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LAURETO
RODONI
«CANTATE, VOI CHE SIETE FATTO PER CANTARE
E LASCIATE GRIDARE QUELLI CHE SON FATTI PER
GRIDARE»
IL GENIO
DELLA FOLLIA
LA FOLLIA DEL GENIO
IL
CELLINI DI ZURIGO È UNA DELLE PIù STRAORDINARIE
ED ENTUSIASMANTI PROPOSTE OPERISTICHE DI
QUESTI ULTIMI ANNI SUL PIANO
MONDIALE
laureto@rodoni.ch
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Domenica 20 ottobre
è andato in scena allOpernhaus di Zurigo Benvenuto
Cellini di Hector
Berlioz, opera stupefacente, un vero e proprio capolavoro
nella storia del teatro in musica. Ciò nonostante si è
sempre trovata ai margini del repertorio ed è quindi poco
rappresentata. Per Elvio Giudici il fatto che venga riesumata solo in
sporadiche occasioni resta un mistero, poiché «la musica
è di splendida fattura», la vicenda è
«vivida e articolata, con personaggi di forte spicco sia vocale
sia scenico, quindi ricca di possibilità per registi e
interpreti di talento».
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UNO DEGLI ATELIER
DOVE VENGONO COSTRUITE
LE SCENOGRAFIE PER L'OPERNHAUS
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Ma forse una
spiegazione dellassenza di questo titolo dai cartelloni
cè: si tratta infatti di unopera di tremenda
esecuzione per tutti gli interpreti. Ogni settore dell'orchestra, in
particolar modo gli ottoni, è spremuto senza pietà da
Berlioz, strumentatore geniale, esemplare e miliare nella storia
della musica (si pensi al suo Traité
de linstrumentation su cui hanno studiato generazioni
di compositori). Anche il coro e i cantanti sono duramente
sollecitati sul piano vocale: la parte tenorile del protagonista, per
esempio, è una delle più ardue di tutto il repertorio
francese: non solo per la lunghezza, ma anche per l'intonazione
difficilissima provocata dai continui cambiamenti del ritmo e della
metrica in brani composti sul passaggio di registro.
Il direttore d'orchestra, infine, deve
conoscere a fondo il complesso e composito stile di Berlioz:
un'interpretazione di routine non può che avere effetti
devastanti su questa musica che si sgretola facilmente se modellata
da mani poco esperte.
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IL PERSEO NELL'ATELIER
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Composto tra il 1834 e il
1837, Benvenuto Cellini conobbe lanno seguente a Parigi
un fiasco clamoroso, fomentato dai numerosi nemici musicali e...
politici che l'esuberante e sfrontato Berlioz si era fatto in quegli
anni.
«Cantate, voi che siete fatto per cantare, e lasciate gridare
quelli che son fatti per gridare» gli scrisse Victor Hugo a
Berlioz dopo il crollo dell'opera. Nel 1852 Franz Liszt, grande
estimatore del compositore
francese (definì lopera «nel contempo un magnifico
cesello e una scultura vivida e originale»), la fece
rappresentare a Weimar, dove, tradotta in tedesco e rimaneggiata dal
compositore anche su suggerimenti di Liszt (cè chi
aggiunge un significativo «purtroppo»), ottenne un
discreto successo. Lanno dopo lopera venne presentata a
Londra con lievi modifiche. Questa versione fu suggellata prima dallo
spartito per canto e pianoforte, poi dalla partitura per
orchestra.
Successivamente alcuni musicologi e direttori
d'orchestra cominciarono a nutrire dubbi sul fatto che Berlioz fosse
appagato dagli esiti artistici raggiunti e non credevano che egli
avesse chiuso definitivamente la vicenda una volta per tutte
pubblicando la partitura. Troppa eccellente musica della versione
parigina era stata deformata o amputata per le rappresentazioni di
Weimar. Nei decenni successivi fino ai nostri giorni vi furono
perciò contaminazioni tra la prima e la seconda versione,
proprio perché non si voleva rinunciare a spezzoni
musicalmente e teatralmente di superba fattura della Ur-Fassung.
Oggi si tende a considerare il Cellini come
unopera sperimentale (si trattava del primo approccio di
Berlioz a questo genere musicale) e per certi versi anche incompiuta:
una sorta di «opera aperta» in cui sono legittimi, se ben
argomentati, interventi che valorizzino al meglio l' Ur-Fassung e le
modifiche, i ripensamenti successivi.
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IL PERSEO SUL PALCOSCENICO
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Anche per le
rappresentazioni allOpernhaus, linsigne musicologo
Hugh Macdonald, massimo conoscitore ed editore critico delle
opere di Berlioz, insieme al maestro John Eliot Gardiner e al
regista David Pountney ha optato per una ben meditata versione
che unisce l'Ur-Fassung alle successive varianti. Una versione
talmente diversa dalle precedenti che si può ben parlare di
una «Zürcher Fassung». Il risultato è
magnifico, di una coesione inesorabile, sia musicalmente, sia
drammaturgicamente; un risultato ben superiore a quello raggiunto da
Colin Davis nella pur eccellente edizione Philips dellopera. Un
plauso agli artefici di questa straordinaria operazione culturale e
al sovrintendente Pereira che è riuscito a mettere insieme tre
artisti-intellettuali del calibro di Gardiner, Pountney e
Macdonald.
Si tratta a mio parere di una delle più
straordinarie e incisive proposte operistiche di questi ultimi anni
sul piano mondiale. Lo spettatore sin dalla celeberrima ouverture
è come risucchiato in un sublime vortice musicale, da cui
uscirà soltanto dopo lultimo gioioso accordo, quando il
Perseo compare finalmente nella sua maestosità e la fornace
è scagliata verso il cielo come un razzo vettore, con tanto di
fuoco, scintille, fumo: lultima, esilarante follia di un
regista che sa di aver messo in scena unopera erasmianamente
folle, soprattutto per l'epoca in cui è stata composta. E
genialmente folli erano pure Berlioz e Benvenuto Cellini, il
protagonista dellopera. John Eliot Gardiner, con la sua
scatenata (folle...) interpretazione ha dato magica coesione ed
effervescenza allo spettacolo.
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VOLTI STRANITI DURANTE IL CARNEVALE ROMANO
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Linterpretazione
di Gardiner è di volta in volta incandescente come la fornace
in vien fuso il Perseo; languida, amara nei momenti di ripiegamento
interiore del protagonista, dolcissima quando la musica sostiene e
commenta lamore di Cellini per Teresa; sarcastica, grottesca,
cinica quando compaiono il tesoriere del Papa, lo scultore ufficiale
della curia Fieramosca (dal cui costume si innalza buffamente, in
posizione inequivocabile, unescrescenza che rappresenta un pene
sempre eretto). Un capolavoro interpretativo, quello di Gardiner, che
ha soggiogato anche lorchestra, eccellente in ogni settore. Una
lode speciale agli ottoni: sicuri, precisi, squillanti, vigorosi.
Sorprendente anche il coro (a volte è il punto debole del
formidabile ensemble dellOpernhaus): confrontato con una
partitura massacrante ha dato il meglio di sé, offrendo al
pubblico una performance indimenticabile, tra le migliori degli
ultimi anni.
Tutti i cantanti erano al debutto nel loro
ruolo, anche Nikolai Ghiaurov nei panni di Clemente VII: la sua
presenza scenica imponente e carismatica riesce a mettere in secondo
piano quei momenti in cui vi è un certo qual appannamento
vocale.
Ottimo il tenore Gregory Kunde nel rôle
en titre; timbro bellissimo, tecnica sicura, fraseggio vario e
fluente. I lievi problemi incontrati talvolta nel registro acuto
saranno sicuramente risolti nelle recite successive.
Analogo discorso per Chiara Taigi, abilissima
nellevidenziare le molte sfaccettature del personaggio-Teresa,
sia vocalmente, sia teatralmente. Anche per lei alcune lievi
smagliature nel registro acuto non hanno per nulla pregiudicato la
sua bella performance.
Liliana Nikiteanu è stata
un'interprete magnifica di Ascanio, l'assistente del Cellini, e per
Martin Zysset ha ottimamente interpretato il breve ma difficile ruolo
del Cabaretier: una folgorante, incredibile anticipazione musicale e
drammaturgica nel contempo dellInnocente del Boris Godunov e di
Mime nel Siegfried: una delle tantissime perle disseminate in questa
corrusca partitura.
Buono il resto del cast, con Alfred Muff nei
panni di Balducci, il tesoriere del Papa e Thomas Mohr, esilarante
Fieramosca, rivale di Cellini nell'arte e nell'amore.
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IL CABARETTIER
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Sulla regia di Pountney si
potrebbe scrivere un saggio, tanto è densa e stratificata. Mi
limito a dire che si tratta di uno spettacolo che mette
daccordo tutti: gli amanti delle regie «museali»
(alla Zeffirelli per intenderci) e coloro che concepiscono la regia
come vera e propria analisi, un saggio sui generis, una esegesi che
apporta elementi sempre nuovi, e che considera l'opera in fieri, mai
statica e ancorata al tempo in cui è stata composta. È
questo tipo di discorso registico che tiene in vita lo spettacolo
operistico, a parer mio. Ben vengano quindi i registi audaci e
trasgressivi. Essi, se colti e documentati, impegnano
intellettualmente anche lo spettatore che si trova di fronte a una
musica che conosce a memoria, arricchendo così la sua
conoscenza e la sua interpretazione dell'opera.
Successo clamoroso per tutti, anche per il
team di regia, che non di rado viene bombardato di urlacci
(metaforici pomodori) alle prime zurighesi. Si replica fino al 30
novembre. Da non perdere!
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TERESA E SUO PADRE,
IL TESORIERE DEL PAPA
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