Carmelo Di Gennaro

L'«ANELLO» ALLEGORIA DEL CAPITALISMO


Dopo tanta attesa, finalmente il nuovo Ring di Wagner programmato a Bayreuth, per la direzione musicale di Giuseppe Sinopoli e la regia di Jürgen Flimm, è andato in scena. Dopo averlo visto e ascoltato, si può affermare che, pur non essendo esente da critiche sotto l’aspetto scenico, per ciò che concerne l’esecuzione si tratta di una delle realizzazioni più ricche, profonde, persino problematiche degli ultimi tempi. In via preliminare, bisognerebbe almeno cercare di comprendere, per intuire il punto di partenza di Flimm, quanto Wagner e il suo mondo siano penetrati profondamente nella cultura tedesca, che ne è rimasta impregnata nel bene e nel male. Interpretare Wagner, per un artista tedesco, equivale ad affrontare
un totem a un tempo amatissimo e temuto, ragion per cui – semplificando – due possono essere le strade: immergersi completamente nella simbologia e nell’ideologia wagneriana, oppure tentare di esorcizzare tale ingombrante presenza riportandola con i piedi per terra, ossia leggendone tutto il bagaglio mitologico come orpello per mascherare (o forse nobilitare) una "semplice" commedia borghese.

Da ciò che s’è visto, Flimm pare propendere per questa seconda ipotesi; come largamente preannunciato in diverse interviste prima della prima, le figure centrali, che lo interessano maggiormente, sono quelle di Alberich (Günter von Kannen) e di Wotan (un immenso Alan Titus) i quali hanno lo stesso scopo (impossessarsi dell’oro, vale a dire raggiungere il potere), ma usano mezzi diversi per conseguirlo. Nella seconda scena dell’Oro del Reno, Wotan si presenta dormiente (forse ubriaco?) su un tavolino da disegno, con accanto i piani di lavoro per la costruzione del Walhalla. Fricka è colei che lo pungola e lo sostiene, in questa sua ambizione, ma che gli ricorda anche il rispetto delle regole; il Walhalla altro non è che allegoria della costruzione di un impero finanziario, edificato invece con il disprezzo delle regole, ossia negando il compenso pattuito a Fafner e Fasolt, i giganti che lo hanno materialmente costruito, da Flimm visti come gli scherani che svolgono il lavoro sporco. Anche Alberich, nella prima scena, s’era presentato sul fondo del Reno, stilizzato in maniera magnifica dalle scene di Erich Wonder, come un borghese avido che tenta di diventare ricco arraffando ciò che può. In questa messa in scena, Loge ha le sembianze di un avvocato fraudolento, mentre Donner e Froh sono due paciosi borghesi, che non hanno voglia di avere problemi; il gioco è tutto incentrato sul binomio Wotan/Alberich. Anche la scena iniziale di Valchiria si tiene in un rustico casolare di campagna in stile art-déco: Sigmund (uno strepitoso Placido Domingo) è un profugo, una delle tante vittime senza nome del capitalismo selvaggio (e delle sue guerre); Sieglinde (una altrettanto grande Waltraud Meier) una placida signora di campagna, alla quale l’arrivo del fuggiasco apreimprovvisamente gli occhi sul perbenismo fasullo della sua vita con Hunding (Philip Kang).

Nella seconda scena di Valchiria vediamo Wotan trasformato in grande capitalista, dopo aver portato a termine la costruzione del suo impero; egli se ne sta in un modernissimo ufficio, con terminali e computer, tentando di placare l’esuberanza della sua discepola prediletta, l’arrembante Brünnhilde (una magnifica Gabriele Schnaut). Le Valchirie sono trasformate in donne/soldato che hanno il compito di accudire, in un paradiso inquietante, gli "eroi" delle guerre capitaliste, soldati probabilmente uccisi in Kossovo, in Bosnia, in Palestina o chissà dove. È evidente che con una simile chiave di lettura, le parti fiabesco/mitologiche, pur ben risolte (suggestiva, per esempio, è la scena in cui Wotan addormenta Brünnhilde avvolgendola col cerchio di fuoco: una bellissima struttura ovoidale avvolge l’eroina mentre una striscia rossa la circonda) stridano col realismo borghese, che vuole essere il tono generale del racconto. Ma Flimm non si limita a riportare il mito con i "piedi per terra", facendo con Wagner ciò che Marx fece con la filosofia della storia di Hegel, bensì non perde occasione per farsene beffe, e su questo piano si fa più fatica a seguirlo. Il sopracitato Loge, per l’appunto, è una figura fin troppo caricaturale, che si muove sempre, in quanto dio del fuoco, con una ventiquattrore che sbuffa fumo da ogni angolo. Allo stesso modo, del tutto grottesca risulta la figura di Mime (l’incerto Michael Howard), così come ridicolmente esuberante è resa quella di Siegfried (il bravissimo Wolfgang Schmidt): l’atto I° di Siegfried (visto alla prova generale, così come il Götterdämmerung), è emblematico in tal senso. Ma laddove il peso drammatico della vicenda prende il sopravvento, come accade nel secondo atto del Crepuscolo degli Dei, la regia di Flimm ritorna a essere tesa, livida, violenta, con le masse pericolosamente in balia dei potenti (in questo caso Hagen e Gunther, interpretati rispettivamente dai bravissimi John Tomlinson e Hans-Joachim Ketelsen).

Tra l’altro, in determinati momenti, il tono della regia cozza con la superba direzione musicale di Sinopoli, intellettuale che invece, da sempre, studia e approfondisce il mondo di Wagner con profonda partecipazione emotiva. Lo stile esecutivo di Sinopoli, però, non è mai magniloquente o peggio inutilmente tronfio; il maestro italiano, alla guida della fantastica Orchestra del Festival, riesce a trovare per ciascun determinato momento scenico una cifra sonora adeguata. Memorabile, poi, l’inizio dell’Oro del Reno quando, grazie anche all’acustica del teatro di Bayreuth (nel quale Wagner volle posizionare l’orchestra sotto il palcoscenico, in modo che sia invisibile al pubblico), il mi bemolle originario, l’Ur-ton che dà inizio alla saga, nonché alla creazione del mondo, risuona veramente come nota generatrice di tutta l’incredibile partitura. Sinopoli, poi, rende trascinante l’ebbrezza panica di Siegmund, nel suo celeberrimo Lenz-Lied, quando finalmente scopre le sue radici e si sente finalmente rientrato nell’alveo della comunità, lui sino a quel momento profugo senza patria. Non c’è un attimo di respiro, nella lettura del maestro italiano, poiché ogni cellula musicale, come per miracolo, s’incarna in quella successiva, in un trapasso continuo di emozioni e stati d’animo; ma non è un miracolo, certo, quello di Sinopoli: è l’applicazione somma del principio della "prosa musicale", che Wagner aveva fortemente voluto e che non tutti i direttori, presi dall’esigenza formale di evidenziare determinati periodi musicali, riescono a ottenere.

Pur rispettando quello che Sinopoli stesso ha definito "stile wagneriano", concretatosi nella tradizione esecutiva che risale alle indicazioni orali del compositore medesimo, il direttore italiano crea in orchestra – e tutto il Crepuscolo diventa emblematico in tal senso – una fittissima serie di trame orchestrali, costituite dall’evidenziazione nettissimad’ogni leitmotiv, anche di quei frammenti che a una lettura più superficiale potrebbero parere semplici figure d’accompagnamento. In tal modo, anche tra gli orchestrali si crea una consapevolezza nuova, una tensione particolare – carica di significati drammaturgici – orientata a esplicitare ciò che Wagner, sotto l’aspetto mnemonico e psicologico, voleva ottenere: gli istanti del ricordo, che la musica risveglia. Si tratta di una esecuzione di portata storica, che segna l’inizio di una nuova epoca nell’esecuzione musicale dell’immensa saga.

Il Sole 24 Ore - 30  luglio 2000