposa, nel senso che, se Mélisande è raciniana per l'illegalità morale della sua situazione, Penelope non lo è meno per il suo carattere intrepido e la sua solida personalità; Penelope è una Andromaca il cui sposo ritornerà. Le minacce non intimoriscono questa donna coraggiosa e scaltra, il cui spirito inventivo supera quello della vergine Ariane di Paul Dukas. Non è possibile impaurire colei che sa essere, quando occorre, diplomatica o menzognera... Che contrasto tra questa eroina arguta, questa ingegnosa Sophia, degna sposa dell'arguto Ulisse, e la disarmata e indifesa Mélisande! Costei, appagata ma senza speranza, «felice ma triste»; colei infelice ma gioiosa, privata di tutto tranne che della speranza... C'è di più: Penelope rappresenta l'immutabile costanza e la fiducia inalterabile - fiducia sentita quanto ispirata. Su Mélisande invece non si può fare assegnamento: ella ha tradito Golaud, se non alla lettera, almeno nello spirito; si trova quindi nello stato di adulterio pneumatico. Ha inoltre amato veramente Pelléas? Il quinto atto fa aleggiare un dubbio a questo proposito. Laddove Penelope incarna l'attaccamento coniugale e tutte le virtù dell'amorevole perpetuità (la gratitudine, la stabilità, la fedeltà alla parola data e, infine, la serietà), l'instabile e puerile Mélisande è un fantasma che si è invaghito e disinvaghito. E quando Golaud, dopo il dramma, le chiede perdono, «Sì, sì, ti perdono... che c'è da perdonare?» è tutto ciò che riesce a dire questa fragile e smemorata creatura, questa giovane Violaine [È il nome della protagonista del dramma di P. Claudel, La jeune fille Violaine: simbolo di purezza e sacrificio. Il dramma, rimaneggiato e con il titolo mutato in L'Annonce faite à Marie, fu rappresentato nel 1899 (N.d. C.)] che non si è neanche sacrificata... «Egli è ancora in collera?» chiedeva la lebbrosa sul punto di morte. Mélisande non è solamente incosciente, ella è irreale, o, come dicevamo, Mélisande non è mai esistita.
L'impostura dell'ingannevole forza sgonfiata da quella vera, questo è il senso della prova di forza grazie a cui Ulisse si fa riconoscere, poiché questo servitore della legge è, come Ercole, un atleta. Ma la violenza di Golaud non è che un atroce errore: qui i muscoli non sono più una giusta forza, bensì un principio di irreparabile accecamento. Le leggi non scritte non si accordano più con quelle scritte per appoggiare lo sposo; l'ottimismo cede a un complicato pessimismo. «Dove sei, piccola stella, ahimè! dove sei, stella splendente?» si interroga Musorgskij in una stupenda elegia ben degna dell'Epitaffio ispiratogli dalla morte di Nadiejda Opotêinina. Non ci sono più stelle. «Sconfitta, la speranza è svanita nel cielo buio». L'assurda morte riveste l'innocente fin dall'inizio e, mentre Pénélope si innalza per terminare su una gloriosa nuvola d'oro e su un punto coronato degno di una apoteosi («in Paradisium deducant te angeli!»), Mélisande, morendo di una morte immeritata, si spegne a poco a poco: ella consuma infine la morte già cominciata nella foresta del primo atto e fa così ritorno al niente dell'inesistenza.