La biografia di Erickson ricostruisce l’epoca oscura dello scisma di Enrico VIII
Maria Tudor, dramma di una “sanguinaria”

di Roberto Brusadelli

La storia l’ha iscritta da sempre nella galleria dei Grandi Vituperati: tanto che “scompare” di fronte alla gloria imperitura della sorella, Elisabetta I.
Maria Tudor è la protagonista di una leggenda nera che si è cristallizzata nell’appellativo tradizionale di “Sanguinaria”: e, a differenza della tragica omonima del Cinquecento, Maria Stuarda regina di Scozia, non ha nemmeno alimentato la fantasia di poeti e drammaturghi.
Proprio per le stimmate di crudeltà e per il destino di sudditanza ai “veri” protagonisti dell’epoca, però, una figura come quella della figlia primogenita di Enrico VIII può, non diremo affascinare, ma certo incuriosire. Leggendo allora la biografia che Carolly Erickson - esperta indagatrice del rapporto tra donne e potere - le dedica, Maria la Sanguinaria. Miserie e grandezze alla Corte dei Tudor (Mondadori, 533 pagine, 36 mila lire), si scopre un personaggio inedito, tormentato da un conflitto di coscienza, lungo tutta una vita, tra l’intima adesione alla fede cattolica in cui era stata allevata e i doveri parentali e dinastici di obbedienza al re suo padre, autore dello scisma dalla Chiesa di Roma. 
VISSE MINACCIATA, REGNÒ CINQUE ANNI
Non dunque una piccola arrivista mossa dall’ambizione di ereditare il trono, ma una giovane angariata e perseguitata in ogni modo a seguito del rifiuto di schierarsi contro la madre, Caterina d’Aragona, da cui il re divorziò per sposare Anna Bolena. E che, alle pressioni psicologiche e alle minacce di violenze fisiche o addirittura del patibolo, seppe resistere con coraggio e caparbio spirito di adattamento, fino alla dissimulazione con cui accettò di sottomettersi, ma solo formalmente, alla volontà del monarca. Per di più, Maria era colta: parlava latino, francese e spagnolo, capiva abbastanza l’italiano, aveva un discreto - ma eccezionale per una donna del Cinquecento - bagaglio di nozioni di teologia, storia, letteratura. Poteva dunque argomentare con citazioni e riferimenti dotti i reiterati dinieghi a piegarsi alle imposizioni reali.
Una donna, insomma, costretta a sfidare il suo tempo: sia nelle radicate, secolari convinzioni che relegavano il sesso femminile oltre i margini dell’autorità, e non solo di quella politica - tanto che gli avversari erano convinti che lei non decidesse mai da sola, ma venisse subornata da consiglieri manovrati dall’imperiale cugino, quel Carlo V che organizzò addirittura una spedizione, fallita, per farla fuggire dall’Inghilterra; sia, d’altra parte, nelle nuove diatribe e nei conflitti sanguinosi determinati dalla crisi della Cristianità, tra Riforma luterana, sacco di Roma, “eresie” di Zwingli e Calvino e appunto lo storico “strappo” voluto da Enrico VIII con la creazione di una Chiesa nazionale inglese. Si meritò, allora, Maria Tudor l’appellativo di “Sanguinaria”? La questione va ovviamente contestualizzata. I tempi erano cupi, feroci: bastano a ricordarlo le pagine del libro che descrivono le esecuzioni precedenti l’avvento al trono di Maria, con contorno di squartamenti e altri barbari supplizi, ai danni di cortigiani accusati di tradimento, nobili caduti in disgrazia, ecclesiastici riottosi al nuovo culto imposto per legge, e la spietata repressione dei moti contadini scatenati dalle conseguenze economiche del movimento delle enclosures, le recinzioni che segnarono la privatizzazione delle proprietà terriere nell’Isola. Maria dal canto suo, durante i cinque anni di regno, dal 1553 al 1558, non fece mai mistero dell’intento di ricondurre l’Inghilterra nel seno della Chiesa di Roma e dimostrò anzi, nei primi tempi, una tendenza alla moderazione che contrastava con il fanatismo persecutorio di alcuni vescovi suoi collaboratori.
Del resto, la Erickson ricorda che l’idea di imporre con la forza - fino alla condanna al rogo - la “vera fede” contro i propalatori di false, perniciose dottrine era condivisa - e praticata - dall’Inquisizione come da tutti i leader delle confessioni protestanti.
ODIO TRA CATTOLICI E PROTESTANTI
Piuttosto, la regina non comprese quanto diffusa e radicata fosse ormai nell’Isola la penetrazione delle tesi protestanti e quanto infelice potesse rivelarsi la scelta di scegliere come sposo il figlio di Carlo V, quel Filippo di Spagna che sperava solo, con la nascita di un erede cattolico, di assumere il pieno controllo degli affari di governo, quasi la corona fosse uno dei tanti beni dotali passati in sua proprietà per effetto del matrimonio: e che delle qualità politiche della moglie, salita sul trono per propria determinazione, malgrado tante fosche previsioni contrarie, non era né convinto né rispettoso. Senza contare che, sullo sfondo, si stagliava la figura di Elisabetta, l’odiata figlia di Anna Bolena, che di aderire al credo “papista” non voleva davvero saperne.
Le repressioni sotto il regno di Maria sono incontestabili, le vittime protestanti - a centinaia - dei roghi erano considerate alla stregua di nemici dell’autentico Dio e quindi della sovrana che lo rappresentava in terra: politica e religione si intersecavano inestricabili. Ma la storia giudicata con il parametro della morale manderebbe  assolti ben pochi dei protagonisti del Cinquecento: pensiamo, tanto per citare un’altra donna sul trono a quell’epoca, ai tremila e più ugonotti massacrati nella sola notte di San Bartolomeo (23-24 agosto 1572) per istigazione di Caterina de’ Medici, reggente di Francia. Resta in conclusione da chiedersi: una biografia come quella della Erickson non indulge troppo a certi “colori” tipici della storia romanzata? Non costruisce, con enfasi di toni e forzature di documenti, una Maria che non è mai esistita, se non altro perché interpretata alla luce di un’analisi quasi psicanalitica? Non carica di significati impropri le risultanze dell’indagine, non si prende eccessive libertà? Possiamo rispondere con sicurezza di no. Certo, alcuni capitoli paiono un po’ dilatati e l’autrice non evita a volte di affastellare troppi giudizi che inevitabilmente ingenerano confusione o contraddizioni. Ma nell’insieme un’opera come questa va scritta proprio come ha fatto la storica americana: con un certo gusto per la “sontuosità” dello stile, per la descrizione minuziosa di toilette e mense principesche, di solenni cerimonie, di una vita di Corte scandita dal fasto del protocollo. 
Un po’ di glamour, insomma, non guasta: il “dietro le quinte” delle élite cattura sempre, e quelle del XVI secolo erano davvero straordinarie, nel bene come nel male. Raccontare la vita delle classi popolari, l’economia, la società, la cultura è un’altra storia. L’una non esclude l’altra.