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RICHARD STRAUSS

Considerazioni sui cartelloni
dei teatri d'opera


NOTE DI PASSAGGIO
RIFLESSIONI E RICORDI


EDT TORINO 1991
pp. 54-58

A CURA DI SERGIO SABLICH

INDEX
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Sin dai tempi di Angelo Neumann buonanima o di Pollini e di altri despoti dei teatri tedeschi, vanto della direzione era poter esibire a fine stagione il numero cospicuo di novità e di nuovi allestimenti presentati. Questo principio era giustificato nelle città di minori dimensioni, dove un pubblico relativamente piccolo doveva venir permanentemente sollecitato a frequentare il teatro mediante una continua proposta di novità. Che anche questa abitudine molto spesso non conseguisse il suo scopo, è dimostrato dal fatto che queste novità studiate troppo in fretta e per lo più insufficientemente preparate e allestite in modo scadente avevano successo solo in rarissimi casi, e dovevano venir tolte dal cartellone dopo due o tre repliche; e ciò perché in seguito alla delusione provocata nel pubblico anche le così dette 'prime' non esercitavano più alcuna attrattiva. Tanto basta a dimostrare che nella programmazione il fattore decisivo non è la presenza del maggior numero possibile di opere: non è la quantità ciò che conta. Soltanto la qualità dell'offerta può, a lungo andare, creare un legame tra il pubblico e un'istituzione artistica, e ispirare la fiducia necessaria affinché il pubblico rimanga fedele a un'istituzione.

Ora, dopo la guerra e la rivoluzione, la situazione è diventata ancora più complicata, perché l'allestimento di novità e le riprese di carattere veramente innovativo di opere del passato presentato difficoltà ancora più grandi di prima. L'aumento eccessivo della concessione di permessi [agli artisti stabili], i costi enormi dei nuovi allestimenti e molti altri fattori secondari impongono una scelta rigorosissima. Ne risulta ovviamente che nei teatri più grandi è diventato quasi impossibile fare esperimenti con prime assolute e con novità il cui valore non sia stato prima verificato. A mio parere città come Berlino e Vienna non sono assolutamente adatte a esprimere un giudizio definitivo su questo genere di novità. La composizione del pubblico, affatto casuale, e la grande risonanza della critica metropolitana rendono del tutto inopportuno far correre il rischio di una prima assoluta in una grande città a un'opera che forse richiede le maggiori capacità per essere compresa. Questa è anche la ragione per la quale io, in pieno accordo con una persona di grande esperienza come il sovrintendente dell'Opera di Corte di Berlino Georg von Hülsen, non ho presentato alcuna prima assoluta a Berlino. Dresda, che sotto la direzione del geniale Schuch [Ernst von, 1846-1914] poteva esaudire i miei desideri altrettanto bene di Berlino, aveva il vantaggio di un pubblico composto per due terzi da amici e da intenditori accorsi da fuori; e anche i critici che venivano da altre città erano più disposti a un giudizio ponderato sull'opera.

Da tutte queste esperienze deduco che i teatri di media grandezza, e persino i teatri minori ma efficienti, che proprio in Germania esistono in gran quantità, sono più idonei a presentare prime assolute che non, per esempio, Vienna o Berlino. Se un'opera ha un successo relativamente buono, o anche solo di stima, a Karlsruhe o a Stoccarda, la quota di abbonamenti di questi teatri permette al direttore di tenere il lavoro in cartellone almeno per un certo tempo, per far sì che il giudizio del pubblico si rafforzi o si corregga. Se in una città come Vienna un'opera non ha pieno successo, l'effetto di una stampa sfavorevole o della scarsità di pubblico a una seconda o terza rappresentazione è immediatamente catastrofico, e si ripercuote su tutti gli altri teatri; tanto che una prima non pienamente riuscita può distruggere un'opera, mentre quella stessa opera, rappresentata in un teatro più piccolo, si sarebbe fatta un po' alla volta sempre più amici e avrebbe conquistato sempre più teatri, restando in vita almeno per qualche tempo.
Ne è un esempio interessante Tiefland di Eugen d'Albert, che fu dato per anni in teatri piccoli e medi con successo crescente, fino ad arrivare all'Opera di Berlino e riuscire anche lì a fare cassetta. Ora in Germania vengono scritte ogni anno in media da trenta a quaranta opere nuove. A Vienna ne potrei rappresentare al massimo tre o quattro. A queste condizioni, chi può prendersi la responsabilità di assassinare, magari definitivamente, all'Opera di Vienna un'opera nuova, anche se scelta con coscienza?
Exempla loquuntur.
Quando assunsi la mia carica a Vienna [dal 1919-20 e per 5 anni], c'era ancora l'ambizione di offrire un numero cospicuo di novità. La mia trentennale esperienza di direttore mi insegnava che una novità appena un po impegnativa tiene totalmente occupati il palcoscenico e le masse per almeno tre o quattro mesi.
Soprattutto nei due primi anni della mia attività in questo teatro risultò che la messa in scena di novità che solo di rado fruttavano all'Opera di Vienna successi duraturi, ostacolava enormemente la realizzazione dei miei reali progetti artistici: migliorare al massimo la qualità delle rappresentazioni e arrivare alla formazione di un repertorio classico veramente esemplare. Perciò alla fine della passata stagione ho deciso, consigliandolo anche al mio collega Schalk, di non accettare più novità, proprio per queste condizioni di oggi, estremamente difficili; e ciò fino a che la programmazione 'classica', in cui comprendo anche tutte le opere moderne che si sono affermate durevolmente, non fosse in certo qual modo garantita. Vorrei mantenere anche in futuro questo limite, in modo che all'Opera di Vienna arrivino solo le opere più recenti che abbiano dimostrato la loro vitalità in provincia.
Per queste ragioni l'Opera di Stato di Vienna non può essere e, secondo le mie convinzioni, non deve essere un'istituzione sperimentale ma, diciamo, una specie di accademia superiore in cui si rappresenta, nel modo più esemplare possibile, un repertorio selezionato.
Per fare un solo esempio, al mio arrivo a Vienna né Don Giovanni, né Le nozze di Figaro, né Così fan tutte erano in repertorio. Il mio intento è di migliorare la qualità dell'offerta, anche se si tratta semplicemente del Faust di Gounod.
C'è inoltre una serie di considerazioni particolari che hanno la loro importanza.
Le condizioni di vita di un teatro d'opera sono diverse da quelle di un teatro di prosa. Il teatro d'opera ha un repertorio fisso, abitudinario, come confermano certe opere che giudicate per la loro qualità dovrebbero essere cadute nel dimenticatoio già da tempo, per esempio Faust, Mignon, Martha, Lucia di Lammermoor o Il trombettiere di Säckingen [di Viktor Nessler, 1841-1890], e continuano a far cassetta soltanto perché contengono famose melodie, purché queste siano cantate da artisti di primo piano. Il teatro d'opera ha un pubblico molto più conservatore del teatro di prosa, un pubblico che per la massima parte non richiede affatto novità e a cui anzi tutto ciò che è nuovo, sin dal Fidelio e dal Tristano, deve venire imposto con la forza. E da centocinquant'anni a questa parte quante opere hanno meritato davvero di venir rappresentate? Dopo Parsifal quante opere sono state veramente un'acquisizione duratura per i teatri tedeschi? Quante delle novità rappresentate sono arrivate da allora ad avere venticinque repliche nello stesso teatro? Quante dieci, e quante addirittura solo due o tre?
Un teatro di prosa può mettere facilmente in scena un lavoro nuovo ogni quindici giorni e, se non ha successo, sostituirlo con un altro dopo poche repliche. Un'istituzione di concerti può offrire al suo pubblico di abbonati in ogni concerto una novità preparata in tre prove d'orchestra, senza subire danni materiali.
Mettere in moto il gigantesco apparato di un teatro d'opera per due o tre rappresentazioni, paralizzare tutta la programmazione per tre o quattro mesi per preparare una novità assoluta (quelle di oggi sono per lo più molto difficili) è insensato; e di una tale 'impresa' non si gioverebbero né la sta ffipa né il pubblico. Come ho detto, nessun direttore di teatro coscienzioso se ne assumerebbe la responsabilità.
A Vienna c'è poi una circostanza aggravante, e cioè che solo a fatica si possono indurre i nostri cantanti migliori a studiare e cantare le parti principali delle nuove opere, per lo più molto faticose e 4 difficili. E chi può 'costringere' oggi cantanti come una Jeritza, una Kurz, un Piccaver? Ogni sforzo di persuasione fallisce di fronte alle difficoltà di questi nuovi ruoli, come potrei provare con una dozzina di esempi tratti dalla mia esperienza personale (sia di compositore, sia di direttore).
Ma - fatto tipico proprio di Vienna - se una novità non è affidata a 'stars', è condannata a morte già in partenza: A pubblico non presta fede a un lavoro che artisti di primo piano non osano affrontare; e i compositori, così danneggiati, sono i primi a prendersela con l'innocente direttore del teatro e a ingiuriarlo, soprattutto se egli stesso, horribile dictu, scrive opere.
Ogni principio però ha le sue eccezioni. E anche questo mio principio relativo alle novità ha un'eccezione: giacché i compositori che vivono in Austria e specialmente a Vienna hanno il diritto di essere ascoltati all'Opera di Vienna, anche a rischio di un insuccesso. Difatti negli ultimi tre anni sono state rappresentate all'Opera di Stato opere nuove di Bittner, Kienzl, Korngold, Schmidt, Schreker, Weingartner, e il prossimo anno vi si aggiungeranno Der Schatzgrädber (Lo scavatore di tesori) di Schreker, Fredegundis di Schtnidt, Der Zwerg (il nano) di Zemlinsky. E a questo proposito voglio ricordare che la rappresentazione dello Schatzgrädber l'anno scorso è stata rimandata non per colpa mia, ma per circostanze avverse, come ne capitano in ogni teatro.
Per il problema delle novità una soluzione ci sarebbe, cosi sensata che forse non la si prende neppure in considerazione: abbiamo a Vienna la Volksoper, l'Opera popolare, un'istituzione eccellente, la quale, invece di attenersi alla stessa programmazione dell'Opera di Stato, potrebbe venir trasformata, con le dovute sovvenzioni, in teatro sperimentale aperto alle novità; sempre che esista davvero un numero consistente di persone interessate ad ascoltare un'opera nuova di zecca ogni quattro settimane.
Riassumendo: non nutro affatto l'ambizione (antiquata) di esibire a fine di stagione un numero cospicuo di novità messe in scena. Quel che intendo ottenere col mio lavoro è un teatro di qualità. Una critica obiettiva stabilirà fino a che punto sarò stato capace di trasformare i miei sforzi in azioni coronate da successo.

[1922]