EDWARD J. DENT

IDOMENEO DI W. A. MOZART

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Mozart lasciò Parigi nel settembre 1778 e fece ritorno a casa transitando per Mannheim, come aveva fatto all'andata. L'attrattiva di Mannheim era costituita, senza dubbio, dalla famiglia Weber; Mozart era stato preso da violento amore per Aloysia, la figlia maggiore, e sperava che fosse giunto il momento di farla sua sposa. Ma era una Mannheim profondamente cambiata quella in cui egli si ritrovò nel 1778; la corte elettorale era stata trasferita a Monaco, e con essa se n'erano partiti la maggior parte dei musicisti e degli attori, compresi i Weber. Egli trovò un pretesto per recarsi a Monaco nel gennaio 1779 e si presentò ad Aloysia con la più bella tra le Arie che aveva scritto per lei, «Popoli di Tessaglia»; ma l'atteggiamento di lei nei suoi confronti era cambiato: egli non le interessava più. Accettò comunque la composizione e rimase in seguito in relazione con lui per ragioni musicali.
Fu dunque un Mozart profondamente amareggiato quello che ritornò ad assumere l'incarico di organista della cattedrale di Salisburgo. Egli odiava l'arcivescovo, odiava in generale i salisburghesi, e riusciva a trar piacere solo dalla compagnia del padre e della sorella, sebbene possiamo essere sicuri che Leopold, nonostante tutto l'affetto, mettesse spesso alla prova i suoi nervi. L'occasione di scrivere un'Opera Seria sembrava più lontana che mai. L'unico elemento di rottura della monotona vita a Salisburgo fu l'arrivo della compagnia teatrale di Schikaneder, che rappresentò «Thamos, König in Agypten», di Gebler. Mozart riprese la musica che aveva scritto per Gebler nel 1773, e la rimaneggiò con qualche aggiunta. L'interesse principale che per noi il «Thamos» presenta è il suo legame con Die Zauberflöte, e riserveremo più avanti un capitolo alla storia dell'amicizia di Mozart con Schikaneder e del suo interesse per i misteri egiziani. «Thamos» non fu un successo. È evidente che Mozart ne apprezzava la musica, poiché ne fa di nuovo menzione in una lettera al padre da Vienna nel 1783: «Mi spiace molto di non poter utilizzare la musica del 'Thamos'. L'opera ha una cattiva reputazione dopo il suo insuccesso e non è più stata rappresentata dopo di allora. Occorrerebbe eseguirla per amore della musica, ma è assai poco probabile: è un vero peccato».
Un altro lavoro drammatico cui dobbiamo riservare un ulteriore capitolo è un'Opera tedesca incompiuta che sembra esser stata principiata da Mozart in vista di una rappresentazione a Salisburgo. Il libretto era del suo vecchio amico Schachtner, al quale i posteri sono debitori di molti preziosi ricordi della prima infanzia di Mozart. Il testo è per la maggior parte perduto, e neppure il titolo ne è noto. La musica venne pubblicata sotto il nome della protagonista, Zaide. Nulla si conosce delle circostanze nelle quali l'Opera fu scritta, ma poiché essa non richiede numerosi cantanti né grande orchestra, possiamo legittimamente supporre che Mozart, condotto alla disperazione dalla tetraggine della vita a Salisburgo, abbia fatto un tentativo di allestire in qualche modo una rappresentazione operistica con i mezzi modesti che poteva reperire presso i suoi amici personali. La composizione venne probabilmente interrotta dall'invito, che egli ricevette nell'estate del 1780, di scrivere un'Opera Seria destinata a Monaco.
Finalmente la grande occasione per Mozart. Il libretto doveva essere scritto dall'abate Giovan Battista Varesco, cappellano dell'arcivescovo di Salisburgo, così che compositore e poeta avrebbero avuto la possibilità di lavorare insieme. Sfortunatamente, il cappellano dell'arcivescovo non aveva alcun senso del palcoscenico. Mozart, come sempre, rimandò la composizione della maggior parte dell'Opera alle ultime poche settimane di prova, e scrisse da Monaco per chiedere che alcune scene fossero modificate. Varesco si indignò alla mutilazione del suo capolavoro, e insistette affinché, se Mozart avesse operato tagli, il suo dramma apparisse integralmente almeno nell'edizione a stampa.
Lo schema generale di Idomeneo, Re di Creta, scritto su modello di un libretto francese di A. Danchet, musicato da Campra nel 1712, avrebbe potuto fornire occasioni eccellenti a un poeta che conoscesse le esigenze del teatro. Varesco aveva letto senza dubbio il suo Metastasio, ma doveva averlo letto con gli occhi del predicatore, non con quelli del drammaturgo. Metastasio aveva capito meglio di ogni altro che un libretto d'Opera, anche del genere più nobile, doveva essere conciso e immediato. Varesco è verboso e sentenzioso; non sembra essersi immaginato per un solo istante gli effetti dei suoi versi messi in musica e trasportati sul palcoscenico. In aggiunta, pare che egli fosse un individuo con il quale era assai difficile e sgradevole aver a che fare. Wolfgang non fu mai direttamente a contatto con lui, ma si servì del padre come intermediario; sappiamo dalle lettere di Leopold che il reverendo abate non solo acconsentì con grande difficoltà a effettuare modifiche al suo testo, ma avrebbe voluto, per fare ciò, un compenso aggiuntivo, come uno stampatore.
Poi arrivarono le difficoltà con i cantanti. Il ruolo principale era affidato al tenore Raaff, eccellente cantante ma pessimo attore; per di più, a quell'epoca aveva la bella età di sessantacinque anni. Come ci si poteva attendere, egli si degnò di beneficare Mozart con i frutti della sua lunga esperienza teatrale: ossia, di ostacolare il più possibile il giovane compositore ogni volta che il suo genio lo conducesse lungo sentieri di inconsueta originalità. Panzacchi, il secondo tenore, era un ottimo attore non sprovvisto di talento vocale; ma poiché anch'egli era un vecchio uomo di teatro, si concesse più occasioni per mettersi in mostra di quante il ruolo di semplice confidente esigesse. Ma l'intoppo più disastroso fu Dal Prato, cui era affidato il ruolo giovanile di Idamante. Il «mio molto amato castrato Dal Prato», come lo chiamava Mozart, non poteva certamente correre il rischio d'essere troppo anziano o troppo esperto, era appena un ragazzo, che non era mai salito sul palcoscenico. La sua voce era ancora poco educata, o per nulla educata, ed egli non aveva intelligenza né per la musica né per qualsiasi altra cosa. Sembra che Mozart abbia speso infinita pazienza per tentare di educarlo, e dalle sue lettere sappiamo che preferiva una simile stupidità alla sufficienza degli 'intenditori'. I ruoli femminili, per fortuna, furono sostenuti da Dorothea ed Elisabeth Wendling, abili cantanti che non procurarono fastidi al compositore.
Le lettere di Mozart al padre rivelano in lui un forte senso teatrale. Ogni musicista avrebbe potuto lamentarsi di vedere il poeta indicare «a parte» durante un'Aria, oppure completare il senso di un verso in quello successivo: difetti ancor più imperdonabili a quell'epoca che ai giorni nostri, poiché la struttura simmetrica dell'Aria del secolo XVIII sarebbe stata distrutta da una costruzione irregolare del verso, e un «a parte» nel corso di un'Aria avrebbe dovuto essere ripetuto in modo inopportuno e antidrammatico. Ma Mozart seppe osservare cose più essenziali di queste. La sua ingegnosità tecnica lo rendeva facilmente capace di superare i problemi di struttura musicale, sebbene i suoi cantanti, provvisti d'età e di esperienza, si irrigidissero contro tutto ciò cui non erano stati abituati negli ultimi quaranta anni.
Ma occorreva correggere senza alcun compromesso gli errori drammatici di Varesco. Questi aveva fatto entrare Idomeneo in scena, subito dopo il naufragio, aggrappandosi agli scogli posti sul fondo del palcoscenico; Mozart e Quaglio, lo scenografo, si resero conto che ciò sarebbe stato privo di efficacia e avrebbe spogliato il personaggio di dignità, e fecero entrare il re con qualcuno del seguito che egli congedava alcuni versi più avanti, così da essere solo all'incontro con il figlio. La scena seguente aveva dovuto subire numerosi tagli (e nelle rappresentazioni moderne è necessario snellirla ulteriormente): Raaff e Dal Prato erano ambedue attori tanto mediocri che era assolutamente impossibile affidar loro il lungo dialogo in recitativo secco. La stessa cosa accadde al dialogo tra Idomeneo e il confidente Arbace, all'inizio del secondo atto. Per il coro Placido è il mar, Varesco aveva scritto numerose strofe; Mozart le ridusse a una. Tra il coro della tempesta e il coro finale di questo atto il librettista aveva collocato un'Aria per Idomeneo; Mozart comprese che essa avrebbe distrutto l'intero effetto drammatico e insistette per avere soltanto un breve recitativo. Analogamente, nel terzo atto, Varesco desiderava che Ilia e Idamante cantassero un duetto di circostanza al momento del sacrificio. Se fosse stato seguito il consiglio di Raaff, avremmo perduto il più bel brano di tutta l'Opera, il quartetto del terzo atto; l'autorevole tenore riteneva che al suo posto avrebbe potuto meglio collocarsi un'Aria a lui destinata.
È evidente che l'intenzione di Varesco era quella di seguire il tradizionale sistema di Apostolo Zeno e di Metastasio: dividere il libretto in ciò che i poeti chiamavano «scene», e concludere ogni «scena» con un'Aria, dopo la quale il cantante exit. Sistema assai pratico, poiché permetteva al pubblico di applaudire a piacimento senza con ciò disturbare lo svolgimento drammatico. Appare chiaro che invece Mozart considerava il teatro dal punto di vista di Gluck e dei librettisti francesi. L'Opera Seria italiana, in generale faceva poco o punto uso del coro; per la Francia, al contrario, il coro costituiva un elemento indispensabile dell'Opera Seria e il suo valore derivava dal fatto che esso permetteva al compositore di costruire un potente crescendo sonoro alla fine di un atto. L'Opera italiana non miró mai a questo; alla fine dei Melodrammi troviamo bensì qualcosa che è segnato come «coro» in partitura (se ne trova facilmente esempio nelle Opere di Händel), ma «coro» in molti casi non è altro che la riunione dei principali personaggi per un breve brano d'insieme. L'elaborato finale che troviamo in Opere come Le nozze di Figaro e Don Giovanni è in sostanza derivato non da Opere Serie italiane o francesi, ma dall'Opera Comica italiana; i primi esempi del che troviamo nelle scene di litigio tra due personaggi, come si vede negli episodi comici delle Opere di Alessandro Scarlatti: indi, il numero degli interlocutori andò gradualmente aumentando, sino a sei o sette, con un corrispondente incremento di durata.Ma occorre sottolineare che questo tipo di finale comico non è praticamente mai corale, non più di quanto lo sia nella maggior parte delle Opere di Händel; il coro drammatico è pura invenzione francese.** Varesco aveva evidentemente studiato le tragedie greche altrettanto bene che le loro moderne imitazioni; la sua «ironia drammatica» e la sua «scena dell'agnizione» non sono niente più che un fin troppo noioso omaggio ai classici. Ma, come i primissimi librettisti italiani, egli seguì la tradizione classica con l'affidare al coro un ruolo drammatico veramente importante, e Mozart fu pronto a trarne vantaggio.
Sembra che fosse abitudine costante di Mozart - e forse di tutti i compositori drammatici dell'epoca - di comporre circa la metà dell'Opera al ricevimento del libretto e di proseguirne la composizione dopo l'inizio delle prove. In realtà, i librettisti erano spesso in ritardo, e non sempre consegnavano ai loro compositori un libretto completo da capo a fondo: più spesso, glielo davano a rate. I cantanti, dolorosa esperienza di tutti i compositori, erano soprattutto bravi nel creare ostacoli, e Mozart spese molto tempo nel modificare le sue Opere secondo le loro richieste. Risultato di questo sistema di lavoro è che, quando oggi noi allestiamo su un palcoscenico moderno un'Opera di Mozart, vi vediamo sempre trasparire, negli ultimi atti, modifiche e rappezzi. Il regista si scontra così con i più strani problemi quando si sforza di reintrodurre principi di continuità e di unità drammatica. Fu il terzo atto di Idomeneo a costituire per Mozart la maggiore difficoltà. Varesco sembra esser stato assai impreciso sui necessari cambiamenti di scena. Secondo la partitura, esistono tre quadri distinti: il giardino reale, per la scena tra Ilia e Idamante, il grande quartetto e il monologo di Arbace; l'esterno del palazzo reale, per il racconto del Gran Sacerdote e ilcoro dei cretesi; infine, la facciata del tempio di Nettuno, di fronte al quale deve, a quanto sembra, svolgersi il sacrificio interrotto, la collera di Elettra (a quest'ultima occorre, ovviamente, l'intero palcoscenico) e l'abdicazione di Idomeneo. Dalle lettere di Mozart apparirebbe che, in realtà, non vi sarebbe stato alcun cambiamento di scena alla prima rappresentazione. Arbace cantava la sua Aria e, conformemente all'etichetta dell'Opera italiana, usciva di scena al termine di essa; ma Varesco ve lo faceva rimanere con Idomeneo sino all'inizio del discorso del Gran Sacerdote. «Come può essere ancora là?» si domanda Mozart. «Se ne può stare benissimo da un'altra parte,» (non ha niente da dire in questa scena) «ma, per mettere a posto la cosa ho dovuto scrivere un'introduzione un po' più lunga per il recitativo del Gran Sacerdote.» La scena successiva presentava difficoltà analoghe: «Dopo il coro di lamentazione, il re, il popolo e tutti gli altri se ne vanno, e nella scena successiva si trova l'indicazione 'Idomeneo in ginocchio nel tempio'. È impossibile; egli deve arrivare accompagnato da un corteo completo cosicché di necessità deve esserci una marcia. Ne ho scritto una assai semplice per archi e due oboi, che è eseguita a mezza voce mentre il re entra e i sacerdoti preparano gli strumenti per il sacrificio; solo allora il re si inginocchia e comincia la sua preghiera». Occorre ricordare che nell'Opera Seria era consuetudine che i grandi personaggi fossero accompagnati da un numeroso corteo, e le vaste dimensioni dei teatri italiani richiedevano, in materia di processioni, un numero di persone sufficiente a riempire il palcoscenico.
Per quanto concerne i cambiamenti di scena, i teatri dell'epoca erano in grado di realizzarli con grande rapidità e a vista, grazie al sistema di quinte e fondali. Il sipario principale non veniva calato; è difficile stabilire la esatta data a partire dalla quale venne fatto calare alla fine di ogni atto d'Opera. È probabile che in Idomeneo esso non venisse mai chiuso sino alla fine, se si giudica da ciò che avviene in scena; d'altra parte sembra certo che il sipario di scena dovesse calare alla fine di ogni atto ne Le nozze di Figaro e in Don Giovanni. Ma si possono segnalare Opere Buffe di Leo e di Pergolesi (fra il 1730 e il 1740) in cui gli elaborati finali sono ingegnosamente concepiti in modo da condurre gradualmente i personaggi fuori della scena lasciando il principale basso buffo, generalmente un vecchio in collera, a fare per conto proprio la sua uscita. Il cambiamento delle quinte avveniva grazie a un meccanismo collocato sotto il palcoscenico, come è possibile ancora vederne in alcuni vecchi teatri tedeschi [Ancora recentemente in opera a Ludwigsburg, presso Stoccarda.]; col solo movimento di una leva, tutte le quinte retrocedevano e un altro gruppo ne prendeva il posto; il fondale era tutto avvolto su un cilindro; solo verso il 1800 o anche più tardi i fondali poterono esser completamente sottratti alla vista senza venire arrotolati. Nei teatri inglesi spesso non c'era fondale ma un paio di ampi sipari che si univano al centro (anche se talvolta in,modo alquanto sommario). Questo sistema di rapida sostituzione delle quinte senza dubbio spiega i cambiamenti di scena nel terzo atto dell'Opera, che divengono molto più difficili a realizzare nelle attuali condizioni.
Idomeneo deve tanto i suoi difetti quanto i suoi pregi al fatto che si tratta di una mescolanza di due modelli d'Opera, italiano e francese. Varesco fondò il proprio lavoro su un libretto francese e, probabilmente senza tener conto in alcun modo degli effetti drammatici, lo trasformò inuna imitazione di Metastasio, angusta quanto il suo modesto pensiero era in grado di concepire. Mozart, nel porre questo libretto in musica, fu francese per deliberazione, italiano per istinto. Il pubblico d'oggi, in un certo modo avvezzo alle opere di Gluck, tende a commuoversi naturalmente soprattutto di fronte ai momenti francesi dell'Opera, ossia i grandi cori, le marce e gli interludi strumentali, i recitativi nobilmente accompagnati e rigorosamente ispirati a quelli dell'Alceste. Ci occorre un maggiore sforzo per concentrare la nostra attenzione sulla bellezza delle scene italiane. Gli spettatori odierni provano orrore nei confronti del recitativo secco, e forse a ragione, dal momento che lo conoscono solo attraverso l'esecuzione dei nostri cantanti di Oratori classici. Il recitativo secco è un metodo esclusivamente italiano di utilizzare il linguaggio. I recitativi drammatici di Purcell, accompagnati o no, sono sempre strettamente ritmici e il loro ritmo è determinato più dai normali metri della musica che da quelli della prosa o dei versi sciolti inglesi. Inoltre, la quantità variabile delle sillabe inglesi richiede che il compositore faccia uso di una gamma di durate, semiminime e biscrome oltre che crome, laddove il recitativo italiano di rado impiega altra misura che non sia la croma. Il recitativo francese, legato al ritmo naturale del verso francese, si avvale dei tre valori di durata in una mescolanza ancor più generosa di quella inglese, e con uno stile declamatorio in generale più nervoso. L'italiano, sebbene il verso sia teoricamente più vario nella quantità rispetto al francese, mantiene come unità fondamentale la croma; nella pratica, sembra poi che il cantante si veda concedere una latitudine ritmica assai maggiore.
I critici italiani affermarono sempre che l'Opera francese consistesse interamente di recitativi, ma il fatto è che l'Aria francese è più strettamente imparentata con il recitativo perché lo stesso recitativo tende ad avvicinarsi ai ritmi e alle inflessioni dell'Aria. Nell'Opera italiana il contrasto era invece estremo, e solo in rari momenti di recitativo accompagnato ci si avvicinava all'Arioso. Poiché le Arie italiane sono solitamente espressione di una emozione individuale, tutto l'elemento drammatico, termine col quale vogliamo indicare la reciproca influenza dei personaggi, doveva esprimersi - per non parlare degli indispensabili passaggi in cui occorreva semplicemente fornire al pubblico elementi informativi - nel recitativo secco; quanto più questo elemento drammatico era abbondante, tanto più cresceva la presenza dei recitativi e la necessità di condurli rapidamente a conclusione. Il recitativo italiano, accompagnato solo da accordi sul clavicembalo, assolve mirabilmente a questa funzione, a condizione che i cantanti lo interpretino con il naturale andamento del discorso parlato.
L'inglese medio di oggi ha spesso dato inizio alla propria educazione lirica ascoltando, magari grazie a incisioni discografiche, Arie staccate d'Opera, oppure assistendo a commedie musicali od operette in cui l'intreccio della trama, sentimentale magari, ma certamente non poetico, è reso comprensibile da dialoghi parlati. Egli collega naturalmente il recitativo cantato soltanto con l'Oratorio. Ma occorre ricordare che l'Opera delle origini era fatta di solo recitativo; esso fu la principale, se non l'unica, ragione della sua, creazione, e sino all'epoca di Pepys l'entusiasmo per la recitative musick mandò in delirio l'Inghilterra. Una simile origine spiega la sopravvivenza del recitativo in Italia sino alla nostra epoca; si è affermato come stabile principio il fatto che nessun italiano potrebbe ammettere dialogo parlato inun'Opera, per quanto la declamazione del recitativo comico si sia avvicinata ad esso.**
Il recitativo di ogni specie, quello secco soprattutto, doveva inevitabilmente costituire un insopportabile fastidio per il pubblico che non comprendeva l'italiano. Lo era d'altronde per gli stessi italiani.
Rousseau lo ammette nel suo Dictionnaire de Musique, sebbene mostri il suo incrollabile entusiasmo per tutto ciò che è italiano e il suo disprezzo per tutto ciò che è francese: «Démosthène parlant tout le jour ennuieroit à la fin; mais il ne s'ensuivroit pas delà que Démosthène fût un Orateur ennuyeux. Ceux qui disent que les Italiens eux-mêmes trouvent leur Récitatif mauvais le disent bien gratuitement; puis,qu'au contraire il n'y a point de partie dans la Musique dont les Connoisseurs fassent tant de cas et sur laquelle ils soient aussi difficiles. Il suffit méme d'exceller dans cette seule partie, fût-on médiocre dans toutes les autres, pour s'élever chez eux au rang des plus illustres Artistes, et le célèbre Porpora ne s'est immortalisé que par-là».
Che Rousseau, per quanto concerne l'ultima frase, fosse bene informato, si può aver qualche dubbio; ma, a parte questa esagerazione, egli dice probabilmente il vero per l'epoca in cui scrive (1768). Rousseau divideva il recitativo in tre generi: recitativo propriamente detto (ossia il recitativo secco); recitativo accompagnato, simile a quello secco, ma sostenuto da accordi eseguiti dagli archi; e recitativo obbligato, il termine con cui designa quella specie di recitativo accompagnato che si sviluppò attorno alla metà del secolo: «C'est celui qui, entremêlé de Ritournelles et de traits de Symphonie, oblige pour ainsi dire le Récitant et l'Orchestre l'un envers l'autre, en sorte qu'ils doivent être attentifs et s'attendre mutuellement. L'Acteur agité, transporté d'une passion qui ne lui permet pas de tout dire, s'interrompt, s'arréte, fait des réticences, durant lesquelles l'Orchestre parle pour lui; et ces silences, ainsi remplis, affectent infiniment plus l'Auditeur que si l'Acteur disoit lui-méme tout ce qui la musique fait entendre ».
È la definizione data da un francese appassionato di tutte le idee italiane; un italiano avrebbe forse difficilmente accettato il fatto che si possa essere trasportati dalla passione e non parlare, o non cantare. E il recitativo accompagnato (come gli inglesi e gli italiani lo chiamano), nelle mani di un compositore di second'ordine poteva divenire tanto fiacco e convenzionale quanto un recitativo secco. In Germania esso condusse alla pratica - che ebbe un'effimera moda all'epoca di Mozart - del cosiddetto Melodramma, alternanza di commento strumentale e di recitazione parlata. I compositori tedeschi, forse da esso influenzati, e senza dubbio spinti dalla loro abituale tendenza a preferire la musica strumentale a quella vocale, erano portati a far sì che i cantanti e l'orchestra andassero avanti in una sorta di stichomythia dal ritmo monotono e assolutamente micidiale per l'effetto drammatico in vista del quale era stata concepita. Ne troviamo esempi in compositori come Holzbauer, ma anche in Gluck, e talvolta nello stesso Mozart.
L'Aria è un'altra forma che il pubblico contemporaneo, soprattutto formatosi su Wagner, considera comeantidrammatica. Tuttavia, se si vuole onestamente riconoscere la verità, sono le Arie, o i movimenti dal carattere dell'Aria, che hanno assicurato l'immortalità a tutte le Opere più celebri. Gli storici citano sempre e continuamente la prefazione dell'Alceste di Gluck, ma ciò che spinge il pubblico ad ascoltare l'Orfeo è la gradevole melodia di Che farò e la grazia piena di dignità della musica di danza. Ci è naturalmente difficile trasportarci all'epoca dell'Aria händeliana col Da Capo, ma all'epoca in cui Mozart era un compositore giunto alla maturità, l'Aria col Da Capo era del tutto desueta. Come vedremo nel prossimo paragrafo, la parte centrale della vecchia Aria tripartita era caduta, e la prima parte di essa era stata sviluppata in qualcosa di simile alla forma-Sonata. Quest'ultima era diventata la forma tipica praticamente per ogni genere di musica, vocale, per danza, o sinfonica, eccezion fatta per la Fuga severa (ma anch'essa era stata influenzata dalla forma-Sonata nella sua costruzione). E, all'epoca di Mozart, l'Opera Seria, grazie a Gluck, aveva cominciato a far propri alcuni elementi dell'Opera Comica, il più importante dei quali era il Rondò - Che farò ne è un esempio - con la sua triplice ripetizione del semplice motivo iniziale. Esiste un altro modello, che troviamo nella prima Aria di Orfeo, in cui si alternano tre ripetizioni di una semplice melodia in 3/8 con due Ariosi intermedi in 4/4; è quasi un ritorno dell'alternanza ritornello-recitativo-ritornello del celebre Lamento d'Arianna di Monteverdi. L'ordinaria forma Da Capo si trova in Orfeo (terzo atto, Aria di Euridice) e nella famosa Divinités du Styx della stessa Alceste.
Ancora più fastidiose per un pubblico contemporaneo appaiono le lunghe introduzioni strumentali a molte Arie nelle prime Opere di Mozart, soprattutto quelle che comprendono una esposizione concertante di strumenti singoli. Si deve ammettere che Mozart commetteva talvolta errori di giudizio nel desiderio di piacere ai suoi colleghi musicisti. Nelle Opere di Gluck le introduzioni sono spesso intensamente espressive, e ancor di più lo sono i brevi assolo strumentali, in particolare quelli per l'oboe, che in talune Arie entra in una sorta di dialogo col cantante. Mozart, che mira al medesimo modello espressivo, era un compositore orchestrale molto più completo di Gluck già all'età di vent'anni o meno, e aveva fatto maggior pratica della composizione sinfonica o concertante. Questa facilità e rapidità nella composizione puramente strumentale lo spingono a tentare di combinare l'assolo strumentale di Gluck, dalla spontanea e talvolta persin cruda espressività,
con la compiuta eleganza di un Concerto, particolarmente in ragione delle sue relazioni amichevoli con interpreti che egli si compiace di porre in bella evidenza. Si aggiunga l'incomparabile grazia mozartiana (non vi è altro possibile epiteto) della pura melodia, e l'intera Aria, la voce incastonata nell'inseparabile contesto orchestrale, diviene uno spiegamento di serena e squisita bellezza musicale che eclissa interamente le passioni umane che dovevano essere originariamente poste in luce.
Nelle Opere successive Mozart abbandonò questo accompagnamento concertante; la sola reminiscenza che ne rimane è nella Zauberflöte, in cui flauto e campanelli magici sono impiegati in modo visibile sulla scena dagli attori e costituiscono parte integrante del dramma stesso. Ma altri compositori, soprattutto Méhul e Cherubini, continuarono sistematicamente a porre in rilievo gli strumenti solistici nelle loro Opere; ne troviamo numerosi esempi anche in Spontini e Meyerbeer, in Donizetti e persino nel giovane Verdi. Non c'è dubbio che il pubblico aveva piacere di ciò, e ne avrebbe ancora se il virtuosismo degli esecutori fosse idoneo all'impegno.[Per scrupolo di precisione, non posso tralasciare l'«obbligato» per «corno di bassetto» nella Clemenza di Tito.]
Per finire, ascoltando Idomeneo, dobbiamo cercare di dimenticare l'ansia della vita moderna e abbandonarci a un senso dell'ozio di cui i nostri antenati sapevano fortunatamente approfittare. Anche alla prima rappresentazione, Idomeneo dovette essere abbreviato; ma non possiamo credere che quegli spettatori fossero messi in agitazione, durante l'ultimo atto, dal timore di perdere l'ultimo mezzo pubblico per Schwabing o per Isarthal. Idomeneo, forse più che ogni altra Opera, illustra il fatto che la storia di un'Opera lirica è simile a un torrente che scorre a lungo in uno stretto canale, perdendosi talvolta sottoterra, gettandosi talora in un precipizio, e allargandosi a frequenti intervalli in un lago vasto e tranquillo. Gli aspetti che ci offre sono vari, come i paesaggi dei quali diventa parte; eppure, largo o stretto, superficiale o profondo, esso si spinge comunque in avanti e prende sempre più forza sino al raggiungimento della sua meta definitiva.
II
Ciò che soprattutto colpisce, in Idomeneo, sono la nobiltà e l'altezza della concezione d'insieme. Basterebbe la sola Ouverture a dare sufficiente prova della sublime immagine che per Mozart l'Opera Seria costituiva, e neppure per un istante, nel corso dell'intera partitura, il compositore abbandona la sua profonda attitudine eroica. Non per questo si può definire l'Idomeneo una fredda e statica successione di brani accademici: quest'attributo potrebbe forse applicarsi a La clemenza di Tito, frutto dell'estremo deperimento fisico di Mozart, ma mai all'Idomeneo. Nei suoi primi approcci con l'Opera Seria, Mozart si era piuttosto preoccupato di fornire al pubblico e ai cantanti ciò che da essi veniva richiesto; ma ora, giunto ai venticinque anni, possedeva sufficiente esperienza della vita per ritenersi in grado di penetrare a fondo nel carattere dei suoi personaggi. Può non ritrovarsi, qui, la finezza dei particolari psicologici de Le nozze di Figaro o di Così fan tutte, o la sublime e semplice naturalezza della Zauberflöte - qualità peraltro del tutto estranee allo stile complessivo di quest'Opera -; ma vi si riconoscono una forza monumentale e un passionale ardore che, dopo questo lavoro giovanile, non apparterranno ad alcun'altra creazione di Mozart. L'Idomeneo è la prima e ultima Opera Seria in cui si manifesti il Mozart maturo e perfetto.
Gli odierni studiosi di Mozart hanno scarse possibilità di assistere a una rappresentazione dell'Idomeneo; ma senza un attento e meticoloso studio di quest'Opera non v'è possibilità di comprendere appieno le altre composizioni del Maestro, in particolare quelle destinate al teatro. È questa la dimensione in cui egli appare nella sua più autentica realtà di uomo; le pagine concertistiche, sinfoniche, quartettistiche e sonatistiche rappresentano altrettante evocazioni della sua musica teatrale. E, nell'ambito della sua produzione melodrammatica, una piena conoscenza di Idomeneo è indispensabile: si tratta infatti della sola Opera in cui ci venga offerto un vero modello di nobiltà e di grandezza. Chi considera "grandi Opere" Le nozze di Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte, e la stessa Zauberflöte, semplicemente non sa quel che dice. Se fosse appena in grado di comprendere l'Idomeneo, sarebbe costretto ad ammettere che le quattro celebri Opere non sono soltanto zeppe di banalità, ma che difficilmente potrebbe trovarvisi qualche singolo brano che possa esser paragonato a quelli dell'Idomeneo. Impiego deliberatamente il termine "banalità": le banalità di Mozart - ve ne sono anche nella Zauberflöte - sono pur sempre sue, e appaiono ogni volta abbastanza appropriate alla situazione da fare la gioia di chi le ascolta. Anche i brani più solenni della Zauberflöte potrebbero con difficoltà far parte dell'Idomeneo; essi non emanano dall'atmosfera della tragedia classica, ma da quella di un religioso misticismo.
È assurdo parlare di Mozart come di un individuo rimasto fanciullo per tutta la vita, oppure come di un compositore ammodo che non abbia mai cercato altro che compiacere a un pubblico di aristocratici con una serie di graziose frivolezze. In un solo senso si potrebbe affermare che egli sia rimasto infante: la sua appassionata serietà, nel completo abbandono di sé a un impulso emotivo che talvolta (come nel Requiem) assume un carattere certamente isterico. Stendhal, nelle sue Lettere su Haydn, paragona Mozart al pittore Domenichino [Per comprendere il punto di vista di Stendhal, occorre ricordare che egli paragona Pergolesi a Cimarosa e a Raffaello; Händel a Michelangelo; Haydn a Tintoretto e Gluck a Caravaggio]: «Ma Domenichino avrebbe dovuto, per assomigliare a lui sino in fondo, esprimere la malinconia con colori più intensi». Altrove sostiene l'opinione secondo cui, a suo parere, e contrariamente a quanto affermano gli italiani, la prima Opera Seria non sia Gli Orazii e i Curiazii di Cimarosa, ma Idomeneo o La clemenza di Tito. Dobbiamo considerare con qualche indulgenza il romantico sentimentalismo di un francese italianizzato dell'epoca di Byron, e vedremo, quando ci troveremo a studiare Don Giovanni, che gli albori del secolo XIX non costituiscono sempre una guida infallibile alla comprensione della musica del XVIII.
Ma non potrebbe esservi alcun dubbio, anche per un imperturbabile critico del secolo XX, sull'emozionante intensità espressiva di partiture come il Quintetto in sol minore (K.516), la Fuga in do minore (K.426) per due pianoforti, la Fantasia in fa minore (K.608) per organo meccanico e la maggior parte degli ultimi Concerti per pianoforte, soltanto per citare quelle giustamente più conosciute dagli appassionati d'oggi. Sono, è vero, per la maggior parte, pagine che appartengono al periodo finale della vita di Mozart; ma si potrebbero scoprire i germi di questa caratteristica emotività anche in alcune fra le Sonate per pianoforte che vengono spesso disprezzate [...]*
L'esecutore, ribadisco, non può dimenticare che questa musica deve esser considerata come evocatrice d'una voce che canta. È tuttavia a Idomeneo che dobbiamo tornare, se vogliamo trovarci di fronte alle più elevate conquiste del giovane Mozart. Le prime battute dell'Ouverture definiscono immediatamente il piano eroico sul quale il dramma si svolge. Essa ha inizio con l'affermazione maestosa dell'accordo di re maggiore, ma il frequente uso di armonie minori, e un secondo tema in modo minore, che appare in luogo del più consueto modo maggiore del tono della dominante, ci preparano alla tragedia. La costruzione è resa ancor più insolita dal fatto che il secondo tema non è ripetuto dopo la ricomparsa del primo, ma in sua vece si snoda una lunga coda piena di espressione, costruita su un tema breve e caratteristico, che appare poi numerose volte nel seguito dell'Opera. Lo si sente per la prima volta poco dopo l'inizio dell'Ouverture - un richiamo dei flauti e degli oboi contrapposto al moto rampante degli archi [...]* Un crescendo dei due incisi ci conduce al ritorno del primo tema, e la coda, prima su pedale di dominante, poi su pedale di tonica, si sviluppa nuovamente, sorretta da un'ardita progressione armonica. Le pulsazioni dei contrabbassi vanno morendo, gli archi e l'oboe solo s'acquetano in una coppia di frasi sospiranti sull'armonia di re; il sipario si alza
e vediamo Ilia, piccola figura solitaria nelle vaste prospettive degli appartamenti reali. Dobbiamo immaginarci la scena non alla luce dei risultati delle più recenti ricerche archeologiche, ma in quella deliziosa mescolanza di moderno e di barocco che troviamo negli affreschi del Tiepolo. La prima frase di Ilia mostra già il carattere del personaggio [...].* Naturalmente dolce e accondiscendente, Ilia tenta di abbandonarsi, spinta dal ricordo della rovina della patria, a una giusta vendetta contro Idomeneo e contro i cretesi. Ma altri sentimenti si agitano dentro di lei: non può allontanare il pensiero dal figlio del re, Idamante, che l'ha salvata dal naufragio. Essa non ha mai osato rivelargli il suo amore e, d'altra parte, teme che egli appartenga a Elettra, quella donna terribile, e per giunta greca, che non conosce ostacoli ai suoi desideri. Ilia si sente attorniata da nemici, lacerata da interni conflitti; il recitativo giunge al suo climax, e i due accordi tradizionali della cadenza, con un tratto di genio, entrano a far parte integralmente dell'introduzione che precede l'Aria. Varesco ha qui scritto versi che si addicono in modo ideale ai propositi del compositore:
Padre, germani, addìo!
Voi foste, io vi perdei.
Grecia, cagion tu sei,
E un greco adorerò?
D'ingrata al sangue mio
So che la colpa avrei;
Ma quel sembiante, oh Dei!
Odiare ancor non so.

I versi sono divisi in due strofe, che corrispondono al primo e al secondo tema dell'Aria; ma, mentre la seconda quartina comprende due lunghe frasi fluenti, la prima è rotta in brevi esclemazioni. Alla sola lettura, e senza musica, il vantaggio drammatico è già evidente; ma chi sia musicista si rende onche conto del fatto che quei brevi raggruppamenti di sillabe, la cui espressione dipende non dalla bellezza di una linea melodica continua, ma da un ritmo ben scandito che ne sottolinea la declamazione, offrono al compositore l'opportunìtà di un libero trattamento armonico, e, conseguentemente, di una intensificazione dell'effetto emotivo quando il tema, secondo le regole, viene ripreso a metà dell'Aria.
Se il lettore avesse la pazienza di analizzare nei particolari questa sola Aria, sia dal punto di vista tecnico che da quello drammatico, scoprirebbe i principi formali su cui poggia il valore espressivo di qualsiasi Aria mozartiana. Possiamo notare l'esplosione drammatica sulla parola «Grecia» e osservare come l'effetto ne sia intensificato, alla ricomparsa, dal moto dell'armonia; [...]. Non è una ragione sufficiente per chiamarla Leitmotiv o darle un appellativo wagneriano; ma la ritroveremo in varie situazioni, sempre in momenti di grave tragicità, e generalmente in rapporto con l'amore di Ilia e di Idamante.
L'Aria di Ilia è una cosa che va fatta osservare, non possiede introduzione, se non di pochi accordi, né ritornelli strumentali, né coda; Mozart attende che l'azione si sia bene avviata prima di inquadrare le sue Arie in una costruzione sinfonica più impegnativa. Ilia ha appena avuto il tempo di concludere il suo trillo finale, quando vede apparire Idamante: prorompe allora in un recitativo. Idamante, nell'entrare, sta parlando con il suo seguito, e così gli accordi d'accompagnamento sono di proposito estranei a quanto precede. Ma, dal momento in cui rivolge a Ilia la parola, l'armonia ritorna nella tonalità in cui essa si era arrestata. Mozart cerca di distinguere meglio che può i due personaggi: Ilia appassionata e turbata, Idamante pieno di autocontrollo e di dignità. Il principe manifesta la sua ammirazione in termini piuttosto formali; Ilia crede suo dovere respingere gli approcci del suo nemico ereditario. Idamante replica con un'Aria di tono convenzionale; ma se si presenta qui nel tipico ruolo del soprano-eroe dell'Opera del secolo XVIII, occorre riconoscere che egli realizza tale modello in maniera assolutamente perfetta.
Vengono introdotti i prigionieri troiani: la flotta di Idomeneo è stata avvistata, e il ritorno del re verrà celebrato con la loro liberazione e la riconciliazione con i vincitori. Troiani e cretesi uniscono le loro voci in un coro di giubilo, con grande indignazione di Elettra, che entra in quel momento. Ma è subito interrotta dalla notizia, portata da Arbace, che Idomeneo ha fatto naufragio sulle rive stesse della sua isola. Idamante, Ilia e il popolo si precipitano verso la costa, mentre Elettra, rimasta sola, dà libero sfogo alla sua furia. Essa teme che, morto il re, nessuna autorità possa impedire al figlio di convolare a nozze con la miserabile prigioniera, figlia di Priamo.
Mozart nutriva grande ammirazione per l'Alceste di Gluck, e Alceste appare senza dubbio come il modello di molte scene di quest'Opera; ma per i recitativi e le Arie di Elettra, nemmeno Gluck avrebbe potuto servire da esempio: le più selvagge esplosioni di rabbia di Armida e delle Furie sembrano quasi infantili in confronto agli impeti della feroce gelosia di Elettra. Mozart fa proprio lo stile di frase declamatorio, quasi barbaro e antivocale, di Gluck; ma mentre il ritmo di Gluck è, alla lunga, spesso monotono, e lo svolgimento musicale «puro» della sua musica appare sovente debole e malaccorto, il completo dominio delle risorse sinfoniche di cui Mozart è in possesso lo rende capace di portare le sue frasi a un definito climax, di mettere in contrasto con la forza brutale dell'armonia diatonica i gemiti angosciati del serpeggiare cromatico. Questa prima Aria di Elettra è scritta nella forma binaria abituale; ma quale straordinario effetto produce il ritorno del tema non, come potremmo attenderci, alla tonica, re minore, e neppure alla dominante o nel modo maggiore relativo, come spesso accade, ma in do minore, una tonalità del tutto estranea, un tono sotto la tonica! La trasposizione è resa necessaria dai limiti d'estensione della voce, ma sfocia in un effetto drammatico: l'offuscamento del colore tonale e il tempo supplementare nella sequenza ascendente dell'imprecazione. Il climax è in tal modo assai più impressionante che non dopo una partenza dalla tonica, con due passaggi invece di tre.
La forma binaria dell'Aria, costruita come un movimento di Sonata (e infatti dall'Aria la Sonata strumentale deriva) su due temi di carattere contrastante, avrebbe costituito per un mediocre compositore il momento rivelatore della sua debolezza; essa offriva invece a un musicista abile e ingegnoso notevoli possibilità drammatiche. È evidente che se il secondo tema si addice a un certo tipo di voce quando compare dapprima alla dominante, risulterà probabilmente troppo alto o troppo basso allorché, secondo la regola, avrà fatto ritorno alla tonica. Un compositore accorto avrà la precauzione di scegliere il suo secondo tema in modo che esso produca il massimo effetto nella seconda tonalità in cui sia destinato a comparire; ma un genio come Mozart sarà capace di renderne per intero l'effetto sin dalla prima entrata, e poi di accrescerne ulteriormente la forza espressiva, alla ripresa, con qualche inattesa modifica. L'ascoltatore medio non rileva questi particolari, e può anche mal tollerare che gli vengano fatti osservare; ma il serio studioso di musica deve comprendere che simili artifici sono essenziali al mestiere, e nello stesso tempo si pongono al servizio di un'intenzione autenticamente poetica.
Elettra abbandona la scena al termine della sua Aria, ma il tumulto delle sue passioni cresce nell'orchestra, sino a trasformarsì esso stesso in rappresentazione di una reale tempesta. La scena muta a vista, e ci troviamo trasportati sulla riva del mare. La musica ci guida senza interruzioni sino a un coro d'uomini che implorano la clemenza degli dèi, mentre fa loro eco, in lontananza, un coro di naufraghi. Il primo è accompagnato dall'agitato disegno dei violini, il secondo dalle ampie e bilanciate frasi dei legni. Anche quattro corni trovano impiego in questa scena; è molto raro trovarne più di due in un'Opera di questo periodo. E questi quattro corni dialogano così ingegnosamente che sarebbe difficile ridurli a due, in funzione delle risorse di un piccolo teatro, ad esempio. L'ìntenzione dì Varesco era di far placare la tempesta dall'apparizione di Nettuno in persona: l'appello che Idomeneo rivolge al dio sarebbe stato suggerito con una pantomima. Mozart, forse dietro consiglio dello scenografo Quaglio, non tenne in considerazione questo progetto; le poche battute tra la fine del coro e lo sbarco del re lascerebbero d'altra parte ben poco tempo per un simile effetto scenico. La divisione del coro in due gruppi fu idea del solo Mozart. La tempesta è breve, ma delineata con molta vivezza. Mentre il coro si disperde e i flutti si placano, Idomeneo sbarca col suo seguito, che congeda immediatamente. Non ha ancora spiegato, in un monologo, la natura del suo sciagurato voto, allorché entra Idamante. Mozart fu forzato, per colpa dell'incapacità dei cantanti, a mutilare questo dialogo tra padre e figlio.
La scena è certamente lunga, ma Leopold Mozart non aveva forse torto quando esortava il figlio a non abbreviarla; affidato a validi interpreti, lo sviluppo graduale della situazione drammatica diverrebbe estremamente avvincente. In Jephte di Händel, l'infelice padre, vedendo la figlia avvicinarsi, la allontana immediatamente da sé, ed è obbligato a spiegare ogni cosa agli altri personaggi. Varesco, qui, mette subito il pubblico al corrente del segreto, ma mantiene i personaggi nell'ignoranza sino alla fine dell'Opera. Assai felicemente, egli sa trar profitto dal fatto che Idomeneo e Idamante non si sono più visti da quando il figlio era infante. Si incontrano come due estranei, ma la semplice vista di un uomo anche sconosciuto è sufficiente per far comprendere a Idomeneo l'orrore della sua condizione. Idamante piange la perdita del padre, che crede annegato; Idomeneo si sente sempre più attratto dal giovane, sino a che, d'improvviso, lo riconosce come proprio figlio. L'emozione è per lui troppo forte (è infatti a questo punto che Mozart introduce l'orchestra ad accompagnare il recitativo); egli non può evitare di tradirsi, sebbene si renda conto, non appena le parole gli sono sfuggite dal labbro, che ha così perduto l'ultima possibilità di salvare la vita del figlio. Respinge sconvolto il suo abbraccio e gli proibisce di avvicinarsi. Idamante è assalito dall'angoscia. Ha appena ritrovato il padre e si trova nuovamente a doverlo perdere; che cosa può aver causato la sua collera? Forse l'amore di Idamante per la prigioniera troiana? L'Aria che conclude la scena possiede un carattere più definito di quella che Idamante ha cantato all'inizio dell'atto; il sentimento espressovi è più umano e diretto, e il principe comincia ad assumere più precisi lineamenti.
I guerrieri cretesi sbarcano sulle note di una marcia brillante, seguita da un lungo movimento corale che porta l'indicazione di Ciaccona, inatteso imprestito dal francese all'italiano, perché la Chaconne è il procedimento favorito di Rameau e di Gluck quando vogliono, nelle loro Opere, dare a un atto una conclusione animata. Il tutto è qui probabilmente inteso, più che come un ballo, come la rappresentazione di una sontuosa cerimonia religiosa.
Il secondo atto si apre su un dialogo tra Idomeneo e Arbace. Il re gli svela il suo segreto, e il saggio consigliere gli suggerisce di mandare il principe in qualche altro paese; Idomeneo decide, per aver modo di adempiere al suo voto, di inviarlo in Grecia a scorta di Elettra. La scena fu inserita da Mozart soprattutto a pro di Panzacchi, che sosteneva il ruolo di Arbace, e si conclude con un'Aria a lui affidata, al termine della quale egli si allontana per i necessari preparativi, mentre sopraggiunge Ilia. Idomeneo le riconferma la sua amicizia e ribadisce l'intenzione di riparare a tutto ciò che essa ha sofferto. In un'Aria di singolare bellezza, la giovane risponde di aver trovato in Creta una seconda patria, e nel re un secondo padre. Mozart, come Beethoven, associa in modo molto rigoroso determinate situazioni a precise tonalità. Si sa che, per Beethoven, il do minore sembra possedere un proprio particolare carattere: ci basti pensare alle tre Sonate per pianoforte in quella tonalità, alla Sonata per violino, al terzo Concerto per pianoforte, al quarto Quartetto per archi e, soprattutto, alla Sinfonia in do minore. In Mozart, le tonalità dal senso più definito sono sol minore e mi bemolle maggiore. Due grandi Sinfonie (quella K.550 e quella K.543) lo dimostrano; ma dobbiamo segnalare anche il Quintetto per archi e il Quartetto per archi e pianoforte in sol minore, insieme con l'Aria di Pamina nel secondo atto della Zauberflöte; in mi bemolle maggiore sono l'Ouverture e il finale della stessa Opera, una Sonata per violino, la prima Aria della Contessa nelle Nozze di Figaro e i tempi lenti della Sinfonia e del Quintetto in sol minore. Queste ultime composizioni presentano le due tonalità strettamente congiunte, e in una sorta di reciproca connessione, analoga a quella che possiamo osservare tra la presente Aria di Ilia e quella con cui si apre l'Opera.
Quando Ilia appariva per la prima volta, dolce e infelice, cosciente della sua debolezza, impotente di fronte a un destino tirannico, Mozart aveva scelto per lei la tonalità di sol minore; egli adotta il mi bemolle maggiore per dipingere la stessa dolce eroina dopo che Idomeneo le ha offerto una ragione di serenità e di fiducia nel futuro, in omaggio agli strumentisti dell'orchestra suoi amici, Mozart fa accompagnare quest'Aria da quattro strumenti a fiato solisti. L'Aria stessa è un brano dalla costruzione squisitamente rifinita e, per di più, permeato di autentico sentimento poetico. Ma, considerata come episodio dell'Opera, occorre dire che la sua lunga introduzione, necessaria per porre in luce i solisti «concertanti», e ancor più giustificabile alla luce dell'originale interesse che assumerà il rapporto tra il loro periodare melodico e la voce, è tuttavia in qualche modo d'ostacolo allo svolgimento dell'azione drammatica. Senza dubbio, Mozart non sentiva il peso di questo inconveniente allo stesso modo che noi oggi, e il suo pubblico vi era assai più abituato. Mozart sa, d'altra parte, come trasformare in elementi drammatici i più impensabili particolari. Mentre Ilia abbandona la scena, Idomeneo riflette sulle parole di lei; gli appare chiaro che la giovane ama suo figlio, che l'amore è corrisposto, e che Poseidone non avrà una sola vittima, ma tre, poiché né egli stesso né Ilia possono accettare di vivere senza Idamante. Il recitativo del re è indicato «in tempo dell'Aria» e si apre su un tema che poco prima abbiamo sentito suonare dagli strumenti a fiato solisti, e che ora è presentato dagli archi [...]*.
L'armonia compare con un colore più minaccioso, e la modifica del metro suggerisce una relazione col tema che abbiamo già indicato nell'Ouverture e nella prima Aria di Ilia.
L'Aria di Idomeneo che ora segue è il grande pezzo di bravura dell'Opera, quello in cui Raaff avrebbe dovuto dare il meglio di sé per ritrovare i trionfi della giovinezza. L'attempato signore si dichiarò completamente soddisfatto dell'Aria, e Mozart scrive che l'amava a tal punto da cantarla ogni sera prima di mettersi a letto e ogni mattina appena alzato! Egli aveva certamente ragione: il brano era stato composto con ogni cura e col massimo talento; suo scopo era quello di valorizzare il più possibile lo stile e la tecnica di Raaff senza eccessivo sforzo per la sua voce. L'appassionato d'Opera ha oggi scarse possibilità di ascoltare un'Aria di questo tipo eseguita come si dovrebbe. Questo esempio particolare non è di estrema difficoltà; richiede solo di rado il sol acuto abituale, la coloratura è omogenea, e si colloca agevolmente e pianamente rispetto alle esigenze della voce. Ma la coloratura, per gli uomini, è passata di moda, dopo Wagner, mentre per le donne, grazie ad Adelina Patti, ha finito per essere associata a un tipo di fragile piuttosto che eroica protagonista.
Nel secolo XVIII, e soprattutto nella sua prima metà, ossia nella grande epoca dell'Opera Seria, la coloratura era pressoché invariabilmente di carattere eroico, e fondamentalmente associata ai castrati, che interpretavano i ruoli delle grandi figure dell'antichità. La Lucia di Donizetti fa pensare a un flauto: gli eroi di Händel evocano la tromba. L'Aria eroica di Idomeneo cade proprio nel momento più opportuno del dramma. Idomeneo è sfuggito alla furia del mare, ma la collera di Poseidone incombe, e una ancor più terribile tempesta si sta scatenando nel cuore del re; e potrebbe sembrare che la musica di Mozart sia in grado di esprimere tutto fuorché una simile situazione. Ma Mozart sa bene ciò che fa; offre piena soddisfazione al vecchio Raaff e, nel pubblico, ai suoi più ferventi ammiratori; ma non dimentica per parte sua di esprimere la maestà e il coraggio indomabili con cui il re affronta la tragedia.
Segue una breve entrata di Elettra; la speranza della felicità le ha fatto dimenticare il passato, ed essa ci si presenta sotto una nuova luce. In effetti, parole e musica appaiono qui incompatibili. Varesco supera se stesso quanto a oscurità; Mozart si attiene semplicemente alla situazione drammatica e, dal momento che non sarebbe peraltro stato possibile, neppure per un italiano dell'epoca di Varesco, seguire col canto il senso dì quelle parole, si accontenta di offrire a Elettra un'Aria dalla serenità e dal fascino inattesi. Soltanto gli archi la accompagnano, con un trattamento così elegante e ingegnoso da non produrre mai sazietà. La ragione tecnica ne è presto spiegata: l'Aria è priva di coda, e sull'ultima nota cantata irrompono - al suo orecchio e al nostro - gli accenti di una marcia lontana che chiama la giovane al porto, dove essa si imbarcherà alla volta della Grecia. Come nella celebre marcia nuziale delle Nozze di Figaro, Mozart fa partire il brano dalla sua metà, riprendendone più avanti il vero inizio. La marcia è dapprima intonita dagli strumenti a fiato, che Mozart ha risparmiato a questo scopo sino ad ora, molto dolcemente, così da suggerire un effetto di lontananza. Mentre i fiati suonano, gli archi tacciono e hanno modo di applicare la sordina, per unirsi ad essi durante la ripresa della marcia. Anche ottoni e timpano sono in sordina; ma Mozart vuole che la marcia divenga sempre più sonora sino al cambiamento di scena; così accresce gradualmente l'orchestra, mentre gli ottoni e finalmente anche gli archi tolgono la sordina per aprire la scena successiva su una esplosione di suono e di musica.
Eccoci nuovamente al porto. La nave è pronta, e il popolo invita Elettra a imbarcarsi, sulle note del celebre coro Placido è il mar, andiamo. È questo uno dei maggiori esempi del cosmopolitismo di Mozart, un quadro degno di Rameau, una melodia all'italiana che ci presenta la scena come una mescolanza di Napoli e di Venezia dipinta da Tiepolo, e, al di sopra di tutto questo, il senso tedesco di un pensiero puramente musicale che dona all'insieme la sua magica e soprannaturale bellezza.
Idomeneo entra con Idamante; questi ed Elettra prendono congedo dal re nel corso di un trio. Ma Elettra è preda di uno strano presentimento. Idamante sta per separarsi da Ilia senza aver osato rivelarle il suo amore, e ha coscienza del mistero che si frappone tra sé e il padre. Idomeneo può solo sperare, contro l'intima convinzione della coscienza. Con una sorta di risoluzione piena di spavento, la musica si anima, mentre Idamante ed Elettra si accostano alla nave. D'un tratto, senza alcun preavviso, si scatena il fragore della tempesta. Un mostro sorge dai flutti; il popolo atterrito vede in ciò, senza ombra di dubbio, una maledizione celeste. «Chi è il colpevole?» ci si domanda; e per tre volte la voce degli strumenti a fiato fa eco alle grida. Idomeneo riconosce intrepido la sua responsabilità; vuole offrire se stesso in sacrificio, ma sa bene che non sarebbe accettato. Egli non parla al popolo del suo voto: in quest'istante, ignora del tutto la sua presenza, e si rivolge direttamente al dio. I cretesi non parteciperanno direttamente all'azione sino all'atto successivo, quando esigeranno dal re che allevii le loro sofferenze; per ora il terrore è sola loro emozione. Idomeneo sfida il dio, e l'accusa apertamente di ingiustizia. L'orchestra si gonfia in un'esplosione d'ira. Il re si rende conto della sua bestemmia, ma l'amore è in lui più forte del sacro timore. Il popolo, che nulla comprende, si disperde, pieno di terrore, mentre la tempesta infuria, e il sipario cala su Idomeneo, solo sulla riva, di fronte al mare burrascoso.
Il terzo atto ha inizio con un monologo di Ilia. Come avviene per la figlia di Jephte nell'Oratorio di Händel, si può vedere lo sviluppo del suo carattere durante il corso dell'Opera: è quanto accade anche a Pamina nella Zauberflöte. Ilia, nel primo atto, era una principessa troiana, obbligata a odiare i cretesi che l'avevano resa prigioniera; nel secondo comincia a rendersi conto che Idomeneo e Idamante possono offrirle più felicità di quanta ne abbia mai conosciuta a Troia. La vedremo ora abbandonarsi totalmente al suo amore. Non l'ha ancora dichiarato, ma lo ha ammesso di fronte a se stessa, e ne è ora a tal punto posseduta da dimenticare la gelosia verso Elettra. Quest'Aria del terzo atto rivela una maturità e una profondità d'emozione che non compaiono in quelle dei due precedenti; il migliore esempio ne è la frase conclusiva del secondo tema, già bella per la sua stessa linea, ma resa ancor più intensamente umana dalle calde armonie cromatiche che accompagnano la sua ripetizione [...]*.
È questo il Mozart più puro: nessun compositore italiano avrebbe immaginato un effetto tanto delicato e poetico; o se qualcuno avesse in modo vago avuto idea dei sentimento che esso esprime, l'avrebbe tradotto in una variazione melodica della linea vocale, non in un mutamento dell'armonia di accompagnamento.
Sopraggìunge Idamante, per prender congedo da Ilia: sta per recarsi a uccidere il mostro, o forse a essere ucciso. Ilia è così indotta a rivelare il suo amore, e ne nasce un inevitabile duetto, la cui parte migliore è la lenta introduzione: vi ritroviamo per una volta ancora un'allusione a quel tema dell'Ouverture che ricorre così frequente nell'Opera. Gli innamorati sono interrotti da Idomeneo, che Elettra segue da presso. Di nuovo, Idamante scongiura il padre di rivelargli la ragione della sua freddezza; di nuovo Idomeneo accenna a mezza voce alla collera di Poseidone e ordina al figlio dì partire per non fare mai più ritorno. Comincia a prender forma, nell'animo di Ilia, l'idea di aver provocato essa stessa la collera divina, conquistando il cuore di Idamante. Elettra comprende di essersi lasciata sfuggire l'ultima possibilità, e l'odio che in lei covava prende a rinfocolarsi sino all'incendio definitivo. Idamante deve partire. Ilia, in un accesso di emozione, dichiara di volerlo seguire; egli la allontana dolcemente:

No, resta, cara, e vivi in pace... Addio!
Andrò ramingo e solo,
Morte cercando altrove,
Finché la incontrerò.
È il momento del grande quartetto, in luogo del quale Raaff avrebbe voluto un'Aria per sé solo. Mozart, tuttavia lo ritiene il momento più drammatico dell'Opera, e noi possiamo esser d'accordo con lui, poiché si tratta forse del più bel pezzo d'insieme mai composto per le scene. La furia di Elettra, la disperazione di Idomeneo, la tenera rassegnazione dei due giovani innamorati, tutto vi è espresso, ora fortemente individualizzato, ora nel raggrupparsi delle coppie contrapposte, ora nel confondersi insieme entro l'unanime e fondamentale esperienza tragica: il sentimento dell'oppressione da parte di potenze misteriose al di là di ogni controllo, o di ogni approccio umano. La forma rigorosamente simmetrica contribuisce alla classica maestà di queste pagine, e la necessità di tener conto dei limiti d'estensione di differenti voci conduce a modulazioni di sconvolgente potenza espressiva. Verso la fine, una serie precipitosa di frasi imitate conduce l'armonia al suo climax; poi, dopo un silenzio, Idamante riprende le sue prime parole - andrò ramingo e solo -, la sua voce si spezza, se ne va, e l'orchestra, con poche frasi simili a singhiozzi, conclude pateticamente il brano (es. Possiamo soffermarci per un istante sul significato estetico e drammatico di pagine come questa. Il primo compositore che abbia unito le voci, in un brano di struttura determinata, in un momento di acuta tensione drammatica, sembra essere stato Alessandro Scarlatti.**
Ma i suoi successori ne compresero solo parzialmente il valore; Händel ne [...]* offre rari esempi, e i compositori della scuola napoletana ne fanno impiego soprattutto per ottenere effetti comici. La maggioranza dei cantanti, lo vediamo nel caso di Raaff, non erano per nulla entusiasti di una scena che esigesse così numerose prove preliminari e offrisse così scarse occasioni per porsi individualmente in evidenza. Questo tipo di insieme, che io ho chiamato «ensemble of perplexity», deve essere attentamente distinto dal complesso finale che si trova al termine di ogni atto, soprattutto in opere comiche come Le nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte; ma i compositori che verranno dopo Mozart non saranno più come lui padroni dei principi formali e costruttivi. Il migliore esempio moderno di insieme tragico è probabilmente il quintetto che precede la morte dell'eroina ne La Traviata. È un procedimento tipico del dramma musicale; l'azione è sospesa, e si costituisce un quadro scenico che può mantenersi immobile sino a che il compositore sia in grado di sostenere l'interesse musicale. È spesso un grande sollievo, dopo lo sforzo impiegato per raggiungere un apice drammatico, raggiungere questa sorta di pianoro, questo punto di riposo dal quale possiamo contemplare la situazione drammatica, così com'essa è, da una certa distanza.
L'Opera, qui, ha esercitato un'innegabile influenza sulla tecnica del successivo teatro di prosa; ci sono momenti delle commedie di Goldoni che fanno pensare a insiemi d'Opera, quasifossero stati scritti per un libretto. È ancora l'insieme d'Opera che senza dubbio si colloca all'origine del tableau, caratteristica invenzione diPixérécourt, il creatore del Melodramma francese. Ha infine un altro merito l'insieme d'Opera, questa volta squisitamente musicale, quasi impossibile da definire a parole: è quella sintesi armonica particolare che l'unione di quattro o cinque voci solistiche realizza. Verdi è uno dei grandi maestri del concertato d'Opera, ma forse, al tempo stesso, uno dei suoi peggiori profanatori allorché non si dà scrupolo (come ne La Traviata) di far cantare da tre personaggi maschili che esprimono con parole differenti emozioni totalmente diverse, la stessa parte di basso, e di quel tipo di basso che dovrebbe essere più appropriatamente affidato non a una voce umana, ma a un bombardone.
Con la silenziosa uscita di Idamante la scena dovrebbe propriamente aver fine, e Varesco avrebbe voluto collocare a questo punto un cambiamento di scena, che, dal giardino, ci avrebbe condotto di fronte al palazzo del re, dove si sarebbe visto Idomeneo assiso in trono, assistito dal Gran Sacerdote, di fronte al popolo riunito. Ma vi fu, tra Mozart e Varesco, qualche equivoco, dovuto senza dubbio alle pretese del secondo tenore Panzacchi, che voleva vedersi attribuire un'importante Aria per il ruolo di Arbace. Mozart, sempre desideroso di compiacere ai suoi cantanti, offrì qui a Panzacchi (che tuttavia non lo meritava affatto) un recitativo di insolita bellezza, seguito da un'Aria piena di nobiltà. Il pubblico dell'epoca li ascoltò senza dubbio con piacere, ma oggi non si può che raccomandarne la soppressione: giungendo dopo il quartetto, l'intervento di Arbace costituisce una deplorevole caduta drammatica, e ritarda l'azione proprio nel momento in cui è importante accelerarne il passo.
Un breve interludio strumentale, con diversi andamenti separati da pause, serve da sfondo al cambiamento di scena; esso corrisponde senza dubbio a un'azione mimata, per la quale non possediamo indicazioni sceniche. Verosimilmente il popolo, decimato dalla peste - coloro, almeno, che non sono già a «mille, e mille in quell'ampio, e sozzo ventre, pria sepolti che morti», secondo l'elegante espressione di Varesco -, si abbandona a una specie di manifestazione di fronte al re; quindi, il Gran Sacerdote intraprende un'allocuzione, chiaramente ispirata alla scena similare dell'Alceste di Gluck, visto che la stessa figurazione orchestrale compare in ambedue le Opere. Se Idomeneo appariva italiano nel secondo atto, qui si dimostra interamente francese. Abbiamo davanti a noi non tanto un individuo che canta, quanto un quadro scenico d'insieme: il Gran Sacerdote minaccioso (i preti, nell'Opera, sono sempre personaggi odiosi, e Mozart ne aveva senza dubbio ogni giorno attorno a sé i peggiori esempi); il re che si accusa di fronte alla folla, eccitata e angosciata a un tempo, del popolo oppresso dalle sofferenze. Il popolo è entrato nell'azione; esso costituisce l'ultima grande forza in gioco contro l'irresolutezza di Idomeneo; è il popolo che lo costringe a consumare l'orribile sacrificio al quale egli ha così a lungo tentato invano di sfuggire. Ma i cretesi soffrono quanto il loro re al pensiero di ciò che deve ancora accadere; soltanto alla fine del coro, mentre la folla si disperde, l'improvviso, sottile raggio di sole d'una modulazione al "maggiore" si fa per un attimo udire in orchestra, prima che i sacerdoti entrino sulle note di una marcia calma e solenne. Il re dà inizio alla cerimonia con una fervida preghiera rivolta a Poseidone, cui rispondono, con un canto stranamente monotono, gli officianti sull'altare. La scena deve essere rimasta presente nella memoria di Mozart allorché compose Die Zauberflöte.
Un improvviso squillo di trombe e un clamore di voci si ode all'esterno. Il principe ha ucciso il mostro e il popolo saluta con gioia la sua liberazione. Ma l'amarezza del re si fa ancora più profonda: con l'uccisione del mostro il sacrilegio viene ad aggiungersi al peccato. Idamante è portato in trionfo; ma il giovane principe ha scoperto infine il segreto del voto paterno e ora è egli stesso che si offre in sacrificio. Il lungo recitativo che segue è magistrale, sia dal punto di vista drammatico, sia da quello psicologico; la serena e giovanile gravità di Idamante fa pensare a ciò che dovrà essere negli anni successivi Tamino, e contrasta felicemente con gli slanci appassionati di Idomeneo, giacché dall'avventata impulsività di Idomeneo tutta la tragedia ha preso le mosse; sono l'autocontrollo, l'infantile semplicità e dirittura di Idamante che salvano la tragedia da una conclusione spaventosa.
Anche qui l'impossibile libretto di Varesco fu causa di difficoltà. Idamante deve naturalmente cantare un'Aria prima di essere sacrificato, e quando Ilia nel momento critico si precipita e insiste per morire al suo posto, le loro manifestazioni d'affetto devono elegantemente disporsi in un classico duetto. Mozart lo tagliò immediatamente, ma conservò l'Aria: No, la morte io non pavento; e alle prove soppresse anche questa.
Il 18 gennaio 1781 scrisse al padre: «La prova del terzo atto si è svolta in modo splendido. Si pensa che sia di molto superiore agli altri due. Soltanto, il libretto è decisamente troppo lungo e di conseguenza anche la musica, come io non ho mai smesso di ripetere; cosicché occorre tagliare l'Aria di Idamante, che in ogni caso non è qui al suo posto. Ma coloro che hanno ascoltato la musica si lamentano di questa soppressione, e ancor più del fatto che l'ultima Aria di Raaff è anch'essa tagliata; ma occorre fare di necessità virtù».
È interessante osservare come Mozart da parte sua non sembri lamentarsi di dover fare tagli nella propria musica; egli non pensa che alla scena e all'effetto drammatico generale. Beethoven si sarebbe infuriato e ostinato, indifferente a ciò che potessero pensare i cantanti, se si fosse tagliata una sola battuta della sua musica. Mozart è medico e chirurgo di se stesso.
Non appena Ilia si è gettata ai piedi dell'altare, si ode un misterioso frastuono, e l'oracolo pronuncia un vaticinio. Qui, ancora Mozart scrisse: «Anche la profezia dell'oracolo è troppo lunga; io l'ho abbreviata, ma Varesco non ne vuol sentir parlare, e tutto sarà stampato così come egli l'ha scritto». Esistono infatti tre versioni [Ne esistono in realtà quattro (N.d.T.)] del vaticinio dell'oracolo, una delle quali manifestamente troppo lunga, un'altra accorciata sino ai limiti del possibile. Non è chiaro quale versione fosse allora stata eseguita.
Seguendo l'esempio di Gluck, Mozart sostiene l'oracolo con un accompagnamento di tromboni. Questi ultimi, dall'epoca di Rossini e di Spontini, sono considerati elementi normali dell'orchestra, e li si impiega principalmente per rinforzare un fortissimo. Ma se vediamo Alessandro Scarlatti servirsi dei corni come di strumenti esotici da usarsi sul palcoscenico soltanto per effetti speciali di colore locale, allo stesso modo, al tempo di Mozart, i tromboni erano considerati come estranei all'orchestra normale, e in generale impiegati solamente per esprimere il soprannaturale. Per il pubblico di Mozart, il suono di un trombone non era familiare, a meno che non fosse già stato udito in chiesa: un pubblico moderno riceverebbe una impressione dello stesso tipo avvertendo il suono inatteso di un organo in un teatro.** Mozart impiega il trombone, in tutte le sue Opere, esclusivamente per effetti sacrali e misteriosi, così come Meyerbeer e Wagner fanno uso dell'organo in teatro. E proprio allo stesso modo dobbiamo considerare le parti di trombone in Beethoven, in modo particolare nella Sinfonia in do minore, nella Pastorale e nella Nona. La loro funzione è sempre di accentuare il carattere solenne e religioso dei tempi nei quali vengono introdotti.
In Idomeneo, una curiosa e notevole caratteristica degli accordi dei tromboni che accompagnano l'oracolo è il loro raggruppamento per tre, ognuno con una corona e un crescendo-diminuendo; è quella che i cantanti italiani chiamavano la "messa di voce". Ciò sembra suggerire la misteriosa animazione della statua di Poseidone: l'enorme petto di bronzo in un primo tempo si solleva, e poi ricade ancora una volta nella sua rigidità, quando il dio, dopo il culmine della sua epifania, non esala più il soffio della vita. Ma allorché la statua cessa di respirare, coloro che davanti ad essa avevano perduto i sensi tornano in sé, esprimendo i il loro stupore e la loro gioia con piccole frasi precipitate [...]*
La semplicità del procedimento è assai commovente; un'Aria o anche un più sviluppato recitativo sarebbero fuori posto. Non vi è che Elettra, con le sue speranze ora frantumate per sempre, la sua gelosia e la sua ira che devono trovare sfogo in un'ultima eruzione. La sua voce aspra, mentre essa chiama le Furie, e già prova i tormenti di Aiace e di Oreste, viene a interrompere bruscamente la serena calma di tutti gli altri. Dopo di che, essa abbandona di corsa la scena mentre l'orchestra conclude su un'appassionata variazione delle ultime frasi sospirate dell'Ouverture: non la vedremo più.
L'ultima scena si apre con una frase dei violini piena di solennità e di grazia, la quale allude una volta ancora al motivo caratteristico dell'Ouverture, che abbiamo indicato più volte nel corso dell'Opera; essa viene imitata in canone da tutti gli archi. Idomeneo sale per l'ultima volta in trono e si rivolge ai sudditi riuniti. Egli presenta ufficialmente il nuovo sovrano e la sua regale fidanzata, in un recitativo pieno di nobiltà, il cui accompagnamento, come accade spesso, è abilmente sviluppato a partire dai motivi dell'introduzione. «O Creta fortunata! Oh me felice!» La sua coscienza è in pace, il suo spirito liberato dagli affanni, ed egli fa pensare a qualche vecchio albero che la primavera viene ancora una volta a ricoprire di foglie.** Su queste parole egli prende congedo dal suo popolo, mentre si celebra l'incoronazione di Idamante e di Ilia con canti e danze.
*Parlo qui dell'Opera nel secolo XVIII; le funzioni del coro nell'Opera francese, italiana o inglese del secolo XVII costituiscono materia troppo complessa per venir qui brevemente riassunta.
**Nel secolo XIX, tutte le Opere tedesche, come Der Freischütz o Fidelio, videro i loro dialoghi parlati sostituiti da recitativi cantati quando venivano eseguite in italiano, a Milano, a Parigi o a Londra. Per l'Oberon di Weber, composto originariamente su un testo inglese, Benedict scrisse recitativi italiani per successive riprese presso la Her Majesty's Opera. Ma con mio grande stupore l'Opera di Roma pose nuovamente in scena il lavoro nel 1938 con dialoghi parlati. Fu la prima volta in cui ebbi modo di ascoltare dialoghi in prosa sulla scena di un'Opera Italiana.
Cfr. il mio Alessandro Scarlatti, Londra 1905, e due articoli a mia firma sul tema Concertati e finali nell'Opera del diciottesimo secolo, in Sammelbände der Internationalen Musikgesellschaft, Lipsia 1910.

L'affermazione è però già sin d'ora superata, poiché il cinema ha restituito all'organo una popolarità che esso non aveva più conosciuto dai tempi degli organetti d'osteria, nel Cinquecento e nel Seicento. È curioso osservare che si trovano di frequente organi negli alberghi canadesi.
Questa splendida Aria dovette essere soppressa nella prima rappresentazione, a causa della eccessiva durata dei secondo atto.