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GIANANDREA
GAVAZZENI
SULLO SPETTACOLO
OPERISTICO
NON
ESEGUIRE BEETHOVEN
E ALTRI SCRITTI
IL SAGGIATORE MILANO 1974
pp. 192-200
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Si nota sempre scarso approfondimento, in
sedi opportune, sugli elementi che conformano lo spettacolo
operistico. Tanto piú attraenti dunque, e da postillare e
discutere, gli esempi leggibili. Nella «Rassegna
musicale» (1957, 3), gli appunti di Luciano Alberti, a quanto
mi consta tratti da una tesi universitaria. L'eterogeneità
dell'attuale messa in scena italiana è il primo spunto.
Investe «la naturale tendenza di ogni concezione spettacolare
ad affondare le radici nel terreno dell'arte figurativa del suo
tempo, stabilendo con essa una piú o meno sotterranea
"circolazione di idee". Circolazione di idee, che è
sempre indizio e principio di vitalità; per cui lo stesso
inserirsi di molteplici nuovi moduli scenografici nel nostro teatro
lirico, particolarmente violento nell'intervallo fra le due grandi
guerre, va pur sempre visto come un fatto positivo, nonostante la
disorientante confusione con cui, nel suo complesso, esso si è
verificato».
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La scenografia riflette o riproduce, e
talvolta con ritardo, il gusto figurativo proprio a un'epoca.
È accaduto che tale riproduzione sia avvenuta appunto con
ritardi piú o meno rilevanti; oppure mediante ritorni su un
gusto o su categorie esaurite, attraverso una consapevole
interpretazione spettacolare. Esempio recente: nella Traviata
allestita da Visconti, il secondo atto, che Lilla De Nobili ha
dipinto con palese «maniera» impressionistica. Mentre
l'età d'oro dell'impressionismo storico non risulta abbia
conosciuto riproduzioni o imitazioni scenografiche: si vedano in
Cinquant'ans de musique française (Librairie de France,
1925) le fotografie della scena del quarto atto e dei principali
costumi di Jusseaume per la prima edizione del Pelléas et
Mélisande... e ciò avveniva nella città
dell'avanguardia pittorica... incredibili! (Eppure agli inizi del
secolo l'impressionismo propriamente detto era già chiuso;
Monet dipingeva le cattedrali e le ninfee, e si affacciavano i nabis
... ). Ciò che avvenne invece, attraverso coincidenze
immediate, con il barocco, o il rococò, o il
neo-classico. |
La ragione è evidente, risiede
nella unità sociale e culturale condizionante l'espressione
operistica, e dunque lo stile spettacolare. Così la pittura
romantica, con le successive osmosi fra romanticismo e realismo (da
Delacroix a Courbet, sino ai pittori «provinciali»
italiani, e in Germania sino ai secessionisti monacensi), diede luogo
a semplificazioni volgarizzatrici sulle quali si alimentò il
gusto visivo del melodramma italiano e francese (ed europeo in
generale). Le opere musicali stesse ne furono tanto avvinte da parer
connaturate a quel gusto che continua ancora in procedimenti divenuti
oggi, nei casi positivi, di natura critica. Evidente, che se appunto
una natura critica è oggi reperibile nelle impostazioni
schiettamente romantiche, ciò è dovuto anche alle altre
esperienze e alle assimilazioni più o meno superficiali e
piú o meno ben digerite di gusti figurativi novecenteschi.
Comunque, per restare alla scenografia, la sua storia va fatta sempre
in rapporto alla storia figurativa e all'espressione pittorica, alle
poetiche e agli stili: senza neppure prescindere dai motivi morali e
del costume osservato, questo, anche negli aspetti particolari e
minimi. Così alle attitudini del gusto sono riferibili le
cosiddette arti minori, o applicate; la decorazione, l'arredamento,
l'abbigliamento, l'acconciatura, ecc., per ciò che lo
spettacolo ne assimila e ne adegua alle proprie compiacenze e
necessità. Resta dunque, come base per qualunque indagine in
argomento, il paragone con la pittura. |
I caratteri coloristici e compositivi sono
guida costante, indicazione, suggerimento ai caratteri spettacolari,
soprattutto quando essi giungono alla sintesi o alle fratture tra
scenografismo e regismo. Un esempio felicissimo, nei recenti
spettacoli drammatici, è nella composizione che Visconti ha
attuato nell'ultima scena dell'Impresario delle Smirne: la
mancata partenza, in quel cortile di locanda veneziana, la deludente
suspense individuata liricamente nei panni stesi sull'altana,
sbattenti con lievissimo palpito all'aria lagunare; gli attori, le
cantanti, i servi, le servi, le sacche da viaggio, gli animali,
tratteggiati nella disposizione scelica come in un capriccio
«guardesco». Una scena esemplificatrice; ma in tutto lo
spettacolo, sul pretesto di un testo invalido, il dato pittoricistico
era presente. Penso all'apertura sul secondo atto: l'interno, col
Turco in attesa (dov'era, e non lì soltanto, una maliziosa
caricatura del rossiniano Turco in Italia realizzato tre anni
prima alla Scala). Una turcheria ancora «alla Guardi».
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Paragone con i linguaggi pittorici,
dunque: e infine attrito o concordanza tra scenografia e regismo.
Sono i punti sui quali lo spettacolo operistico contemporaneo, nei
casi di maggiore interesse, deve fissare l'analisi critica che gli
compete. Attraverso questa analisi, la «disorientante
confusione» sottolineata dall'Alberti corrisponde
realisticamente a ciò che le arti figurative sono state nel
primo cinquantennio novecentesco: confusione ed eclettismo; comunque
vivacissima e caotica coesistenza di storie, di stili e di gusti. Le
maggiori diversità conosciute e praticate nella cultura
moderna, analogamente a quanto accadde in campo musicale.
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Nelle esperienze che lo spettacolo ha
vissuto fra le due guerre, e dopo la seconda, è distinguibile
il rapporto pittura-scenografia. Insieme, cioè, all'influsso
stilistico, alle amplificazioni o riduzioni manieristiche, esiste il
contributo che i pittori portavano direttamente. L'Alberti definisce
gli esempi dovuti a Casorati e a Sironi «affermazioni che
assolutamente trascendono nella loro gran maggioranza il bel bozzetto
e il bel figurino, rivelandosi anzi, a distanza di tempo, le punte
piú alte cui sia giunta la scenografia italiana di questo
primo mezzo secolo, nella unitaria, precisa, meditata creazione
pittorica, delle grandi immagini sceniche, in rapporto vivo con
l'elemento musicale». Testimonianza anche questa circa la
validità cheil pittoricismo può vantare in sede
scenografica, e sottolineabile proprio oggi, causa la tendenza
perniciosissima alla scenografia costruita. Tendenza a mio avviso da
combattere a oltranza, nel teatro operistico, in quanto frappone
ostacolo a ogni musicale trasfigurazione, e quindi si manifesta
antiestetica, traditrice e stravolgitrice di caratteri e di lavori.
Per non dire poi sul guasto acustico ch'essa provoca, perché
soltanto la tela dipinta può creare al melodramma la giusta e
profonda dimensione sonora, la riflessione indispensabile alle voci,
mentre alla particolare «tinta» - verdiana, rossiniana,
donizettiana che sia - riesce impossibile determinarsi, con le
strutture metalliche, i ponti, le materie piene. Problema questo che
non pertiene al gusto visivo, ma entra direttamente nella massima
esigenza: la musicale. La quale, oltre e prima di ogni considerazione
stilistica figurativa, deve sempre costituire la base e il punto
d'arrivo. Per intenderci, qualunque stile pittorico potrebbe apparir
valido per qualunque opera musicale. Verdi, volendo fare un
nome-chiave, tollererebbe anche messe in scene cubiste, o, in senso
lato, astrattiste, se attuate con genialità e senza
approssimazioni gratuite: nulla lo vieterebbe. Non sopporta invece
regie e scenografie ostacolanti il suono vocale, anche ove lo stile
pittorico coincidesse, in linea storica ed estetica. Da alcuni
decenni in qua, i tanti esempi negativi, in proposito, sono stati
imputabili all'ignoranza musicale o all'indifferenza dei pittori
chiamati a dipingere i «bozzetti» insieme - al loro
sprovveduto tecnicismo scenografico. |
Troppo spesso il «bozzettismo»
pittorico nasceva da troppo rapide approssimazioni, non potendo certo
bastare la superficiale conoscenza librettistica. Mentre la spesso
totale ignoranza dei caratteri musicali e della loro pratica
attuazione esecutiva, rendeva inefficace o addirittura dannosa anche
l'eventuale genialità coloristica o strutturale. Ciò
non trovò, e non trova, ancora adesso, la sua causa soltanto
in antitesi e conflitti di gusto: ha molte volte una causa
contingente, intendo il mancato coordinamento fra direttore
d'orchestra - o autore -, regista, scenografo. Vi inferiscono i
motivi piú banali, quotidiani, legati alla cronaca del vivere
e dell'operate odierno, nel teatro e fuori: alludo al tempo, al ritmo
sempre piú stretto, assillante, senz'agio, delle abituali
necessità lavorative. E poi le ritardate decisioni - almeno in
Italia - a causa delle difficoltà nel radunare le persone
adatte alle diverse occasioni, o delle incertezze finanziarie; senza
dimenticare motivi minimi, usualissimi: gli improbabili incontri a
tempo opportuno, con disponibile larghezza, tra le persone chiamate
alla complessa realizzazione; tutta la la sperimentale che quasi
sempre viene a mancare, nonostante, magari, la buona lena di
ciascuno. |
Altre re,ore ancora, alla unità
spettacolare e musicale. Eppure verrebbe perfino spontaneo
sospettare, in codesta vagheggiata e perseguita o calpestata
unità, quasi una formula retorica o una smania superstiziosa,
tanto lo spettacolo operistico viene dimostrandosi e persistendo
vitale anche nella disunione. E si hanno le frizioni, gli scontri, le
lotte sottese fra personalità diverse: anche in buonisssima
fede, con sincera benevolenza collaboratrice. Oppure con aperta
competizione, con urti palesi, per ambizioni di prevalenza o di
prevaricazione. Ancora altri motivi entrano nel divario, nella
eterogeneità che l'Alberti indica. Intendo gli squilistici
avvertibili nello stesso teatro, o fra teatri diversi, fra le messe
in scena attuate oggi, calcolate, predisposte in base a un certo
gusto o a certi gusti correnti, oppure relativi a caratteri
originali; e quelle invece tratte dai magazzeni per logica esigenza
amministrativa, risalenti a forse vent'anni addietro, ripresentate
con qualche restauro o rifacimento. Con effetti curiosi: quasi il
tono di un melodramma venisse meglio illuminato con una vecchia
scenografia romanticamente dipinta, piú accordato e piú
acceso, ancora ai nostri giorni; piuttosto che attraverso i tentativi
magari in sé geniali, ingegnosi, miranti a fondere
costruttivismo e pittoricità. |
Ho il caso personale del Ballo in
Maschera, diretto in due diverse edizioni sceniche alla Scala; la
prima delle quali, dipinta con profonda suggestività romantica
da Alessandro Benois, a quinte, fondali, fondalini, spezzati, rive,
mi lasciò adito a una realizzazione a mio avviso migliore
della seconda, due anni dopo, perché proprio questa, nella
dilatazione strutturale, nell'impiego materiale, spezzava e
dissolveva le proporzioni foniche e quindi la profondità e la
temperie del tonalismo musicale. Fra chi sostiene la sistematica
riproposizione stilistica e tecnica riguardo al melodramma romantico
o verista, è diffusa e pervicace la convinzione che il
pubblico odierno non tolleri oltre le interpretazioni sceniche e
registiche definibili grosso modo come tradizionali. Ciò
è ipotizzato in sede polemicamente teorica, attraverso una
contorsione critica, un criticismo, cioè, in astratto. Mentre
in realtà le cose vanno diversamente; quando, s'intende,
l'attuazione tradizionale sia condotta escludendo il trasandato
mestierantismo. Anzi: assistiamo già da oggi a risultati
contrari, anche presso l'opinione meglio qualificata. E s'incomincia
a intravvedere, dopo tanti cervellotici o intellettualistici
stravolgimenti, operati secondo la volontà di far diverso da
quanto fatto sin'ora, nell'una o nell'altra occasione; si comincia
infine a delineare che l'interpretazione piú
«attuale» potrà essere localizzata nelle forme
pittoriche e nei modi registici aderenti alle forme e ai modi
musicali, secondo quanto suggerirà l'interpretazione estetica
e la pratica esigenza esecutiva. A un certo punto, l'andar di
contropelo a ciò che l'azione drammatica richiede e che gli
spiriti musicali suggeriscono, deve pur rivelarsi per ciò che
in sostanza è: insensatezza e presunzione: ambizione alla
preminenza, scenografica o registica che sia. Mentre le scenografie e
le regole piú giuste e piú vere sono proprio quelle che
meno si palesano invadenti, quelle, alla lunga, di cui meno ci si
accorge. Perché è proprio allora che l'unità
spettacolare si compie secondo la voce musicale.
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Un'esperienza, or è poco, l'ho
fatta con l'Elisir d'amore, in un teatro di misura giustissima
per l'opera in parola: il Carignano torinese restaurato. Con una
scenografia «noleggiata», giusta e pulita, con la regia
rispettosissima e lieve di Riccardo Moresco, mi fu possibile
riascoltare l'idillio lombardo di Donizetti nella sua dimensione
naturale. Idillio, e non opera buffa. Dopo aver visto l'Elisir
d'amore, in occasioni pure recenti, infarcito di lazzi, o
portato, attraverso scenografia e luminismo, a un tono
«notturno» del tutto estraneo al luminismo musicale. E
poiché ho citato scene di noleggio, va ancora notato che
nell'eterogeneità scenica anche la persistente circolazione,
per ovvie ragioni pratiche, di materiale noleggiato, acuisce i
contrasti fra un teatro e l'altro, accentuando la mobilità del
gusto. Come accennato prima, il divario è forse anche in
questo caso fenomeno vitale. Mantiene accesa e aizza una dialettica;
giova alle soluzioni future e all'energico divenire. È proprio
il movimento dialettico che trova maggiore esca in contrasti
così evidenti, piuttosto che in una eventuale regolamentazione
basata sulla unità e sulla rigorosa coerenza del gusto.
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Il «dipinto» e il
«costruito», ho già accennato, si contendono il
campo nella fase che lo spettacolo operistico sta vivendo. Altro caso
eloquente lo si ebbe nella stagione 1956-57 alla Scala, con la
scenografia di Damiani per la Louise di Charpentier. Opera la
cui retorica naturalista e zoliana mostra le rughe - e rughe
profonde, fatali -, ha invece, in alcune parti, una sua
autenticità persistente: gli «interni» familiari
del primo e dell'ultimo quadro, l'atelier, il risveglio di Parigi.
Eppure, nonostante l'eccellente esecuzione musicale di Cluytens,
proprio le parti autentiche subivano, a causa delle costruzioni di
Damiani, un allontanamento raggelante. Il vero strutturato con
eccessiva pesantezza nordica era estraneo al vero musicale, alle zone
di esso ancora viventi. Pittura dunque. Oppure, su fondi neutri, le
risorse relative alle luci, secondo gli impianti piú
attrezzati. Cioè ancora pittura, mobile e cangiante, sulla
mutevolezza stessa che nel ritmo musicale e drammatico una forma
operistica viene rivelando nell'atto esecutivo. Esempi pittorici
notevolissimi se n'ebbero anche in questi tempi poco propizi al
«figurativo». Ho il ricordo di un bellissimo scenario
marino di Carrà per La lampara di Donatoni. E neppure
potrò dimenticare il cielo superbamente incendiato dipinto da
Guttuso per il terzo atto della Figlia di Jorio di
Pizzetti. |
Altre volte la stretta collaborazione fra
regista, scenografo e direttore d'orchestra ha condotto a singolare
unità spettacolare: alludo al risultato «barocco»
ottenuto dalla Wallmann e da Zuffi nel Giulio Cesare di
Haendel. Restano altre cose da dire, e proprio sullo spunto
stimolante dell'Alberti. Nel paragrafo intitolato
«Possibilità di un felice rapporto tra messinscena
attuale e messinscena antica» leggiamo: «Così, ad
esempio, possiamo notare in linea di massima come quella stessa
incongruenza tra scenografia e musica generalmente si annulli per le
opere buffe (o di mezzo carattere) per l'assenza in esse, appunto, di
quegli interessi pseudo-culturali cui abbiamo alluso; tanto che a tal
genere di scenografia abbiamo visto felicemente attingere, pur nella
sua piena libertà inventiva, Franco Zeffirelli per la
messinscena alla Scala dell'Elisir d'amore nel 1954, e anche
de Il Turco in Italia nel 1953». Due messe in scena,
invece, che offrono il destro alle distinzioni già accennate
prima, fra ciò che interpreta il linguaggio di un'opera e
ciò che ne altera e ne elude i caratteri peculiari. Ed ecco
dunque la piena riuscita di Zeffirelli col Turco in Italia del
1955 - con la vivacissima accordatura tra costumi e scenari e
l'estrosa ambientazione, il gioco delle proporzioni sceniche,
sagacemente mosso -; mentre l'idillismo lombardo dell'Elisir
d'amore non sembrava trovare altrettante corrispondenze
all'invenzione visiva.
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I casi in cui le distorsioni di gusto
risultarono evidenti sono stati numerosi proprio in questi ultimi
anni, quando appunto maggiori apparvero, insieme, l'impegno e la
ricerca, con l'impiego di importanti personalità registiche e
la predisposizione di meditate scenografie. Segno che lo spettacolo
operistico, attraverso esperienze culturalmente sottili e complesse,
accentua una sua crisi. Crisi di crescenza, in un certo senso:
inerente, oserei dire, a un di piú di pretesa culturale, a un
di piú di elaborazione nel gusto. Si può forse spiegare
allora che un regista di prepotente intelligenza come Gustav
Gründgens, dopo l'esempio del Macbeth fiorentino (1951) -
che anche l'Alberti pone fra i piú alti - abbia risolto
l'Orfeo gluckiano (Scala, 1958) quasi per intero in sede di
coreografia, e scenograficamente in modi arcadici. Che sono caratteri
e mezzi del tutto estranei a ciò che il linguaggio drammatico
e l'estasi lirica dell'opera chiedono. Infatti, la posizione critica
riguardo al dramma di Gluck è tale da rifiutare simili
traduzioni. Essa tende piuttosto ad accentuare acutamente il
drammatismo, a isolarne la decantazione lirica. Anche in sede
storico-filologica, interpretazioni come quella di Gründgens
nell'Orfeo restano discutibili.
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Ancora per Gluck si ebbe nel 1957, sempre
alla Scala, l'Ifigenia in Tauride allestita da Visconti con
scene e costumi di Nicola Benois, in un gusto chiaramente tiepolesco.
Da qui la visuale di un'Ifigenia come festa teatrale; che
contrasta in modo netto con le furie drammatiche di Gluck. E non
occorre certo molta fatica a dimostrare quanto Gluck e Tiepolo siano
inconciliabili. L'Ifigenia in Tauride seguiva di poco la
donizettiana Anna Bolena, pure dovuta a Visconti e a Benois.
Successione che attesta come la fortissima tecnica viscontiana sembri
talvolta giocare con se stessa in sapienti eclettismi. Leciti e
ammissibili, questi; poiché nulla di piú noioso, in
teatro e in genere in ogni azione culturale, della coerenza mantenuta
a ogni costo. A patto però che lo spazio del gioco rimanga
dentro lo spazio musicale, e che il mondo drammatico di un operista
ne tragga la massima condensazione. Ciò che avvenne nella
Bolena. Certamente, questo, il capolavoro operistico di
Visconti e una delle occasioni piú luminose nelle quali Nicola
Benois abbia riaffermato la sua posizione di «maestro» in
una scenografia «romantica». |
Ora, riesce interessante e indicativo per
le prove future, notare una fase della parabola operistica di
Visconti, dimostrandosi inoltre la vivezza della sua intelligenza
musicale. L'esperienza, cioè, che da una Sonnambula
arcadica (in cui, come nota giustamente l'Alberti: «veniva
tradita la pura espressività belliniana), da una Traviata
«chez Guermantes», doveva condurre poco dopo alla
condensazione romantica di questa Bolena, esempio di
fedeltà a un carattere melodrammatico e di consapevolezza
critica. |
Sarebbe in ogni modo assai utile che
l'Alberti - tra i pochissimi a denotare interesse nell'argomento e
salda preparazione - proseguisse nelle sue indagini. Poiché il
tema va portato in pubblico, oltre quelli che nelle recensioni
operistiche sono forzatamente accenni e spunti non sviluppati. Ed
è interessante, per me, la lettura e l'intervento,
mercé la duplice posizione di attore e di spettatore, e
mercé il fatto di essere spesso partecipe alle fasi
preparatorie, alle discussioni preventive, ai progetti, e agli
accoppiamenti tra registi e scenografi. Tutta una mobile e difficile
fase spettacolare mi passa sotto gli occhi, con l'incertezza delle
ipotesi e il logorio dei dubbi. Ma insieme, la prova viva di una
continua elaborazione, dove, a mio avviso e per mia tendenza,
riguardo al melodramma ottocentesco, entra la volontà critica
che rifiuta gli stravolgimenti. L'odierna esperienza dello spettacolo
operistico richiede grande e viva attenzione, stante i punti di crisi
indicati prima. |
Forse, nell'arbitrio velleitario, negli
egoismi registici e scenografici, nella smania all'esibizione
personale si è già toccato il punto limite. Il problema
visivo, però, esiste proprio comeproblema sempre
riproponibile, e non bastano ormai argomentazioni banali a
sbarazzarci di esso. Da adesso in avanti, piú che mai,
è ancora sui centri del linguaggio musicale che occorre
puntare, tenendo d'occhio alle prove eterogenee operate sin qui. E
questa sovranità del linguaggio espressivo della musica,
ricordarla agli immemori e agli egoisti; a quei registi, infine, che
si accostano allo spettacolo operistico senza la conoscenza di alcuna
nozione musicale. Lo stesso che se taluno si intromettesse in un
testo drammatico ignorando la lingua nel quale è
scritto. |
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