IL CONCERTO COMMEMORATIVO DI CLAUDE DEBUSSY
ALL'ACCADEMIA DI S. CECILIA


PELLÉAS ET MÉLISANDE AL COSTANZI

IL SORCIO NEL VIOLINO

Con queste giornate primaverili mentre siamo indolenti e insonnoliti come dei bevitori di birra è passato il concerto commemorativo di Claudio Debussy sul nostro assopimento, come una lenta ombra luttuosa.
Noi l'abbiamo veduto pochi anni fa: la sua pallidissima fronte gonfia e quasi ondeggiante sotto gli urti di un fermento interno in levitazione, il suo sguardo sofferente e profondo di bizantino, e le sue povere mani fredde, passive, emaciate e gialle come due vecchi guanti ci impressionarono come se in quell'uomo ancora tanto vivo e celebre l'istinto fosse spento e incenerito per sempre.
Lo si considera come un genio del nostro secolo, a noi apparve sempre come un modista della musica. Ricercatore di espressioni originali egli non trovava che qualche fortunata eleganza. Egli si rifiutava di toccare la terra con i piedi ed aveva dei brividi di repulsione al suono di musica altrui, e disse che Beethoven era volgare.
Mal sostenuto da un temperamento che non era né ricco né generativo egli oltrepassò il segno dell'arte per naufragare in un intellettualismo disperato. Aveva in fondo pii confidenza nella pittura e nella poesia che nella musica a sé. Procedendo criticamente per esclusione egli giunse a farsi un genere limitato, indeterminabile, e quasi scientifico. Egli eccelle dal punto di vista istrumentale pianistico.
Maeterlinck è stato il suo ispiratore. Le principesse incorporee che non vedono il giorno e agonizzano contro le pareti dei bui sotterranei ostruiti; la vita senza occhi e senza orecchi; tutte le vaghe apprensioni dell'inintelligibile fanno parte del suo programma di perdizione musicale e ci costringono a far quarantena sulle minacciose latitudini dell'Inconcludente.
Pure spesso, sotto i veli, traspare nelle sue pagine quel genere d'album indispensabile nel salotto francese, che Egli deforma orribilmente per repulsione e per necessità, ma il sentimento poco originale rimane.
Nondimeno, se accostiamo bene l'orecchio a qualche fenditura ci accadrà di sorprendere, a traverso questo cumulo di pregiudiziali, il passaggio fortuito di certe squisitezze sincere, sonore, rare ed effimere.
Non vogliamo intendercene troppo, ma probabilmente il programma di ieri non fu composto con quel senso di carità e di onoranza che la triste e solenne occasione richiedeva.
Gli esecutori erano tutti valorosissimi artisti e ci parve di capire che alcuni d'essi non fossero preparati alla morte prematura del decantato riformatore francese.
Il programma comprendeva: la sonata per violino e pianoforte, le Trois chansons de Billitis, due liriche dalle ariettes oubliées e il Noël des enfants qui n'ont plus de maisons, che la signora Montjovet cantò con profondo sentimento; i Reflets dans l'eau, l'Hommage à Rameau e i Children's Corner per pianoforte solo, eseguiti egregiamente da Alfredo Casella. Per ultimo il quartetto per archi, esecutori Mario Costa, Giacinto Spada, Gustavo Gatti e Tito Rosati.
Il pubblico numerosissimo fece, qua e là, il respiro grosso, ma applaudi alla fine di ogni pezzo e acclamò la signora Montjovet che dovette bissare il Noel des enfants...
Noi rimaniamo tutt'ora persuasi che Claudio Debussy oltre che un creatore di musiche che non dureranno molto nel tempo a venire, era, per certe sue attitudini teoriche, il propulsore di un movimento disastroso e in Italia ne conosciamo assai bene le conseguenze.
Alfredo Casella che fu magna pars del concerto, Malipiero e tutti i fratellini minori erano presenti ieri alla commemorazione. Se piangiamo la morte di Claudio Debussy dovremmo strapparci le chiome al vedere la numerosa famiglia che Egli ha abbandonato sul lastrico di S. Cecilia.

«Il Tempo», 6 aprile 1918

Siamo nel regno dell'Amnesia, entro il fango e i veleni della fermentazione e della decomposizione vegetale. Questo è il giardino mortifero delle insidie, grotte di rami e di foglie stillanti, atmosfere marcite di stagni, mondo quasi silenzioso apparso [che ci appare] d'incanto, a traverso un grande velo di pioggia. Se si [ci si] entra inconsapevolmente in quella penombra verde si respira [e si respira] la morte e l'orrore del settentrione e se ne esce tremando, un poco tocchi di mente.
Folta, parassitaria, nel suo grande recinto funebre, la selva alta intricata soffoca e deperisce nell'aria smeraldina: soltanto qualche raggio spirituale traversa il fitto impenetrabile: tale l'apparizione [apparizioni] di luce straziante (nei gran quadri di Rembrandt), segmenti striduli che tagliano il buio come la spada dell'arcangelo. Il dominio del luogo spetta (ad Edgardo Poe, le parole sono di Maeterlinck, la musica è gelido turbamento) d'un uomo [questo è il gelido e turbato luogo di un uomo] senza volto e senza polso: Debussy.
Lo si considera come un genio del nostro secolo. a noi apparve sempre come modista della musica. Ricercatore di espressioni originali egli non trovava che qualche fortunata eleganza, egli si rifiutava di toccare la terra con i piedi, ed aveva dei brividi di repulsione al suono di musica altrui e disse che Beethoven era volgare. Mal sostenuto da un temperamento che non era né ricco né generativo egli oltrepassò il segno dell'arte per naufragare in un intellettualismo disperato. Aveva in fondo più confidenza nella pittura e nella poesia che nella musica a sé. Procedendo per esclusione egli giunse a farsi un genere limitato, indeterminabile e quasi scientifico.
Maeterlinck è stato il suo ispiratore. Le principesse incorporee che non vedono il giorno e agonizzano contro le pareti dei sotterranei ostruiti, la vita senza occhi e senza orecchi, tutte le vaghe apprensioni dello inintelligibile fanno parte del suo programma di perdizione musicale e ci costringono a far quarantena sulle minacciose latitudini dell'Inconcludente.
Nella musica di (questo) Pelléas c'è, se si vuole, una reticenza serpeggiante carica di strascichi malinconiosi e melensi, gli accenti fiochi di un carillon sepolto che rimpiange, soave scordatura, flebile, malata, piena d'ansia in sordina e la convulsa intermittenza del vento d'autunno e i brividi dell'acqua addormentata. I temi sono un vivaio di serpi in fondo alla palude. Tentenna il ritmo in una fluttuazione abbandonata senza appoggi per ove riposare, l'orchestra scende giù per scale oscure e giace in fondo in un tremolo di suoni che l'orecchio non può identificare. Motivi rochi embrionali s'inabissano nel siero armonico per ricomparire più smunti, più indecisi, senza direzione né sostegno. Personaggi dormiglioni e senza sguardo s'aggirano sulla scena, i loro passi affondano nel terreno molle di foglie morte, famiglia di visionarii esangui e senza assistenza, tentacoli recisi che tendono a ricongiungersi, essi si cercano senza trovarsi, si trovano senza cercarsi, sognano parlando, parlano sognando con un'angoscia tronca e incoerente; vanno intorno a mani protese come ciechi gettati nel pericolo. La più verbosa consunzione esce sul loro labbro in linguaggi estasiati, sconnessi e indistinti, un declamare dal colore scialbo e sinistro che fugge con parole frettolose inseguire dallo stesso terrore.
I cambiamenti di scena sono innumerevoli e le scene brevissime lasciano appena il tempo agli abboccamenti vaghi e infruttuosi ché subito gli attori devono rincasare fra le quinte per riapparire più smarriti ancora sopra un altro fondale e sotto un'altra luce, la musica però, rimane quasi sempre dello stesso parere.
Ci sono qua e là cose dolci e care, toccate lievemente dal cuore, deboli e penetranti soperchierie, poco maschili; se accostiamo l'orecchio a qualche fenditura di disegno, ci accadrà di sorprendere il passaggio fortuito di certe squisitezze rare, sincere, sonore, ed allora ci pare di vedere la mano dell'autore di Boris intervenuta nell'atto di ripristinare il carattere e il senso in questo tormentato abbandono d'energia, ma solo a tratti d'una efficacia effimera.
Durante questa recita da cimitero, nel chiuso irreparabile di questa messa nera, c'è purtroppo della gente disposta a lasciarsi pesare sul collo giogo della suggestione, ma sono gli spiriti deboli e disorientati; essi possono indugiare sperduti entro l'atmosfera di questo dramma pallido, e lo snob, se lo vuole, si prostri e lavi i piedi a un apostolo tanto mendace e squallido.
Si direbbe che Debussy, attaccato a Wagner, dopo averlo succhiato sino al disgusto e al vomito sia ricaduto indietro vuoto come una buccia, nell'inerzia, invocando, sotto un abat-jour, la rinunzia finale. La sua arte [vi si ode una musica] senza dimensione, e senza gradimento, destituita, scaduta, deleteria, discopre le vergogne dell'impotenza creativa; questo prodotto d'un ingegno suppliziato, d'un artista tradito e condannato dalla sua stessa natura femminea si chiama arte d'eccezione, e sia pure, ma il nostro teatro lirico ora vuole ben altro.
La sala raggiante del teatro era gremita di un pubblico immenso, eccezionale che impediva allo spettatore di annoiarsi. La recita fu turbata leggermente da qualche isolata intemperanza, anzi una volta il direttore, maestro Marinuzzi, risentito e seccato giustamente, si volse d'improvviso soffiando fuor dei denti un: «Idioti, andate al cinematografo», e allora qualcuno altrettanto feroce e sommesso, rispose: «Ci siamo e non ci resteremo». Del resto ogni cosa ha proceduto nella quiete protetta dal rispetto pieno d'attenzione e dall'educazione grave di tutto il pubblico. Alla fine d'ogni atto gli artisti ed il lavoro ottennero gli applausi generali.
L'impresa del Costanzi aveva trovato e messo insieme per questa recita tanto attesa un complesso di artisti colti e intelligentissimi, s'erano fatte prove a sufficienza; l'opera non avrebbe potuto avere in Italia un'esecuzione molto migliore.
Bianca Bellincioni Stagno, già da parecchie settimane presa e immersa nello studio di questa partitura, diede a Melisanda tutto di sé, la voce diafana, gentile, appassionata, la finezza dei suoi nervi dolenti, il pallido splendore del suo corpo di fata. Essa ha vuotato a fiotti nella parte la sua anima bella e sofferente.
De Giovanni, il tenore celebrato, tradusse sulla scena con una coscienza ammirevole il personaggio di Pelléas. Egli seguì con esattezza ardente la sua parte faticosa e difficile. Il grande Giraldoni nella tetra gelosia di Golaud, fu un interprete imperioso, tirannico e potente. Bravissimo il basso Cirino Arkel, che incarnò già lo stesso personaggio la prima volta alla Scala di Milano. Egli fu pari alla sua magnifica fama. Anche Anna Gramegna Genevieffa, Assunta Gargiulo, Yniold e Arturo Pellegrino il Medico fecero bene assai.

«Il Tempo», 12 aprile 1919