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KLAUS MANN

SINFONIA PATETICA

GARZANTI

MILANO - 1996 - pp. 162-167

 


Nel 1935, dopo l'emigrazione dalla Germania nazista, Klaus Mann traccia con Sinfonia patetica un appassionato ritratto di Tchaikovsky e della sua personalità di artista cosmopolita e tormentato.
Con attenzione partecipe ai meccanismi reconditi della creazione musicale, Mann spia il suo personaggio, ne osserva gli incontri con i grandi musicisti del tempo, segue le tappe di una peregrinazione affannosa nelle grandi capitali della musica. Si delinea così uno scenario di potente evocazione storica, in cui i luoghi, i personaggi e le atmosfere fin de siècle s'intrecciano con i contorni di una personalità radicalmente solitaria, consapevole della fatuità della vita e della caducità anche della creazione artistica.
In Sinfonia patetica Klaus Mann realizza una sorta di identificazione totale con Tchaikovsky: «Di lui nulla mi era estraneo e tutto ho potuto descrivere, le sue inquietudini nevrotiche, i suoi complessi, le sue estasi, le sue paure, l'insopportabile solitudine in cui fu costretto a vivere, il dolore che volle trasformarsi di continuo in melodia e in bellezza».
Klaus Mann, fglio di Thomas e Katia Mann, nacque nel 1906 a Monaco. Il suo talento narrativo maturò precocemente nell'emigrazione, trascorsa a Zurigo, Praga, Parigi e, dal 1936, negli Stati Uniti. Morì suicida nel 1949. Tra le sue opere principali, oltre all'autobiografico «Der Wendepunkt» (1952, postumo; trad. it. La svolta, 1962 e 1989), si ricordano «Il vulcano» e «Mephisto» entrambi pubblicati da Garzanti.

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«Voglio partire», pensò. «Partirò oggi stesso. Essere altrove, meglio se in nessun luogo, purché non qui».
La primavera a Firenze era magnifica in quella profumata notte di marzo. Petr Il'ic era uscito sul balconcino della stanza di lavoro, che faceva parte del suo appartamento. Veniva dall'Opera. Sopra i pantaloni del frac e la camicia inamidata, indossava la vestaglia di pelo di cammello. Le scarpe di vernice gli stringevano un po' e gli facevano male. «Dovrei infilare le mie pantofole», pensò. «Sarebbe un piacevole sollievo liberarmi di queste dannate scarpe di vernice». Non si decideva, tuttavia, in alcun modo ad abbandonare il balcone per andare a prendere le pantofole nella camera da letto.
Così rimase fermo, i gomiti poggiati sul parapetto di pietra, il volto tra le mani. «Qui le stelle hanno uno splendore assia più forte che a casa, in Russia», pensò Petr Il'ic, respirando a fondo. «Anche gli odori sono più forti e più dolci. A Frolovskoe, forse, c'è ancora neve. Ma in taluni punti si scioglie e là si cominciano a intravvedere modesti fiorellini, così lucidi e commoventi. E su questi che dovrei chinarmi, ma accanto a me sta ritto un giovane, che tenta di appallottolare la poca neve umida che si va sciogliendo. Perché non sto sempre in Russia? Vorrei toccare con le mie dita una betulla, sì, ne ho un gran desiderio, darebbe frescura alle mie dita, nulla al mondo è più piacevole da toccare di una betulla russa nella primavera incipiente. È davvero una pazzia da parte mia intraprendere viaggi assolutamente insensati. Solo a casa posso veramente respirare. Non voglio più vedere cipressi e statue di marmo. Questi profumi fin troppo dolci non mi danno alcun senso di benessere, al contrario: disgusto, piuttosto. Poi non so nemmeno da quali cespi fioriti provengano.
A Frolovskoe, conosco tutte le piante. «Che idea da parte mia, recarmi all'Opera stasera! Non è stato soltanto un errore, ma probabilmente anche un peccato. Oggi ho ricevuto la notizia che la buona moglie del mio buon Aleksej è morta, in seguito alla sua tosse secca. Dapprima ho singhiozzato un poco, ma il mio posto in palco per la «Lucia di Lammermoor» non ho voluto restituirlo. Per punizione, ho dovuto subire una rappresentazione miseranda. La musica di Donizetti è piena di idee attraenti ma com'è assurdo il testo! Allora, quello che il buon Modest ora sta preparando per me, vale certo di più. E quella signora drammaticissima aveva, purtroppo, una voce completamente sfiatata. Sapeva cantare, bisogna ammetterlo - visto che Lucia impazzisce, aveva da sfoggiare trilli di coloratura a non finire: e l'ha fatto in modo grandioso. Il pubblico aveva pienamente ragione di gridare, con tanto entusiasmo, da capo! La povera Lucia è stata costretta a ripetere tutto intero il suo abilissimo accesso di follia, la seconda volta l'ha fatto senza parrucca: con i suoi capelli neri naturali, aveva un'aspetto un po' più garbato che non con tutti quei ridicoli riccioli biondi».
Petr Il'ic, tutto solo sul suo poggiolo nella calda notte italiana, ebbe una risatina sprezzante, ripensando alla serata operistica - com'era ridicolo, ridicolissimo il coro nei gonnellini scozzesi a quadri, e com'era grottesco che vi fossero palme in un parco inglese! - una piccola risatina, che spaventò lui stesso; perché è sempre un po' inquietante esser costretti a ridere, in solitudine, tra sé. «Comunque, è stato enormemente ingiusto da parte mia uscire appena dopo aver appreso che la buona moglie di Aleksej era morta», concluse pieno di rimorso. «Peraltro, mi sembra che «La Dama di picche» sia proprio miglioredi questa «Lucia di Lammermoor». Il lavoro all'opera era progredito molto rapidamente a Firenze. Petr Il'ic l'aveva iniziato in gennaio. A metà marzo era già quasi compiuto - Modest non ce l'aveva quasi fatta a stargli dietro, scriveva più lentamente di quanto Petr Il'ic non componesse. Gli amici di Pietroburgo si erano inquietati di un tal frettoloso ritmo di lavoro: il direttore d'orchestra Nápravnik e il grasso Laroche lo ammonivano dal precipitare le cose. Ma Petr Il'ic continuò a comporre, come se avesse alle spalle qualcuno che lo aizzasse. «L'opera, malgrado tutto, diventerà una cosa elegante!», scriveva spavaldamente a uno degli amici.
L'incarico di comporre «La dama di picche» gli era venuto, in Russia, dall'intendente VsevoloVskij; questi voleva assolutamente un'opera di Tchaikovsky per la prossima stagione. Il balletto infatti, malgrado il giudizio freddino dello zar e le critiche dei giornali che l'avevano straordinariamente svalutato, era diventato un forte successo di cassetta: le rappresentazioni erano tutte esaurite, al pubblico piaceva «La bella addormentata».
Tutto ciò, però, era già lontano, dileguato in una lontananza innocua e beata. Da allora, in quei due mesi di tesa e febbrile attività, Petr Il'ic si era completamente inserito e trasferito a vivere e sognare nella sfera carica di drammaticissimo pathos della novella di Puskin, da cui Modest traeva il testo per lui - un libretto un po' prolisso (occorreva eventualmente abbreviare), che non aveva però perduto interamente il grande respiro poetico di Puskin. V'infuriavano passioni, amori violentissimi e splendore festoso, seguiti da orrore, fiotti di sangue, disperazione, follia e rovina.
La passione del povero e temerario giovinetto Hermann per il gioco delle carte è ancora più forte del suo grande amore per la fanciulla Liza. Quando Petr Il'ic rifletteva su che cosa lo avesse affascinato nell'argomento della «Dama di picche», doveva dirsi ch'era forse stata proprio quella tragica e fatale passione del giovane protagonista - la passione cieca per il tavolo da gioco. Tchaikovsky infatti, molto esperto della dissipazione sentimentale, sapeva come fosse pressoché indifferente in quale chimera s'impegni insensatamente, con inutile sacrificio, la passione. La tragedia di Hermann lo commuoveva perché gli era assolutamente comprensibile.
Tra questo giovinetto e la sua ragazza, s'erge la nonna di Liza, la vecchia contessa, una vegliarda terribile. E lei - così ritiene l'accecato Hermann - a conoscere il segreto delle tre carte, con cui è possibile vincere il gran gioco. Per apprenderlo - o se necessario estorcerlo - il giovane ossessionato penetra nottetempo nella camera da letto della vecchia. Ella però ne è talmente atterrita da morirne, prima ancora di poter aprire le labbra per rivelare la fortunata formula. Scomparsa la speranza, ciò che resta è disperazione: quel che segue sono rimorsi, pazzia e morte. La tragedia termina nella sala da gioco. Nel frattempo, infatti, la vecchia contessa, apparsa come fantasma al giovane sconvolto, ha potuto rivelargli le tre carte imbattibili, causa della sua morte. Con due di esse, Hermann aveva potuto vincere un patrimonio; con la terza intende moltiplicare a dismisura il proprio tesoro, ma ecco che, con obbrobriosa distrazione, getta sul tavolo, invece della carta prescritta, la dama di picche, perde tutto e si precipita a trapassarsi il cuore con la spada, mentre il fantasma della raccapricciante contessa-nonna appare trionfante sulla scena.
In quali enormi effetti si è, stavolta, tramutato l'accumulo dei sentimenti, che tendono a liberarsi in suoni! Questa volta, Petr Il'ic è altamente soddisfatto ed egli stesso sconvolto di ciò che è stato capace di tirar fuori. Il suo commosso pensiero è: «Eccezionalmente, l'Essere severo, remoto, è stato misericordioso con me. Mi ha mandato idee singolarissime - come gli sono grato! Il motivo della vecchia contessa, per esempio - questo motivo che contiene il segreto delle tre carte e che consiste unicamente di tre suoni, tre suoni cupi, pizzicati dai contrabbassi, che sono come il fantomatico bussare contro una porta serrata: che motivo mozzafiato è questo, ne sono terrorizzato al solo pensarci! La rovina di Hermann, quel mio povero ossesso, mi ha commosso fino alle lacrime e quanta musica aggraziata, magnifica l'ha preceduta! I giochi di Liza con le sue amiche; il ballo in costume con l'ingresso dell'imperatrice Caterina, in un finale di grande effetto; la pazzia di Hermann e il grande orrore dell'apparizione spiritica. Sicuramente stavolta non sosterrò in seguito che sia tutto malriuscito. A1 contrario, sono fermamente convinto che tutto sia davvero riuscito insolitamente bene».
Non si rendeva assolutamente conto di aver provato assai spesso una tale violenta soddisfazione a lavoro appena compiuto, e che essa soleva - solo qualche tempo dopo - capovolgersi in dubbi amarissimi e oltremodo esagerati. Pensava invece, trionfante: «Le settimane solitarie in questo brutto e troppo costoso appartamento d'albergo, che mi ha rovinato del tutto finanziariamente - mio Dio: costa ventisette lire al giorno! - queste settimane spesso disperanti non sono certo state perdute. Del resto, avrebbero potuto essere ancora peggiori. Ma ho avuto con me Nasar».
Nasar, il giovane servo di Modest Tchaikovsky, aveva accompagnato Petr Il'ic a Firenze, poiché Aleksej era trattenuto a Mosca dalla tosse secca della moglie. Petr Il'ic non doveva essere scontento del cambio: Nasar era un tipo un po' assonnato, ma bravo, paziente e compiacente da ogni punto di vista. Il buon Modest, bisognava ammetterlo, se ne intendeva di giovani.
«Quel poveraccio ha certo avuto, in tutto questo tempo, una tremenda nostalgia», pensava Petr Il'ic sul suo poggiolo, in quella notte italiana. «E ha certo sofferto per tutti i miei capricci. Ma non s'è fatto accorgere di nulla. È stato ogni giorno della medesima un po' pigra allegrezza, sempre premuroso, sempre ridanciano. Gliene sono grato, di esser stato qui. Senza di lui, non avrei potuto certo terminare il mio lavoro. È stato un lembo di Russia - un lembo di patria, buono e familiare, vicino a me. Ora, voglio portarlo ancora con me a Roma. Speriamo che Roma lo diverta un poco. Probabilmente, vi resteremo alcune settimane; ma forse anche solo alcuni giorni. Perché potrebbe darsi che, a Roma, io non mi trovi affatto bene. Mi attendono, ancora una volta, tanti ricordi, dal sapore amaro. E passato molto tempo da quando sono stato l'ultima volta a Roma, allora mi aveva accompagnato Modest, e intanto, quanto tempo è dileguato e sprofondato nell'abisso - siamo tuttora gli stessi di quel ch'eravamo allora? Ahimè, trovo che siamo tanto mutati, estraniati a noi stessi, divenuti diversi, per la tacita, poderosa potenza del tempo che scivola via. Sì, a Roma penserò giorno e notte a come era la volta precedente. Non riesco dunque a staccarmi da ciò che è passato? Perché mi possiede in tal modo? Non mi riuscirà dunque mai di liberarmene? Non ho forse un oggi? Ma qual è dunque il mio oggi?
«Qual è dunque il mio oggi?», riflette assorto Petr Il'ic sul balcone del suo troppo costoso appartamento di un albergo italiano - il suo giovane servo dorme due stanze più in là, russando leggermente nella sua cameretta. «Non sono abbastanza forte per trattenerlo, per goderlo, per amarlo?», medita l'uomo solitario sulle soglie della vecchiaia. …Forse che il mio sentimento viene meno di fronte al presente? Qual è il nome del mio presente?».
Aveva alle spalle un grosso lavoro, la tensione estrema di tutte le proprie energie - il sentimento che tende alla liberazione si era tramutato in effetti d'enorme portata - ora, si sentiva a un tempo sfinito ed eccitato: svuotato e pronto a nuove avventure. Protese il volto esausto a quella notte primaverile, quella notte di marzo d'un paese straniero, col lume delle sue stelle, con i suoi profumi. Ma il cuore fiaccato eppure pronto, chiede: Qual è il nome del mio presente?
Ed ecco avanzare verso di lui, nella notte straniera, un nome: VLADIMIR. Ecco colmarne l'oscurità d'uno splendore e d'un fruscio lungo e gradevole - come uno scampanìo, sulla Firenze addormentata.
Deciditi ancora una volta, oh cuore fiaccato eppure pronto! Deciditi, e stavolta interamente! Ti sei abbastanza allenato soltanto e preparato! Questa volta, ne sarai completamente assorbito! Non ti difendere!
Hai chiesto, ed eccoti la risposta. E venuta con una tale forza da lasciarti quasi tramortito. E venuta come un gran frusciare e lampeggiare, e come un'improwisa fitta dolorosa in pieno petto. Fa tanto male che tu, con un gran gesto selvaggio e angoscioso, premi sul cuore la tua mano pesante. Lasci a un tempo cadere la fronte e un'alterazione si distende sul tuo volto, come se lo sguardo fosse rimasto abbagliato da una luce troppo violenta apparsa nel cielo buio, che tutto ha trasformato col suo spietato chiarore.