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Mario Bortolotto

CINQUANT'ANNI FA MORIVA IL MUSICISTA

Richard Strauss
Lo splendido autunno di un genio con troppi nemici

 


  LA REPUBBLICA
8 settembre 1999

Cinquant'anni fa, esattamente l'8 settembre 1949, scompariva nella sontuosa villa di Garmisch, ottantacinquenne, Richard Strauss. La data, forse come non mai, sembra riflettere le ingannevoli prospettive della contemporaneità: il 1949 è l' anno in cui Pierre Boulez scrive il «Livre pour quatuor», e Cage sta abbozzando il «Quartet in four parts»: a distanze galattiche.
Si consideri di Strauss, oltre a qualche smagliatura politica (la dedica di un Lied al dr. Goebbels, d'un altro a Hans Frank, e poco più), il fatale generation gap, e si avrà una sufficiente mappa delle ostilità tenaci che, in ogni caso, si addicono al genio. Ancor più evidente splende quella sua sovrana libertà di movimento, in anni difficilissimi: invitato a comporre l'inno per le Olimpiadi berlinesi del '36, il musicista non pensa nemmeno al regime, intona un testo in cui si esaltano la forza e la festa della pace; e analogamente quando l'ambasciatore giapponese gli chiede una musica per celebrare il 2600 anniversario del Sol Levante: occasioni tutte di vistose commissioni, ragionando egli come avrebbe fatto Stravinskij, in puri termini di royalties.
Pensava dei governi come dei pubblici, che hanno una sola funzione: acquistare il (costoso) biglietto: se poi si divertono, tanto meglio. Ma la musica, in ogni caso, è composta per sé e per una piccola corte di illuminati, a cominciare dai suoi gloriosi collaboratori: Hofmannsthal, Zweig, Clemens Krauss.
Ultima levata di scudi, il saggio memorando di Theodor W. Adorno, singolarmente aggressivo (ma contro colui che a suo tempo aveva consigliato di inviare Schoenberg a spalare la neve), eppure trasudante, fra riga e riga, di segreti palpiti, essenziali per ottenere un miglior fuoco dalle nostre postere lenti.
Nei compendi, nelle brevi storie, l'autore di «Elektra» venne schedato per tempo come «post- wagneriano». (Si potrebbe sostenere come, ove un post compaia, affiori un sciocchezza: post-romantico, post-weberniano, post-moderno, e via discorrendo). In realtà, Strauss sapeva assai bene come Wagner non potesse in alcun modo essere aggirato, secondo pensò mezzo Novecento, e più, men che mai replicato e tuttavia, chi non ne avverta la precisa lontananza nelle composizioni potrebbe almeno documentarsi sui testi, riflessioni e memorie, lettere e discorsi.
Ecco alcune osservazioni agrodolci su Bayreuth: «L'idea dell'orchestra coperta, invisibile [...] trovo giustificata e di bellissimo effetto solo per il Parsifal [...]. Certo la voce e la parola risaltano meglio al Festspielhaus che non nei teatri d'opera dove l'orchestra è in vista e spesso in posizione rialzata. Ma a Bayreuth va perduto molto dell' infinita ricchezza delle partiture: mi basta ricordare i Maestri cantori». Ed ecco l'affondo conclusivo: «In generale sono favorevole al vecchio teatro italiano!». Già nel 1929, in piena rispondenza al neoclassicismo quale proposto da Stravinskij e Hindemith: «È mia convinzione che in avvenire la sola scelta determinante ai fini dell'efficacia drammatica sarà quella di un organico orchestrale ridotto [...] l'orchestra dell'opera dell'avvenire è l'orchestra da camera»: ove chiunque, il più sprovveduto, può notare l'effetto di una vicinanza: il Kammerorchester con la mitica Zukunftsmusik. E, di fronte alla selva della problematica wagneriana, ecco una sentenza di secca modernità: «Problemi: parola d'ordine cara a chi non riesce mai ad arrivare in fondo e sinonimo di incapacità a concludere».
Nel celebre decalogo di precetti pratici offerti ad un giovane direttore d'orchestra, aveva avvisato: «Dirigi Salome ed Elektra come se fossero state scritte da Mendelssohn: musica di elfi»; negli ultimi anni consigliava agli esordienti di studiare piuttosto «Carmen» che il «Ring», e a Richard I non mancava di rivolgere qualche pensierino irriverente: la «lirica un po' ridondante del grande maestro», la recitazione che procede «non senza destare di quando in quando una leggera impressione di monotonia»: asserto che dovrebbe segnare una partenza critica, e non è lontano dalla boutade attribuita con fondamento a Rossini: «meravigliosi minuti pagati da terribili quarti d'ora».
Con il passare degli anni, è ovvio che anche Strauss guardasse alla sua vecchia musica con occhi rinnovati. Non siamo, ad esempio, perfettamente sicuri che i quattro corni scolastici, che un giorno volle definire ironici nei confronti del personaggio cui sono legati, il profeta Jokanaan mangiatore di locuste, fossero stati pensati davvero secondo quella prospettiva tagliente. Certo il casto iracondo che rifiuta la principessa non gli riusciva simpatico, e pacificamente in tutta la stagione che include i poemi sinfonici, «Salomè» ed «Elektra», spirano venti d'ispirazione contraria da generare addirittura bufere o tornados.
Non si tratta di un cedimento all'illustrazione, indotto dal programma, o dal testo: quelle «esperienze aggressive oggi considerate - secondo un paradigmatico Massimo Mila - come le parti più deboli e invecchiate dei poemi» sono invece le zone in cui più riesce evidente l'allegro formalismo d'un compositore che, con la tradizione dell'interiorità romantica, si è deciso a tagliare i ponti, e può usare le «belle oasi basate soprattutto su tonica e dominante» e divertirsi insieme con cromatismi esasperati (la splendida musica dei nemici in «Ein Heldenleben» o, la bitonalità nella scena del litigio teologico, in «Salomè», le soluzioni atonali nel canto angosciato di Clitennestra), e accogliere tutto, fondandosi su un impeccabile gusto: le frecciate velenose nella irresistibile «Feuersnot», le ghiotte banalità che accompagnano Sancho in «Don Quixote», la canzone di Denza citata con trionfale sfacciataggine in «Aus Italien», la scandalosa (allora) gaiezza della «Burleske» per pianoforte e orchestra, e della Suite per «Der Bürger als Edelmann» con l'impudente violino zingaro.
Sono tutti assaggi che daranno frutti superbi, e che stanno a dimostrare la lenta formazione di un animus neoclassico, certo influenzato dai consigli pressanti di Hofmannsthal ma germinato su terreno non si potrebbe più propizio: con qualche ricaduta magari (i passi troppo seriosi della «Frau ohne Schatten», l' idea centrale di «Friedenstag», la tarda «Alpensymphonie» ad onta di luoghi di insostenibile fascino): dal 1911 Strauss si schiera su una poetica che - incredibile a dirsi - non è poi lontana dalle formulazioni di Parigi (Cocteau, Six, Stravinskij): anche se, nella sua prodigiosa sintesi, intervengano sempre modi della Romantik, dominanti ai tempi dell'apprendistato brahmsiano, ed ora divenuti materiali adespoti.
Due considerazioni si potrebbero proporre, a sostegno di questa interpretazione: primi i Lieder per voce e pianoforte, composti in varie età, e strumentati molti anni dopo. D'accordo, il pianoforte non era il suo forte, non fu mai un virtuoso, ma solo la scrittura orchestrale ne svela l'incontenibile voglia di piacevolezza. Basti solo ricordare l'incantevole «Wiegenlied» (op. 41 n.1), su versi di Richard Dehmel, nell'originale del 1899, e nella orchestrazione del 1916: il modesto arpeggiare sulla tastiera viene sollevato all'assoluto dalle tre viole sole, che compiono il miracolo del trapianto: dal terreno che è ancor quello di Schumann alla «seta cangiante» - sono parole sue - della fonicità totalmente rinnovata: il timbro è tutto, l'esile piantina del giardino romantico ha trovato l'humus nuovo.
Stravinskij, al solito, fu avaro nei confronti del collega, scadendo fino a una mediocre aneddotica. Ma, orecchio di implacabile attenzione, colse il punto di sutura fra due pratiche ritenute incompatibili quando, dopo aver espresso il suo «rispetto», confinò in una nota il riconoscimento che ci sta a cuore: «La gioiosa fuga del 'Capriccio' e il duetto italiano che la precede mi piacciono più di qualsiasi altra cosa di Strauss». Non gli era certo sfuggita, nell'opera di congedo, la sovrapposizione alla tenue vicenda degli incombenti archetipi: esattamente come nella lingua settecentesca di Auden librettista, e, s'intende, nella sua musica. Infine, la lirica dello Strauss estremo, e soprattutto quella, sta a Schubert e Schumann come Stravinskij a Rossini e Cajkovskij.
Riteniamo, infine, che la grande fioritura straussiana sia quella della maturità, e dei tardi anni. In tutte le sue opere posteriori al «Rosenkavalier» vi sono eventi di novità sensazionale: è l'unica osservazione che rivolgiamo al bellissimo libro di Quirino Principe, il dare spazio esiguo agli ultimi lustri. Il fulgore di quell'autunno (che, con il debito rispetto per il suo collega sommo, tutto è tranne che «opera di un epigono») investe, anzitutto, «Ariadne auf Naxos» (che valse a Strauss la cittadinanza onoraria dell'isola): non si può fra tanto teatro di maschere, marionette e melarance indicare esito più infallibile della sua polca in tempo misurato: una irresistibile babilonia, destinata a ritrovarsi in mille epigoni veri: diciamo nel second' atto della «Tote Stadt» di Korngold, con la canzonaccia impertinente, pronta per un tenore da Volksoper. Un «bell'ermafrodito» davvero, giudicava felice l'autore, nella prima versione: ma un modello di duplicità stilistica nella definitiva.
Può essere che le ultime, o le penultime cose risentano qua e là di stanchezza. Pure, ciò che le solleva verso la perfezione rimane il segno tagliente, e la continua capacità di inserti alieni, anche in diversi linguaggi: la canzone del Piemontese in «Friedenstag», «La rosa, la rosa», le citazioni della «Schweigsame Frau»: Monteverdi, Legrenzi, un frammento del Fitzwilliam Virginal Book a cui (ancora una volta) Strauss sta come Stravinskij al suo vero o falso Pergolesi. E in tutta (o quasi) la «Liebe der Danae» il più divertente Offenbach torna a rivivere, ad incommensurabili livelli: suo avrebbe riconosciuto il quartetto delle regine, Semele, Europa, Alcmena, Leda, pronte si direbbeper rinati Bouffes-Parisiens.
Come in ogni neoclassicismo, la coscienza è tutto: Ingres sapeva misurare la distanza dal «divin Raphaël», e Canova pianse al vedere gli originali greci. Strauss poté pensare che taluni luoghi della «Liebe» potessero «essere collocati tra i vertici più alti della storia della musica», ma non ignorava d'essere l'ultimo, l'ultimo almeno della dinastia cui legittimamente apparteneva. «Hubsch» (grazioso, carino) era stato il complimento rivoltogli da Brahms, subito pronto peraltro a suggerirgli di studiare i «Deutsche Tänze» schubertiani, tentare la melodia canonica d' otto più otto battute.
Sapeva che le sue strutture erano, delle forme classiche, innamorate parodie: il rondò non può sopravvivere a quanto ne fa il« Till Eulenspiegel»; la variazione, così cara alla modernità, il «Don Quixote» «porta all'assurdo, irridendola in modo tragicomico»; le due Sonatine (segnatamente quella dedicata «ai mani del divino Mozart, al termine di una vita piena di gratitudine») dilatano la forma-sonata oltre ogni possibilità, ogni implicitazione. Nel 1945, dopo aver ancora una volta proclamato l'unicità del modello mozartiano, si augurava che le sue quindici opere potessero occupare «un posticino vicino all'Unico», ossia «un luogo onorevole nella storia universale alla fine della 'parabola'»; ma concludeva: «La fioritura della tragedia greca è durata esattamente un secolo; il grande teatro spagnolo non molto di più, Shakespeare non più di vent'anni. Che la grande musica tedesca sia arrivata alla fine dopo duecento anni?».
Resta fermo che, quella musica, si doveva intendere, wagnerianamente, quale aurora noumenica: Wagner appunto aveva affermato: «Essere tedesco vuol dire fare una cosa per amore della cosa in sé». Una simile volontà, e certezza, d'autonomia è la forma di conoscenza religiosa che Strauss ha illustrato, e difeso: proprio lui, che si affrettava a riaffermare, à la Nietzsche, la propria antipatia verso il Cristianesimo, e a raccontarci che i temi del «Don Juan» gli erano venuti in mente visitando, a Padova, la basilica di S.Antonio. Anche se le sue affermazioni possano sonare non in tutto persuasive le confermano, con ben altra autorità, i prodigi che gli furono concessi: «Simboli non 'inventati', ma 'elargiti in sogno' [...] 'archetipi' non riconoscibili con gli occhi, non afferrabili con la ragione, intuibili [...] tramite l' orecchio che li 'inspira'». Gli occorrevano puntualmente: la voce della conchiglia contralto nella «Agyptische Helena», la scena della cartomante e il finale di «Arabella», la metamorfosi di Daphne, la «Deutsche Motette» su poesia di Rückert, il monologo conclusivo di «Capriccio», i «Vier letzt Lieder» stupefacenti.