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EDWARD J. DENT
IDOMENEO DI W. A. MOZART
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Mozart lasciò
Parigi nel settembre 1778 e fece ritorno a casa transitando per
Mannheim, come aveva fatto all'andata. L'attrattiva di Mannheim era
costituita, senza dubbio, dalla famiglia Weber; Mozart era stato
preso da violento amore per Aloysia, la figlia maggiore, e sperava
che fosse giunto il momento di farla sua sposa. Ma era una Mannheim
profondamente cambiata quella in cui egli si ritrovò nel 1778;
la corte elettorale era stata trasferita a Monaco, e con essa se
n'erano partiti la maggior parte dei musicisti e degli attori,
compresi i Weber. Egli trovò un pretesto per recarsi a Monaco
nel gennaio 1779 e si presentò ad Aloysia con la più
bella tra le Arie che aveva scritto per lei, «Popoli di
Tessaglia»; ma l'atteggiamento di lei nei suoi confronti era
cambiato: egli non le interessava più. Accettò comunque
la composizione e rimase in seguito in relazione con lui per ragioni
musicali.
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Fu dunque un Mozart
profondamente amareggiato quello che ritornò ad assumere
l'incarico di organista della cattedrale di Salisburgo. Egli odiava
l'arcivescovo, odiava in generale i salisburghesi, e riusciva a trar
piacere solo dalla compagnia del padre e della sorella, sebbene
possiamo essere sicuri che Leopold, nonostante tutto l'affetto,
mettesse spesso alla prova i suoi nervi. L'occasione di scrivere
un'Opera Seria sembrava più lontana che mai. L'unico elemento
di rottura della monotona vita a Salisburgo fu l'arrivo della
compagnia teatrale di Schikaneder, che rappresentò
«Thamos, König in Agypten», di Gebler. Mozart
riprese la musica che aveva scritto per Gebler nel 1773, e la
rimaneggiò con qualche aggiunta. L'interesse principale che
per noi il «Thamos» presenta è il suo legame con
Die Zauberflöte, e riserveremo più avanti un
capitolo alla storia dell'amicizia di Mozart con Schikaneder e del
suo interesse per i misteri egiziani. «Thamos» non fu un
successo. È evidente che Mozart ne apprezzava la musica,
poiché ne fa di nuovo menzione in una lettera al padre da
Vienna nel 1783: «Mi spiace molto di non poter utilizzare la
musica del 'Thamos'. L'opera ha una cattiva reputazione dopo il suo
insuccesso e non è più stata rappresentata dopo di
allora. Occorrerebbe eseguirla per amore della musica, ma è
assai poco probabile: è un vero peccato».
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Un altro lavoro drammatico
cui dobbiamo riservare un ulteriore capitolo è un'Opera
tedesca incompiuta che sembra esser stata principiata da Mozart in
vista di una rappresentazione a Salisburgo. Il libretto era del suo
vecchio amico Schachtner, al quale i posteri sono debitori di molti
preziosi ricordi della prima infanzia di Mozart. Il testo è
per la maggior parte perduto, e neppure il titolo ne è noto.
La musica venne pubblicata sotto il nome della protagonista,
Zaide. Nulla si conosce delle circostanze nelle quali l'Opera
fu scritta, ma poiché essa non richiede numerosi cantanti
né grande orchestra, possiamo legittimamente supporre che
Mozart, condotto alla disperazione dalla tetraggine della vita a
Salisburgo, abbia fatto un tentativo di allestire in qualche modo una
rappresentazione operistica con i mezzi modesti che poteva reperire
presso i suoi amici personali. La composizione venne probabilmente
interrotta dall'invito, che egli ricevette nell'estate del 1780, di
scrivere un'Opera Seria destinata a Monaco.
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Finalmente la grande
occasione per Mozart. Il libretto doveva essere scritto dall'abate
Giovan Battista Varesco, cappellano dell'arcivescovo di Salisburgo,
così che compositore e poeta avrebbero avuto la
possibilità di lavorare insieme. Sfortunatamente, il
cappellano dell'arcivescovo non aveva alcun senso del palcoscenico.
Mozart, come sempre, rimandò la composizione della maggior
parte dell'Opera alle ultime poche settimane di prova, e scrisse da
Monaco per chiedere che alcune scene fossero modificate. Varesco si
indignò alla mutilazione del suo capolavoro, e insistette
affinché, se Mozart avesse operato tagli, il suo dramma
apparisse integralmente almeno nell'edizione a stampa.
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Lo schema generale di
Idomeneo, Re di Creta, scritto su modello di un libretto
francese di A. Danchet, musicato da Campra nel 1712, avrebbe potuto
fornire occasioni eccellenti a un poeta che conoscesse le esigenze
del teatro. Varesco aveva letto senza dubbio il suo Metastasio, ma
doveva averlo letto con gli occhi del predicatore, non con quelli del
drammaturgo. Metastasio aveva capito meglio di ogni altro che un
libretto d'Opera, anche del genere più nobile, doveva essere
conciso e immediato. Varesco è verboso e sentenzioso; non
sembra essersi immaginato per un solo istante gli effetti dei suoi
versi messi in musica e trasportati sul palcoscenico. In aggiunta,
pare che egli fosse un individuo con il quale era assai difficile e
sgradevole aver a che fare. Wolfgang non fu mai direttamente a
contatto con lui, ma si servì del padre come intermediario;
sappiamo dalle lettere di Leopold che il reverendo abate non solo
acconsentì con grande difficoltà a effettuare modifiche
al suo testo, ma avrebbe voluto, per fare ciò, un compenso
aggiuntivo, come uno stampatore.
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Poi arrivarono le
difficoltà con i cantanti. Il ruolo principale era affidato al
tenore Raaff, eccellente cantante ma pessimo attore; per di
più, a quell'epoca aveva la bella età di sessantacinque
anni. Come ci si poteva attendere, egli si degnò di beneficare
Mozart con i frutti della sua lunga esperienza teatrale: ossia, di
ostacolare il più possibile il giovane compositore ogni volta
che il suo genio lo conducesse lungo sentieri di inconsueta
originalità. Panzacchi, il secondo tenore, era un ottimo
attore non sprovvisto di talento vocale; ma poiché anch'egli
era un vecchio uomo di teatro, si concesse più occasioni per
mettersi in mostra di quante il ruolo di semplice confidente
esigesse. Ma l'intoppo più disastroso fu Dal Prato, cui era
affidato il ruolo giovanile di Idamante. Il «mio molto amato
castrato Dal Prato», come lo chiamava Mozart, non poteva
certamente correre il rischio d'essere troppo anziano o troppo
esperto, era appena un ragazzo, che non era mai salito sul
palcoscenico. La sua voce era ancora poco educata, o per nulla
educata, ed egli non aveva intelligenza né per la musica
né per qualsiasi altra cosa. Sembra che Mozart abbia speso
infinita pazienza per tentare di educarlo, e dalle sue lettere
sappiamo che preferiva una simile stupidità alla sufficienza
degli 'intenditori'. I ruoli femminili, per fortuna, furono sostenuti
da Dorothea ed Elisabeth Wendling, abili cantanti che non procurarono
fastidi al compositore. |
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Le lettere di Mozart al
padre rivelano in lui un forte senso teatrale. Ogni musicista avrebbe
potuto lamentarsi di vedere il poeta indicare «a parte»
durante un'Aria, oppure completare il senso di un verso in quello
successivo: difetti ancor più imperdonabili a quell'epoca che
ai giorni nostri, poiché la struttura simmetrica dell'Aria del
secolo XVIII sarebbe stata distrutta da una costruzione irregolare
del verso, e un «a parte» nel corso di un'Aria avrebbe
dovuto essere ripetuto in modo inopportuno e antidrammatico. Ma
Mozart seppe osservare cose più essenziali di queste. La sua
ingegnosità tecnica lo rendeva facilmente capace di superare i
problemi di struttura musicale, sebbene i suoi cantanti, provvisti
d'età e di esperienza, si irrigidissero contro tutto
ciò cui non erano stati abituati negli ultimi quaranta
anni. |
Ma occorreva correggere
senza alcun compromesso gli errori drammatici di Varesco. Questi
aveva fatto entrare Idomeneo in scena, subito dopo il naufragio,
aggrappandosi agli scogli posti sul fondo del palcoscenico; Mozart e
Quaglio, lo scenografo, si resero conto che ciò sarebbe stato
privo di efficacia e avrebbe spogliato il personaggio di
dignità, e fecero entrare il re con qualcuno del seguito che
egli congedava alcuni versi più avanti, così da essere
solo all'incontro con il figlio. La scena seguente aveva dovuto
subire numerosi tagli (e nelle rappresentazioni moderne è
necessario snellirla ulteriormente): Raaff e Dal Prato erano ambedue
attori tanto mediocri che era assolutamente impossibile affidar loro
il lungo dialogo in recitativo secco. La stessa cosa accadde al
dialogo tra Idomeneo e il confidente Arbace, all'inizio del secondo
atto. Per il coro Placido è il mar, Varesco aveva
scritto numerose strofe; Mozart le ridusse a una. Tra il coro della
tempesta e il coro finale di questo atto il librettista aveva
collocato un'Aria per Idomeneo; Mozart comprese che essa avrebbe
distrutto l'intero effetto drammatico e insistette per avere soltanto
un breve recitativo. Analogamente, nel terzo atto, Varesco desiderava
che Ilia e Idamante cantassero un duetto di circostanza al momento
del sacrificio. Se fosse stato seguito il consiglio di Raaff, avremmo
perduto il più bel brano di tutta l'Opera, il quartetto del
terzo atto; l'autorevole tenore riteneva che al suo posto avrebbe
potuto meglio collocarsi un'Aria a lui destinata. |
È evidente che
l'intenzione di Varesco era quella di seguire il tradizionale sistema
di Apostolo Zeno e di Metastasio: dividere il libretto in ciò
che i poeti chiamavano «scene», e concludere ogni
«scena» con un'Aria, dopo la quale il cantante exit.
Sistema assai pratico, poiché permetteva al pubblico di
applaudire a piacimento senza con ciò disturbare lo
svolgimento drammatico. Appare chiaro che invece Mozart considerava
il teatro dal punto di vista di Gluck e dei librettisti francesi.
L'Opera Seria italiana, in generale faceva poco o punto uso del coro;
per la Francia, al contrario, il coro costituiva un elemento
indispensabile dell'Opera Seria e il suo valore derivava dal fatto
che esso permetteva al compositore di costruire un potente crescendo
sonoro alla fine di un atto. L'Opera italiana non miró mai a
questo; alla fine dei Melodrammi troviamo bensì qualcosa che
è segnato come «coro» in partitura (se ne trova
facilmente esempio nelle Opere di Händel), ma «coro»
in molti casi non è altro che la riunione dei principali
personaggi per un breve brano d'insieme. L'elaborato finale che
troviamo in Opere come Le nozze di Figaro e Don
Giovanni è in sostanza derivato non da Opere Serie
italiane o francesi, ma dall'Opera Comica italiana; i primi esempi
del che troviamo nelle scene di litigio tra due personaggi, come si
vede negli episodi comici delle Opere di Alessandro Scarlatti: indi,
il numero degli interlocutori andò gradualmente aumentando,
sino a sei o sette, con un corrispondente incremento di durata.Ma
occorre sottolineare che questo tipo di finale comico non è
praticamente mai corale, non più di quanto lo sia nella
maggior parte delle Opere di Händel; il coro drammatico è
pura invenzione francese.** Varesco
aveva evidentemente studiato le tragedie greche altrettanto bene che
le loro moderne imitazioni; la sua «ironia drammatica» e
la sua «scena dell'agnizione» non sono niente più
che un fin troppo noioso omaggio ai classici. Ma, come i primissimi
librettisti italiani, egli seguì la tradizione classica con
l'affidare al coro un ruolo drammatico veramente importante, e Mozart
fu pronto a trarne vantaggio.
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Sembra che fosse abitudine
costante di Mozart - e forse di tutti i compositori drammatici
dell'epoca - di comporre circa la metà dell'Opera al
ricevimento del libretto e di proseguirne la composizione dopo
l'inizio delle prove. In realtà, i librettisti erano spesso in
ritardo, e non sempre consegnavano ai loro compositori un libretto
completo da capo a fondo: più spesso, glielo davano a rate. I
cantanti, dolorosa esperienza di tutti i compositori, erano
soprattutto bravi nel creare ostacoli, e Mozart spese molto tempo nel
modificare le sue Opere secondo le loro richieste. Risultato di
questo sistema di lavoro è che, quando oggi noi allestiamo su
un palcoscenico moderno un'Opera di Mozart, vi vediamo sempre
trasparire, negli ultimi atti, modifiche e rappezzi. Il regista si
scontra così con i più strani problemi quando si sforza
di reintrodurre principi di continuità e di unità
drammatica. Fu il terzo atto di Idomeneo a costituire per Mozart la
maggiore difficoltà. Varesco sembra esser stato assai
impreciso sui necessari cambiamenti di scena. Secondo la partitura,
esistono tre quadri distinti: il giardino reale, per la scena tra
Ilia e Idamante, il grande quartetto e il monologo di Arbace;
l'esterno del palazzo reale, per il racconto del Gran Sacerdote e ilcoro
dei cretesi; infine, la facciata del tempio di Nettuno, di fronte al
quale deve, a quanto sembra, svolgersi il sacrificio interrotto, la
collera di Elettra (a quest'ultima occorre, ovviamente, l'intero
palcoscenico) e l'abdicazione di Idomeneo. Dalle lettere di Mozart
apparirebbe che, in realtà, non vi sarebbe stato alcun
cambiamento di scena alla prima rappresentazione. Arbace cantava la
sua Aria e, conformemente all'etichetta dell'Opera italiana, usciva
di scena al termine di essa; ma Varesco ve lo faceva rimanere con
Idomeneo sino all'inizio del discorso del Gran Sacerdote. «Come
può essere ancora là?» si domanda Mozart.
«Se ne può stare benissimo da un'altra parte,»
(non ha niente da dire in questa scena) «ma, per mettere a
posto la cosa ho dovuto scrivere un'introduzione un po' più
lunga per il recitativo del Gran Sacerdote.» La scena
successiva presentava difficoltà analoghe: «Dopo il coro
di lamentazione, il re, il popolo e tutti gli altri se ne vanno, e
nella scena successiva si trova l'indicazione 'Idomeneo in ginocchio
nel tempio'. È impossibile; egli deve arrivare accompagnato da
un corteo completo cosicché di necessità deve esserci
una marcia. Ne ho scritto una assai semplice per archi e due oboi,
che è eseguita a mezza voce mentre il re entra e i sacerdoti
preparano gli strumenti per il sacrificio; solo allora il re si
inginocchia e comincia la sua preghiera». Occorre ricordare che
nell'Opera Seria era consuetudine che i grandi personaggi fossero
accompagnati da un numeroso corteo, e le vaste dimensioni dei teatri
italiani richiedevano, in materia di processioni, un numero di
persone sufficiente a riempire il palcoscenico.
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Per quanto concerne i
cambiamenti di scena, i teatri dell'epoca erano in grado di
realizzarli con grande rapidità e a vista, grazie al sistema
di quinte e fondali. Il sipario principale non veniva calato;
è difficile stabilire la esatta data a partire dalla quale
venne fatto calare alla fine di ogni atto d'Opera. È probabile
che in Idomeneo esso non venisse mai chiuso sino alla fine, se
si giudica da ciò che avviene in scena; d'altra parte sembra
certo che il sipario di scena dovesse calare alla fine di ogni atto
ne Le nozze di Figaro e in Don Giovanni. Ma si possono
segnalare Opere Buffe di Leo e di Pergolesi (fra il 1730 e il 1740)
in cui gli elaborati finali sono ingegnosamente concepiti in modo da
condurre gradualmente i personaggi fuori della scena lasciando il
principale basso buffo, generalmente un vecchio in collera, a fare
per conto proprio la sua uscita. Il cambiamento delle quinte avveniva
grazie a un meccanismo collocato sotto il palcoscenico, come è
possibile ancora vederne in alcuni vecchi teatri tedeschi [Ancora
recentemente in opera a Ludwigsburg, presso Stoccarda.]; col solo
movimento di una leva, tutte le quinte retrocedevano e un altro
gruppo ne prendeva il posto; il fondale era tutto avvolto su un
cilindro; solo verso il 1800 o anche più tardi i fondali
poterono esser completamente sottratti alla vista senza venire
arrotolati. Nei teatri inglesi spesso non c'era fondale ma un paio di
ampi sipari che si univano al centro (anche se talvolta in,modo
alquanto sommario). Questo sistema di rapida sostituzione delle
quinte senza dubbio spiega i cambiamenti di scena nel terzo atto
dell'Opera, che divengono molto più difficili a realizzare
nelle attuali condizioni. |
Idomeneo deve tanto i suoi
difetti quanto i suoi pregi al fatto che si tratta di una mescolanza
di due modelli d'Opera, italiano e francese. Varesco fondò il
proprio lavoro su un libretto francese e, probabilmente senza tener
conto in alcun modo degli effetti drammatici, lo trasformò inuna
imitazione di Metastasio, angusta quanto il suo modesto pensiero era
in grado di concepire. Mozart, nel porre questo libretto in musica,
fu francese per deliberazione, italiano per istinto. Il pubblico
d'oggi, in un certo modo avvezzo alle opere di Gluck, tende a
commuoversi naturalmente soprattutto di fronte ai momenti francesi
dell'Opera, ossia i grandi cori, le marce e gli interludi
strumentali, i recitativi nobilmente accompagnati e rigorosamente
ispirati a quelli dell'Alceste. Ci occorre un maggiore sforzo
per concentrare la nostra attenzione sulla bellezza delle scene
italiane. Gli spettatori odierni provano orrore nei confronti del
recitativo secco, e forse a ragione, dal momento che lo conoscono
solo attraverso l'esecuzione dei nostri cantanti di Oratori classici.
Il recitativo secco è un metodo esclusivamente italiano di
utilizzare il linguaggio. I recitativi drammatici di Purcell,
accompagnati o no, sono sempre strettamente ritmici e il loro ritmo
è determinato più dai normali metri della musica che da
quelli della prosa o dei versi sciolti inglesi. Inoltre, la
quantità variabile delle sillabe inglesi richiede che il
compositore faccia uso di una gamma di durate, semiminime e biscrome
oltre che crome, laddove il recitativo italiano di rado impiega altra
misura che non sia la croma. Il recitativo francese, legato al ritmo
naturale del verso francese, si avvale dei tre valori di durata in
una mescolanza ancor più generosa di quella inglese, e con uno
stile declamatorio in generale più nervoso. L'italiano,
sebbene il verso sia teoricamente più vario nella
quantità rispetto al francese, mantiene come unità
fondamentale la croma; nella pratica, sembra poi che il cantante si
veda concedere una latitudine ritmica assai maggiore. |
I critici italiani
affermarono sempre che l'Opera francese consistesse interamente di
recitativi, ma il fatto è che l'Aria francese è
più strettamente imparentata con il recitativo perché
lo stesso recitativo tende ad avvicinarsi ai ritmi e alle inflessioni
dell'Aria. Nell'Opera italiana il contrasto era invece estremo, e
solo in rari momenti di recitativo accompagnato ci si avvicinava
all'Arioso. Poiché le Arie italiane sono solitamente
espressione di una emozione individuale, tutto l'elemento drammatico,
termine col quale vogliamo indicare la reciproca influenza dei
personaggi, doveva esprimersi - per non parlare degli indispensabili
passaggi in cui occorreva semplicemente fornire al pubblico elementi
informativi - nel recitativo secco; quanto più questo elemento
drammatico era abbondante, tanto più cresceva la presenza dei
recitativi e la necessità di condurli rapidamente a
conclusione. Il recitativo italiano, accompagnato solo da accordi sul
clavicembalo, assolve mirabilmente a questa funzione, a condizione
che i cantanti lo interpretino con il naturale andamento del discorso
parlato.
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L'inglese medio di oggi ha
spesso dato inizio alla propria educazione lirica ascoltando, magari
grazie a incisioni discografiche, Arie staccate d'Opera, oppure
assistendo a commedie musicali od operette in cui l'intreccio della
trama, sentimentale magari, ma certamente non poetico, è reso
comprensibile da dialoghi parlati. Egli collega naturalmente il
recitativo cantato soltanto con l'Oratorio. Ma occorre ricordare che
l'Opera delle origini era fatta di solo recitativo; esso fu la
principale, se non l'unica, ragione della sua, creazione, e sino
all'epoca di Pepys l'entusiasmo per la recitative musick
mandò in delirio l'Inghilterra. Una simile origine spiega la
sopravvivenza del recitativo in Italia sino alla nostra epoca; si
è affermato come stabile principio il fatto che nessun
italiano potrebbe ammettere dialogo parlato inun'Opera, per quanto la
declamazione del recitativo comico si sia avvicinata ad esso.**
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Il recitativo di ogni
specie, quello secco soprattutto, doveva inevitabilmente costituire
un insopportabile fastidio per il pubblico che non comprendeva
l'italiano. Lo era d'altronde per gli stessi italiani.
Rousseau lo ammette nel suo Dictionnaire de
Musique, sebbene mostri il suo incrollabile entusiasmo per tutto
ciò che è italiano e il suo disprezzo per tutto
ciò che è francese: «Démosthène
parlant tout le jour ennuieroit à la fin; mais il ne
s'ensuivroit pas delà que Démosthène fût
un Orateur ennuyeux. Ceux qui disent que les Italiens eux-mêmes
trouvent leur Récitatif mauvais le disent bien gratuitement;
puis,qu'au contraire il n'y a point de partie dans la Musique dont
les Connoisseurs fassent tant de cas et sur laquelle ils soient aussi
difficiles. Il suffit méme d'exceller dans cette seule partie,
fût-on médiocre dans toutes les autres, pour
s'élever chez eux au rang des plus illustres Artistes, et le
célèbre Porpora ne s'est immortalisé que
par-là».
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Che Rousseau, per quanto
concerne l'ultima frase, fosse bene informato, si può aver
qualche dubbio; ma, a parte questa esagerazione, egli dice
probabilmente il vero per l'epoca in cui scrive (1768). Rousseau
divideva il recitativo in tre generi: recitativo propriamente detto
(ossia il recitativo secco); recitativo accompagnato, simile a quello
secco, ma sostenuto da accordi eseguiti dagli archi; e recitativo
obbligato, il termine con cui designa quella specie di recitativo
accompagnato che si sviluppò attorno alla metà del
secolo: «C'est celui qui, entremêlé de
Ritournelles et de traits de Symphonie, oblige pour ainsi dire le
Récitant et l'Orchestre l'un envers l'autre, en sorte qu'ils
doivent être attentifs et s'attendre mutuellement. L'Acteur
agité, transporté d'une passion qui ne lui permet pas
de tout dire, s'interrompt, s'arréte, fait des
réticences, durant lesquelles l'Orchestre parle pour lui; et
ces silences, ainsi remplis, affectent infiniment plus l'Auditeur que
si l'Acteur disoit lui-méme tout ce qui la musique fait
entendre ». |
È la definizione
data da un francese appassionato di tutte le idee italiane; un
italiano avrebbe forse difficilmente accettato il fatto che si possa
essere trasportati dalla passione e non parlare, o non cantare. E il
recitativo accompagnato (come gli inglesi e gli italiani lo
chiamano), nelle mani di un compositore di second'ordine poteva
divenire tanto fiacco e convenzionale quanto un recitativo secco. In
Germania esso condusse alla pratica - che ebbe un'effimera moda
all'epoca di Mozart - del cosiddetto Melodramma, alternanza di
commento strumentale e di recitazione parlata. I compositori
tedeschi, forse da esso influenzati, e senza dubbio spinti dalla loro
abituale tendenza a preferire la musica strumentale a quella vocale,
erano portati a far sì che i cantanti e l'orchestra andassero
avanti in una sorta di stichomythia dal ritmo monotono e
assolutamente micidiale per l'effetto drammatico in vista del quale
era stata concepita. Ne troviamo esempi in compositori come
Holzbauer, ma anche in Gluck, e talvolta nello stesso Mozart.
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L'Aria è un'altra
forma che il pubblico contemporaneo, soprattutto formatosi su Wagner,
considera comeantidrammatica. Tuttavia, se si vuole onestamente
riconoscere la verità, sono le Arie, o i movimenti dal
carattere dell'Aria, che hanno assicurato l'immortalità a
tutte le Opere più celebri. Gli storici citano sempre e
continuamente la prefazione dell'Alceste di Gluck, ma
ciò che spinge il pubblico ad ascoltare l'Orfeo
è la gradevole melodia di Che farò e la grazia
piena di dignità della musica di danza. Ci è
naturalmente difficile trasportarci all'epoca dell'Aria
händeliana col Da Capo, ma all'epoca in cui Mozart era un
compositore giunto alla maturità, l'Aria col Da Capo era del
tutto desueta. Come vedremo nel prossimo paragrafo, la parte centrale
della vecchia Aria tripartita era caduta, e la prima parte di essa
era stata sviluppata in qualcosa di simile alla forma-Sonata.
Quest'ultima era diventata la forma tipica praticamente per ogni
genere di musica, vocale, per danza, o sinfonica, eccezion fatta per
la Fuga severa (ma anch'essa era stata influenzata dalla forma-Sonata
nella sua costruzione). E, all'epoca di Mozart, l'Opera Seria, grazie
a Gluck, aveva cominciato a far propri alcuni elementi dell'Opera
Comica, il più importante dei quali era il Rondò -
Che farò ne è un esempio - con la sua triplice
ripetizione del semplice motivo iniziale. Esiste un altro modello,
che troviamo nella prima Aria di Orfeo, in cui si alternano tre
ripetizioni di una semplice melodia in 3/8 con due Ariosi intermedi
in 4/4; è quasi un ritorno dell'alternanza
ritornello-recitativo-ritornello del celebre Lamento d'Arianna
di Monteverdi. L'ordinaria forma Da Capo si trova in Orfeo
(terzo atto, Aria di Euridice) e nella famosa Divinités du
Styx della stessa Alceste.
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Ancora più
fastidiose per un pubblico contemporaneo appaiono le lunghe
introduzioni strumentali a molte Arie nelle prime Opere di Mozart,
soprattutto quelle che comprendono una esposizione concertante di
strumenti singoli. Si deve ammettere che Mozart commetteva talvolta
errori di giudizio nel desiderio di piacere ai suoi colleghi
musicisti. Nelle Opere di Gluck le introduzioni sono spesso
intensamente espressive, e ancor di più lo sono i brevi assolo
strumentali, in particolare quelli per l'oboe, che in talune Arie
entra in una sorta di dialogo col cantante. Mozart, che mira al
medesimo modello espressivo, era un compositore orchestrale molto
più completo di Gluck già all'età di vent'anni o
meno, e aveva fatto maggior pratica della composizione sinfonica o
concertante. Questa facilità e rapidità nella
composizione puramente strumentale lo spingono a tentare di combinare
l'assolo strumentale di Gluck, dalla spontanea e talvolta persin
cruda espressività,
con la compiuta eleganza di un Concerto,
particolarmente in ragione delle sue relazioni amichevoli con
interpreti che egli si compiace di porre in bella evidenza. Si
aggiunga l'incomparabile grazia mozartiana (non vi è altro
possibile epiteto) della pura melodia, e l'intera Aria, la voce
incastonata nell'inseparabile contesto orchestrale, diviene uno
spiegamento di serena e squisita bellezza musicale che eclissa
interamente le passioni umane che dovevano essere originariamente
poste in luce. |
Nelle Opere successive
Mozart abbandonò questo accompagnamento concertante; la sola
reminiscenza che ne rimane è nella Zauberflöte, in
cui flauto e campanelli magici sono impiegati in modo visibile sulla
scena dagli attori e costituiscono parte integrante del dramma
stesso. Ma altri compositori, soprattutto Méhul e Cherubini,
continuarono sistematicamente a porre in rilievo gli strumenti
solistici nelle loro Opere; ne troviamo numerosi esempi anche in
Spontini e Meyerbeer, in Donizetti e persino nel giovane Verdi. Non
c'è dubbio che il pubblico aveva piacere di ciò, e ne
avrebbe ancora se il virtuosismo degli esecutori fosse idoneo
all'impegno.[Per scrupolo di precisione, non posso tralasciare
l'«obbligato» per «corno di bassetto» nella
Clemenza di Tito.]
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Per finire, ascoltando
Idomeneo, dobbiamo cercare di dimenticare l'ansia della vita
moderna e abbandonarci a un senso dell'ozio di cui i nostri antenati
sapevano fortunatamente approfittare. Anche alla prima
rappresentazione, Idomeneo dovette essere abbreviato; ma non
possiamo credere che quegli spettatori fossero messi in agitazione,
durante l'ultimo atto, dal timore di perdere l'ultimo mezzo pubblico
per Schwabing o per Isarthal. Idomeneo, forse più che
ogni altra Opera, illustra il fatto che la storia di un'Opera lirica
è simile a un torrente che scorre a lungo in uno stretto
canale, perdendosi talvolta sottoterra, gettandosi talora in un
precipizio, e allargandosi a frequenti intervalli in un lago vasto e
tranquillo. Gli aspetti che ci offre sono vari, come i paesaggi dei
quali diventa parte; eppure, largo o stretto, superficiale o
profondo, esso si spinge comunque in avanti e prende sempre
più forza sino al raggiungimento della sua meta definitiva.
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II
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Ciò che soprattutto
colpisce, in Idomeneo, sono la nobiltà e l'altezza
della concezione d'insieme. Basterebbe la sola Ouverture a dare
sufficiente prova della sublime immagine che per Mozart l'Opera Seria
costituiva, e neppure per un istante, nel corso dell'intera
partitura, il compositore abbandona la sua profonda attitudine
eroica. Non per questo si può definire l'Idomeneo una
fredda e statica successione di brani accademici: quest'attributo
potrebbe forse applicarsi a La clemenza di Tito, frutto
dell'estremo deperimento fisico di Mozart, ma mai
all'Idomeneo. Nei suoi primi approcci con l'Opera Seria,
Mozart si era piuttosto preoccupato di fornire al pubblico e ai
cantanti ciò che da essi veniva richiesto; ma ora, giunto ai
venticinque anni, possedeva sufficiente esperienza della vita per
ritenersi in grado di penetrare a fondo nel carattere dei suoi
personaggi. Può non ritrovarsi, qui, la finezza dei
particolari psicologici de Le nozze di Figaro o di
Così fan tutte, o la sublime e semplice naturalezza
della Zauberflöte - qualità peraltro del tutto
estranee allo stile complessivo di quest'Opera -; ma vi si
riconoscono una forza monumentale e un passionale ardore che, dopo
questo lavoro giovanile, non apparterranno ad alcun'altra creazione
di Mozart. L'Idomeneo è la prima e ultima Opera Seria
in cui si manifesti il Mozart maturo e perfetto. |
Gli odierni studiosi di
Mozart hanno scarse possibilità di assistere a una
rappresentazione dell'Idomeneo; ma senza un attento e
meticoloso studio di quest'Opera non v'è possibilità di
comprendere appieno le altre composizioni del Maestro, in particolare
quelle destinate al teatro. È questa la dimensione in cui egli
appare nella sua più autentica realtà di uomo; le
pagine concertistiche, sinfoniche, quartettistiche e sonatistiche
rappresentano altrettante evocazioni della sua musica teatrale. E,
nell'ambito della sua produzione melodrammatica, una piena conoscenza
di Idomeneo è indispensabile: si tratta infatti della
sola Opera in cui ci venga offerto un vero modello di nobiltà
e di grandezza. Chi considera "grandi Opere" Le nozze di
Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte, e la
stessa Zauberflöte, semplicemente non sa quel che dice.
Se fosse appena in grado di comprendere l'Idomeneo, sarebbe
costretto ad ammettere che le quattro celebri Opere non sono soltanto
zeppe di banalità, ma che difficilmente potrebbe trovarvisi
qualche singolo brano che possa esser paragonato a quelli
dell'Idomeneo. Impiego deliberatamente il termine
"banalità": le banalità di Mozart - ve ne
sono anche nella Zauberflöte - sono pur sempre sue, e
appaiono ogni volta abbastanza appropriate alla situazione da fare la
gioia di chi le ascolta. Anche i brani più solenni della
Zauberflöte potrebbero con difficoltà far parte
dell'Idomeneo; essi non emanano dall'atmosfera della tragedia
classica, ma da quella di un religioso misticismo.
|
È assurdo parlare di
Mozart come di un individuo rimasto fanciullo per tutta la vita,
oppure come di un compositore ammodo che non abbia mai cercato altro
che compiacere a un pubblico di aristocratici con una serie di
graziose frivolezze. In un solo senso si potrebbe affermare che egli
sia rimasto infante: la sua appassionata serietà, nel completo
abbandono di sé a un impulso emotivo che talvolta (come nel
Requiem) assume un carattere certamente isterico. Stendhal,
nelle sue Lettere su Haydn, paragona Mozart al pittore
Domenichino [Per comprendere il punto di vista di Stendhal, occorre
ricordare che egli paragona Pergolesi a Cimarosa e a Raffaello;
Händel a Michelangelo; Haydn a Tintoretto e Gluck a Caravaggio]:
«Ma Domenichino avrebbe dovuto, per assomigliare a lui sino in
fondo, esprimere la malinconia con colori più intensi».
Altrove sostiene l'opinione secondo cui, a suo parere, e
contrariamente a quanto affermano gli italiani, la prima Opera Seria
non sia Gli Orazii e i Curiazii di Cimarosa, ma
Idomeneo o La clemenza di Tito. Dobbiamo considerare
con qualche indulgenza il romantico sentimentalismo di un francese
italianizzato dell'epoca di Byron, e vedremo, quando ci troveremo a
studiare Don Giovanni, che gli albori del secolo XIX non
costituiscono sempre una guida infallibile alla comprensione della
musica del XVIII. |
Ma non potrebbe esservi
alcun dubbio, anche per un imperturbabile critico del secolo XX,
sull'emozionante intensità espressiva di partiture come il
Quintetto in sol minore (K.516), la Fuga in do minore (K.426) per due
pianoforti, la Fantasia in fa minore (K.608) per organo meccanico e
la maggior parte degli ultimi Concerti per pianoforte, soltanto per
citare quelle giustamente più conosciute dagli appassionati
d'oggi. Sono, è vero, per la maggior parte, pagine che
appartengono al periodo finale della vita di Mozart; ma si potrebbero
scoprire i germi di questa caratteristica emotività anche in
alcune fra le Sonate per pianoforte che vengono spesso disprezzate
[...]* |
L'esecutore, ribadisco, non
può dimenticare che questa musica deve esser considerata come
evocatrice d'una voce che canta. È tuttavia a Idomeneo
che dobbiamo tornare, se vogliamo trovarci di fronte alle più
elevate conquiste del giovane Mozart. Le prime battute
dell'Ouverture definiscono
immediatamente il piano eroico sul quale il dramma si svolge. Essa ha
inizio con l'affermazione maestosa dell'accordo di re maggiore, ma il
frequente uso di armonie minori, e un secondo tema in modo minore,
che appare in luogo del più consueto modo maggiore del tono
della dominante, ci preparano alla tragedia. La costruzione è
resa ancor più insolita dal fatto che il secondo tema non
è ripetuto dopo la ricomparsa del primo, ma in sua vece si
snoda una lunga coda piena di espressione, costruita su un tema breve
e caratteristico, che appare poi numerose volte nel seguito
dell'Opera. Lo si sente per la prima volta poco dopo l'inizio
dell'Ouverture - un richiamo dei flauti e degli oboi contrapposto al
moto rampante degli archi [...]* Un crescendo dei due incisi ci
conduce al ritorno del primo tema, e la coda, prima su pedale di
dominante, poi su pedale di tonica, si sviluppa nuovamente, sorretta
da un'ardita progressione armonica. Le pulsazioni dei contrabbassi
vanno morendo, gli archi e l'oboe solo s'acquetano in una coppia di
frasi sospiranti sull'armonia di re; il sipario si alza |
e vediamo Ilia, piccola figura solitaria nelle vaste
prospettive degli appartamenti reali. Dobbiamo immaginarci la scena
non alla luce dei risultati delle più recenti ricerche
archeologiche, ma in quella deliziosa mescolanza di moderno e di
barocco che troviamo negli affreschi del Tiepolo. La prima frase di
Ilia mostra già il carattere del personaggio [...].*
Naturalmente dolce e accondiscendente, Ilia tenta di abbandonarsi,
spinta dal ricordo della rovina della patria, a una giusta vendetta
contro Idomeneo e contro i cretesi. Ma altri sentimenti si agitano
dentro di lei: non può allontanare il pensiero dal figlio del
re, Idamante, che
l'ha salvata dal naufragio. Essa non ha mai osato rivelargli il suo
amore e, d'altra parte, teme che egli appartenga a Elettra, quella donna terribile, e per giunta greca,
che non conosce ostacoli ai suoi desideri. Ilia si sente attorniata
da nemici, lacerata da interni conflitti; il recitativo giunge al suo
climax, e i due accordi tradizionali della cadenza, con un tratto di
genio, entrano a far parte integralmente dell'introduzione che
precede l'Aria. Varesco ha qui scritto versi che si addicono in modo
ideale ai propositi del compositore:
|
Padre, germani,
addìo!
Voi foste, io vi perdei.
Grecia, cagion tu sei,
E un greco adorerò?
D'ingrata al sangue mio
So che la colpa avrei;
Ma quel sembiante, oh Dei!
Odiare ancor non so.
I versi sono divisi in due strofe, che corrispondono
al primo e al secondo tema dell'Aria; ma, mentre la seconda quartina
comprende due lunghe frasi fluenti, la prima è rotta in brevi
esclemazioni. Alla sola lettura, e senza musica, il vantaggio
drammatico è già evidente; ma chi sia musicista si
rende onche conto del fatto che quei brevi raggruppamenti di sillabe,
la cui espressione dipende non dalla bellezza di una linea melodica
continua, ma da un ritmo ben scandito che ne sottolinea la
declamazione, offrono al compositore l'opportunìtà di
un libero trattamento armonico, e, conseguentemente, di una
intensificazione dell'effetto emotivo quando il tema, secondo le
regole, viene ripreso a metà dell'Aria. |
Se il lettore avesse la
pazienza di analizzare nei particolari questa sola Aria, sia dal
punto di vista tecnico che da quello drammatico, scoprirebbe i
principi formali su cui poggia il valore espressivo di qualsiasi Aria
mozartiana. Possiamo notare l'esplosione drammatica sulla parola
«Grecia» e osservare come l'effetto ne sia intensificato,
alla ricomparsa, dal moto dell'armonia; [...]. Non è una
ragione sufficiente per chiamarla Leitmotiv o darle un appellativo
wagneriano; ma la ritroveremo in varie situazioni, sempre in momenti
di grave tragicità, e generalmente in rapporto con l'amore di
Ilia e di Idamante.
|
L'Aria di Ilia è una
cosa che va fatta osservare, non possiede introduzione, se non di
pochi accordi, né ritornelli strumentali, né coda;
Mozart attende che l'azione si sia bene avviata prima di inquadrare
le sue Arie in una costruzione sinfonica più impegnativa. Ilia
ha appena avuto il tempo di concludere il suo trillo finale, quando
vede apparire Idamante: prorompe allora in un recitativo. Idamante,
nell'entrare, sta parlando con il suo seguito, e così gli
accordi d'accompagnamento sono di proposito estranei a quanto
precede. Ma, dal momento in cui rivolge a Ilia la parola, l'armonia
ritorna nella tonalità in cui essa si era arrestata. Mozart
cerca di distinguere meglio che può i due personaggi: Ilia
appassionata e turbata, Idamante pieno di autocontrollo e di
dignità. Il principe manifesta la sua ammirazione in termini
piuttosto formali; Ilia crede suo dovere respingere gli approcci del
suo nemico ereditario. Idamante replica con un'Aria di tono
convenzionale; ma se si presenta qui nel tipico ruolo del
soprano-eroe dell'Opera del secolo XVIII, occorre riconoscere che
egli realizza tale modello in maniera assolutamente perfetta.
|
Vengono introdotti i
prigionieri troiani: la flotta di Idomeneo è stata avvistata,
e il ritorno del re verrà celebrato con la loro liberazione e
la riconciliazione con i vincitori. Troiani e cretesi uniscono le
loro voci in un coro di giubilo, con grande indignazione
di
Elettra, che entra in quel
momento. Ma è subito interrotta dalla notizia, portata da
Arbace, che Idomeneo ha fatto naufragio sulle rive stesse della sua
isola. Idamante, Ilia e il popolo si precipitano verso la costa,
mentre Elettra, rimasta sola, dà libero sfogo alla sua furia.
Essa teme che, morto il re, nessuna autorità possa impedire al
figlio di convolare a nozze con la miserabile prigioniera, figlia di
Priamo.
|
Mozart nutriva grande
ammirazione per l'Alceste di Gluck, e Alceste appare
senza dubbio come il modello di molte scene di quest'Opera; ma per i
recitativi e le Arie di Elettra, nemmeno Gluck avrebbe potuto servire
da esempio: le più selvagge esplosioni di rabbia di Armida e
delle Furie sembrano quasi infantili in confronto agli impeti della
feroce gelosia di Elettra. Mozart fa proprio lo stile di frase
declamatorio, quasi barbaro e antivocale, di Gluck; ma mentre il
ritmo di Gluck è, alla lunga, spesso monotono, e lo
svolgimento musicale «puro» della sua musica appare
sovente debole e malaccorto, il completo dominio delle risorse
sinfoniche di cui Mozart è in possesso lo rende capace di
portare le sue frasi a un definito climax, di mettere in contrasto
con la forza brutale dell'armonia diatonica i gemiti angosciati del
serpeggiare cromatico. Questa prima Aria di Elettra è scritta
nella forma binaria abituale; ma quale straordinario effetto produce
il ritorno del tema non, come potremmo attenderci, alla tonica, re
minore, e neppure alla dominante o nel modo maggiore relativo, come
spesso accade, ma in do minore, una tonalità del tutto
estranea, un tono sotto la tonica! La trasposizione è resa
necessaria dai limiti d'estensione della voce, ma sfocia in un
effetto drammatico: l'offuscamento del colore tonale e il tempo
supplementare nella sequenza ascendente dell'imprecazione. Il climax
è in tal modo assai più impressionante che non dopo una
partenza dalla tonica, con due passaggi invece di tre.
|
La forma binaria dell'Aria,
costruita come un movimento di Sonata (e infatti dall'Aria la Sonata
strumentale deriva) su due temi di carattere contrastante, avrebbe
costituito per un mediocre compositore il momento rivelatore della
sua debolezza; essa offriva invece a un musicista abile e ingegnoso
notevoli possibilità drammatiche. È evidente che se il
secondo tema si addice a un certo tipo di voce quando compare
dapprima alla dominante, risulterà probabilmente troppo alto o
troppo basso allorché, secondo la regola, avrà fatto
ritorno alla tonica. Un compositore accorto avrà la
precauzione di scegliere il suo secondo tema in modo che esso produca
il massimo effetto nella seconda tonalità in cui sia destinato
a comparire; ma un genio come Mozart sarà capace di renderne
per intero l'effetto sin dalla prima entrata, e poi di accrescerne
ulteriormente la forza espressiva, alla ripresa, con qualche inattesa
modifica. L'ascoltatore medio non rileva questi particolari, e
può anche mal tollerare che gli vengano fatti osservare; ma il
serio studioso di musica deve comprendere che simili artifici sono
essenziali al mestiere, e nello stesso tempo si pongono al servizio
di un'intenzione autenticamente poetica.
|
Elettra abbandona la scena
al termine della sua Aria, ma il tumulto delle sue passioni cresce
nell'orchestra, sino a trasformarsì esso stesso in
rappresentazione di una reale tempesta. La scena muta a vista, e ci
troviamo trasportati sulla riva del mare. La musica ci guida senza
interruzioni sino a un coro d'uomini che implorano la clemenza degli
dèi, mentre fa loro eco, in lontananza, un coro di naufraghi.
Il primo è accompagnato dall'agitato disegno dei violini, il
secondo dalle ampie e bilanciate frasi dei legni. Anche quattro corni
trovano impiego in questa scena; è molto raro trovarne
più di due in un'Opera di questo periodo. E questi quattro
corni dialogano così ingegnosamente che sarebbe difficile
ridurli a due, in funzione delle risorse di un piccolo teatro, ad
esempio. L'ìntenzione dì Varesco era di far placare la
tempesta dall'apparizione di Nettuno in persona: l'appello che
Idomeneo rivolge al dio sarebbe stato suggerito con una pantomima.
Mozart, forse dietro consiglio dello scenografo Quaglio, non tenne in
considerazione questo progetto; le poche battute tra la fine del coro
e lo sbarco del re lascerebbero d'altra parte ben poco tempo per un
simile effetto scenico. La divisione del coro in due gruppi fu idea
del solo Mozart. La tempesta è breve, ma delineata con molta
vivezza. Mentre il coro si disperde e i flutti si placano,
Idomeneo sbarca
col suo seguito, che congeda immediatamente. Non ha ancora spiegato,
in un monologo, la natura del suo sciagurato voto, allorché
entra Idamante. Mozart fu forzato, per colpa dell'incapacità
dei cantanti, a mutilare questo dialogo tra padre e figlio.
|
La scena è
certamente lunga, ma Leopold Mozart non aveva forse torto quando
esortava il figlio a non abbreviarla; affidato a validi interpreti,
lo sviluppo graduale della situazione drammatica diverrebbe
estremamente avvincente. In Jephte di Händel, l'infelice
padre, vedendo la figlia avvicinarsi, la allontana immediatamente da
sé, ed è obbligato a spiegare ogni cosa agli altri
personaggi. Varesco, qui, mette subito il pubblico al corrente del
segreto, ma mantiene i personaggi nell'ignoranza sino alla fine
dell'Opera. Assai felicemente, egli sa trar profitto dal fatto che
Idomeneo e Idamante non si sono più visti da quando il figlio
era infante. Si incontrano come due estranei, ma la semplice vista di
un uomo anche sconosciuto è sufficiente per far comprendere a
Idomeneo l'orrore della sua condizione. Idamante piange la perdita
del padre, che crede annegato; Idomeneo si sente sempre più
attratto dal giovane, sino a che, d'improvviso, lo riconosce come
proprio figlio. L'emozione è per lui troppo forte (è
infatti a questo punto che Mozart introduce l'orchestra ad
accompagnare il recitativo); egli non può evitare di tradirsi,
sebbene si renda conto, non appena le parole gli sono sfuggite dal
labbro, che ha così perduto l'ultima possibilità di
salvare la vita del figlio. Respinge sconvolto il suo abbraccio e gli
proibisce di avvicinarsi. Idamante è assalito dall'angoscia.
Ha appena ritrovato il padre e si trova nuovamente a doverlo perdere;
che cosa può aver causato la sua collera? Forse l'amore di
Idamante per la prigioniera troiana? L'Aria che conclude la scena
possiede un carattere più definito di quella che Idamante ha
cantato all'inizio dell'atto; il sentimento espressovi è
più umano e diretto, e il principe comincia ad assumere
più precisi lineamenti.
|
I guerrieri cretesi
sbarcano sulle note di una marcia brillante, seguita da un lungo
movimento corale che porta l'indicazione di Ciaccona, inatteso
imprestito dal francese all'italiano, perché la Chaconne
è il procedimento favorito di Rameau e di Gluck quando
vogliono, nelle loro Opere, dare a un atto una conclusione animata.
Il tutto è qui probabilmente inteso, più che come un
ballo, come la rappresentazione di una sontuosa cerimonia
religiosa.
|
Il secondo
atto si apre su un dialogo
tra Idomeneo e Arbace. Il re gli svela il suo segreto, e il saggio
consigliere gli suggerisce di mandare il principe in qualche altro
paese; Idomeneo decide, per aver modo di adempiere al suo voto, di
inviarlo in Grecia a scorta di Elettra. La scena fu inserita da
Mozart soprattutto a pro di Panzacchi, che sosteneva il ruolo di
Arbace, e si conclude con un'Aria a lui affidata, al termine della
quale egli si allontana per i necessari preparativi, mentre
sopraggiunge Ilia. Idomeneo le riconferma la sua amicizia e ribadisce
l'intenzione di riparare a tutto ciò che essa ha sofferto. In
un'Aria di singolare bellezza, la giovane risponde di aver trovato in
Creta una seconda patria, e nel re un secondo padre. Mozart, come
Beethoven, associa in modo molto rigoroso determinate situazioni a
precise tonalità. Si sa che, per Beethoven, il do minore
sembra possedere un proprio particolare carattere: ci basti pensare
alle tre Sonate per pianoforte in quella tonalità, alla Sonata
per violino, al terzo Concerto per pianoforte, al quarto Quartetto
per archi e, soprattutto, alla Sinfonia in do minore. In Mozart, le
tonalità dal senso più definito sono sol minore e mi
bemolle maggiore. Due grandi Sinfonie (quella K.550 e quella K.543)
lo dimostrano; ma dobbiamo segnalare anche il Quintetto per archi e
il Quartetto per archi e pianoforte in sol minore, insieme con l'Aria
di Pamina nel secondo atto della Zauberflöte; in mi
bemolle maggiore sono l'Ouverture e il finale della stessa Opera, una
Sonata per violino, la prima Aria della Contessa nelle Nozze di
Figaro e i tempi lenti della Sinfonia e del Quintetto in sol
minore. Queste ultime composizioni presentano le due tonalità
strettamente congiunte, e in una sorta di reciproca connessione,
analoga a quella che possiamo osservare tra la presente Aria di Ilia
e quella con cui si apre l'Opera. |
Quando Ilia appariva per la prima volta, dolce e infelice,
cosciente della sua debolezza, impotente di fronte a un destino
tirannico, Mozart aveva scelto per lei la tonalità di sol
minore; egli adotta il mi bemolle maggiore per dipingere la stessa
dolce eroina dopo che Idomeneo le ha offerto una ragione di
serenità e di fiducia nel futuro, in omaggio agli strumentisti
dell'orchestra suoi amici, Mozart fa accompagnare quest'Aria da
quattro strumenti a fiato solisti. L'Aria stessa è un brano
dalla costruzione squisitamente rifinita e, per di più,
permeato di autentico sentimento poetico. Ma, considerata come
episodio dell'Opera, occorre dire che la sua lunga introduzione,
necessaria per porre in luce i solisti «concertanti», e
ancor più giustificabile alla luce dell'originale interesse
che assumerà il rapporto tra il loro periodare melodico e la
voce, è tuttavia in qualche modo d'ostacolo allo svolgimento
dell'azione drammatica. Senza dubbio, Mozart non sentiva il peso di
questo inconveniente allo stesso modo che noi oggi, e il suo pubblico
vi era assai più abituato. Mozart sa, d'altra parte, come
trasformare in elementi drammatici i più impensabili
particolari. Mentre Ilia abbandona la scena, Idomeneo riflette sulle
parole di lei; gli appare chiaro che la giovane ama suo figlio, che
l'amore è corrisposto, e che Poseidone non avrà una
sola vittima, ma tre, poiché né egli stesso né
Ilia possono accettare di vivere senza Idamante. Il recitativo del re
è indicato «in tempo dell'Aria» e si apre su un
tema che poco prima abbiamo sentito suonare dagli strumenti a fiato
solisti, e che ora è presentato dagli archi [...]*.
|
L'armonia compare con un
colore più minaccioso, e la modifica del metro suggerisce una
relazione col tema che abbiamo già indicato nell'Ouverture e
nella prima Aria di Ilia.
L'Aria di Idomeneo che ora segue è il grande
pezzo di bravura dell'Opera, quello in cui Raaff avrebbe dovuto dare
il meglio di sé per ritrovare i trionfi della giovinezza.
L'attempato signore si dichiarò completamente soddisfatto
dell'Aria, e Mozart scrive che l'amava a tal punto da cantarla ogni
sera prima di mettersi a letto e ogni mattina appena alzato! Egli
aveva certamente ragione: il brano era stato composto con ogni cura e
col massimo talento; suo scopo era quello di valorizzare il
più possibile lo stile e la tecnica di Raaff senza eccessivo
sforzo per la sua voce. L'appassionato d'Opera ha oggi scarse
possibilità di ascoltare un'Aria di questo tipo eseguita come
si dovrebbe. Questo esempio particolare non è di estrema
difficoltà; richiede solo di rado il sol acuto abituale, la
coloratura è omogenea, e si colloca agevolmente e pianamente
rispetto alle esigenze della voce. Ma la coloratura, per gli uomini,
è passata di moda, dopo Wagner, mentre per le donne, grazie ad
Adelina Patti, ha finito per essere associata a un tipo di fragile
piuttosto che eroica protagonista. |
Nel secolo XVIII, e
soprattutto nella sua prima metà, ossia nella grande epoca
dell'Opera Seria, la coloratura era pressoché invariabilmente
di carattere eroico, e fondamentalmente associata ai castrati, che
interpretavano i ruoli delle grandi figure dell'antichità. La
Lucia di Donizetti fa pensare a un flauto: gli eroi di
Händel evocano la tromba. L'Aria eroica di Idomeneo cade proprio
nel momento più opportuno del dramma. Idomeneo è
sfuggito alla furia del mare, ma la collera di Poseidone incombe, e
una ancor più terribile tempesta si sta scatenando nel cuore
del re; e potrebbe sembrare che la musica di Mozart sia in grado di
esprimere tutto fuorché una simile situazione. Ma Mozart sa
bene ciò che fa; offre piena soddisfazione al vecchio Raaff e,
nel pubblico, ai suoi più ferventi ammiratori; ma non
dimentica per parte sua di esprimere la maestà e il coraggio
indomabili con cui il re affronta la tragedia.
|
Segue una breve entrata di
Elettra; la speranza della felicità le ha fatto dimenticare il
passato, ed essa ci si presenta sotto una nuova luce. In effetti,
parole e musica appaiono qui incompatibili. Varesco supera se stesso
quanto a oscurità; Mozart si attiene semplicemente alla
situazione drammatica e, dal momento che non sarebbe peraltro stato
possibile, neppure per un italiano dell'epoca di Varesco, seguire col
canto il senso dì quelle parole, si accontenta di offrire a
Elettra un'Aria dalla serenità e dal fascino inattesi.
Soltanto gli archi la accompagnano, con un trattamento così
elegante e ingegnoso da non produrre mai sazietà. La ragione
tecnica ne è presto spiegata: l'Aria è priva di coda, e
sull'ultima nota cantata irrompono - al suo orecchio e al nostro -
gli accenti di una marcia lontana che chiama la giovane al porto,
dove essa si imbarcherà alla volta della Grecia. Come nella
celebre marcia nuziale delle Nozze di Figaro, Mozart fa
partire il brano dalla sua metà, riprendendone più
avanti il vero inizio. La marcia è dapprima intonita dagli
strumenti a fiato, che Mozart ha risparmiato a questo scopo sino ad
ora, molto dolcemente, così da suggerire un effetto di
lontananza. Mentre i fiati suonano, gli archi tacciono e hanno modo
di applicare la sordina, per unirsi ad essi durante la ripresa della
marcia. Anche ottoni e timpano sono in sordina; ma Mozart vuole che
la marcia divenga sempre più sonora sino al cambiamento di
scena; così accresce gradualmente l'orchestra, mentre gli
ottoni e finalmente anche gli archi tolgono la sordina per aprire la
scena successiva su una esplosione di suono e di musica.
|
Eccoci nuovamente al porto.
La nave è pronta, e il popolo invita Elettra a imbarcarsi,
sulle note del celebre coro Placido è il mar, andiamo.
È questo uno dei maggiori esempi del cosmopolitismo di Mozart,
un quadro degno di Rameau, una melodia all'italiana che ci presenta
la scena come una mescolanza di Napoli e di Venezia dipinta da
Tiepolo, e, al di sopra di tutto questo, il senso tedesco di un
pensiero puramente musicale che dona all'insieme la sua magica e
soprannaturale bellezza.
Idomeneo entra con Idamante; questi ed Elettra
prendono congedo dal re nel corso di un trio. Ma Elettra è
preda di uno strano presentimento. Idamante sta per separarsi da Ilia
senza aver osato rivelarle il suo amore, e ha coscienza del mistero
che si frappone tra sé e il padre. Idomeneo può solo
sperare, contro l'intima convinzione della coscienza. Con una sorta
di risoluzione piena di spavento, la musica si anima, mentre Idamante
ed Elettra si accostano alla nave. D'un tratto, senza alcun
preavviso, si scatena il fragore della tempesta. Un mostro sorge dai
flutti; il popolo atterrito vede in ciò, senza ombra di
dubbio, una maledizione celeste. «Chi è il
colpevole?» ci si domanda; e per tre volte la voce degli
strumenti a fiato fa eco alle grida. Idomeneo riconosce intrepido la
sua responsabilità; vuole offrire se stesso in sacrificio, ma
sa bene che non sarebbe accettato. Egli non parla al popolo del suo
voto: in quest'istante, ignora del tutto la sua presenza, e si
rivolge direttamente al dio. I cretesi non parteciperanno
direttamente all'azione sino all'atto successivo, quando esigeranno
dal re che allevii le loro sofferenze; per ora il terrore è
sola loro emozione. Idomeneo sfida il dio, e l'accusa apertamente di
ingiustizia. L'orchestra si gonfia in un'esplosione d'ira. Il re si
rende conto della sua bestemmia, ma l'amore è in lui
più forte del sacro timore. Il popolo, che nulla comprende, si
disperde, pieno di terrore, mentre la tempesta infuria, e il sipario
cala su Idomeneo, solo sulla riva, di fronte al mare burrascoso.
|
Il terzo atto ha inizio con un monologo di Ilia. Come
avviene per la figlia di Jephte nell'Oratorio di Händel,
si può vedere lo sviluppo del suo carattere durante il corso
dell'Opera: è quanto accade anche a Pamina nella
Zauberflöte. Ilia, nel primo atto, era una principessa troiana,
obbligata a odiare i cretesi che l'avevano resa prigioniera; nel
secondo comincia a rendersi conto che Idomeneo e Idamante possono
offrirle più felicità di quanta ne abbia mai conosciuta
a Troia. La vedremo ora abbandonarsi totalmente al suo amore. Non
l'ha ancora dichiarato, ma lo ha ammesso di fronte a se stessa, e ne
è ora a tal punto posseduta da dimenticare la gelosia verso
Elettra. Quest'Aria del terzo atto rivela una maturità e una
profondità d'emozione che non compaiono in quelle dei due
precedenti; il migliore esempio ne è la frase conclusiva del
secondo tema, già bella per la sua stessa linea, ma resa ancor
più intensamente umana dalle calde armonie cromatiche che
accompagnano la sua ripetizione [...]*.
È questo il Mozart più puro: nessun
compositore italiano avrebbe immaginato un effetto tanto delicato e
poetico; o se qualcuno avesse in modo vago avuto idea dei sentimento
che esso esprime, l'avrebbe tradotto in una variazione melodica della
linea vocale, non in un mutamento dell'armonia di accompagnamento.
|
Sopraggìunge
Idamante, per prender congedo da Ilia: sta per recarsi a uccidere il
mostro, o forse a essere ucciso. Ilia è così indotta a
rivelare il suo amore, e ne nasce un inevitabile duetto, la cui parte
migliore è la lenta introduzione: vi ritroviamo per una volta
ancora un'allusione a quel tema dell'Ouverture che ricorre
così frequente nell'Opera. Gli innamorati sono interrotti da
Idomeneo, che Elettra segue da presso. Di nuovo, Idamante scongiura
il padre di rivelargli la ragione della sua freddezza; di nuovo
Idomeneo accenna a mezza voce alla collera di Poseidone e ordina al
figlio dì partire per non fare mai più ritorno.
Comincia a prender forma, nell'animo di Ilia, l'idea di aver
provocato essa stessa la collera divina, conquistando il cuore di
Idamante. Elettra comprende di essersi lasciata sfuggire l'ultima
possibilità, e l'odio che in lei covava prende a rinfocolarsi
sino all'incendio definitivo. Idamante deve partire. Ilia, in un
accesso di emozione, dichiara di volerlo seguire; egli la allontana
dolcemente:
No, resta, cara, e vivi in pace... Addio!
Andrò ramingo e solo,
Morte cercando altrove,
Finché la incontrerò.
|
È il momento del
grande quartetto, in luogo del quale Raaff avrebbe voluto un'Aria per
sé solo. Mozart, tuttavia lo ritiene il momento più
drammatico dell'Opera, e noi possiamo esser d'accordo con lui,
poiché si tratta forse del più bel pezzo d'insieme mai
composto per le scene. La furia di Elettra, la disperazione di
Idomeneo, la tenera rassegnazione dei due giovani innamorati, tutto
vi è espresso, ora fortemente individualizzato, ora nel
raggrupparsi delle coppie contrapposte, ora nel confondersi insieme
entro l'unanime e fondamentale esperienza tragica: il sentimento
dell'oppressione da parte di potenze misteriose al di là di
ogni controllo, o di ogni approccio umano. La forma rigorosamente
simmetrica contribuisce alla classica maestà di queste pagine,
e la necessità di tener conto dei limiti d'estensione di
differenti voci conduce a modulazioni di sconvolgente potenza
espressiva. Verso la fine, una serie precipitosa di frasi imitate
conduce l'armonia al suo climax; poi, dopo un silenzio, Idamante
riprende le sue prime parole - andrò ramingo e solo -, la sua
voce si spezza, se ne va, e l'orchestra, con poche frasi simili a
singhiozzi, conclude pateticamente il brano (es. Possiamo soffermarci
per un istante sul significato estetico e drammatico di pagine come
questa. Il primo compositore che abbia unito le voci, in un brano di
struttura determinata, in un momento di acuta tensione drammatica,
sembra essere stato Alessandro Scarlatti.** |
Ma i suoi successori ne
compresero solo parzialmente il valore; Händel ne [...]* offre
rari esempi, e i compositori della scuola napoletana ne fanno impiego
soprattutto per ottenere effetti comici. La maggioranza dei cantanti,
lo vediamo nel caso di Raaff, non erano per nulla entusiasti di una
scena che esigesse così numerose prove preliminari e offrisse
così scarse occasioni per porsi individualmente in evidenza.
Questo tipo di insieme, che io ho chiamato «ensemble of
perplexity», deve essere attentamente distinto dal complesso
finale che si trova al termine di ogni atto, soprattutto in opere
comiche come Le nozze di Figaro, Don Giovanni e
Così fan tutte; ma i compositori che verranno dopo
Mozart non saranno più come lui padroni dei principi formali e
costruttivi. Il migliore esempio moderno di insieme tragico è
probabilmente il quintetto che precede la morte dell'eroina ne La
Traviata. È un procedimento tipico del dramma musicale;
l'azione è sospesa, e si costituisce un quadro scenico che
può mantenersi immobile sino a che il compositore sia in grado
di sostenere l'interesse musicale. È spesso un grande
sollievo, dopo lo sforzo impiegato per raggiungere un apice
drammatico, raggiungere questa sorta di pianoro, questo punto di
riposo dal quale possiamo contemplare la situazione drammatica,
così com'essa è, da una certa distanza. |
L'Opera, qui, ha esercitato
un'innegabile influenza sulla tecnica del successivo teatro di prosa;
ci sono momenti delle commedie di Goldoni che fanno pensare a insiemi
d'Opera, quasifossero stati scritti per un libretto. È ancora
l'insieme d'Opera che senza dubbio si colloca all'origine del
tableau, caratteristica invenzione diPixérécourt, il
creatore del Melodramma francese. Ha infine un altro merito l'insieme
d'Opera, questa volta squisitamente musicale, quasi impossibile da
definire a parole: è quella sintesi armonica particolare che
l'unione di quattro o cinque voci solistiche realizza. Verdi è
uno dei grandi maestri del concertato d'Opera, ma forse, al tempo
stesso, uno dei suoi peggiori profanatori allorché non si
dà scrupolo (come ne La Traviata) di far cantare da tre
personaggi maschili che esprimono con parole differenti emozioni
totalmente diverse, la stessa parte di basso, e di quel tipo di basso
che dovrebbe essere più appropriatamente affidato non a una
voce umana, ma a un bombardone.
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Con la silenziosa uscita di
Idamante la scena dovrebbe propriamente aver fine, e Varesco avrebbe
voluto collocare a questo punto un cambiamento di scena, che, dal
giardino, ci avrebbe condotto di fronte al palazzo del re, dove si
sarebbe visto Idomeneo assiso in trono, assistito dal Gran Sacerdote,
di fronte al popolo riunito. Ma vi fu, tra Mozart e Varesco, qualche
equivoco, dovuto senza dubbio alle pretese del secondo tenore
Panzacchi, che voleva vedersi attribuire un'importante Aria per il
ruolo di Arbace. Mozart, sempre desideroso di compiacere ai suoi
cantanti, offrì qui a Panzacchi (che tuttavia non lo meritava
affatto) un recitativo di insolita bellezza, seguito da un'Aria piena
di nobiltà. Il pubblico dell'epoca li ascoltò senza
dubbio con piacere, ma oggi non si può che raccomandarne la
soppressione: giungendo dopo il quartetto, l'intervento di Arbace
costituisce una deplorevole caduta drammatica, e ritarda l'azione
proprio nel momento in cui è importante accelerarne il
passo.
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Un breve interludio
strumentale, con diversi andamenti separati da pause, serve da sfondo
al cambiamento di scena; esso corrisponde senza dubbio a un'azione
mimata, per la quale non possediamo indicazioni sceniche.
Verosimilmente il popolo, decimato dalla peste - coloro, almeno, che
non sono già a «mille, e mille in quell'ampio, e sozzo
ventre, pria sepolti che morti», secondo l'elegante espressione
di Varesco -, si abbandona a una specie di manifestazione di fronte
al re; quindi, il Gran Sacerdote intraprende un'allocuzione,
chiaramente ispirata alla scena similare dell'Alceste di
Gluck, visto che la stessa figurazione orchestrale compare in ambedue
le Opere. Se Idomeneo appariva italiano nel secondo atto, qui si
dimostra interamente francese. Abbiamo davanti a noi non tanto un
individuo che canta, quanto un quadro scenico d'insieme: il Gran
Sacerdote minaccioso (i preti, nell'Opera, sono sempre personaggi
odiosi, e Mozart ne aveva senza dubbio ogni giorno attorno a
sé i peggiori esempi); il re che si accusa di fronte alla
folla, eccitata e angosciata a un tempo, del popolo oppresso dalle
sofferenze. Il popolo è entrato nell'azione; esso costituisce
l'ultima grande forza in gioco contro l'irresolutezza di Idomeneo;
è il popolo che lo costringe a consumare l'orribile sacrificio
al quale egli ha così a lungo tentato invano di sfuggire. Ma i
cretesi soffrono quanto il loro re al pensiero di ciò che deve
ancora accadere; soltanto alla fine del coro, mentre la folla si
disperde, l'improvviso, sottile raggio di sole d'una modulazione al
"maggiore" si fa per un attimo udire in orchestra, prima
che i sacerdoti entrino sulle note di una marcia calma e solenne. Il
re dà inizio alla cerimonia con una fervida preghiera rivolta
a Poseidone, cui rispondono, con un canto stranamente monotono, gli
officianti sull'altare. La scena deve essere rimasta presente nella
memoria di Mozart allorché compose Die Zauberflöte.
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Un improvviso squillo di
trombe e un clamore di voci si ode all'esterno. Il principe ha ucciso
il mostro e il popolo saluta con gioia la sua liberazione. Ma
l'amarezza del re si fa ancora più profonda: con l'uccisione
del mostro il sacrilegio viene ad aggiungersi al peccato. Idamante
è portato in trionfo; ma il giovane principe ha scoperto
infine il segreto del voto paterno e ora è egli stesso che si
offre in sacrificio. Il lungo recitativo che segue è
magistrale, sia dal punto di vista drammatico, sia da quello
psicologico; la serena e giovanile gravità di Idamante fa
pensare a ciò che dovrà essere negli anni successivi
Tamino, e contrasta felicemente con gli slanci appassionati di
Idomeneo, giacché dall'avventata impulsività di
Idomeneo tutta la tragedia ha preso le mosse; sono l'autocontrollo,
l'infantile semplicità e dirittura di Idamante che salvano la
tragedia da una conclusione spaventosa.
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Anche qui l'impossibile
libretto di Varesco fu causa di difficoltà. Idamante deve
naturalmente cantare un'Aria prima di essere sacrificato, e quando
Ilia nel momento critico si precipita e insiste per morire al suo
posto, le loro manifestazioni d'affetto devono elegantemente disporsi
in un classico duetto. Mozart lo tagliò immediatamente, ma
conservò l'Aria: No, la morte io non pavento; e alle
prove soppresse anche questa.
Il 18 gennaio 1781 scrisse al padre: «La prova
del terzo atto si è svolta in modo splendido. Si pensa che sia
di molto superiore agli altri due. Soltanto, il libretto è
decisamente troppo lungo e di conseguenza anche la musica, come io
non ho mai smesso di ripetere; cosicché occorre tagliare
l'Aria di Idamante, che in ogni caso non è qui al suo posto.
Ma coloro che hanno ascoltato la musica si lamentano di questa
soppressione, e ancor più del fatto che l'ultima Aria di Raaff
è anch'essa tagliata; ma occorre fare di necessità
virtù».
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È interessante
osservare come Mozart da parte sua non sembri lamentarsi di dover
fare tagli nella propria musica; egli non pensa che alla scena e
all'effetto drammatico generale. Beethoven si sarebbe infuriato e
ostinato, indifferente a ciò che potessero pensare i cantanti,
se si fosse tagliata una sola battuta della sua musica. Mozart
è medico e chirurgo di se stesso.
Non appena Ilia si è gettata ai piedi
dell'altare, si ode un misterioso frastuono, e l'oracolo pronuncia un
vaticinio. Qui, ancora Mozart scrisse: «Anche la profezia
dell'oracolo è troppo lunga; io l'ho abbreviata, ma Varesco
non ne vuol sentir parlare, e tutto sarà stampato così
come egli l'ha scritto». Esistono infatti tre versioni [Ne
esistono in realtà quattro (N.d.T.)] del vaticinio
dell'oracolo, una delle quali manifestamente troppo lunga, un'altra
accorciata sino ai limiti del possibile. Non è chiaro quale
versione fosse allora stata eseguita.
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Seguendo l'esempio di
Gluck, Mozart sostiene l'oracolo con un accompagnamento di tromboni.
Questi ultimi, dall'epoca di Rossini e di Spontini, sono considerati
elementi normali dell'orchestra, e li si impiega principalmente per
rinforzare un fortissimo. Ma se vediamo Alessandro Scarlatti servirsi
dei corni come di strumenti esotici da usarsi sul palcoscenico
soltanto per effetti speciali di colore locale, allo stesso modo, al
tempo di Mozart, i tromboni erano considerati come estranei
all'orchestra normale, e in generale impiegati solamente per
esprimere il soprannaturale. Per il pubblico di Mozart, il suono di
un trombone non era familiare, a meno che non fosse già stato
udito in chiesa: un pubblico moderno riceverebbe una impressione
dello stesso tipo avvertendo il suono inatteso di un organo in un
teatro.** Mozart impiega il trombone, in
tutte le sue Opere, esclusivamente per effetti sacrali e misteriosi,
così come Meyerbeer e Wagner fanno uso dell'organo in teatro.
E proprio allo stesso modo dobbiamo considerare le parti di trombone
in Beethoven, in modo particolare nella Sinfonia in do minore, nella
Pastorale e nella Nona. La loro funzione è
sempre di accentuare il carattere solenne e religioso dei tempi nei
quali vengono introdotti.
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In Idomeneo, una
curiosa e notevole caratteristica degli accordi dei tromboni che
accompagnano l'oracolo è il loro raggruppamento per tre,
ognuno con una corona e un crescendo-diminuendo; è quella che
i cantanti italiani chiamavano la "messa di voce".
Ciò sembra suggerire la misteriosa animazione della statua di
Poseidone: l'enorme petto di bronzo in un primo tempo si solleva, e
poi ricade ancora una volta nella sua rigidità, quando il dio,
dopo il culmine della sua epifania, non esala più il soffio
della vita. Ma allorché la statua cessa di respirare, coloro
che davanti ad essa avevano perduto i sensi tornano in sé,
esprimendo i il loro stupore e la loro gioia con piccole frasi
precipitate [...]*
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La semplicità del
procedimento è assai commovente; un'Aria o anche un più
sviluppato recitativo sarebbero fuori posto. Non vi è che
Elettra, con le sue speranze ora frantumate per sempre, la sua
gelosia e la sua ira che devono trovare sfogo in un'ultima eruzione.
La sua voce aspra, mentre essa chiama le Furie, e già prova i
tormenti di Aiace e di Oreste, viene a interrompere bruscamente la
serena calma di tutti gli altri. Dopo di che, essa abbandona di corsa
la scena mentre l'orchestra conclude su un'appassionata variazione
delle ultime frasi sospirate dell'Ouverture: non la vedremo
più.
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L'ultima scena si apre con
una frase dei violini piena di solennità e di grazia, la quale
allude una volta ancora al motivo caratteristico dell'Ouverture, che
abbiamo indicato più volte nel corso dell'Opera; essa viene
imitata in canone da tutti gli archi. Idomeneo sale per l'ultima
volta in trono e si rivolge ai sudditi riuniti. Egli presenta
ufficialmente il nuovo sovrano e la sua regale fidanzata, in un
recitativo pieno di nobiltà, il cui accompagnamento, come
accade spesso, è abilmente sviluppato a partire dai motivi
dell'introduzione. «O Creta fortunata! Oh me felice!» La
sua coscienza è in pace, il suo spirito liberato dagli
affanni, ed egli fa pensare a qualche vecchio albero che la primavera
viene ancora una volta a ricoprire di foglie.** Su queste parole egli prende
congedo dal suo popolo, mentre si celebra l'incoronazione di Idamante
e di Ilia con canti e danze.
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*Parlo qui dell'Opera nel secolo XVIII; le funzioni del coro
nell'Opera francese, italiana o inglese del secolo XVII costituiscono
materia troppo complessa per venir qui brevemente
riassunta. |
**Nel secolo XIX, tutte le Opere tedesche, come Der
Freischütz o Fidelio, videro i loro dialoghi parlati
sostituiti da recitativi cantati quando venivano eseguite in
italiano, a Milano, a Parigi o a Londra. Per l'Oberon di
Weber, composto originariamente su un testo inglese, Benedict scrisse
recitativi italiani per successive riprese presso la Her Majesty's
Opera. Ma con mio grande stupore l'Opera di Roma pose nuovamente in
scena il lavoro nel 1938 con dialoghi parlati. Fu la prima volta in
cui ebbi modo di ascoltare dialoghi in prosa sulla scena di un'Opera
Italiana.
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Cfr.
il mio Alessandro Scarlatti, Londra 1905, e due articoli a mia
firma sul tema Concertati e finali nell'Opera del diciottesimo
secolo, in Sammelbände der Internationalen
Musikgesellschaft, Lipsia 1910.
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L'affermazione è però
già sin d'ora superata, poiché il cinema ha restituito
all'organo una popolarità che esso non aveva più
conosciuto dai tempi degli organetti d'osteria, nel Cinquecento e nel
Seicento. È curioso osservare che si trovano di frequente
organi negli alberghi canadesi.
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Questa splendida Aria dovette essere soppressa nella prima
rappresentazione, a causa della eccessiva durata dei secondo
atto. |
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