HONORÉ DE BALZAC
LA CUGINA BETTE


PARTE PRIMA - IL PADRE PRODIGO

I • DOVE VA A CACCIARSI LA PASSIONE


Verso la metà del mese di luglio dell'anno 1838 una di quelle carrozze chiamate milords, che da poco tempo si vedevano in circolazione sulle piazze di Parigi, procedeva lungo la rue de l'Université portando un uomo grosso, di statura media, in uniforme di capitano della guardia nazionale.
Fra quei parigini che hanno fama di essere tanto spiritosi, ve ne sono alcuni che si credono infinitamente più attraenti in uniforme anziché nei loro abiti consueti, e che ritengono le donne di gusti così pervertiti da essere favorevolmente impressionate dalla vista di un cappello di pelo e di una bardatura militare.
La fisionomia di quel capitano, appartenente alla seconda legione, spirava un compiacimento di sé che faceva risplendere il suo colorito rubicondo e il suo viso alquanto paffuto. Dall'aureola di cui la ricchezza acquisita nel commercio cinge la fronte degli ex bottegai, si poteva riconoscere in lui uno degli eletti di Parigi, per lo meno ex assessore del suo arrondissement. Per cui, siate pur certi che il nastrino della Legion d'Onore non mancava sul suo petto spavaldamente in fuori alla prussiana.
Piantato fieramente in un angolo del milord, l'uomo decorato lasciava vagare lo sguardo sui passanti, che spesso, a Parigi, colgono così graziosi sorrisi rivolti invece a dei begli occhi assenti.
La carrozza si fermò in quel tratto di strada compreso fra la rue de Bellechasse e la rue de Bourgogne, davanti al portone di una grande casa costruita di recente su una parte della corte di un vecchio palazzetto con giardino. Era stato rispettato il palazzetto, che rimaneva nella sua forma primitiva in fondo alla corte ridotta della metà.
Soltanto dal modo in cui il capitano accettò i servigi del cocchiere per discendere dalla carrozza, si sarebbe riconosciuto il cinquantenne. Vi sono dei gesti la cui manifesta pesantezza ha tutta l'indiscrezione di un atto di nascita. Il capitano tornò a infilare la destra nel guanto giallo, e, senza chiedere niente al portiere, si diresse verso la scalinata del piano rialzato del palazzetto con un'aria che diceva: «È mia.» I portieri a Parigi hanno l'occhio esperto, non fermano le persone decorate, vestite di blu, dall'andatura pesante; insomma, sanno riconoscere i ricchi.
Il pianterreno era occupato interamente dal barone Hulot d'Ervy, commissario ordinatore sotto la Repubblica, ex intendente generale d'armata, e allora direttore di uno dei più importanti settori del Ministero della Guerra, consigliere di stato, grande ufficiale della Legion d'Onore ecc. ecc.
Il barone Hulot si era autonominato d'Ervy, luogo della sua nascita, per distinguersi da suo fratello, il celebre Hulot, colonnello dei granatieri della guardia imperiale, che l'imperatore aveva creato conte di Forzheim, dopo la campagna del 1809. Il fratello maggiore, il conte, incaricato di prendersi cura del cadetto, l'aveva, con paterna previdenza, piazzato nell'amministrazione militare dove, grazie ai loro duplici servigi, il barone ottenne e meritò il favore di Napoleone. Dal 1807, il barone Hulot era intendente generale delle armate in Spagna.
Dopo aver suonato, il capitano borghese fece grandi sforzi per rimettere a posto la marsina che gli si era rialzata davanti e di dietro, spinta dall'azione di un ventre «piriforme». Un domestico in livrea si affrettò a introdurlo e, seguito dall'uomo importante e imponente, disse aprendo la porta del salotto:
«Il signor Crevel!»
Sentendo questo nome, perfettamente appropriato all'aspetto di chi lo portava, una donna alta, bionda, ancora bellissima, si alzò come colpita da una scossa elettrica.
«Hortense, angelo mio, va' in giardino con tua cugina Bette,» disse in fretta a sua figlia che ricamava a qualche passo da lei.
Dopo aver salutato con grazia il capitano, la signorina Hortense Hulot uscì da una porta-finestra, conducendo con sé una zitella risecchita che sembrava più vecchia della baronessa, benché avesse cinque anni di meno.
«Si tratta del tuo matrimonio,» disse la cugina Bette all'orecchio della cuginetta Hortense, senza apparire offesa dal modo in cui la baronessa le aveva congedate mostrando di non tenerla in alcun conto. L'abbigliamento della cugina avrebbe spiegato, all'occorrenza, quella bruschezza di modi.
La zitella portava un vestito di merino, color uva di Corinto, il cui taglio e le cui guarnizioni datavano dalla Restaurazione, una collaretta ricamata che poteva valere tre franchi, un cappello di paglia ornato di nastri azzurri come se ne vedono alle venditrici della Halle. Dall'aspetto delle scarpe in pelle di capra, la cui fattura rivelava un calzolaio di infimo ordine, un estraneo avrebbe esitato a salutare la cugina Bette come una della famiglia, poiché in tutto e per tutto somigliava a una sarta a giornata. Nondimeno, la zitella non uscì senza rivolgere un piccolo saluto affettuoso al signor Crevel, saluto al quale quel personaggio rispose con un cenno d'intesa.
«Verrete domani, vero, signorina Fischer?» le disse.
«Non avete gente?» domandò la cugina Bette.
«I miei figli e voi, ecco tutto,» replicò il visitatore.
«Bene,» rispose lei, «allora contate su di me.»
«Eccomi, signora, ai vostri ordini,» disse il capitano della milizia borghese salutando di nuovo la baronessa Hulot.
E lanciò alla signora Hulot uno sguardo quale Tartufo ne lancia a Elmire, quando un attore di provincia crede necessario sottolineare le intenzioni di questo personaggio a Poitiers o a Coutances.
«Se volete seguirmi da questa parte, signore, staremo molto meglio che in questo salotto per parlare d'affari,» disse la signora Hulot indicando una stanza vicina che, nella disposizione dell'appartamento, era una sala da gioco.
La stanza era separata con un sottile tramezzo dal salottino della signora, la cui finestra dava sul giardino; la signora Hulot lasciò il signor Crevel per un momento, poiché giudicò necessario chiudere la finestra e la porta del salottino, affinché nessuno potesse venirvi ad ascoltare. Ebbe anche la precauzione di chiudere la porta-finestra del salotto, sorridendo a sua figlia e a sua cugina, che vide sedute in un vecchio chiosco in fondo al giardino. Ritornò, infine, lasciando aperta la porta della sala da gioco, in modo da poter sentire aprire quella del salotto, se qualcuno vi entrava. Nei suoi andirivieni la baronessa, non sentendosi osservata da alcuno, lasciava trasparire dal volto tutti i suoi pensieri; e chi l'avesse vista sarebbe stato quasi spaventato della sua agitazione. Ma, ritornando dalla porta d'ingresso del salotto alla sala da gioco, il suo viso si velò di quel riserbo impenetrabile che tutte le donne, perfino le più franche, sembra abbiano a comando.
Durante questi preparativi, per lo meno singolari, la guardia nazionale osservava l'arredamento del salotto nel quale si trovava. Al vedere le tende di seta, una volta rosse, stinte ora di violetto dall'azione del sole, e lise sulle pieghe dal lungo uso, un tappeto dal quale i colori erano svaniti, dei mobili senza più doratura e la cui seta cosparsa di macchie era a tratti consunta, espressioni di disprezzo, di contentezza, di speranza si succedettero sulla sua piatta faccia di commerciante arricchito. Si guardava nello specchio, al di sopra di una vecchia pendola stile Impero, passandosi in rivista, quando il fruscio della veste di seta gli annunciò l'arrivo della baronessa. E subito si rimise in posa.
Dopo essersi lasciata cadere su un piccolo canapè, che certamente era stato molto bello verso il 1809, la baronessa, indicando a Crevel una poltrona, i cui braccioli terminavano con delle teste di sfingi bronzee e la cui vernice si staccava a scaglie, lasciando vedere qua e là il legno, gli fece segno di sedersi.
«Le precauzioni che voi prendete, signora, sarebbero un incantevole augurio per un...»
«Un amante,» replicò lei interrompendo la guardia nazionale.
«La parola è debole,» disse egli ponendosi la mano destra sul cuore e con quel rotear d'occhi che fa quasi sempre ridere una donna quando, freddamente, osserva in essi una simile espressione, «amante! amante! dite piuttosto stregato!»


II • DA SUOCERO A SUOCERA

«Ascoltate, signor Crevel,» riprese la baronessa, troppo seria per poter ridere; «voi avete cinquant'anni, dieci di meno del signor Hulot, lo so; ma, alla mia età, le follie di una donna devono essere giustificate dalla bellezza, dalla giovinezza, dalla celebrità, dal merito, da qualcuno di quegli splendori che ci abbagliano al punto da farci dimenticare tutto, perfino la nostra età. Se voi avete cinquantamila franchi di rendita, la vostra età controbilancia la vostra ricchezza, e così di tutto ciò che una donna si aspetta voi non possedete niente...»
«E l'amore?» disse la guardia nazionale alzandosi e facendosi avanti, «un amore che...»
«No, signore, testardaggine!» disse la baronessa interrompendolo per farla finita con quelle sciocchezze.
«Sì, testardaggine e amore,» egli riprese, «ma anche qualche cosa di meglio, dei diritti...»
«Dei diritti?» esclamò la signora Hulot, sublime di sfida, di disprezzo, di indignazione. «Ma,» riprese, «su questo tono non la finiremo mai, e non vi ho chiesto di venire in questa casa per parlare di quelle cose che ve ne hanno fatto bandire, malgrado la parentela fra le nostre due famiglie.»
«L'ho creduto...»
«Ancora!» riprese lei. «Ma non vi accorgete, signore, dal tono franco e disinvolto con cui vi parlo di amante, di amore, di tutto ciò che vi è di più scabroso per una donna, che io sono perfettamente sicura di restare virtuosa? Non temo niente, nemmeno di essere sospettata chiudendomi con voi in questa stanza. È questo il contegno di una donna debole? Voi sapete bene perché vi ho pregato di venire!»
«No, signora,» replicò Crevel, assumendo un'aria fredda. Poi serrò le labbra e si rimise in posa.
«Ebbene, sarò breve per non prolungare il nostro reciproco supplizio,» disse la baronessa Hulot guardando Crevel.
Questi fece un inchino ironico nel quale un uomo del mestiere avrebbe riconosciuto il fare ossequioso di un ex commesso viaggiatore.
«Nostro figlio ha sposato vostra figlia!...»
«E se si dovesse rifare!...» disse Crevel.
«Questo matrimonio non si farebbe,» rispose prontamente la baronessa; «non ho alcun dubbio. Nondimeno, voi non avete da lamentarvi. Mio figlio non è solamente uno dei primi avvocati di Parigi, ma è anche deputato da un anno, e il suo esordio alla Camera è così brillante da far supporre che fra non molto egli sarà ministro. Victorin è stato nominato due volte relatore di leggi importanti, e potrebbe già diventare, se lo volesse, avvocato generale della Corte di Cassazione. Se dunque volete darmi a intendere che avete un genero senza sostanze...»
«Un genero che sono obbligato a mantenere,» riprese Crevel, «che mi sembra peggio, signora. Dei cinquecentomila franchi assegnati in dote a mia figlia, duecento sono stati spesi Dio sa come... per pagare i debiti del vostro signor figlio, per arredare mirabolantemente la sua casa, una casa da cinquecentomila franchi che rende appena quindicimila franchi, poiché egli ne occupa la parte più bella, e sulla quale ha un debito di duecentosessantamila franchi. Il reddito copre appena gli interessi del debito. Quest'anno darò a mia figlia circa ventimila franchi perché possa sbarcare il lunario. E mio genero, che - si diceva - guadagnava circa trentamila franchi al Tribunale, trascura il Tribunale per la Camera dei deputati...»
«Questo, signor Crevel, è del tutto secondario, e ci allontana dal nostro argomento. Ma per farla finita con questi discorsi vi dirò che se mio figlio diventa ministro, se vi farà nominare ufficiale della Legion d'onore e consigliere di prefettura a Parigi, per un ex profumiere, non avrete da lamentarvi...»
«Ah! rieccoci, signora. Io sono un droghiere, un bottegaio, un ex venditore di pasta di mandorle, di acqua di Portogallo, di olio cefalico, debbo considerarmi molto onorato per aver dato in sposa la mia unica figlia al figlio del barone Hulot d'Ervy: mia figlia sarà baronessa. Fa molto Reggenza, molto Luigi xv, molto vecchio stile! Benissimo... Amo Célestine come si può amare una figlia unica, l'amo tanto che, per non darle né fratelli né sorelle, ho accettato tutti gli inconvenienti della vedovanza a Parigi (e nel vigore degli anni, signora), ma sappiate bene che, malgrado questo amore insensato per mia figlia, non intaccherò la mia fortuna per vostro figlio, le cui spese non mi sembrano chiare, a me, ex negoziante...»
«Signore, voi vedete proprio ora, al Ministero del Commercio, il signor Popinot, un ex negoziante di prodotti chimico-farmaceutici di rue des Lombards...»
«Mio amico, signora!...» disse l'ex profumiere; «poiché io, Célestin Crevel, ex primo commesso del vecchio César Birotteau, ho comprato l'azienda del suddetto Birotteau, suocero di Popinot, già semplice commesso in quell'azienda. Ed è lui, Popinot, che me lo ricorda, poiché non è superbo (bisogna dargliene atto) con le persone ben sistemate e che possiedono sessantamila franchi di rendita.»
«Ebbene, signore, le idee che voi qualificate con la parola Reggenza non sono più di moda in un'epoca in cui si accettano gli uomini per il loro valore personale; ed è quanto avete fatto voi maritando vostra figlia con mio figlio...»
«Voi non sapete come sia stato combinato questo matrimonio!» esclamò Crevel. «Ah! maledetta vita di scapolo! senza le mie sregolatezze la mia Célestine sarebbe oggi la viscontessa Popinot!»
«Ma, ancora una volta, non recriminiamo sul passato,» riprese energicamente la baronessa. «Parliamo del motivo che ho di rammaricarmi della vostra strana condotta. Mia figlia Hortense poteva sposarsi; il matrimonio dipendeva esclusivamente da voi, ho creduto che voi aveste dei sentimenti generosi, ho pensato che avreste reso giustizia a una donna che non ha mai avuto nel suo cuore altra immagine se non quella di suo marito, che avreste riconosciuto, per lei, le necessità di non ricevere un uomo capace di comprometterla, e che vi sareste affrettato, per riguardo alla famiglia alla quale vi siete imparentato, a favorire la sistemazione di Hortense col signor consigliere Lebas... E voi, signore, avete mandato all'aria quel matrimonio...»
«Signora,» rispose l'ex profumiere, «io ho agito da onest'uomo. Sono venuti a domandarmi se i duecentomila franchi di dote assegnati alla signorina Hortense sarebbero stati pagati. Ho risposto testualmente così: ‹Io non lo garantirei. Mio genero, al quale la famiglia Hulot ha assegnato quella somma in dote, aveva dei debiti, e credo che, se il signor Hulot d'Ervy morisse domani, la sua vedova rimarrebbe senza pane.› Ecco, mia bella signora.»
«E avreste tenuto questo linguaggio, signore,» domandò la signora Hulot guardando fissamente Crevel, «se per voi io avessi mancato ai miei doveri?»
«Non avrei avuto il diritto di dirlo, cara Adeline,» esclamò questo singolare amante interrompendo la baronessa, «poiché voi avreste trovato la dote nel mio portafogli...»
E facendo seguire gli atti alle parole, il grosso Crevel mise un ginocchio in terra e baciò la mano della signora Hulot, scambiando per esitazione il muto orrore in cui l'avevano gettata le sue parole.
«Comprare la felicità di mia figlia a prezzo di... Oh, alzatevi, signore, o suono...»
L'ex profumiere ebbe molta difficoltà a rialzarsi, e questa circostanza lo rese così furioso che egli tornò a mettersi in posa. Quasi tutti gli uomini prediligono un atteggiamento col quale credono di far risaltare tutte le doti di cui li ha forniti la natura. E, in Crevel, questo atteggiamento consisteva nell'incrociare le braccia alla Napoleone, mettendo la testa di tre quarti, e lanciando lo sguardo come il pittore glielo faceva lanciare nel suo ritratto, cioè all'orizzonte.
«Mantenersi,» disse egli con un furore ben dosato, «mantenersi fedele a un libert...»
«A un marito, signore, che ne è degno,» riprese la signora Hulot interrompendo Crevel per non lasciargli pronunciare una parola che non voleva affatto sentire.
«Bene, signora, voi mi avete scritto di venire, volete sapere le ragioni della mia condotta, mi esasperate con le vostre arie da imperatrice, col vostro sdegno e col vostro... disprezzo! Non si direbbe che io sia uno schiavo? Ve lo ripeto, credetemi! Ho il diritto di... di farvi la corte... perché... Ma no, vi amo abbastanza per tacere.»
«Parlate, signore, fra qualche giorno avrò quarantotto anni, non sono così scioccamente pudica; posso ascoltare tutto...»
«Vediamo, mi date la vostra parola di donna onesta - perché voi siete, sfortunatamente per me, una donna onesta - di non nominarmi mai, di non dire che io vi confido questo segreto?»
«Se questa è la condizione della rivelazione, giuro di non nominare a nessuno, nemmeno a mio marito, la persona dalla quale avrò saputo le enormità che state per confidarmi.» «Lo credo bene, poiché si tratta solo di voi e di lui...»
La signora Hulot impallidì.
«Ah! se amate ancora Hulot, ne soffrirete certamente! Volete che taccia?»
«Parlate, signore, giacché si tratta, secondo voi, di giustificare ai miei occhi le strane dichiarazioni che mi avete fatto, e la vostra ostinazione a tormentare una donna della mia età, che vorrebbe maritare sua figlia e poi... morire in pace!»
«Vedete, siete infelice...»
«Io, signore?»
«Sì, bella e nobile creatura!» esclamò Crevel, «hai sofferto anche troppo.»
«Signore, tacete e uscite! Oppure parlatemi come si conviene.»
«Sapete, signora, come ci siamo conosciuti l'amico Hulot e io? In casa delle nostre amanti, signora.»
«Oh! signore...»
«In casa delle nostre amanti, signora,» ripeté Crevel in tono melodrammatico e mutando posa per fare un gesto con la mano destra.
«Bene, signore, e con ciò?» disse tranquillamente la baronessa con grande stupore di Crevel.
I seduttori dalle meschine intenzioni non comprendono mai le anime grandi.


III • JOSÊPHA


«Io, vedovo da cinque anni,» riprese Crevel parlando come un uomo che inizia a raccontare una storia, «non volendo riammogliarmi, nell'interesse di mia figlia che idolatro, non volendo nemmeno legarmi con un'altra donna lì, in casa mia, benché avessi allora una bellissima commessa, ho, come si dice, messo su casa a una piccola operaia di quindici anni, di una bellezza miracolosa e della quale, lo confesso, mi innamorai fino a perderne la testa. Perciò, signora, ho pregato mia zia (la sorella di mia madre), che ho fatto venire dal paese, di vivere con quella incantevole creatura e di sorvegliarla perché ella restasse, per quanto possibile, onesta in quella situazione, come dire?... (chocnoso... no), illecita. La piccola, che mostrava già una certa vocazione per la musica, ha avuto dei maestri, ha ricevuto un'educazione (bisognava ben tenerla occupata). E del resto, volevo essere nello stesso tempo suo padre, il suo benefattore e, diciamolo pure, il suo amante; prendere due piccioni con una fava: una buona azione e una buona amica. Sono stato felice cinque anni. La piccola ha una di quelle voci che sono la fortuna di un teatro, e non potrei definirla altrimenti che un Duprez in gonnella. Mi è costata duemila franchi all'anno, unicamente per favorire il suo talento di cantante. Mi ha reso pazzo per la musica: ho preso per lei e per mia figlia un palco agli Italiens. Vi andavo alternativamente un giorno con Célestine, un giorno con Josépha...»
«Come, quell'illustre cantante?...»
«Sì, signora,» riprese Crevel con orgoglio, «quella famosa Josépha mi deve tutto... Infine, quando la piccola ebbe ventun anni, nel 1834, credendo di averla legata a me per sempre, ed essendo divenuto troppo debole con lei, volli darle qualche distrazione e le lasciai frequentare una graziosa attricetta, Jenny Cadine, la cui sorte aveva una certa somiglianza con la sua. Anche questa attrice doveva tutto a un protettore, che l'aveva allevata nella bambagia. Questo protettore era il barone Hulot...»
«Lo so, signore,» disse la baronessa con una voce calma e senza la minima alterazione.
«Ah, be',» esclamò Crevel, sempre più stupito. «Ma sapete che quel mostro d'uomo, vostro marito, ha protetto Jenny Cadine dall'età di tredici anni?»
«Ebbene, signore, e poi?» disse la baronessa.
«E siccome Jenny Cadine,» riprese l'ex negoziante, «ne aveva venti, come Josépha, quando si sono conosciute, il barone faceva la parte di Luigi xv davanti a Mlle de Romans, fin dal 1826, e voi avevate allora dodici anni di meno...»
«Signore, ho avuto delle ragioni per lasciare al signor Hulot la sua libertà.»
«Questa bugia, signora, basterà senza dubbio da sola a cancellare tutti i peccati che voi avete commesso, e vi aprirà la porta del Paradiso,» replicò Crevel con un'aria maliziosa che fece arrossire la baronessa. «Ditelo pure agli altri, donna sublime e adorata, ma non al vecchio Crevel, che, sappiatelo bene, troppo spesso se l'è spassata in festini a quattro col vostro scellerato marito per non sapere quello che voi valete! Egli si rivolgeva a volte dei rimproveri, fra un bicchiere e l'altro, descrivendomi tutte le vostre perfezioni. Oh! io vi conosco bene: voi siete un angelo. Fra una ragazza di vent'anni e voi, un libertino esiterebbe; io, invece, non esito.»
«Signore...»
«Bene, mi fermo... Ma sappiate, santa e degna donna, che i mariti, quando sono brilli, raccontano molte cose delle loro spose in casa delle loro amanti, le quali ne ridono a crepapelle.»
Le lacrime di pudore che scorsero di tra le belle ciglia della signora Hulot fermarono di colpo la guardia nazionale, che non pensò più a rimettersi in posa.
«Continuo,» disse. «Il barone e io siamo diventati amici grazie alle nostre donnine. Il barone, come tutte le persone viziose, è molto amabile e davvero un buon diavolo. Oh! mi è piaciuto quel furfante! Non c'è che dire, ne aveva delle trovate... Ma lasciamo perdere questi ricordi... Siamo diventati come due fratelli. Lo scellerato, vero stile Reggenza, tentava di depravarmi, di predicarmi il sansimonismo in fatto di donne, di darmi delle idee da gran signore, da giustacuore blu; ma, vedete, amavo la mia piccola al punto di sposarla, se non avessi temuto di avere dei figli. Fra due vecchi papà, amici come... come noi lo eravamo, come volete che non abbiamo pensato a far sposare i nostri figli? Tre mesi dopo il matrimonio di suo figlio con la mia Célestine, Hulot (non so proprio come faccia a pronunciare il suo nome, quell'infame! perché ci ha ingannati tutti e due, signora!...), ebbene, quell'infame mi ha soffiato la mia piccola Josépha. Lo scellerato si sapeva soppiantato da un giovane consigliere di Stato e da un artista (e scusate se è poco!) nel cuore di Jenny Cadine, i cui successi erano sempre più sbalorditivi, e mi ha preso la mia povera piccola amante, un amore di donna; ma voi l'avete vista certamente agli Italiens, dove lui l'ha fatta entrare grazie alla sua autorità. Il vostro uomo non è prudente come me, che sono regolato come un orologio. (E Jenny Cadine doveva avergli già dato un bel colpo, poiché gli costava quasi trentamila franchi all'anno). Bene, sappiatelo, sta finendo di rovinarsi per Josépha. Josépha, signora, è ebrea, si chiama Mirah (è l'anagramma di Hiram), un nome cifrato israelita per poterla riconoscere, perché è una trovatella di origine tedesca (le ricerche che ho fatto provano che è la figlia naturale di un ricco banchiere ebreo). Il teatro e soprattutto le istruzioni che Jenny Cadine, la signora Schoutz, Malaga, Carabine hanno dato, sul modo di trattare i vecchi, a quella bambina che io mantenevo in una vita onesta e poco costosa hanno sviluppato in lei l'istinto dei primi ebrei per l'oro e i gioielli, per il Vitello d'oro! La cantante celebre, divenuta avida e ingorda, vuole essere ricca, molto ricca. Così ella non dissipa niente di quanto viene dissipato per lei. Si è ben esercitata sul signor Hulot che ha spennato ben bene. Ma che spennato! sarebbe meglio dire pelato!... Quello sciagurato, dopo aver lottato contro uno dei Keller e il marchese d'Esgrignon, pazzi tutti e due di Josépha, senza contare gli adoratori sconosciuti, se la vede portar via da quel duca ricchissimo che protegge le arti. Come lo chiamate?... un nano...? Ah! il duca d'Hérouville. Quel gran signore ha la pretesa di aver Josépha tutta per sé, tutto il mondo delle cortigiane ne parla e il barone non ne sa niente; infatti nel tredicesimo rione capita come in tutti gli altri: l'amante è, come il marito, sempre l'ultimo a sapere. Capite i miei diritti, ora? Vostro marito, bella signora, mi ha privato della mia felicità, della sola gioia che io ho avuto da quando sono rimasto vedovo. Sì, se non avessi avuto la sfortuna di incontrare quel vecchio bellimbusto, avrei ancora la mia Josépha, perché, credetemi, non l'avrei mai avviata al teatro, ed ella sarebbe rimasta oscura, saggia e mia. Oh! se voi l'aveste vista otto anni fa: snella e agile, la carnagione dorata di un'andalusa, come si usa dire, i capelli neri e lucenti come il raso, gli occhi dalle lunghe ciglia scure che mandavano lampi, una distinzione da duchessa nei gesti, la modestia della povertà, della grazia onesta, la leggiadria di una cerbiatta. Per colpa di Hulot, queste grazie, questa purezza, tutto è diventato trappola per selvaggina di grossa taglia, una rete acchiappapescicani. La piccola è la regina delle impure, come si dice. Infine mena tutti per il naso, lei che non sapeva niente di niente, nemmeno cosa volesse dire questa espressione.» A questo punto, l'ex profumiere si asciugò gli occhi dai quali scendeva qualche lacrima. La sincerità di questo dolore colpì la signora Hulot, che uscì dallo stato di torpore in cui era caduta.


IV • COMMOZIONE IMPROVVISA DEL PROFUMIERE


«Ebbene, signora, è forse a cinquantadue anni che si ritrova un simile tesoro? A questa età l'amore costa trentaduemila franchi l'anno; ho saputo la cifra da vostro marito, e io amo troppo Célestine per rovinarla. Quando vi ho vista, alla prima serata che ci avete offerto, non sono riuscito a capire perché quello scellerato di Hulot se la facesse con una Jenny Cadine... Avevate l'aria di una imperatrice... Voi non avete trent'anni, signora,» riprese, «mi sembrate giovane, siete bella. Parola d'onore, quel giorno sono stato colpito profondamente, mi dicevo: ‹Se non avessi la mia Josépha, dato che papà Hulot trascura sua moglie, a me andrebbe come un guanto.› Ah, scusate, è un'espressione della mia professione d'un tempo. Di tanto in tanto, riappare il profumiere, ed è proprio quello che mi impedisce di aspirare a essere deputato. Perciò, quando sono stato così vigliaccamente ingannato dal barone, poiché fra vecchi furfanti come noi le amanti dei nostri amici dovrebbero essere sacre, ho giurato a me stesso di prendergli la moglie. È un atto di giustizia. Il barone non avrebbe niente da ridire, e l'impunità ci è garantita. Mi avete messo alla porta come un cane rognoso alle prime parole con cui vi ho rivelato i miei sentimenti, ma col vostro comportamento avete raddoppiato il mio amore, la mia ostinazione se volete, e sarete mia.»
«E come?»
«Non lo so, ma sarà così. Vedete, signora, un imbecille di profumiere (a riposo!) che non ha che una idea in testa è più forte di un uomo d'ingegno che ne ha migliaia. Sono pazzo di voi e voi siete la mia vendetta! È come se io amassi due volte. Vi parlo a cuore aperto, da uomo risoluto. Così come voi mi dite: ‹Non sarò vostra›, io parlo freddamente con voi. Insomma, come si suol dire, gioco a carte scoperte. Sì, sarete mia, quando sarà il momento. Oh, anche se aveste cinquant'anni, sareste lo stesso la mia amante. E sarà così perché io mi aspetto tutto da vostro marito...»
La signora Hulot posò su quel borghese calcolatore uno sguardo reso così fisso dal terrore, che egli la credette impazzita e si fermò.
«L'avete voluto voi, mi avete coperto di disprezzo, mi avete sfidato, e io ho parlato!» disse provando il bisogno di giustificare la violenza delle sue ultime parole.
«Oh! mia figlia! mia figlia!» esclamò la baronessa con la voce di una moribonda.
«Ah! non capisco più nulla!» riprese Crevel. «Il giorno in cui Josépha mi è stata presa, ero come una tigre alla quale sono stati portati via i cuccioli... Insomma, ero come vedo voi in questo momento. Vostra figlia è per me il mezzo per avervi. Sì, ho fatto andare a monte il matrimonio di vostra figlia! e non la sposerete senza il mio aiuto! Per quanto bella sia la signorina Hortense, le occorre una dote...»
«Ohimè! sì,» disse la baronessa asciugandosi gli occhi.
«Ebbene, provate a domandare diecimila franchi al barone,» riprese Crevel, rimettendosi in posa. Attese un momento come un attore che voglia creare una pausa a effetto.
«Se li avesse, li darebbe a quella che prenderà il posto di Josépha!» disse forzando il tono della voce. «Si può forse fermare lungo la china che ha preso? Anzitutto ama troppo le donne! (C'è in tutto un giusto mezzo, come ha detto il nostro re.) E poi c'entra la vanità. È un bell'uomo! Vi manderà tutti alla malora per i suoi piaceri. Del resto siete già sulla via dell'ospizio! Ecco, da quando non ho più messo piede in casa vostra, non avete potuto rinnovare il mobilio del salotto. È come se tutte le crepe di queste stoffe vomitassero la parola miseria. Qual è il genero che non uscirebbe spaventato dalle prove mal dissimulate della più orribile delle strettezze, quella della gente per bene? Io sono stato bottegaio, mi conosco. Non c'è niente di meglio che il colpo d'occhio di un commerciante di Parigi per saper distinguere la ricchezza reale dalla ricchezza apparente. Voi non avete un soldo,» disse a bassa voce. «Si vede dappertutto, persino sull'abito del vostro domestico. Volete che vi riveli degli spaventosi misteri che vi vengono celati?»
«Signore,» disse la signora Hulot che piangeva tanto da inzuppare il fazzoletto, «basta! basta!»
«Ebbene, mio genero dà del denaro a suo padre: ecco ciò che volevo dirvi, all'inizio, sul tenore di vita di vostro figlio. Ma io veglio sugli interessi di mia figlia... state tranquilla.»
«Oh, maritare mia figlia e poi morire!...» disse l'infelice fuori di sé.
«Ebbene, eccovene il mezzo!» riprese Crevel.
La signora Hulot guardò Crevel con un'aria piena di speranza e la sua espressione cambiò così rapidamente, che al solo vederla Crevel avrebbe dovuto intenerirsi e abbandonare il suo ridicolo progetto.


V • COME SI POSSONO SPOSARE LE BELLE FIGLIE SENZA DOTE

«Voi sarete bella ancora per dieci anni,» riprese Crevel rimettendosi in posa; «siate accondiscendente con me, e la signorina Hortense è già sposata. Hulot mi ha dato il diritto, come vi dicevo, di trattare l'affare in termini molto crudi, e non si arrabbierà. Da tre anni in qua ho fatto fruttare i miei capitali, dal momento che non faccio più tante scappatelle. Ho trentamila franchi da parte al di fuori del mio patrimonio, sono per voi...»
«Uscite, signore,» disse la signora Hulot, «uscite e non fatevi mai più vedere dinanzi a me. Senza la necessità nella quale mi avete messa di conoscere le ragioni della vostra vile condotta nella faccenda del matrimonio progettato per Hortense... sì, vile...» riprese a un gesto di Crevel. «Come riversare simili rancori su una povera ragazza, su una bella e innocente creatura?... Senza questa necessità che angustiava il mio cuore di madre, voi non mi avreste mai più riparlato, non sareste più rientrato in casa mia. Trentadue anni d'onore, di fedeltà di moglie non periranno sotto i colpi del signor Crevel...»
«Ex profumiere, successore di César Birotteau, à la Reine des roses, rue Saint-Honoré,» disse con sarcasmo Crevel, «ex vice sindaco, capitano della guardia nazionale, cavaliere della Legion d'Onore, assolutamente come il mio predecessore.»
«Signore,» riprese la baronessa, «se il signor Hulot, dopo vent'anni di costanza, ha potuto stancarsi di sua moglie, ciò non riguarda che me; ma voi vedete, signore, come egli ha circondato di mistero le sue infedeltà, giacché io ignoravo che fosse succeduto a voi nel cuore della signorina Josépha...»
«Oh,» esclamò Crevel, «a prezzo d'oro, signora!... Quella capinera gli è costata in due anni più di centomila franchi! E non è ancora finita.»
«Basta con tutto questo, signor Crevel. Non rinuncerò per voi alla felicità che una madre prova nel poter baciare i suoi figli senza sentire un rimorso nel cuore, nel vedersi rispettata, amata dalla sua famiglia; io renderò l'anima a Dio senza macchia...»
«Amen!» disse Crevel con l'amarezza diabolica che si diffonde sul viso delle persone troppo sicure di sé quando subiscono un nuovo smacco in simili imprese. «Voi non conoscete la miseria al suo ultimo grado, la vergogna... il disonore... Ho tentato di illuminarvi, volevo salvarvi, voi e vostra figlia!... Ebbene, voi compiterete la moderna parabola del ‹padre prodigo›, dalla prima all'ultima lettera. Le vostre lacrime e la vostra fierezza mi commuovono, poiché veder piangere una donna che si ama è terribile!...» disse Crevel sedendosi. «Tutto ciò che posso promettervi, cara Adeline, è di non far niente contro di voi, né contro vostro marito; ma non mandate mai a chiedere informazioni da me. Ecco tutto!»
«Che fare, dunque?» esclamò la signora Hulot.
Fino a quel momento la baronessa aveva sostenuto coraggiosamente la triplice tortura che quella spiegazione infliggeva al suo cuore, perché soffriva come donna, come madre e come sposa. Infatti, finché il suocero di suo figlio si era mostrato arrogante e aggressivo, ella aveva trovato forza nella resistenza che opponeva alla brutalità del bottegaio; ma la bonomia che egli manifestava nel bel mezzo della sua esasperazione di amante respinto, di bella guardia nazionale umiliata, allentò la tensione in tutte le sue fibre tese fino a spezzarsi; ella si torse le mani, si sciolse in lacrime, insomma era in un tale stato di attonita prostrazione che si lasciò baciare le mani da Crevel inginocchiato.
«Dio mio! che fare?» riprese asciugandosi gli occhi. «Una madre può stare a vedere freddamente sua figlia languire sotto i suoi occhi? Quale sarà la sorte di una così magnifica creatura, forte della sua vita casta accanto alla madre quanto della sua natura privilegiata? Certi giorni passeggia in giardino, triste, senza sapere perché; la trovo con le lacrime agli occhi...»
«Ha ventun anni,» disse Crevel.
«Dovrei dunque metterla in convento?» domandò la baronessa; «in simili momenti di crisi, la religione è spesso impotente contro la natura, e anche le ragazze più piamente educate perdono la testa!... Ma alzatevi, signore, non vedete che ora tutto è finito fra noi, che mi fate orrore, che avete fatto cadere le ultime speranze di una madre!...»
«E se io le risollevassi?» disse lui.
La signora Hulot guardò Crevel con un'espressione delirante che lo commosse; ma egli represse la pietà nel suo cuore a causa di quella frase: «Mi fate orrore»! La virtù è sempre un po' troppo tutta d'un pezzo, ignora le sfumature e le attenuazioni con l'aiuto delle quali ci si destreggia in una posizione falsa.
«Oggi non si sposa senza dote una ragazza, bella come la signorina Hortense,» ricominciò Crevel prendendo di nuovo la sua aria risentita. «Vostra figlia è una di quelle bellezze che spaventano i mariti; è come un cavallo di lusso che esige cure troppo costose per trovare molti acquirenti. Andate a spasso con una moglie simile a braccetto? Tutti vi guarderanno, vi seguiranno, desidereranno la vostra sposa. Questo successo preoccupa molti che non vogliono avere amanti da ammazzare; perché, dopo tutto, non se ne ammazza mai più di uno. Nella situazione in cui vi trovate, non avete che tre possibilità per sposare vostra figlia: col mio aiuto (e lo rifiutate) ed è una. Trovando un vecchio di sessant'anni, molto ricco, senza figli, ma desideroso di averne; è difficile, ma è possibile; ci sono tanti vecchi che prendono delle Josépha, delle Jenny Cadine, perché non se ne potrebbe incontrare uno che facesse la stessa sciocchezza legittimamente? Se non avessi la mia Célestine e i nostri due nipotini, sposerei io Hortense. E questo è il secondo modo. L'ultimo è il più facile...
La signora Hulot alzò la testa e guardò l'ex profumiere con ansia.
«Parigi è una città dove tutte le persone intraprendenti, che spuntano come arbusti selvatici sul territorio francese, si danno appuntamento; vi brulicano molti talenti senza arte né parte, uomini coraggiosi capaci di tutto, perfino di far fortuna... Ebbene, questi ragazzi... (Il vostro umile servitore lo era a suo tempo, e ne ha conosciuti!... Che cosa aveva du Tillet, che cosa aveva Popinot, vent'anni fa? Bazzicavano tutti e due nella bottegna di papà Birotteau, senz'altro capitale che non fosse la voglia di arrivare, che, secondo me, vale il più bel capitale! Si mangiano dei capitali, e non ci si mangia l'animo! Che cosa avevo io? Il desiderio di arrivare, dell'intraprendenza. Du Tillet è oggi pari a tutti i più grandi personaggi. Il piccolo Popinot, il più ricco negoziante di prodotti chimico-farmaceutici di rue des Lombards, è diventato deputato ed eccolo ministro...) Ebbene, uno di quei condottieri, come li chiamano, dell'accomandita, della penna e del pennello, è il solo essere a Parigi, capace di sposare una bella ragazza senza un quattrino, perché sono intraprendenti in ogni campo. Il signor Popinot ha sposato la signorina Birotteau senza aspettarsi un soldo di dote. Son pazzi, quelli! Credono nell'amore come credono nella loro fortuna, e nelle loro capacità!... Cercate un uomo intraprendente che si innamori di vostra figlia, ed egli la sposerà senza guardare al presente. Riconoscerete che, per un nemico, non manco di generosità, poiché questo consiglio è contro di me.»
«Ah! signor Crevel, se volete essere mio amico, abbandonate le vostre idee ridicole!...»
«Ridicole? Signora, non buttatevi giù così, guardatevi... Io vi amo e sarete mia! Un giorno dirò al signor Hulot: ‹Tu mi hai preso Josépha e io ti ho preso tua moglie!...› È la vecchia legge del taglione! E perseguirò lo scopo che mi ero prefisso, a meno che voi non diventiate eccessivamente brutta. Riuscirò, ecco il perché,» disse Crevel mettendosi in posa e guardando la signora Hulot.


VI • IL CAPITANO PERDE LA BATTAGLIA

«Voi non incontrerete né un vecchio, né un giovanotto innamorato,» riprese dopo una pausa, «perché amate troppo vostra figlia per abbandonarla alle manovre di un vecchio libertino; e nemmeno vi rassegnerete, voi, baronessa Hulot, sorella del vecchio luogotenente generale che comandava i vecchi granatieri della vecchia guardia, a prendere l'uomo intraprendente là dove egli si troverà. Potrebbe essere un semplice operaio, come quel milionario di oggi che era semplice meccanico dieci anni fa, o un semplice capocantiere o un semplice caporeparto. E allora, vedendo vostra figlia, spinta dai suoi vent'anni, capace di disonorarvi, vi direte: ‹È meglio che sia io a disonorarmi; e, se il signor Crevel vuole mantenere il segreto, guadagnerò la dote di mia figlia; duecentomila franchi per dieci anni di affetto a quell'ex mercante di guanti, il vecchio Crevel...› Vi do fastidio e ciò che dico è profondamente immorale, non è vero? Ma se voi foste tormentata da una passione irresistibile, vi fareste, per cedermi, dei ragionamenti come ne fanno a se stesse le donne che amano... Ebbene? L'interesse di Hortense ve le metterà nel cuore queste parole di resa...»
«Hortense ha pur sempre uno zio.»
«Chi? Il vecchio Fischer? Deve sistemare i suoi affari, e ancora per colpa del signor Hulot, il cui rastrello passa su tutte le casse che si trovano alla sua portata.»
«Il conte Hulot...»
«Oh! Vostro marito, signora, ha già sperperato le economie del vecchio luogotenente generale, e con quelle ha arredato la casa della sua cantante... Allora, mi lascerete partire senza speranza?»
«Addio, signore. Si guarisce facilmente di una passione per una donna della mia età, e poi vedrete le cose con spirito cristiano. Dio protegge gli infelici...»
La baronessa si alzò per costringere il capitano a battere in ritirata e lo sospinse nel salotto.
«È forse in mezzo a simili stracci che dovrebbe vivere la bella signora Hulot?» disse lui.
E mostrava una vecchia lampada, un lampadario senza più doratura, la trama del tappeto, insomma tutti i brandelli dell'opulenza che facevano di quel grande salotto bianco, rosso e oro un cadavere del fasto imperiale.
«La virtù, signore, risplende su tutto questo. E non sento nessun desiderio di avere dei magnifici mobili facendo di quella bellezza che mi attribuite, trappola per selvaggina di grossa taglia, una rete acchiappapescicani.»
Il capitano si morse le labbra riconoscendo le parole con le quali aveva bollato l'avidità di Josépha.
«E per chi questa perseveranza?» disse.
In quel momento la baronessa aveva accompagnato l'ex profumiere fino alla porta.
«Per un libertino!...» aggiunse egli, facendo una smorfia da uomo virtuoso e milionario.
«Se voi aveste ragione, signore, la mia costanza avrebbe qualche merito, ecco tutto.»
Lasciò il capitano dopo averlo salutato come si saluta per sbarazzarsi di un importuno e si voltò troppo rapidamente per poterlo vedere un'ultima volta in posa.
Andò a riaprire le porte che aveva chiuso, e non poté notare il gesto di minaccia col quale Crevel le disse addio. Ella camminava con fierezza e nobiltà, come un martire del Colosseo. Tuttavia aveva esaurito le sue forze; si lasciò cadere sul divano del suo salottino azzurro, come se stesse per venir meno, e restò con gli occhi fissi sul chiosco in rovina dove sua figlia chiacchierava con la cugina Bette.
Dai primi giorni del suo matrimonio fino a quel momento, la baronessa aveva amato suo marito, così come Giuseppina aveva finito per amare Napoleone, di un amore fatto di ammirazione, di un amore materno, di un amore vile. Se ignorava i dettagli che Crevel le aveva dato poco prima, sapeva fin troppo bene che, da vent'anni, il barone Hulot le era infedele; ma si era messa sugli occhi un velo di piombo, aveva pianto silenziosamente, e mai una parola di rimprovero le era sfuggita. In cambio di questa angelica dolcezza, aveva ottenuto la venerazione di suo marito e la quasi religiosa adorazione dei familiari. L'affetto che una donna porta a suo marito, il rispetto di cui ella lo circonda sono contagiosi in famiglia. Hortense credeva suo padre un perfetto modello di amore coniugale. Quanto a Hulot figlio, educato nell'ammirazione del barone, nel quale ognuno vedeva uno dei giganti che avevano sostenuto Napoleone, sapeva di dovere la sua posizione al nome, al posto e al prestigio paterno; del resto, le impressioni dell'infanzia esercitano un'influenza che dura a lungo, per questo egli temeva ancora suo padre. Perciò anche se avesse sospettato le infedeltà rivelate da Crevel, già troppo rispettoso per dolersene, egli le avrebbe scusate con delle ragioni tratte da quello che è, in materia, il modo di vedere degli uomini.
A questo punto è necessario chiarire la dedizione straordinaria di questa bella e nobile donna, ed ecco in poche parole la storia della sua vita.


VII • UNA BELLA VITA DI DONNA

In un villaggio situato sugli estremi confini della Lorena, ai piedi dei Vosgi, tre fratelli, di nome Fischer, semplici agricoltori, si arruolarono, a seguito delle requisizioni repubblicane, nell'esercito detto del Reno. Nel 1799, il secondo dei fratelli, André, vedovo e padre della signora Hulot, lasciò la figlia alle cure del fratello maggiore, Pierre Fischer, che una ferita ricevuta nel 1797 aveva reso inabile al servizio attivo, e diresse alcune operazioni nel campo dei trasporti militari, servizio questo che egli dovette alla protezione dell'ordinatore Hulot d'Ervy. Per una combinazione abbastanza naturale, Hulot, recatosi a Strasburgo, conobbe la famiglia Fischer. Il padre di Adeline e il suo fratello minore avevano allora l'appalto per la fornitura dei foraggi in Alsazia.
Adeline, allora sedicenne, poteva essere paragonata alla famosa Madame du Barry, come lei figlia della Lorena. Era una di quelle bellezze complete, folgoranti, una di quelle donne simili a Madame Tallien, che la natura crea con una cura particolare; essa dispensa loro i suoi doni più preziosi: distinzione, nobiltà, grazia, finezza, eleganza, una carnagione speciale, un colorito impastato in quell'atelier misterioso nel quale opera il caso. Queste belle donne si somigliano tutte fra di loro: Bianca Capello, il cui ritratto è uno dei capolavori del Bronzino, la Venere di Jean Goujon, che è il ritratto della famosa Diana di Poitiers, la signora Olympia, il cui originale è alla Galleria Doria, infine Ninon, Madame du Barry, Madame Tallien, Mademoiselle Georges, Madame Récamier: tutte quelle donne rimaste belle a dispetto degli anni, delle loro passioni o della loro vita di piaceri eccessivi, hanno nella statura, nelle forme, nel carattere della bellezza, delle somiglianze sorprendenti, tali da far credere che esista nell'oceano delle generazioni una corrente di Afrodite da cui escono tutte quelle veneri, figlie della stessa onda salata.
Adeline Fischer, una delle più belle di questa famiglia di divinità, possedeva i caratteri sublimi, le curve armoniose, l'incarnato ammaliatore di quelle donne nate regine. La capigliatura bionda che nostra madre Eva ha ricevuto dalla mano di Dio, una figura da imperatrice, un'aria di grandezza, un profilo maestoso, una semplicità naturale fermavano al suo passaggio tutti gli uomini, incantati come lo sono gli intenditori davanti a un Raffaello; perciò, vedendola, l'ordinatore fece della signorina Adeline Fischer sua moglie, nei termini di tempo legale, con grande stupore dei Fischer, tutti cresciuti nell'ammirazione dei loro superiori.
Il maggiore, soldato dal 1792, ferito gravemente nell'attacco delle linee di Wissembourg, adorava l'imperatore Napoleone e tutto ciò che riguardava la grande armata. André e Johann parlavano con rispetto dell'ordinatore Hulot, questo protetto dell'imperatore, al quale essi dovevano, del resto, la loro fortuna, poiché Hulot d'Ervy, trovando in loro intelligenza e probità, li aveva levati dai carriaggi dell'esercito per metterli a capo di una amministrazione d'emergenza. I fratelli Fischer avevano reso dei servigi durante la campagna del 1804. Hulot, finita la guerra, aveva ottenuto per loro la fornitura di foraggi in Alsazia, senza sapere che egli sarebbe stato inviato più tardi a Strasburgo per prepararvi la campagna del 1806.
Quel matrimonio fu, per la giovane contadina, come una Assunzione. La bella Adeline passò direttamente dal fango del suo villaggio nel paradiso della corte imperiale. Infatti, in quel tempo, l'ordinatore, uno dei lavoratori più onesti e attivi del suo corpo, fu nominato barone, chiamato presso l'imperatore e assegnato alla guardia imperiale. La bella campagnola ebbe la forza di farsi un'educazione per amore del marito, che amava follemente.
L'ordinatore in capo era del resto, come uomo, la copia di Adeline. Apparteneva al fior fiore dei begli uomini. Alto, ben fatto, biondo, gli occhi azzurri d'uno splendore, di una vivacità, di una tonalità irresistibile, una figura elegante; si distingueva fra i d'Orsay, i Forbin, gli Ouvrard, insomma nella schiera degli uomini più belli dell'Impero. Uomo da conquiste e imbevuto delle idee del Direttorio in fatto di donne, la sua carriera galante fu allora interrotta per un tempo abbastanza lungo dal suo amore coniugale. Per Adeline, il barone fu dunque, fin dall'inizio, una specie di dio che non poteva sbagliare; ella gli doveva tutto: la ricchezza, ebbe carrozza, palazzo e tutto il lusso di quel tempo; la felicità, era pubblicamente amata; un titolo, era baronessa; la celebrità, a Parigi la chiamavano la bella signora Hulot; infine ebbe l'onore di rifiutare gli omaggi dell'imperatore, che le regalò una collana di diamanti e che la prediligeva alle altre, poiché di tanto in tanto domandava: «E la bella signora Hulot è sempre virtuosa?» da uomo capace di vendicarsi di colui che avesse trionfato dove egli aveva fallito.
Non occorre dunque molta intelligenza per riconoscere, in un'anima semplice, ingenua e bella, i motivi del fanatismo che la signora Hulot univa al suo amore. Dopo essersi detta che suo marito non avrebbe mai potuto farle alcun torto, ella si fece, nel suo intimo, la serva umile, devota e cieca del suo creatore. Notate del resto che era dotata di un gran buonsenso, di quel buonsenso del popolo che rese solida la sua educazione. In società parlava poco, non diceva male di nessuno, non cercava di brillare; rifletteva su ogni cosa, ascoltava e si modellava sulle donne più oneste e più nobili.
Nel 1815 Hulot seguì la linea di condotta del principe di Wissembourg, uno dei suoi intimi amici, e fu uno degli organizzatori di quell'armata improvvisata la cui disfatta concluse il ciclo napoleonico a Waterloo. Nel 1816, il barone divenne una delle bestie nere del ministero Feltre, e fu reintegrato nel corpo dell'intendenza solamente nel 1823, poiché si ebbe bisogno di lui nella guerra di Spagna. Nel 1830 riapparve nell'amministrazione come sottosegretario, allorché Luigi Filippo fece quella specie di coscrizione fra le vecchie brigate napoleoniche. Dopo l'avvento al trono del ramo cadetto, di cui egli fu un attivo collaboratore, rimase, direttore inamovibile, al Ministero della Guerra. Egli aveva del resto ottenuto il bastone di maresciallo, e il re non poteva più far niente per lui, salvo che nominarlo ministro o pari di Francia.
Disoccupato dal 1818 al 1823, il barone Hulot si era messo in servizio attivo presso le donne. La signora Hulot faceva risalire le prime infedeltà del suo Hector al gran finale dell'Impero. Per dodici anni la baronessa aveva dunque tenuto, in famiglia, il ruolo di prima donna assoluta. Godeva sempre di quell'antico, inveterato affetto che i mariti portano alle loro mogli quando queste si sono rassegnate al ruolo di dolci e virtuose compagne, sapeva che nessuna rivale avrebbe resistito due ore se ella avesse pronunciato una parola di rimprovero; ma lei chiudeva gli occhi, si tappava le orecchie, voleva ignorare la condotta del marito fuori casa. Insomma, trattava il suo Hector come una madre tratta un fanciullo viziato. Tre anni prima della conversazione che aveva appena avuto luogo, Hortense riconobbe il padre al Variétés, in un palco di proscenio, in compagnia di Jenny Cadine, ed esclamò:
«Ecco papà!»
«Ti sbagli, angelo mio; è dal maresciallo,» rispose la baronessa.
Ella aveva ben visto Jenny Cadine; ma, anziché provare una stretta al cuore vedendola così graziosa, disse in cuor suo: «Quel cattivo soggetto di Hector deve essere ben felice.» Nondimeno soffriva, si abbandonava segretamente a momenti di rabbia terribile; ma, rivedendo il suo Hector, rivedeva sempre i suoi dodici anni di felicità pura, e perdeva la forza di articolare una sola parola di rimprovero. Avrebbe voluto che il barone la prendesse come confidente; ma, per rispetto a lui, non aveva mai osato fargli intendere di conoscere le sue scappatelle. Questi eccessi di delicatezza si riscontrano solo in quelle belle ragazze del popolo che sanno subire le percosse senza ricambiarle; hanno nelle vene le tracce del sangue dei primi martiri. Le ragazze di buona famiglia, essendo sullo stesso piano dei loro mariti, provano il bisogno di tormentarli e di far rimarcare, come si marcano i punti al bigliardo, la loro sopportazione con parole pungenti, con diabolico spirito di vendetta, per assicurarsi, sia una superiorità, sia un diritto di rivincita.


VIII • HORTENSE

La baronessa aveva un ammiratore appassionato in suo cognato, il luogotenente generale Hulot, il venerabile comandante dei granatieri a piedi della guardia imperiale, al quale venne poi dato, per i suoi ultimi giorni, il bastone di maresciallo. Il vegliardo, dopo aver comandato, dal 1830 al 1834, la divisione militare dove si trovavano i dipartimenti bretoni, teatro delle sue imprese nel 1799 e nel 1800, aveva stabilito la sua dimora a Parigi, vicino al fratello, al quale portava da sempre un affetto paterno.
Questo vecchio soldato nutriva una naturale predilezione per la cognata; egli l'ammirava come la più nobile, la più santa creatura del suo sesso. Non si era sposato perché aveva voluto incontrare una seconda Adeline, inutilmente cercata attraverso venti paesi e venti campagne. Per non scadere nella stima di quell'anima di vecchio repubblicano senza colpa e senza macchia, del quale Napoleone diceva: «Questo bravo Hulot è il più testardo dei repubblicani, ma non mi tradirà mai», Adeline avrebbe sopportato sofferenze ancor più crudeli di quelle appena subite. Ma il vecchio settantaduenne, provato da trenta campagne, ferito per la ventisettesima volta a Waterloo, era per Adeline oggetto di ammirazione, non una protezione. Il povero conte, fra le altre infermità, udiva solo con l'aiuto di un cornetto acustico!
Finché il barone Hulot d'Ervy fu un bell'uomo, le scappatelle non ebbero alcuna influenza sul suo patrimonio; ma, a cinquant'anni, bisognò fare i conti col fascino personale. A quell'età l'amore, nei vecchi, si cambia in vizio e vi si mescolano delle vanità insensate. Perciò Adeline vide in questo periodo suo marito diventare di una esigenza incredibile per la propria eleganza, tingersi i capelli e i favoriti, portare busto e panciera. Voleva restare bello a ogni costo. Questo culto per la propria persona, difetto che una volta egli scherniva, lo portò a curare ogni minimo particolare. Infine Adeline si accorse che il fiume di ricchezze che fluiva nelle case delle amanti del barone aveva la sua sorgente proprio lì, in casa sua. Negli ultimi otto anni, un patrimonio considerevole era stato dissipato, e così radicalmente, che al momento della sistemazione del giovane Hulot, due anni prima, il barone era stato costretto a confessare alla moglie che il suo stipendio costituiva tutta la loro fortuna.
«Dove andremo a finire?» fu la risposta di Adeline.
«Sta' tranquilla,» rispose il consigliere di stato; «vi lascio gli emolumenti della mia carica, e provvederò alla sistemazione di Hortense e al nostro avvenire facendo degli affari.»
La fede profonda che ella nutriva nella potenza e nell'alto valore, nelle capacità e nel carattere del marito, avevano calmato quell'inquietudine momentanea.
Ora, la natura delle riflessioni della baronessa e le sue lagrime, dopo la partenza di Crevel, si comprendono perfettamente. Da due anni, la povera donna sapeva di essere nel fondo di un abisso, ma credeva di esservi lei sola. Ignorava come si fosse arrivati al matrimonio di suo figlio, ignorava la relazione di Hector con l'avida Josépha; infine sperava che nessuno al mondo conoscesse i duoi dolori: perché se Crevel parlava in modo così disinvolto delle dissolutezze del barone, Hector avrebbe perso il suo buon nome. Nei discorsi volgari dell'ex profumiere irritato ella intravedeva l'odiosa complicità alla quale era dovuto il matrimonio del giovane avvocato. Due ragazze perdute erano state le sacerdotesse di quelle nozze, proposte in qualche orgia in mezzo a degradanti familiarità di due vecchi ubriachi!
«Egli dunque dimentica Hortense!» si disse, «eppure la vede tutti i giorni; le cercherà forse un marito in casa di quelle sue donnacce?»
In quel momento era la madre, più che la moglie, a parlare, poiché vedeva Hortense ridere con sua cugina Bette di quel folle riso della giovinezza spensierata; ed ella sapeva come quelle risa nervose fossero indizi non meno terribili di certe meste fantasticherie durante le solitarie passeggiate in giardino.
Hortense rassomigliava a sua madre, ma aveva dei capelli d'oro, naturalmente ondulati e così fluenti da incantare. Il suo splendore era quello della madreperla. In lei si vedeva bene il frutto di una onesta unione, di un amore nobile e puro in tutta la sua forza. Vi era una vivacità ardente nella sua fisionomia, una gaiezza nei suoi tratti, uno slancio di giovinezza, una freschezza di vita, una pienezza di salute che le si irradiavano intorno come vibrazioni elettriche. Hortense attirava lo sguardo. Quando i suoi occhi di un azzurro oltremare, nuotanti in quel fluido che in essi versa l'innocenza, si fermavano su un passante, questi trasaliva involontariamente. Peraltro, nemmeno una di quelle macchie di rossore che fanno pagare caro alle bionde dorate la loro lattea bianchezza, alterava il suo colorito. Alta, ben tornita, una figura slanciata la cui nobiltà uguagliava quella della madre, ella meritava quel titolo di dea tanto spesso prodigato dagli antichi autori. Perciò, chiunque vedesse Hortense per la strada non poteva trattenere questa esclamazione: «Mio Dio! Che bella ragazza!» E lei era così autenticamente ingenua che diceva rientrando: «Ma che hanno, mamma, da gridare tutti: ‹Che bella ragazza!› quando sei con me? Non sei più bella tu di me?...»
E, in effetti, a quarantasette anni passati, la baronessa poteva essere preferita a sua figlia dagli amatori di tramonti, poiché ella non aveva ancora perduto, come dicono le donne, nessuno dei suoi pregi, per uno di quei fenomeni rari soprattutto a Parigi, dove, in quel genere, Ninon ha fatto scandalo, tanto sembrava rubar la parte alle brutte del xvii secolo!
Pensando a sua figlia, la baronessa tornò con la mente al padre; ella lo vide sprofondare gradualmente, di giorno in giorno, nel fango, fino a perdere, forse, un giorno, anche il posto al ministero. L'idea della caduta del suo idolo, accompagnata da una visione indistinta delle disgrazie che Crevel aveva profetizzato, fu così crudele per la povera donna che, come inebetita, cadde priva di sensi.


IX • UN CARATTERE DA ZITELLA

La cugina Bette, con la quale Hortense stava chiacchierando, guardava di tanto in tanto verso la porta per vedere quando sarebbero potute rientrare nel salotto; ma la sua giovane cugina la stuzzicava in modo tale con le sue domande, nel momento in cui la baronessa riaprì la porta-finestra, che essa non se ne accorse.
Lisbeth Fischer, di cinque anni più giovane della signora Hulot, e figlia del maggiore dei Fischer, era lungi dall'essere bella come la cugina; perciò era stata straordinariamente gelosa di Adeline. La gelosia formava la base di quel carattere pieno di eccentricità, parola escogitata dagli inglesi per definire le bizzarrie non delle piccole ma delle grandi casate. Contadina dei Vosgi, in tutta l'accezione del termine, magra, bruna, coi capelli di un nero lucente, le sopracciglia folte e riunite in un ciuffo, le braccia lunghe e forti, i piedi grossi, qualche verruca sulla faccia lunga e scimmiesca, questo è il ritratto conciso della zitella.
La famiglia, che viveva in comune, aveva immolato la figlia rozza alla figlia graziosa, il frutto aspro al fiore splendente. Lisbeth lavorava la terra, mentre sua cugina era vezzeggiata; e così capitò che un giorno, trovando Adeline sola, tentò di strapparle il naso, un vero naso greco che le vecchie donne ammiravano. Benché picchiata per questa malefatta, ella continuò a lacerare i vestiti e a sciupare i collaretti della privilegiata. Al momento del matrimonio favoloso della cugina, Lisbeth si era piegata davanti a quel destino, come i fratelli e le sorelle di Napoleone si erano piegati davanti allo splendore del trono e alla potenza del comando. Adeline, infinitamente buona e dolce, si ricordò a Parigi di Lisbeth, e ve la fece venire, verso il 1809, con l'intenzione di strapparla alla miseria e di sistemarla. Nell'impossibilità di trovar marito, presto come Adeline avrebbe voluto, a quella ragazza dagli occhi neri, dalle sopracciglia nere come il carbone e che non sapeva né leggere né scrivere, il barone cominciò col darle un lavoro. Mise Lisbeth a bottega, come apprendista, presso i ricamatori della corte imperiale, i famosi fratelli Pons.
La cugina, chiamata Bette per abbreviazione, divenuta operaia in passamanerie d'oro e d'argento, energica alla maniera dei montanari, ebbe il coraggio di imparare a leggere, a far di conto e a scrivere, poiché suo cugino, il barone, le aveva dimostrato la necessità di possedere quelle conoscenze per impiantare un laboratorio di ricamo. Lei voleva fare fortuna: in due anni si trasformò. Nel 1811, la contadina era una prima lavorante piuttosto graziosa, piuttosto abile e intelligente.
Il ramo passamanerie d'oro e d'argento comprendeva le spalline, le dragone, i cordoncini, insomma tutta quell'infinità di cose brillanti che scintillava sulle ricche uniformi dell'armata francese e sugli abiti civili. L'imperatore, da buon italiano, amante del bel vestire, aveva fatto ricamare in oro e in argento, da capo a piedi, tutte le divise di quanti lo servivano, e il suo impero comprendeva contotrentatré dipartimenti. Le forniture, quasi sempre date ai sarti, gente ricca e solida, o direttamente ai grandi dignitari, costituivano un commercio sicuro.
Nel momento in cui la cugina Bette, la più abile operaia della ditta Pons, dove dirigeva la lavorazione, avrebbe potuto sistemarsi, si verificò la disfatta dell'Impero. L'ulivo della pace, che i Borboni tenevano in mano, spaventò Lisbeth; ella ebbe paura di un calo degli affari nel suo commercio, che poteva contare solo su ottantasei dipartimenti invece di contotrentatré, senza tener conto dell'enorme riduzione dell'esercito. Spaventata infine dalle diverse sorti dell'industria, rifiutò le offerte del barone, che la credette matta. Lei confermò questa opinione mettendosi in urto col signor Rivet, acquirente della casa Pons, al quale il barone voleva associarla, e divenne semplice operaia.
La famiglia Fischer era intanto ricaduta nella situazione precaria dalla quale il barone Hulot l'aveva tirata fuori.
Rovinati dalla catastrofe di Fontainebleau, i tre fratelli Fischer servirono da disperati nei corpi franchi del 1815. Il maggiore, padre di Lisbeth, fu ucciso. Il padre di Adeline, condannato a morte da un consiglio di guerra, fuggì in Germania e morì a Treviri nel 1820. Il minore, Johann, venne a Parigi a implorare l'aiuto della regina della famiglia, che, si diceva, mangiava nell'oro e nell'argento, che non appariva mai nelle riunioni se non con dei diamanti sulla testa o al collo, grossi come nocciole e regalati dall'imperatore. Johann Fischer, che aveva allora quarantatré anni, ricevette dal barone Hulot una somma di diecimila franchi per avviare una piccola impresa di foraggi a Versailles, ottenuta al Ministero della Guerra per la segreta influenza degli amici che l'ex intendente generale vi conservava.
Queste avversità familiari, la caduta in disgrazia del barone Hulot, la certezza di essere poca cosa in quell'immenso movimento di uomini, di interessi e di affari che fa di Parigi un inferno e un paradiso, domarono Bette. La ragazza abbandonò allora ogni idea di lotta e di confronto con la cugina, dopo averne avvertito le molteplici superiorità; ma l'invidia le restò in fondo al cuore, come un germe di peste che può svilupparsi e devastare una città, se si apre la funesta balla di lana che lo comprime. Di tanto in tanto si diceva:
«Adeline e io siamo dello stesso sangue, i nostri padri erano fratelli, lei è in un palazzo e io in una soffitta.»
Ma tutti gli anni, per il suo onomastico e per Capodanno, Lisbeth riceveva dei regali dalla baronessa e dal barone.
Il barone, sempre generoso con lei, le pagava la legna per l'inverno; a giorni fissi, Lisbeth pranzava dal vecchio generale Hulot, il suo coperto era sempre pronto in casa della cugina. La prendevano in giro, ma non arrossivano mai di lei. Insomma, le avevano procurato l'indipendenza a Parigi, dove viveva a modo suo.
La ragazza aveva in effetti paura di ogni specie di legame. La cugina le offriva ospitalità in casa sua? Bette vi intravedeva il giogo del lavoro domestico; diverse volte il barone aveva risolto il difficile problema di trovarle marito; ma, lasciatasi convincere sulle prime, rifiutava ben presto per la paura di vedersi rinfacciare la sua mancanza di educazione, la sua ignoranza e la sua modesta condizione; infine, se la baronessa le diceva di vivere con loro zio e di accudire alla sua casa al posto di una governante che doveva costare caro, rispondeva che, in quel modo, avrebbe trovato ancora più difficilmente marito. La cugina Bette manifestava nelle sue idee quelle singolari caratteristiche che si notano nelle nature sviluppatesi assai tardi, nei selvaggi, che pensano molto e parlano poco. La sua intelligenza contadina aveva del resto acquisito, nelle chiacchiere del laboratorio, col frequentare operai e operaie, un po' di quello spirito mordente tipico dei parigini. A quella giovane, il cui carattere somigliava straordinariamente a quello dei Corsi, tormentata inutilmente dagli istinti delle nature forti, sarebbe piaciuto proteggere un uomo debole; ma, a forza di vivere nella capitale, la capitale l'aveva cambiata esteriormente. La levigatezza parigina faceva la ruggine su quell'anima vigorosamente temprata. Dotata di un'acutezza divenuta profonda, come tutte le persone votate a un reale celibato, con il tono pungente che imprimeva alle sue idee, avrebbe potuto sembrare temibile in ogni altra situazione. Incattivita, avrebbe messo lo scompiglio nella famiglia più unita.
Nei primi tempi, quando aveva ancora qualche speranza, che, peraltro, tenne gelosamente nascosta, si era decisa a portare il busto, a seguire le mode, ed ebbe allora un momento di splendore durante il quale il barone la trovò maritabile. Lisbeth fu allora la bruna piccante dell'antico romanzo francese. Il suo sguardo penetrante, il suo colorito olivastro, la sua figura diritta potevano tentare un maggiore a mezza paga; ma lei si accontentò, diceva ridendo, di ammirarsi da sé. Finì del resto per trovare la sua vita piacevole, dopo averne eliminate le preoccupazioni materiali, poiché ogni sera, dopo aver lavorato sin dal levar del sole, era invitata a cena. Non aveva dunque che da provvedere al pranzo e all'affitto, dal momento che gli altri pensavano a vestirla e a darle molte di quelle provviste utili per la casa, come lo zucchero, il caffè, il vino ecc. Nel 1837, dopo ventisette anni di vita, per metà pagata dalla famiglia Hulot e dallo zio Fischer, la cugina Bette, rassegnata alla sua condizione, si lasciava trattare alla buona: era lei stessa che rifiutava di andare alle cene importanti, preferendo l'intimità che le permetteva di valorizzarsi ed evitare qualche sofferenza del suo amor proprio. Dappertutto, in casa del generale Hulot, di Crevel, del giovane Hulot, di Rivet, successore dei Pons, col quale si era riconciliata e che le faceva festa, dalla baronessa, sembrava fosse di casa. Dappertutto, infine, sapeva farsi benvolere dai domestici dando loro di tanto in tanto delle piccole mance, parlando sempre con loro per qualche istante prima di entrare in salotto. La franca familiarità, con cui si poneva al livello dei domestici, le conciliava la loro benevolenza di subalterni, essenziale ai parassiti. «È una buona e brava ragazza!» tutti dicevano di lei. La sua compiacenza, senza limiti quando non la si esigeva, era del resto, come la sua finta bonomia, una necessità della sua posizione. Aveva finito per comprendere la vita vedendosi alla mercè di tutti; e, volendo piacere a tutti, rideva con i giovani ai quali piaceva per un certo modo di adulare che li seduce sempre, indovinava e prendeva a cuore i loro desideri, si rendeva loro interprete; appariva loro una buona confidente, poiché non aveva il diritto di rimproverarli. La sua discrezione assoluta le meritava la fiducia delle persone di età matura, perché possedeva, come Ninon, delle qualità maschili. In generale le confidenze vanno più verso il basso che verso l'alto. Negli affari segreti ci si serve più degli inferiori che dei superiori; essi diventano quindi i complici dei nostri più riposti pensieri, sono a parte delle nostre deliberazioni: Richelieu si considerò un uomo arrivato quando ebbe il diritto di assistere al Consiglio. Credevano che quella povera ragazza dipendesse talmente da tutti, da sembrare condannata a un mutismo assoluto. La cugina si soprannominava lei stessa il confessionale della famiglia. Solo la baronessa, causa i maltrattamenti subiti durante l'infanzia dalla cugina più forte di lei, benché più giovane, conservava una specie di diffidenza. Poi, per pudore, ella non avrebbe confidato che a Dio i suoi dispiaceri familiari.
A questo punto, forse è necessario fare osservare che la casa della baronessa conservava tutto il suo splendore agli occhi della cugina Bette, la quale non era colpita, come il commerciante di profumi arricchito, dall'indigenza scritta sulle poltrone consumate, sui tendaggi anneriti e sulla seta lisa. Accade per i mobili, con i quali si vive, come per noi stessi. Esaminandosi tutti i giorni, si finisce, come il barone, per credersi poco cambiati, giovani, mentre gli altri vedono sulla nostra testa una capigliatura che sfuma nel bianco, degli accenti circonflessi sulla nostra fronte, delle prominenze di grasso nell'addome. Quell'appartamento, sempre illuminato per la cugina Bette dai fuochi del Bengala delle vittorie imperiali, aveva ancora il suo splendore. Col tempo, la cugina Bette aveva preso delle manie da zitella alquanto singolari. Così, per esempio, voleva, invece di obbedire alla moda, che la moda si conformasse alle sue abitudini e si piegasse ai suoi capricci sempre «superati». Se la baronessa le regalava un bel cappello nuovo, qualche vestito tagliato secondo il gusto del momento, subito la cugina Bette rimaneggiava, a casa sua e a modo suo, ogni cosa, e la sciupava facendone un vestito secondo la moda imperiale o gli antichi costumi lorenesi. Il cappello da trenta franchi diventava un cencio e il vestito uno straccio. Bette era, a questo riguardo, di una testardaggine da mulo. Voleva piacere solo a se stessa e si credeva bella così, mentre questo adattamento, armonioso solo in quanto la rendeva zitella dalla testa ai piedi, la faceva apparire così ridicola che, con tutta la buona volontà, nessuno avrebbe potuto ammetterla in casa propria nei giorni di gala.
Quel carattere restio, capriccioso, indipendente, l'inesplicabile selvatichezza della giovane, alla quale il barone per ben quattro volte aveva trovato un partito (un impiegato della sua amministrazione, un maggiore, un appaltatore di viveri, un capitano in pensione), e che aveva rifiutato un commerciante di passamaneria, divenuto poi ricco, le valse il soprannome di Capra che il barone le dava ridendo. Ma questo soprannome non rispondeva che alle bizzarrie esteriori, a quelle variazioni che presentiamo tutti, gli uni agli altri, nei rapporti sociali. Quella giovane che, a una attenta osservazione, avrebbe rivelato il lato feroce della classe contadina, era sempre la bambina che voleva strappare il naso della cugina, e che forse, se non fosse diventata ragionevole, l'avrebbe uccisa in un accesso di gelosia. Solo grazie alla conoscenza delle leggi e del mondo, ella riusciva a domare l'irruenza naturale, con la quale la gente di campagna, nonché i selvaggi, passano dal sentimento all'azione. In questo forse consiste tutta la differenza che separa il selvaggio dall'uomo civile. Il primo ha solo dei sentimenti, il secondo ha dei sentimenti e delle idee. Perciò presso i selvaggi il cervello riceve, per così dire, poche impronte, è preso tutto intero dal sentimento che l'invade, mentre nell'uomo civilizzato le idee discendono nel cuore trasformandolo; questi è aperto a mille interessi, a vari sentimenti, mentre il selvaggio non ammette che un'idea per volta. È questa la causa della superiorità momentanea del bambino sui genitori, che cessa con la soddisfazione del desiderio; mentre nell'uomo vicino alla natura, questa causa di superiorità è sempre presente. La cugina Bette, la lorenese selvatica, un po' infida, apparteneva a questa categoria di caratteri, più comuni che non si pensi nel popolo, e che può spiegarne il comportamento durante le rivoluzioni.
Nel momento in cui si alza il sipario di questa scena, se la cugina Bette avesse voluto lasciarsi vestire alla moda, se si fosse, come le parigine, abituata a seguire ogni nuova foggia, sarebbe stata presentabile e accettabile; ma conservava la rigidezza di un bastone. Ora, senza grazia, la donna a Parigi non esiste. Così, la capigliatura nera, i begli occhi duri, la severità delle linee del volto, l'aridità calabrese del colorito che facevano della cugina Bette una figura di Giotto, e da cui una vera parigina avrebbe tratto profitto, il suo strano abbigliamento soprattutto, le davano una apparenza così bizzarra, che a volte ella rassomigliava a quelle scimmie vestite da donna che i piccoli savoiardi si portano in giro. Poiché era ben nota nelle case unite da legami di parentela nelle quali viveva; infatti limitava i suoi rapporti sociali a questa cerchia, e per il resto amava starsene in casa sua - le sue stranezze non meravigliavano più nessuno e sparivano, fuori di lì, confondendosi nell'immenso movimento parigino delle strade, dove non si guardano che le donne graziose.


X • L'INNAMORATO DI BETTE

Le risate d'Hortense erano in quel momento causate da un trionfo riportato sull'ostinazione della cugina Bette, alla quale era riuscita a strappare, dopo tre anni, una confessione. Per quanto una zitella possa mascherare il proprio stato d'animo, vi è un sentimento che le farà sempre rompere il silenzio: è la vanità! Da tre anni Hortense, divenuta estremamente curiosa su un certo argomento, assillava la cugina con domande che erano fatte del resto con grande innocenza: voleva sapere perché Bette non si era sposata. Hortense, che conosceva la storia dei cinque pretendenti rifiutati, aveva costruito il suo romanzetto, credeva che la cugina Bette custodisse nel cuore una passione, e ciò dava luogo a una schermaglia affettuosa. Hortense diceva: «Noi ragazze!» parlando di sé e della cugina. La cugina Bette aveva, a più riprese, risposto con un tono divertito: «Chi vi dice che non ho un innamorato?»
Da allora l'innamorato della cugina Bette, falso o vero che fosse, fornì lo spunto ad affettuose prese in giro. Infine, dopo due anni di schermaglie, l'ultima volta che la cugina Bette era venuta, le prime parole d'Hortense erano state:
«Come sta il tuo innamorato?»
«Ma bene,» aveva risposto lei; «soffre un po' quel povero giovane.»
«Ah! è delicato?» aveva domandato ridendo la baronessa.
«Certo, è biondo... Una ragazza nera come il carbone, come sono io, non può amare che un biondino, color della luna.»
«Ma che cos'è? Che fa?» disse Hortense. «È un principe?»
«Principe dell'utensile, come io sono la regina del rocchetto. Una povera ragazza come me può essere amata da un proprietario che abbia dei beni al sole e dei titoli di stato? o da un duca e pari, o da qualche Principe Azzurro dei tuoi racconti di fate?»
«Oh! Vorrei tanto vederlo!...» aveva esclamato Hortense sorridendo.
«Per sapere com'è fatto quello che può amare una vecchia capra?» aveva risposto la cugina Bette.
«Deve essere un mostro di vecchio impiegato con la barba da caprone!» aveva detto Hortense guardando sua madre.
«Ebbene, vi sbagliate, signorina.»
«Ma allora ce l'hai un innamorato?» aveva chiesto Hortense con un'aria di trionfo.
«Vero come è vero che tu non ne hai!» aveva risposto la cugina con un'aria piccata.
«Ebbene, se hai un innamorato, perché non lo sposi, Bette?...» aveva detto la baronessa facendo un cenno a sua figlia. «Son tre anni che si parla di lui, hai avuto il tempo di osservarlo, e, se ti è rimasto fedele, non devi prolungare una situazione penosa per lui. È, del resto, una questione di coscienza; e poi, se è giovane, è tempo che tu prenda un bastone per la vecchiaia.»
La cugina Bette aveva guardato fissamente la baronessa e, vedendo che rideva, aveva risposto:
«Sarebbe come far sposare la fame e la sete; lui è operaio e io sono operaia; se avessimo dei figli, sarebbero operai... No, no; ci amiamo solo spiritualmente...! Costa meno!»
«Perché lo nascondi?» aveva domandato Hortense.
«Non è presentabile,» aveva replicato la zitella ridendo.
«Lo ami?» aveva domandato la baronessa.
«Ah: lo credo bene! Lo amo così com'è, quel cherubino. Sono ormai quattro anni che lo porto nel cuore.»
«Ebbene, se l'ami così com'è,» aveva detto con tono serio la baronessa, «e se esiste, saresti veramente crudele verso di lui. Tu non sai cosa vuol dire amare.»
«Lo sappiamo tutte dalla nascita!» disse la cugina.
«No, ci sono delle donne che amano e rimangono egoiste, ed è il tuo caso!...»
La cugina aveva abbassato la testa, e il suo sguardo avrebbe fatto fremere chi ne fosse stato colpito, ma lei aveva guardato la sua spoletta.
«Se tu ci presentassi il tuo preteso innamorato, Hector potrebbe sistemarlo e metterlo in condizione di fare fortuna.»
«Non è possibile,» aveva detto la cugina Bette.
«E perché?»
«È una specie di polacco, un rifugiato...»
«Un cospiratore?...» aveva esclamato Hortense. «Come sei fortunata!... Ha avuto delle avventure?»
«Non so, si è battuto per la Polonia. Era professore nel ginnasio i cui allievi hanno cominciato la rivolta, e, poiché egli era stato messo là dal granduca Costantino, non può sperare di essere perdonato.»
«Professore di che cosa?»
«Di belle arti!»
«Ed è arrivato a Parigi dopo la disfatta?»
«Nel 1833 aveva attraversato la Germania a piedi...»
«Povero giovane! E ha...»
«Aveva appena ventiquattro anni al momento dell'insurrezione, oggi ne ha ventinove...»
«Quindici anni meno di te,» aveva detto la baronessa.
«Di che cosa vive?...» aveva chiesto Hortense.
«Del suo talento.»
«Ah, dà delle lezioni?...»
«No,» aveva detto la cugina Bette, «ne riceve, e dure!...»
«E il suo nome, è bello?»
«Wenceslas!»
«Che immaginazione hanno le zitelle!» aveva esclamato la baronessa. «Dal modo in cui parli, ti si crederebbe, Lisbeth.»
«Non vedi, mamma, che è un polacco talmente abituato al knout, che Bette gli ricorda questa piccola delizia della sua patria?»
Tutte e tre si erano messe a ridere, e Hortense aveva cantato: «Wenceslas! idol de mon âme!» invece di «O Mathilde...» e c'era stato un armistizio per alcuni istanti.
«Queste ragazzine,» aveva detto la cugina Bette guardando Hortense, quando era ritornata vicino a lei, «credono d'essere amate solo loro.»
«Senti,» aveva risposto Hortense trovandosi sola con la cugina, «provami che Wenceslas non è una favola, e io ti do il mio scialle di cachemire giallo.»
«Ma è conte!...»
«Tutti i polacchi sono conti!»
«Ma lui non è polacco, è di Li...va..., Lit...»
«Lituania?»
«No...»
«Livonia?»
«Sì, ecco!»
«Ma come si chiama?»
«Via, voglio sapere se sei capace di mantenere un segreto...»
«Oh! cugina, sarò muta...»
«Come un pesce?»
«Come un pesce!»
«Per la vita eterna?»
«Per la vita eterna!»
«No, per la tua felicità su questa terra?»
«Sì.»
«Ebbene, si chiama conte Wenceslas Steinbock!»
«C'era un generale di Carlo xii che portava quel nome.»
«Era il suo prozio! Suo padre si era stabilito in Livonia dopo la morte del re di Svezia; ma ha perduto i suoi beni all'epoca della campagna del 1812, ed è morto, lasciando il povero ragazzo, all'età di otto anni, senza risorse. Il granduca Costantino, a causa del nome di Steinbock, l'ha preso sotto la sua protezione e l'ha messo in una scuola.»
«Non mi disdico,» aveva risposto Hortense, «dammi una prova della sua esistenza, e avrai il mio scialle giallo! Ah! questo colore è il belletto delle brune.»
«Manterrai il segreto?»
«Ti confiderò i miei.»
«Ebbene, la prossima volta che verrò, ti porterò la prova.»
«Ma la prova è l'innamorato,» aveva detto Hortense.


XI • FRA ZITELLA E RAGAZZA

La cugina Bette, che fin dal suo arrivo a Parigi adorava i cachemire, era stata affascinata dall'idea di possedere quello scialle giallo donato dal barone a sua moglie nel 1808, e che, secondo l'uso di alcune famiglie, era passato dalla madre alla figlia nel 1830. Dopo dieci anni, lo scialle si era molto consumato; ma quel prezioso tessuto, sempre chiuso in un cassetto di legno di sandalo, sembrava alla zitella, come il mobilio della baronessa, sempre nuovo. Perciò Bette aveva portato nella sua borsa un regalo che contava di fare alla baronessa in occasione del suo compleanno, e che, secondo lei, doveva provare l'esistenza dell'innamorato misterioso. Questo regalo consisteva in un sigillo d'argento, composto di tre figurine appoggiate, avviluppate in un intreccio di foglie che sostenevano il globo. Le tre figure rappresentavano la Fede, la Speranza e la Carità. I piedi posavano su dei mostri che si sbranavano fra loro, e fra i quali si agitava il serpente simbolico. Nel 1846, dopo i progressi immensi che la signorina de Fauveau, i Wagner, i Jeanest, i Froment-Meurice, e certi scultori in legno come Liénard, hanno fatto fare all'arte di Benvenuto Cellini, questo capolavoro non avrebbe sorpreso nessuno; ma in quel momento, una ragazza esperta in oreficeria dovette restare sbalordita nel vedere quel sigillo, quando la cugina Bette glielo ebbe dato in mano dicendole:
«Ecco, come lo trovi?»
Le figure, per il disegno, per i drappeggi e per il movimento, appartenevano alla scuola di Raffaello; per l'esecuzione ricordavano la scuola dei bronzisti fiorentini che crearono i Donatello, Brunelleschi, Ghiberti, Benvenuto Cellini, Giambologna ecc. Il Rinascimento, in Francia, non aveva foggiato mostri più capricciosi di quelli che simboleggiavano le cattive passioni. Le palme, le felci, i giunchi, le canne che avvolgevano le Virtù erano d'un effetto, d'un gusto, di una disposizione da scoraggiare la gente del mestiere. Un nastro legava le tre teste fra loro e su ogni tratto, fra una testa e l'altra, si vedeva una W, un camoscio e la parola fecit.
«Chi l'ha scolpito?» domandò Hortense.
«Be', il mio innamorato,» rispose la cugina Bette; «ci sono voluti dieci mesi di lavoro; guadagno più io a fare le dragone... Mi ha detto che Steinbock significa, in tedesco, animale delle rocce, o camoscio. Intende firmare così le sue opere... Ah! avrò il tuo scialle...»
«E perché?»
«Posso forse comprare un simile gioiello? Ordinarlo? è impossibile; dunque mi è stato regalato. Chi può fare dei regali simili? un innamorato!»
Hortense, con una dissimulazione che avrebbe allarmato Lisbeth Fischer, se solo se ne fosse accorta, si guardò bene dall'esprimere tutta la sua ammirazione, benché provasse quell'emozione che prova chi ha l'anima aperta alla bellezza, quando vede un capolavoro senza difetti, completo, inatteso.
«Davvero,» disse, «è molto grazioso.»
«Sì, è grazioso,» replicò la zitella, «ma io preferisco un cachemire arancione. Ebbene, piccola mia, il mio innamorato passa il suo tempo a fare oggetti di questo tipo. Da quando è arrivato a Parigi, ha fatto tre o quattro oggettini del genere, ed ecco il frutto di quattro anni di studio e di lavoro. Ha fatto l'apprendista presso fonditori, modellatori, gioiellieri... E mi dice il signore, che fra qualche mese diventerà celebre e ricco...»
«Ma lo vedi, dunque?»
«Certo! credi che sia una favola? Ti ho detto la verità ridendo.»
«E ti ama?» domandò vivacemente Hortense.
«Mi adora!» rispose la cugina facendosi seria. «Vedi, piccola mia, non ha conosciuto che donne pallide, slavate, come lo sono tutte nel nord; una ragazza bruna, slanciata, giovane come me, gli ha riscaldato il cuore. Ma acqua in bocca! me l'hai promesso.»
«Succederà con lui quello che è successo con gli altri cinque,» disse con aria canzonatoria la ragazza guardando il sigillo.
«Sai, signorina, ne ho lasciato uno in Lorena che, per me, ancora oggi andrebbe a prendere la luna.»
«Questo fa di più,» rispose Hortense; «ti porta il sole.»
«Come se ne può cavar quattrini?» domandò la cugina Bette. «Occorre molta terra per trarre profitto dal sole.»
Quelle battute scherzose dette una dietro l'altra, e seguite dalle follie immaginabili in questi casi, generavano le risate che avevano raddoppiato le angosce della baronessa facendole paragonare l'avvenire di sua figlia al presente, in cui la vedeva abbandonarsi a tutta la gioia spensierata della sua età.
«Ma, per offrirti dei gioielli che richiedono sei mesi di lavoro, dovrà certo avere dei grandi debiti di riconoscenza verso di te,» disse Hortense che quel gioiello faceva riflettere profondamente.
«Ah! vuoi saperne troppo in una sola volta!» rispose la cugina Bette. «Ma ascolta... voglio farti partecipare a un complotto.»
«Ci sarò col tuo innamorato?»
«Ah! ti piacerebbe vederlo! Ma, capisci, una zitella come la vostra Bette che ha saputo tenersi un innamorato per cinque anni, se lo nasconde ben bene... Perciò, lasciami tranquilla. Io, vedi, non ho né gatti, né canarini, né cani, né pappagalli; bisogna che una vecchia capra come me abbia qualche piccola cosa da amare, da tormentare; ebbene, io mi prendo un polacco.»
«Ha i baffi?»
«Lunghi così,» disse Bette mostrandole una navetta carica di fili d'oro. Quando veniva a far visita, si portava sempre appresso il lavoro, e lavorava aspettando la cena.
«Se mi poni sempre delle domande, non saprai niente,» riprese Bette. «Non hai che ventidue anni e sei più chiacchierona di me che ne ho quarantadue, quasi quarantatré.»
«Ascolto, non fiaterò,» disse Hortense.
«Il mio innamorato ha fatto un gruppo in bronzo alto dieci pollici,» riprese la cugina Bette. «Rappresenta Sansone che dilania un leone, e l'ha sotterrato e arrugginito in modo da far credere che è vecchio quanto Sansone. Quel capolavoro è esposto da uno di quei mercanti d'anticaglie che hanno le botteghe sulla place du Carrousel, vicino a casa mia. Se tuo padre, che conosce il signor Popinot, ministro del Commercio e dell'Agricoltura, o il conte di Rastignac, potesse parlar loro di questo gruppo come di una bella opera antica vista mentre passava! Sembra che questi grandi personaggi si dedichino a questo genere di cose invece di occuparsi delle nostre dragone; la fortuna del mio innamorato sarebbe fatta se essi comprassero o solo esaminassero questo brutto pezzo di bronzo. Quel povero ragazzo vorrebbe farlo passare per un oggetto antico e farselo pagare molto caro. Allora, se è un ministro che prende il gruppo, andrà a presentarsi da lui, dimostrerà di esserne l'autore, e sarà portato in trionfo! Oh! si crede già su un piedistallo; ha dell'orgoglio, il giovanotto, quanto due nuovi conti.»
«È copiato da Michelangelo; ma, per essere un innamorato, non ha perso lo spirito...» disse Hortense. «E quanto ne vuole?»
«Millecinquecento franchi! Il mercante non deve dare il bronzo a meno, poiché deve avere una commissione.»
«Papà,» disse Hortense, «è attualmente commissario del re; vede tutti i giorni i due ministri alla Camera, e farà il tuo affare; me ne incarico io. Diventerete ricca, signora contessa Steinbock!»
«No, il mio uomo è troppo pigro, resta delle settimane intere a tormentare della cera rossa e non fa progressi. Ah! bah! passa la vita al Louvre, alla biblioteca, a guardare delle stampe e a disegnarle. È un perdigiorno.»
E le due cugine continuarono a scherzare. Hortense rideva come quando ci si sforza di ridere, perché era tutta presa da un amore che tutte le ragazze hanno provato, l'amore dell'ignoto, l'amore allo stato vago, i cui pensieri si concretizzano intorno a una figura che per caso gli vien messa davanti, come la brina che rimane attaccata a dei fili di paglia sospesi dal vento ai margini di una finestra. Da dieci mesi aveva fatto del misterioso innamorato di Bette un essere reale, perché credeva, come sua madre, al celibato perpetuo di sua cugina; e, da otto giorni, questo fantasma era diventato il conte Wenceslas Steinbock, il sogno aveva finalmente un nome, le sue fantasie prendevano corpo in un giovane di trent'anni. Il sigillo che teneva in mano, specie d'Annunciazione in cui il genio risplendeva come una luce, ebbe la potenza di un talismano. Hortense si sentiva così felice che cominciò a dubitare che quel racconto fosse un'invenzione; il suo sangue ribolliva, rideva come una pazza per trarre in inganno sua cugina.


XII • IL BARONE HECTOR D'ERVY

«Ma mi sembra che la porta del salotto sia aperta,» disse la cugina Bette, «andiamo a vedere se il signor Crevel è andato via.»
«Da due giorni la mamma è assai triste: il matrimonio di cui si parlava è senza dubbio andato in fumo...»
«Be'! la cosa si può riaggiustare; si tratta (posso dirtelo) di un consigliere della corte reale. Ti piacerebbe essere la signora presidentessa? Va' là, se dipende dal signor Crevel, mi dirà bene qualcosa, e saprò domani se c'è qualche speranza!...»
«Cugina, lasciami il sigillo,» chiese Hortense, «non lo farò vedere... La festa della mamma è fra un mese e te lo consegnerò al mattino...»
«No, rendimelo... Ci vuole un astuccio.»
«Ma lo farò vedere a papà, perché possa parlare al ministro con cognizione di causa; sai, le autorità non devono compromettersi,» disse.
«Va bene, non mostrarlo a tua madre, è tutto quel che ti chiedo; perché se venisse a sapere che ho un innamorato, mi prenderebbe in giro.»
«Te lo prometto.»
Le due cugine arrivarono sulla porta del boudoir proprio nel momento in cui la baronessa cadeva svenuta, e il grido lanciato da Hortense bastò a rianimarla. Bette andò a prendere i sali. Quando ritornò, trovò madre e figlia l'una nelle braccia dell'altra; la madre che calmava i timori della figlia, dicendole:
«Non è nulla, è una crisi nervosa. Ecco tuo padre,» aggiunse, riconoscendo il modo di suonare del barone; «mi raccomando, non parlargli di questo...»
Adeline si alzò per andare incontro al marito, con l'intenzione di condurlo in giardino, nell'attesa della cena, di parlargli del matrimonio andato in fumo, di avere delle spiegazioni sull'avvenire, e di tentare di dargli qualche consiglio.
Il barone Hector Hulot si mostrò in una tenuta parlamentare e napoleonica; infatti gli imperiali (gente che ha servito l'Impero) si distinguono facilmente dal piglio militaresco, dalle marsine blu e bottoni d'oro, abbottonate fino al collo, dalle cravatte in taffetà nero, dall'andatura decisa appresa nell'esercizio di un comando necessariamente dispotico. Nella figura del barone nulla, bisogna convenirne, sapeva di vecchiaia: la sua vista era ancora così buona che leggeva senza occhiali; il suo bel viso ovale, al quale facevano da cornice dei favoriti troppo neri, ohimè!, mostrava una carnagione ravvivata da quelle marezzature tipiche dei temperamenti sanguigni; e il suo ventre, contenuto da una cintura, si manteneva, come dice Brillant-Savarin, nel maestoso. Una grande aria aristocratica, molta affabilità formavano l'involucro del libertino col quale Crevel aveva partecipato a tanti convegni galanti. Era insomma uno di quegli uomini i cui occhi si animano alla vista di una donna graziosa, e che sorridono a tutte le belle donne, anche a quelle che passano e che non rivedranno più.
«Hai parlato, amico mio?» disse Adeline vedendolo preoccupato.
«No,» rispose Hector, «ma sono distrutto per aver sentito parlare due ore senza arrivare a un voto... Fanno battaglie di parole, e i discorsi sono come cariche di cavalleria che non disperdono il nemico! Si è sostituita la parola all'azione, cosa che rallegra poco la gente abituata a marciare, come dicevo al maresciallo nel lasciarlo. Ma è già troppo essersi annoiati sui banchi dei ministri, divertiamoci qui... Buongiorno, Capra!... buongiorno, Capretta!»
E cinse il collo della figlia, l'abbracciò, la coccolò, se la fece sedere sulle ginocchia e appoggiò la testa di lei sulla propria spalla per sentire sul viso quella bella capigliatura d'oro.
«È contrariato, stanco,» si disse la signora Hulot, «non vorrei infastidirlo ancora: è meglio aspettare.»
«Resti con noi stasera?» gli domandò a voce alta.
«No, mie care. Dopo cena vi lascio e, se non fosse il giorno della Capra, dei miei ragazzi e di mio fratello, non mi avreste nemmeno visto...»
La baronessa prese il giornale, guardò i teatri e posò il foglio, dove aveva letto Robert le diable nella rubrica dell'Opéra. Josépha, che l'Opéra italiana aveva ceduto da sei mesi all'Opéra francese, cantava nella parte di Alice. Quei gesti non sfuggirono al barone, che fissò la moglie. Adeline abbassò gli occhi, uscì in giardino, ed egli la seguì.
«Allora, che c'è, Adeline?» disse prendendola per la vita, attirandola a sé e stringendola. «Non sai che ti amo più di...»
«Più di Jenny Cadine e di Josépha!» lo interruppe lei arditamente.
«E chi ti ha detto questo?» domandò il barone, che, lasciando la moglie, indietreggiò di due passi.
«Mi hanno scritto una lettera anonima, che ho bruciata, e nella quale mi si diceva, mio caro, che il matrimonio di Hortense è andato in fumo a causa delle strettezze in cui ci troviamo. Tua moglie, caro Hector, non avrebbe mai detto una parola; ha sempre saputo della tua relazione con Jenny Cadine, si è mai lamentata? Ma la madre di Hortense ti deve dire la verità...»
Hulot, dopo un istante di silenzio terribile per sua moglie, di cui si udivano i battiti del cuore, allungò le braccia, l'afferrò, la strinse sul cuore, la baciò sulla fronte e le disse con quell'enfasi che nasce dall'entusiasmo:
«Adeline, sei un angelo, e io sono un miserabile...»
«No! no!» rispose la baronessa mettendogli bruscamente la mano sulle labbra per impedirgli di dir male di se stesso.
«Sì, in questo momento non ho un soldo da dare a Hortense, e sono davvero infelice; ma poiché tu mi apri così il tuo cuore, io posso versarvi i dispiaceri che mi soffocavano... Sì, tuo zio Fischer si trova in difficoltà, sono io che ce l'ho messo; mi ha sottoscritto delle cambiali per venticinquemila franchi! E tutto questo per una donna che mi inganna, che si prende beffa di me quando io non ci sono, che mi chiama vecchio gatto tinto!... Oh! è spaventoso che un vizio costi di più che una famiglia da mantenere!... Ed è irresistibile... Ti prometterei sull'istante di non ritornare più da quella abominevole israelita, eppure sono certo che, se essa mi scriverà due righe, andrò da lei come si andava al fuoco sotto l'imperatore.»
«Non tormentarti, Hector,» disse la povera donna in preda alla disperazione e dimenticando la figlia alla vista delle lacrime che apparivano negli occhi del marito. «Ecco, ho i miei diamanti; salva, prima di tutto, mio zio!»
«I tuoi diamanti valgono appena ventimila franchi, oggi. Una somma che non basterebbe al vecchio Fischer; perciò conservali per Hortense. Domani vedrò il maresciallo.»
«Povero caro!» esclamò la baronessa prendendo le mani del suo Hector e baciandogliele.
Fu questa tutta la reprimenda. Adeline offriva i suoi diamanti, il padre li dava a Hortense, ella considerò questo slancio come una cosa sublime e rimase senza forze.
«È il padrone, può prendersi tutto, mi lascia i miei diamanti, è un dio!»
Tale fu il pensiero di quella donna, che certamente aveva ottenuto più con la dolcezza che non un'altra con una scenata di gelosia.
Il moralista non potrebbe negare che, in genere, le persone bene educate e molto viziose sono assai più amabili delle persone virtuose; avendo delle colpe da farsi perdonare esse sollecitano in anticipo l'indulgenza, mostrandosi tolleranti verso i difetti dei loro giudici, e passano per essere eccellenti. Benché fra la gente virtuosa vi siano delle persone affascinanti, la virtù si crede già abbastanza bella per se stessa e non si dà da fare per abbellirsi; poi le persone realmente virtuose, poiché bisogna escludere gli ipocriti, hanno quasi tutte dei lievi dubbi sulla propria situazione; si credono ingannate nel grande mercato della vita, e hanno parole un po' agre alla maniera di coloro che si pensano misconosciuti. Così il barone, che si rimproverava la rovina della famiglia, ricorse a tutte le risorse del suo spirito e delle sue grazie di seduttore per la moglie, per i figli e la cugina Bette. Vedendo venire il figlio e Célestine Crevel, che dava da mangiare al piccolo Hulot, fu delizioso con la nuora, la colmò di complimenti, nutrimento al quale la vanità di Célestine non era abituata, poiché mai ragazza ricca fu così grossolana e così perfettamente insignificante. Il nonno prese il marmocchio, lo baciò; lo trovò delizioso e incantevole, gli parlò con il linguaggio delle balie, profetizzò che quel bamboccio sarebbe diventato più grande di lui, disse delle parole adulatrici a suo figlio Hulot, e rese il bambino alla grassa normanna incaricata di accudirlo. Così Célestine scambiò con la baronessa uno sguardo che voleva dire: «Che uomo adorabile!» Naturalmente ella difendeva il suocero dagli attacchi di suo padre.
Dopo essersi mostrato suocero piacevole e nonno adorabile, il barone condusse suo figlio in giardino per esporgli delle osservazioni molto assennate sull'atteggiamento da prendere alla Camera riguardo a un problema delicato, sorto al mattino. Riempì l'animo del giovane avvocato di ammirazione per la profondità delle sue vedute, lo commosse col suo tono amichevole, e soprattutto con quella specie di deferenza con la quale sembrava ormai volerlo mettere al proprio livello.
Il signor Hulot figlio era il tipo di giovane foggiato dalla Rivoluzione del 1830: infatuato di politica, mai dimentico delle proprie ambizioni, che ammantava di una falsa gravità, profondamente invidioso delle reputazioni consolidate, usava, in luogo di quello stile tagliente che è la punta di diamante della conversazione francese, vuote perifrasi, ed esibiva il sussiego di chi scambia la boria per dignità.
Queste persone sono bare ambulanti che contengono un francese d'altri tempi; il francese si agita di tanto in tanto e dà qualche colpo contro il suo involucro inglese; ma l'ambizione lo trattiene, ed egli acconsente a soffocarci dentro. Questa bara è sempre rivestita di un drappo nero.
«Ah, ecco mio fratello!» disse il barone andando a ricevere il conte alla porta del salotto.
Dopo aver abbracciato il probabile successore del defunto maresciallo Montcornet, lo introdusse nella stanza prendendogli il braccio con dimostrazioni di affetto e di rispetto.
Il pari di Francia, dispensato dall'andare alle sedute a causa della sua sordità, mostrava una bella testa resa austera dagli anni, i capelli grigi ancora abbastanza folti da essere come incollati dalla pressione del cappello. Piccolo, tozzo, rinsecchito, portava la sua vigorosa vecchiaia con aria arzilla; e poiché conservava una eccessiva vitalità, costretta al riposo, divideva il suo tempo fra le letture e le passeggiate. L'amabilità del suo carattere si leggeva sul suo viso bianco, nel suo atteggiamento, nei suoi onesti discorsi pieni di cose sensate. Non parlava mai di guerre né di campagne; sapeva di essere troppo grande per aver bisogno di ostentare la grandezza. In un salotto, limitava il suo ruolo a una continua attenzione ai desideri delle donne.
«Siete tutti allegri,» disse vedendo l'animazione che il barone diffondeva in quella piccola riunione di famiglia. «Eppure Hortense non si è sposata,» aggiunse scorgendo tracce di malinconia sul viso della cognata.
«Le capiterà ancora abbastanza presto,» gli gridò nell'orecchio Bette con voce formidabile.
«Ah! Eccovi qua, mal seme che non ha voluto fiorire!» rispose egli ridendo.
L'eroe di Forzheim aveva una certa simpatia per la cugina Bette, poiché vi erano fra loro delle somiglianze. Senza istruzione, nato dal popolo, il coraggio era stato l'unico artefice della sua fortuna militare, e in lui il buon senso sostituiva l'ingegno. Pieno d'onore, le mani pure, finiva radiosamente la sua bella vita in quella famiglia in cui si trovavano tutti i suoi affetti, senza sospettare i traviamenti, ancora segreti, di suo fratello. Nessuno più di lui godeva del bello spettacolo di quella riunione, dove mai si verificava il più piccolo motivo di discordia, dove fratelli e sorelle si amavano nella stessa misura, poiché Célestine era stata considerata subito una della famiglia. Perciò il bravo, piccolo conte Hulot domandava di tanto in tanto come mai il vecchio Crevel non venisse. «Mio padre è in campagna!» gli gridava Célestine. Questa volta gli dissero che l'ex profumiere era in viaggio. Quell'unione così autentica della sua famiglia fece pensare alla signora Hulot:
«Ecco la felicità più sicura; chi potrebbe togliermela?»
Vedendo che la sua prediletta Adeline era oggetto delle attenzioni del barone, il generale ci scherzò sopra così bene che il barone, temendo di cadere nel ridicolo, rivolse nuovamente le sue galanterie alla nuora, alla quale, in queste cene di famiglia, andavano sempre le sue adulazioni e le sue attenzioni, poiché egli sperava, tramite lei, di riportare in casa il vecchio Crevel e di fargli superare ogni risentimento. Chiunque avesse visto questo interno di famiglia avrebbe stentato a credere che il padre era ridotto alle strette, la madre disperata, il figlio preoccupato per l'avvenire del padre, e la figlia intenta a rubare un innamorato alla cugina.


XIII • IL LOUVRE

Alle sette il barone, vedendo il fratello, il figlio, la baronessa e Hortense tutti impegnati a giocare a whist, uscì per andare ad applaudire la sua amante all'Opéra, conducendo con sé la cugina Bette, che abitava in rue du Doyenné, e che adduceva a pretesto la solitudine di quel quartiere abbandonato per andarsene sempre subito dopo cena. Tutti i parigini ammetteranno che la prudenza della zitella era più che ragionevole.
L'esistenza di quell'agglomerato di case che si trovavano lungo il vecchio Louvre è una di quelle sfide che i francesi amano fare al buon senso, perché l'Europa si rassicuri sulla dose d'intelligenza che viene loro attribuita e non li tema più. Forse là abbiamo, senza saperlo, qualche grande disegno politico. Non sarà certamente superfluo descrivere questo angolo della Parigi attuale, in futuro non lo si potrebbe immaginare; e i nostri nipoti, che vedranno senza dubbio il Louvre finito, si rifiuterebbero di credere che una simile barbarie abbia potuto sussistere per trentasei anni nel cuore di Parigi, di fronte al palazzo dove tre dinastie hanno ricevuto, durante questi ultimi trentasei anni, il meglio della Francia e dell'Europa. Dal passaggio a volta che conduce al pont du Carrousel, fino alla rue du Musée, chiunque sia venuto a Parigi, sia pure per qualche giorno, ha potuto notare una decina di case, dalle facciate in rovina, alle quali i proprietari, scoraggiati, non apportano alcuna riparazione, e che sono quanto resta di un antico quartiere in demolizione dal giorno in cui Napoleone decise di terminare il Louvre. La via e il vicolo cieco del Doyenné, ecco le sole strade interne di quell'isolato tetro e deserto, i cui abitanti sono probabilmente dei fantasmi, poiché non vi si vede mai nessuno. Il lastricato, molto più basso della carreggiata della rue du Musée, si trova al livello di quello della rue Froidmanteau. Già interrate a causa della sopraelevazione della piazza, le case sono eternamente avvolte dall'ombra proiettata dalle alte gallerie del Louvre, annerite da questa parte dal vento che soffia da nord. Le tenebre, il silenzio, l'aria glaciale, la profondità cavernosa del suolo concorrono a fare di queste case delle specie di cripte, delle tombe viventi. Quando si passa in calesse lungo questo quartiere semirovinato e abbandonato e lo sguardo penetra nel vicolo del Doyenné, l'anima rabbrividisce, ci si domanda chi vi possa abitare, che cosa vi possa accadere la sera, nell'ora in cui la viuzza si trasforma in vicolo malfamato, e in cui, coperti dal manto della notte, si scatenano i vizi di Parigi. Questa sensazione, di per sé spaventosa, diventa terrificante quando si vede che quelle cosiddette case sono circondate da una palude dalla parte di rue de Richelieu, da un oceano di lastricati sconnessi dalla parte delle Tuileries, da piccoli orti, da baracche sinistre dalla parte delle gallerie, e da distese di pietre da taglio e di demolizioni dalla parte del vecchio Louvre. Enrico iii e i suoi favoriti alla ricerca delle loro brache, gli amanti di Margherita alla ricerca delle loro teste, devono danzare delle sarabande al chiaro di luna in quei deserti dominati dalla cupola di una cappella ancora in piedi a dimostrare che la religione cattolica, così tenace in Francia, sopravvive a tutto. Son quasi quarant'anni che il Louvre grida da tutte le fauci di quei muri sventrati, da quelle finestre spalancate: «Estirpate queste verruche dalla mia faccia!» Si è senza dubbio riconosciuta l'utilità di questo luogo malfamato, e la necessità di simboleggiare nel cuore di Parigi l'intima unione della miseria e del fasto che caratterizzano la regina delle capitali. Perciò quelle fredde rovine, in seno alle quali il giornale dei legittimisti ha contratto la malattia che lo conduce alla morte, le infami baracche della rue du Musée, il recinto di tavole dei bancarellisti che l'adornano avranno forse una vita più lunga e più prospera di quella di tre dinastie!
Fin dal 1823, la modicità dell'affitto in case condannate a sparire aveva indotto la cugina Bette a stabilirvi la sua dimora, malgrado fosse costretta dallo stato del quartiere a rientrare prima che facesse notte. Quella necessità si conciliava, d'altronde, con l'abitudine contadina, da lei conservata, di andare a letto e levarsi con il sole, abitudine che permette alla gente di campagna di fare notevoli economie sul riscaldamento e l'illuminazione. Ella dunque abitava in una delle case alle quali la demolizione del famoso palazzo occupato da Cambacérès ha restituito la vista della piazza.


XIV • DOVE SI VEDE CHE LE BELLE DONNE SI TROVANO SULLA STRADA DEI LIBERTINI COME I GONZI SI TROVANO DAVANTI AI FURBI

Nel momento in cui il barone Hulot lasciava la cugina di sua moglie davanti alla porta di quella casa, dicendole «Addio, cugina!» una giovane donna, piccola, snella, graziosa, vestita con grande eleganza, esalante un profumo squisito, passava fra la carrozza e il muro per entrare anch'ella nell'edificio. La signora scambiò, senza alcuna premeditazione, uno sguardo col barone, unicamente per vedere il cugino della coinquilina; ma il libertino provò quella viva impressione che provano tutti i parigini quando incontrano una bella donna che realizzi tutti i loro desiderata, come dicono gli entomologhi, e s'infilò con misurata lentezza uno dei suoi guanti prima di risalire in carrozza, per darsi un contegno e poter seguire con lo sguardo la giovane donna, il cui abito era piacevolmente modellato da ben altro che da quelle orribili e ingannevoli sottovesti a crinolina.
«Ecco,» si diceva il barone, «una graziosa donnina di cui farei volentieri la felicità, poiché ella farebbe la mia.»
Quando la sconosciuta ebbe raggiunto il pianerottolo della scala che serviva la parte dell'edificio situata sulla strada, guardò il portone con la coda dell'occhio senza girarsi completamente e vide il barone impietrito dall'ammirazione, divorato dal desiderio e dalla curiosità. È un fiore, questo, il cui profumo tutte le parigine aspirano con piacere, quando lo trovano sul loro passaggio. Certe donne attaccate ai loro doveri, virtuose e graziose, ritornano a casa di cattivo umore, quando non ne hanno raccolto il loro mazzolino durante la passeggiata.
La giovane donna salì rapidamente la scala. Subito dopo una finestra dell'appartamento del secondo piano si aprì, ed ella vi si affacciò, ma in compagnia di un signore il cui cranio pelato e lo sguardo un poco corrucciato rivelavano un marito.
«Sono davvero furbe e spiritose quelle creature!...» si disse il barone; «ecco che in tal modo mi indica il suo appartamento. È un po' troppo spinto, soprattutto in questo quartiere. Stiamo attenti.»
Il direttore salì nel milord e levò il capo: allora moglie e marito si ritirarono in fretta, come se il viso del barone avesse prodotto su di loro l'effetto mitologico della testa di Medusa.
«Si direbbe che mi conoscano,» pensò il barone. «Allora, tutto si spiegherebbe.»
In effetti, quando la carrozza ebbe risalito la carreggiata della rue de Musée, egli si sporse per rivedere la sconosciuta e la ritrovò alla finestra. Vergognandosi di essere stata sorpresa a contemplare il mantice sotto il quale stava il suo ammiratore, la giovane donna indietreggiò rapidamente.
«Saprò chi è dalla Capra,» si disse il barone.
La vista del consigliere di Stato aveva prodotto, come vedremo, una sensazione profonda sulla coppia.
«Ma è il barone Hulot, nella cui direzione si trova il mio ufficio!» esclamò il marito, scostandosi dal davanzale.
«Be', Marneffe, la zitella del terzo piano in fondo al cortile, che vive con quel giovane, è sua cugina? Buffo che lo scopriamo solo oggi, e per caso!»
«La signorina Fischer vivere con un giovane!...» replicò l'impiegato. «Sono pettegolezzi da portinaia, non parliamo così alla leggera della cugina di un consigliere di Stato che fa il bello e il cattivo tempo al ministero. Su! Vieni a mangiare. È dalle quattro che ti aspetto!»


XV • LA FAMIGLIA MARNEFFE

La bellissima signora Marneffe, figlia naturale del conte Montcornet, uno dei più famosi luogotenenti di Napoleone, era stata data in sposa, con una dote di ventimila franchi, a un impiegato subalterno del Ministero della Guerra. Grazie all'influenza dell'illustre luogotenente generale, maresciallo di Francia negli ultimi sei mesi di vita, questo scribacchino arrivista era giunto al posto insperato di primo commesso nel suo ufficio; ma, al momento di essere nominato sotto-capo, la morte del maresciallo aveva completamente troncato le speranze di Marneffe e di sua moglie.
L'esiguità del patrimonio del signor Marneffe, nelle cui mani si era già squagliata la dote della signorina Valérie Fortin, vuoi per il pagamento dei debiti dell'impiegato, vuoi per gli acquisti necessari a un giovane che mette su casa, vuoi, soprattutto, per le esigenze di una bella donna abituata in casa di sua madre a comodità cui non voleva rinunciare, aveva obbligato la famiglia a fare delle economie sull'affitto. La posizione della rue du Doyenné, poco distante dal Ministero della Guerra e dal centro parigino, piacque al signore e alla signora Marneffe, che da circa quattro anni abitavano nello stesso edificio della signorina Fischer.
Il signor Jean-Paul-Stanislas Marneffe apparteneva a quella categoria di impiegati che resistono all'abbrutimento per quella specie di potenza che dà la depravazione. Quell'ometto magro, dai capelli e dalla barba radi, dal viso smunto, pallido, più sciupato che rugoso, gli occhi dalle palpebre leggermente arrossate e bardate di occhiali, dall'aria squallida e dal portamento più squallido ancora, era esattamente il tipo che ciascuno immagina quando pensa a un uomo tradotto in tribunale per oltraggio al pudore.
L'appartamento occupato dalla coppia, prototipo di molte coppie parigine, presentava le ingannevoli apparenze di quel falso lusso che regna in molte case. Nel salotto, i mobili ricoperti di velluto di cotone scolorito, le statuette di gesso che imitavano il bronzo fiorentino, il lampadario mal cesellato, semplicemente verniciato, con le padelline di cristallo stampate; il tappeto il cui basso prezzo si spiegava con la gran quantità di cotone introdotta dal fabbricante, ormai visibile a occhio nudo; tutto, fino alle tende che avrebbero potuto dimostrarvi come lo splendore del damasco di lana non resista tre anni, tutto parlava di miseria, come un povero straccione alla porta di una chiesa.
La sala da pranzo, mal tenuta da una sola domestica, presentava l'aspetto nauseabondo delle sale da pranzo degli alberghetti di provincia: tutto vi era macchiato d'unto e malandato.
La camera del marito, abbastanza simile alla camera d'uno studente, arredata col suo letto da ragazzo, coi suoi mobili da scapolo, sporchi, consumati come lui, e rifatta una volta alla settimana; quell'orribile camera, dove tutto era in disordine, dove vecchi calzini pendevano su delle sedie scure di crine, i cui fiori riapparivano disegnati dalla polvere, rivelava bene l'uomo al quale la casa è indifferente, che vive fuori, a giocare nei caffè o altrove.
La camera della moglie faceva eccezione alla degradante incuria che disonorava il resto dell'appartamento, dove le tende erano dappertutto gialle di fumo e di polvere, dove il bambino, evidentemente abbandonato a se stesso, lasciava in giro i giocattoli dappertutto. Situata nell'ala che riuniva, solo da un lato, la casa costruita sul davanti della strada al corpo dell'edificio addossato in fondo al cortile alla proprietà vicina, la camera da letto e lo spogliatoio di Valérie, elegantemente tappezzati in tela indiana, dai mobili in legno di palissandro, dai morbidi tappeti, facevano pensare a una bella donna e, diciamolo pure, a una mantenuta. Sulla mensola del caminetto, rivestita di velluto, era collocata la pendola allora di moda. Si vedevano un piccolo Dunkerque abbastanza ben fornito di oggettini rari, delle giardiniere in porcellana cinese lussuosamente lavorate. Il letto, la toilette, l'armadio a specchio, il canapè, i piccoli soprammobili d'obbligo mostravano la ricercatezza o la fantasia alla moda.
Sebbene tutto ciò fosse di una ricchezza e di un'eleganza di terz'ordine e risalisse almeno a tre anni prima, un dandy non vi avrebbe trovato niente da ridire, se non che quel lusso era maledettamente borghese.
L'arte, la distinzione che risultano dalle cose di cui il gusto sa appropriarsi, mancava totalmente. Un dottore in scienze sociali avrebbe riconosciuto la mantenuta in qualcuna di quelle futilità di ricca bigiotteria che possono provenire solo da quel semidio, sempre assente, sempre presente in casa di una donna sposata. La cena che fecero il marito, la moglie e il figlio, quella cena ritardata di quattro ore, avrebbe rivelato appieno la crisi finanziaria in cui versava la famiglia, poiché la tavola è il termometro più sicuro dell'agiatezza della vita familiare dei parigini. Una minestra di verdura e di brodo di fagioli, un pezzo di vitello con patate, inondato di acqua rossastra a mo' di sugo, un piatto di fagioli e delle ciliegie di qualità scadente, il tutto servito e mangiato in scodelle e piatti sbocconcellati con posate di argentone pesante e brunito: era forse questo un pranzo degno di quella bella donnina? Il barone avrebbe pianto se vi fosse stato presente. Le caraffe opache non nascondevano il brutto colore del vino comprato sfuso dal vinaio dell'angolo. I tovaglioli erano usati da una settimana. Insomma, tutto tradiva una miseria senza dignità, la noncuranza della moglie e quella del marito per la famiglia. L'osservatore più comune si sarebbe detto, vedendoli, che quei due erano arrivati al momento funesto in cui la necessità di vivere induce a compiere qualunque azione, anche disonesta, che li possa salvare.
La prima frase detta da Valérie al marito spiega del resto il ritardo della cena, dovuto probabilmente alla dedizione interessata della cuoca.
«Samanon è disposto a prendere le tue cambiali, ma solo al cinquanta per cento, inoltre chiede per garanzia una delega sul tuo stipendio.»
La miseria, ancora segreta in casa del direttore del Ministero della Guerra, e che aveva per paravento uno stipendio di ventiquattromila franchi, senza contare le gratifiche, era arrivata al suo ultimo stadio in casa dell'impiegato.
«Hai intrappolato il mio direttore,» disse il marito guardando la moglie.
«Credo di sì,» rispose la moglie senza spaventarsi di quella parola presa dal gergo delle quinte.
«Che sarà di noi?» riprese Marneffe. «Il proprietario ci pignorerà domani. E tuo padre che pensa bene di morire senza fare testamento! Parola d'onore, questa gente dell'Impero si crede tutta immortale come il suo imperatore.»
«Povero papà,» disse lei, «non ha avuto che me di figli e mi voleva bene! La contessa avrà bruciato il testamento. Come avrebbe potuto dimenticarmi, lui che di tanto in tanto ci dava anche tre o quattro biglietti da mille franchi per volta?»
«Dobbiamo pagare quattro rate d'affitto, millecinquecento franchi! il nostro mobilio li vale? That is the question! ha detto Shakespeare.»
«Be' addio, mio caro,» disse Valérie, che non aveva preso che qualche boccone di vitello, del quale la domestica aveva estratto il sugo per darlo a un valoroso soldato tornato dall'Algeria. «A estremi mali estremi rimedi!»
«Valérie! dove vai?» esclamò Marneffe, sbarrando il passo alla moglie che si avviava alla porta.
«Vado a trovare il nostro padrone di casa,» rispose lei aggiustandosi i boccoli sotto il cappellino. «Tu dovresti cercare di metterti in buoni rapporti con quella zitella, se è vero che è la cugina del direttore.»


XVI • LA SOFFITTA DEGLI ARTISTI

Che gli inquilini di uno stesso stabile ignorino del tutto le loro reciproche situazioni sociali è una delle costanti che possono meglio rappresentare il ritmo della vita parigina; ma è facile capire come un impiegato che ogni giorno, di prima mattina, si reca in ufficio, rientra a casa per la cena, esce tutte le sere, e una donna dedita ai piaceri di Parigi, possano non saper nulla dell'esistenza di una zitella che abita al terzo piano in fondo al cortile della loro casa, soprattutto quando questa donna ha le abitudini della signorina Fischer.
In quell'immobile, Lisbeth era la prima a levarsi, ad andare a prendere il latte, il pane, la brace, e senza parlare con nessuno; la sera andava a letto al calar del sole e non riceveva mai lettere né visite, né frequentava i vicini. Era una di quelle esistenze anonime, entomologiche, come ce ne sono in alcune case, dove si viene a sapere dopo quattro anni che esiste un vecchio signore al quarto piano che ha conosciuto Voltaire, Pilastre de Rozier, Beaujon, Marcel, Molé, Sophie Arnould, Franklin e Robespierre. Ciò che il signore e la signora Marneffe avevano appena detto su Lisbeth Fischer, lo avevano appreso a causa dell'isolamento del quartiere e dei rapporti che la loro indigenza aveva stabilito con i portinai, la cui benevolenza era loro troppo necessaria per non essere assiduamente coltivata. Ora, la fierezza, il mutismo, il riserbo della zitella, avevano generato nei portinai quel rispetto esagerato, quei rapporti freddi che denotano l'inconfessato malcontento dell'inferiore. I portinai, del resto, si credevano nella fattispecie, come si dice al tribunale, pari a un locatario che pagava un affitto di duecentocinquanta franchi. E poiché le confidenze che la cugina Bette faceva alla cuginetta Hortense erano vere, ognuno comprenderà come la portinaia avesse potuto, in certe conversazioni intime con i Marneffe, calunniare la signorina Fischer credendo semplicemente di fare un po' di maldicenza sul suo conto.
Ricevuto il piccolo candeliere dalle mani della portinaia, la rispettabile signora Olivier, la zitella si sporse un poco per vedere se le finestre della soffitta che si trovava al di sopra del suo appartamento erano illuminate. A quell'ora, in luglio, era così buio in fondo al cortile, che la zitella non poteva andare a letto senza luce.
«Oh, state tranquilla, il signor Steinbock è in casa, non è nemmeno uscito,» disse maliziosamente la signora Olivier alla signorina Fischer. La zitella non rispose. In questo era rimasta ancora contadina; non si curava delle chiacchiere degli estranei e, come i contadini non vedono che il loro villaggio, teneva solo all'opinione del piccolo gruppo di persone in mezzo al quale viveva. Salì dunque risolutamente, non in casa sua, ma in quella soffitta. Ecco perché: al dessert si era messo nella borsa della frutta e dei dolciumi per il suo innamorato, e andava a darglieli proprio come una zitella porta un ghiotto boccone al suo cane.
Trovò, mentre lavorava alla luce di una piccola lampada il cui chiarore aumentava passando attraverso un globo pieno d'acqua, l'eroe dei sogni di Hortense, un pallido giovane biondo, seduto a una specie di banco coperto di strumenti da cesellatore, di cera, di scalpelli, di zoccoli sgrossati, di rami fusi su modelli, vestito di un camiciotto, e teneva in mano un piccolo gruppo in cera, contemplandolo con l'attenzione di un poeta al lavoro.
«Ecco, Wenceslas, guardate cosa vi porto,» disse posando il fazzoletto su un angolo del banco.
Poi, con precauzione, tirò fuori dalla borsa i dolciumi e la frutta.
«Siete molto buona con me, signorina,» disse il povero esiliato con voce triste.
«Questo vi rinfrescherà, mio povero ragazzo. Vi fate il sangue cattivo a lavorare così, non eravate nato per un mestiere tanto duro...»
Wenceslas Steinbock guardò la zitella con aria stupita.
«Mangiate dunque,» riprese lei, «invece di contemplarmi come una delle vostre figure quando vi piacciono.»
Le parole arrivarono al giovane come una scarica di ceffoni, e il suo stupore cessò: ritrovò in lei il suo Mentore-femmina, la cui tenerezza lo sorprendeva sempre, tanto aveva l'abitudine di essere strapazzato. Benché Steinbock avesse ventinove anni, sembrava, come certi biondi, avere cinque o sei anni di meno; e al vedere questa giovinezza, la cui freschezza aveva ceduto sotto le fatiche e le miserie dell'esilio, accanto a quella figura secca e dura, si sarebbe pensato che la natura si fosse sbagliata nel dar loro il sesso. Egli si alzò, andò a gettarsi su una vecchia bergère Luigi xv ricoperta di velluto d'Utrecht giallo e parve volersi riposare. La zitella prese allora una prugna regina-claudia e la offrì affettuosamente al suo amico.
«Grazie,» disse questi prendendo il frutto.
«Siete stanco?» domandò lei dandogli un altro frutto.
«Non sono stanco per il lavoro, ma stanco della vita,» rispose.
«Che idee!» riprese lei con tono aspro. «Non avete un buon genio che veglia su di voi?» gli disse porgendogli i dolciumi e guardandolo mangiare tutto con piacere. «Vedete, cenando da mia cugina ho pensato a voi...»
«Lo so,» diss'egli volgendo a Lisbeth uno sguardo insieme affettuoso e scoraggiato, «che, senza di voi, da molto tempo non vivrei più; ma, mia cara signorina, gli artisti hanno bisogno di distrazioni...»
«Ah, eccoci!...» lo interruppe lei, mettendosi le mani sui fianchi e fissandolo con occhi di fuoco. «Volete andare a perdere la salute nelle infamie di Parigi, come tanti operai che finiscono per andare a morire all'ospedale! No, no, fatevi una fortuna, e, quando avrete delle rendite, vi divertirete, ragazzo mio; avrete allora di che pagare i medici e i piaceri, libertino che non siete altro.»
Wenceslas Steinbock, ricevendo quella bordata, accompagnata da sguardi che lo penetravano di una fiamma magnetica, abbassò la testa. Se il più mordace dei maldicenti avesse solo potuto vedere l'inizio di questa scena, avrebbe riconosciuto la falsità delle calunnie lanciate dagli sposi Olivier sulla signorina Fischer. Tutto, nell'accento, nei gesti e negli sguardi di questi due esseri, rivelava la purezza della loro vita segreta. La zitella manifestava la tenerezza di una brutale, ma autentica maternità. Il giovane subiva come un figlio rispettoso la tirannia di una madre. Quell'unione bizzarra sembrava il risultato di una potente volontà che agisse incessantemente su un carattere debole, su quell'inconsistenza, tipica degli slavi, la quale, pur dotandoli di un coraggio eroico sui campi di battaglia, dà alla loro condotta un'incertezza, una mollezza morale le cui cause dovrebbero interessare i fisiologi, poiché i fisiologi stanno alla politica come gli entomologi all'agricoltura.
«E se muoio prima di essere ricco?» domandò malinconicamente Wenceslas.
«Morire?...» esclamò la zitella. «Oh! non vi lascerò affatto morire io! Ho vita per tutti e due, e vi trasfonderò il mio sangue, se fosse necessario.»
A questa esclamazione violenta e ingenua, le lacrime bagnarono le palpebre di Steinbock.
«Non rattristatevi, mio piccolo Wenceslas,» riprese Lisbeth commossa. «Sentite, mia cugina Hortense ha trovato, credo, il vostro sigillo abbastanza carino. Coraggio, vi farò certo vendere il vostro gruppo in bronzo, non avrete obblighi con me, farete ciò che vorrete, diventerete libero! Su, ridete dunque!...»
«Non potrò mai disobbligarmi con voi,» rispose il povero esiliato.
«E perché poi?...» domandò la contadina dei Vosgi prendendo le difese del livoniano contro se stessa.
«Perché voi non mi avete solo nutrito, alloggiato, curato nella miseria; ma mi avete anche dato la forza! Avete fatto di me ciò che io sono, siete stata spesso dura, mi avete fatto soffrire...»
«Io?» disse la zitella. «Ecco che ricominciate con le vostre sciocchezze sulla poesia, sulle arti e a farvi crocchiare le dita e a stirarvi le braccia parlando del bello ideale, delle vostre follie del nord. Il bello non vale ciò che è positivo e il positivo sono io! Avete delle idee nel cervello? Bell'affare! e anch'io ho delle idee... A che serve ciò che si ha nell'animo se non se ne trae alcun profitto? Quelli che hanno delle idee non combinano di più di quelli che non ne hanno ma che sanno brigare... Che cosa avete fatto da quando sono partita?...»
«Che cosa ha detto la vostra bella cugina?»
«Chi vi ha detto che è bella?» domandò Lisbeth prontamente con un tono in cui ruggiva una gelosia da tigre.
«Ma voi stessa.»
«Era per vedere la faccia che avreste fatto! Avete voglia di correre dietro le sottane? Vi piacciono le donne? Ebbene, modellatele; mettete i vostri desideri nel bronzo; poiché ne farete a meno ancora per qualche tempo di avventure; e soprattutto di mia cugina, caro amico. Non è pane per i vostri denti; per quella ragazza ci vuole un uomo da sessantamila franchi di rendita... ed è stato trovato... Ma guarda! il letto non è fatto!» disse guardando attraverso l'altra camera; «oh! povero caro! vi ho dimenticato...»
Subito la vigorosa ragazza si tolse la mantellina, il cappello, i guanti, e, come una domestica, sistemò prontamente il piccolo letto di pensionante dove dormiva l'artista. Questo miscuglio di risolutezza, di rudezza e di bontà può spiegare il potere che Lisbeth aveva acquistato su quest'uomo, che trattava come una cosa sua. La vita non avvince forse con le sue alternanze di buono e di cattivo? Se il livoniano avesse incontrato la signora Marneffe, invece di incontrare Lisbeth Fischer, avrebbe trovato nella sua protettrice una compiacenza che lo avrebbe condotto verso qualche strada infamante e disonorante dove si sarebbe perduto. Egli non avrebbe certamente lavorato, l'artista non si sarebbe rivelato. Perciò, pur deplorando la rude possessività della zitella, la ragione gli diceva di preferire questo pugno di ferro alla pigra esistenza che conducevano alcuni dei suoi compatrioti.
Ecco l'avvenimento al quale si dovette il connubio di quella energia femminile e di quella debolezza virile, una specie di controsenso assai frequente, si dice, in Polonia.


XVII • STORIA DI UN ESILIATO

Nel 1833, la signorina Fischer, che a volte lavorava di notte, quando aveva molto da fare, sentì, verso l'una del mattino, un forte odore di acido carbonico, e udì i lamenti di un uomo morente. L'odore del carbone e il rantolo provenivano da una soffitta situata al di sopra delle due stanze di cui era composto il suo appartamento; ella suppose che un giovane arrivato da poco nella casa, e alloggiato in quella soffitta sfitta da tre anni, si stesse suicidando. Salì rapidamente e con la sua forza da lorenese, spinse la porta sfondandola: dentro trovò l'inquilino che si contorceva su una branda nelle convulsioni dell'agonia. Spense il fornello. Aperta la porta, l'aria affluì nella stanza, e l'esule fu salvo; poi, quando Lisbeth l'ebbe coricato come un malato ed egli si fu addormentato, si rese conto di quelle che erano le cause del suicidio, vedendo lo squallore assoluto delle due stanze di quella soffitta, dove non esistevano che un tavolo sgangherato, la branda e due sedie.
Sulla tavola c'era questo scritto che ella lesse:

«Sono il conte Wenceslas Steinbock, nato a Prelie, in Livonia.
«Che nessuno venga accusato della mia morte; le ragioni del mio suicidio sono in queste parole di Kosciusko: Finis Poloniae!
«Il pronipote di un valoroso generale di Carlo xii non ha voluto mendicare. La mia debole costituzione mi precludeva il servizio militare, e ieri ho visto la fine dei cento talleri con i quali sono venuto da Dresda a Parigi. Lascio venticinque franchi nel cassetto di questo tavolo per pagare l'affitto che devo al padrone di casa.
«Non avendo più parenti, la mia morte non interessa a nessuno. Prego i miei compatrioti di non accusare il governo francese. Non mi sono fatto riconoscere come rifugiato politico, non ho chiesto nulla, non ho incontrato nessun esiliato, nessuno a Parigi sa che io esisto.
«Sarò morto con dei pensieri cristiani. Che Dio perdoni all'ultimo degli Steinbock!
Wenceslas»

La signorina Fischer, profondamente colpita dall'onestà di quel moribondo che voleva pagare il suo affitto, aprì il cassetto e vide in effetti cinque pezzi da cento soldi.
«Povero giovane!» esclamò. «E nessuno al mondo che si interessi di lui!»
Poi scese nel suo appartamento, prese il suo lavoro, e venne a lavorare in quella soffitta, vegliando il gentiluomo livoniano. Al suo risveglio, si può immaginare lo stupore dell'esule, quando vide una donna al suo capezzale: credette di stare ancora sognando. Mentre continuava a fare delle cordelline d'oro per un'uniforme, la zitella si era proposta di proteggere quel povero ragazzo, che aveva ammirato mentre dormiva. Quando il giovane conte fu del tutto sveglio, Lisbeth gli fece coraggio e gli rivolse delle domande per sapere come fargli guadagnare il pane.
Wenceslas, dopo aver raccontato la sua storia, aggiunse di dovere il suo posto al suo riconosciuto talento artistico; egli aveva sempre avuto vocazione per la scultura; ma il tempo necessario agli studi gli sembrava troppo lungo per un uomo senza danaro, e in quel momento si sentiva troppo debole per dedicarsi a un lavoro manuale o per cimentarsi nella grande scultura. Queste parole furono greco per Lisbeth Fischer. Ella rispose all'infelice che Parigi offriva tante risorse, che un uomo di buona volontà doveva pur viverci. Non accadeva mai che gente di coraggio perisse se aveva una certa dose di perseveranza.
«Non sono che una povera ragazza, io, una contadina, eppure sono riuscita a crearmi una vita indipendente,» aggiunse a mo' di conclusione. «Ascoltatemi. Se volete davvero lavorare seriamente, io ho qualche risparmio; vi presterò mese per mese il danaro necessario per vivere, ma per vivere in maniera frugale e non per spassarvela e darvi alle avventure galanti. A Parigi si può pranzare con venticinque soldi al giorno, e io vi preparerò la colazione, insieme alla mia, tutte le mattine. Infine arrederò la vostra camera, e pagherò tutte le spese di apprendistato che vi sembreranno necessarie. Voi mi rilascerete delle regolari ricevute in cambio del denaro che spenderò per voi; e, quando sarete ricco, mi renderete tutto. Ma, se non lavorerete, mi considererò sciolta da ogni impegno e vi abbandonerò.»
«Ah,» esclamò l'infelice, che provava ancora l'amarezza di quel primo abbraccio con la morte; «gli esiliati di tutti i paesi hanno ben ragione di tendere verso la Francia, come fanno le anime del purgatorio verso il paradiso. In quale altra nazione si trovano aiuti, cuori generosi dappertutto, perfino in una soffitta come questa! Voi sarete tutto per me, mia cara benefattrice, io sarò il vostro schiavo! Siate la mia amante,» disse egli con una di quelle espressioni dolci e affettuose così familiari ai polacchi, e che li fanno accusare abbastanza ingiustamente di servilismo.
«Oh! no, sono troppo gelosa, vi renderei infelice; ma sarò volentieri una specie di compagna,» replicò Lisbeth.
«Oh! se voi sapeste con quale ardore invocavo una creatura, fosse anche un tiranno, che si interessasse a me, quando mi dibattevo nel vuoto di Parigi!» riprese Wenceslas. «Rimpiangevo la Siberia, dove l'imperatore mi manderebbe se ritornassi!... Diventate la mia provvidenza... Io lavorerò, diventerò migliore di quanto io non sia, anche se non sono un cattivo ragazzo.»
«Farete tutto quello che vi dirò di fare?» domandò lei.
«Sì!...»
«Ebbene, vi prendo come figlio,» gli disse allegramente. «Eccomi con un ragazzo che si rialza dalla tomba. Andiamo! cominciamo subito. Scenderò a fare la spesa, vestitevi, verrete a condividere la mia colazione quando busserò al soffitto col manico della scopa.»


XVIII • AVVENTURA DI UN RAGNO CHE TROVA NELLA SUA TELA UNA BELLA MOSCA TROPPO GROSSA PER LUI

L'indomani la signorina Fischer prese informazioni sulla professione di scultore presso i fabbricanti dove portava il suo lavoro. A forza di domandare, riuscì a scoprire il laboratorio di Florent e Chanor, una ditta specializzata dove si fondevano e si cesellavano preziosi bronzi e lussuosi servizi di argenteria. Vi condusse Steinbock in qualità d'apprendista scultore, proposta che parve strana a quella gente. Infatti in quel laboratorio si eseguivano modelli dei più famosi artisti, ma non vi si insegnava a scolpire. L'insistenza e la testardaggine della zitella arrivarono a sistemare il suo protetto come decoratore. Steinbock imparò prontamente a modellare le decorazioni, e ne inventò di nuove: aveva la vocazione.
Cinque mesi dopo aver terminato il suo tirocinio di cesellatore, egli fece la conoscenza del famoso Stidmann, il principale scultore della ditta Florent. In capo a venti mesi, Wenceslas ne sapeva di più del suo maestro; ma, in trenta mesi, i risparmi accumulati dalla zitella durante sedici anni, una moneta dopo l'altra, furono interamente spesi. Duemilacinquecento franchi in oro! Una somma che ella voleva destinare a un vitalizio, e rappresentata ora da che cosa? dalla cambiale di un polacco. Perciò Lisbeth lavorava in quel momento come aveva fatto da giovane, al fine di sopperire alle spese del livoniano.
Quando si vide fra le mani un pezzo di carta, una cambiale, invece delle sue monete d'oro, perse la testa, e andò a consultare il signor Rivet, divenuto da quindici anni il consigliere, l'amico della sua prima e più abile operaia. All'udire quella storia, il signore e la signora Rivet rimproverarono Lisbeth, la trattarono da pazza, vituperarono i rifugiati i cui intrighi per ricostituire la loro nazione compromettevano la prosperità del commercio e la pace a ogni costo, e spinsero la zitella a prendere, come si dice in commercio, delle precauzioni.
«La sola garanzia che quel tipo può offrirvi, è la sua libertà,» disse allora il signor Rivet.
Il signor Achille Rivet era giudice al tribunale di commercio.
«E non è uno scherzo per gli stranieri,» continuò. «Un francese resta cinque anni in prigione, e dopo ne esce senza aver pagato i suoi debiti, è vero, perché egli non può esservi costretto se non dalla propria coscienza, che lo lascia sempre tranquillo; ma uno straniero non esce mai di prigione. Datemi la cambiale, la girerete al nome del mio contabile, lui la farà protestare, vi perseguirà tutti e due, otterrà, in presenza delle parti, una condanna al carcere per debiti, e, quando tutto sarà bene in regola, vi firmerà una controdichiarazione per scagionarvi. Agendo così voi farete i vostri interessi, e avrete un pistola sempre puntata contro il vostro polacco!»
La zitella si lasciò mettere in regola, e disse al suo protetto di non preoccuparsi di questa procedura fatta unicamente per dare delle garanzie a un usuraio che acconsentiva ad anticipare loro del denaro. Quella scappatoia era dovuta al genio inventivo del giudice del tribunale di commercio. L'ingenuo artista, cieco nella sua fiducia verso la sua benefattrice, accese la pipa con le carte bollate, perché fumava, come tutte le persone che hanno dei dispiaceri o della tensione da scaricare. Un bel giorno il signor Rivet fece vedere un fascicolo alla signorina Fischer e le disse:
«Voi tenete in pugno Wenceslas Steinbock, legato mani e piedi, e così bene, che in ventiquattr'ore potete mandarlo a Clichy per il resto dei suoi giorni.»
Il degno e onesto giudice del tribunale di commercio provò quel giorno la soddisfazione che deve procurare la certezza d'aver commesso una cattiva buona azione. A Parigi la beneficenza ha tanti modi d'essere, che questa singolare espressione risponde a una delle sue varianti. Ora che il livoniano era stretto nei lacci della procedura commerciale, si trattava di arrivare al pagamento, poiché lo stimato commerciante considerava Wenceslas Steinbock alla stregua di un truffatore. Il cuore, la probità, la poesia erano ai suoi occhi, in affari, dei sinistri. Rivet andò a trovare, nell'interesse della povera signorina Fischer, che, secondo la sua espressione, era stata abbindolata da un polacco, i ricchi fabbricanti presso i quali Steinbock aveva lavorato in passato. Stidmann, assecondato dai notevoli artisti dell'oreficeria parigina già citati, aveva portato l'arte francese alla perfezione cui è giunta attualmente e che le permette di competere con i fiorentini del Rinascimento. Egli si trovava nel laboratorio di Chanor, quando il ricamatore entrò per raccogliere delle informazioni su un certo Steinbock, un profugo polacco.
«Chi intendete per un certo Steinbock?» esclamò in tono canzonatorio Stidmann. «Sarebbe per caso un giovane livoniano che ho avuto per allievo? Sappiate, signore, che è un grande artista. Si dice che io mi credo il diavolo; ebbene, quel povero ragazzo non sa, lui, che può diventare un dio...»
«Benché parliate in modo alquanto arrogante a un uomo che ha l'onore di essere giudice al tribunale della Senna...»
«Scusate, console!...» lo interruppe Stidmann portandosi il dorso della mano alla fronte.
«Sono molto felice di ciò che mi avete detto. Così, questo giovane potrà guadagnare del denaro?»
«Certamente,» disse il vecchio Chanor, «ma bisogna che lavori; ne avrebbe già accumulato un bel po' se fosse rimasto da noi. Ma che volete! gli artisti hanno orrore della dipendenza.»
«Hanno la coscienza del loro valore e della loro dignità,» rispose Stidmann. «Non biasimo affatto Wenceslas di voler farsi strada da solo, di tentare di farsi un nome e di diventare un grande uomo; è il suo diritto! Eppure ho perso molto quando mi ha lasciato!»
«Ecco,» esclamò Rivet, «ecco le pretese dei giovani, quando escono dal guscio dell'università... Cominciate piuttosto col procurarvi dei redditi, e cercate la gloria dopo!»
«Ci si guasta la mano a raccattare gli scudi!» rispose Stidmann. «Tocca alla gloria portarci la ricchezza.»
«Che volete!» disse Chanor a Rivet, «mica si può legarli...»
«Mangerebbero la cavezza!» replicò Stidmann.
«Tutti questi signori,» disse Chanor guardando Stidmann, «hanno tanta fantasia quanto talento. Spendono enormemente, hanno delle donnine allegre, gettano il denaro dalla finestra, non trovano più il tempo di fare i loro lavori; e allora trascurano le ordinazioni e noi ci rivolgiamo a degli operai che non valgono quanto loro ma che si arricchiscono; e poi si lamentano della durezza dei tempi, mentre, se si fossero applicati, avrebbero montagne d'oro...»
«Mi fate l'effetto, vecchio papà Lumignon,» disse Stidmann, «di quell'editore di prima della Rivoluzione che diceva: ‹Ah! se potessi tenere Montesquieu, Voltaire e Rousseau, ben a corto di quattrini, nella mia soffitta e mettere i loro pantaloni in un cassettone chiuso a chiave, come mi scriverebbero dei bei libriccini con i quali mi farei una fortuna!› Se si potessero forgiare le belle opere come si forgiano i chiodi, le farebbero anche i facchini... Datemi mille franchi e tacete!...»
Il buon Rivet se ne andò via tutto contento per la povera signorina Fischer, che doveva incontrare a casa sua quella sera, perché era solita venire a cenare da lui tutti i lunedì.
«Se potete farlo lavorare come si deve,» le disse, «sarete più fortunata di quel che meriti la vostra prudenza, sarete rimborsata, interessi, spese e capitale. Questo polacco ha del talento, può guadagnarsi la vita; ma mettete sotto chiave i suoi pantaloni e le sue scarpe, impeditegli di andare alla Chaumière e nel quartiere di Notre-Dame-de-Lorette, tenetelo al guinzaglio. Senza queste precauzioni il vostro scultore se ne andrà a zonzo, e se voi sapeste quel che gli artisti intendono per andare a zonzo! Non avete idea che orrori! M'han detto poco fa che un biglietto da mille franchi non basta loro neanche una giornata.»
Quell'episodio ebbe un'influenza terribile sulla vita intima di Wenceslas e di Lisbeth. La benefattrice intinse il pane dell'esiliato nell'amara bevanda dei rimproveri, ogniqualvolta credeva compromessi i suoi risparmi e quando, molto più spesso, li credeva perduti. La madre affettuosa divenne una matrigna, sgridò quel povero ragazzo, lo tormentò, gli rimproverò di non lavorare con sollecitudine e di aver intrapreso un mestiere difficile. Non poteva credere che dei modelli in plastilina, delle statuette, degli schizzi di decorazione, degli abbozzi potessero avere qualche valore. Ma ben presto, dispiaciuta per le sue parole dure, tentava di cancellarne le tracce con cure, gentilezze e attenzioni. Dopo aver lamentato la propria condizione - l'essere soggetto a quella megera e sotto il dominio di una contadina dei Vosgi - il povero giovane era incantato da quelle moine e da quella sollecitudine materna, attenta solo all'aspetto fisico, materiale della vita. Fu come una moglie che perdona i maltrattamenti di una settimana a causa delle carezze di una riconciliazione passeggera.
La signorina Fischer ebbe così su quest'anima un potere assoluto. Il desiderio di dominio, rimasto in quel cuore di zitella allo stato di germe, si sviluppò rapidamente. Poté soddisfare il suo orgoglio e il suo bisogno d'azione: non aveva forse una creatura tutta per sé, da rimproverare, da dirigere, da lusingare, da rendere felice, senza dover temere alcuna rivalità? Il buono e il cattivo del suo carattere si esercitarono dunque in ugual misura. Se a volte martirizzava il povero artista, aveva, in compenso, delle delicatezze simili alla grazia dei fiori campestri; godeva nel vedere che non gli mancava nulla, e avrebbe dato la vita per lui; Wenceslas ne aveva la certezza. Come tutte le anime nobili, il povero ragazzo dimenticava il male, i difetti di quella donna, che, del resto, gli aveva raccontato la sua vita per farsi scusare la sua selvatichezza, e non si ricordava che delle buone azioni. Un giorno, la zitella, esasperata per il fatto che Wenceslas era andato a zonzo invece di lavorare, gli fece una scenata.
«Voi mi appartenete!» gli disse. «Se foste un galantuomo, dovreste cercare di rendermi il più presto possibile ciò che mi dovete...»
Il sangue degli Steinbock si ribellò, e il gentiluomo si fece pallido in volto.
«Dio mio!» disse lei, «presto per vivere non avremo più che i trenta soldi che guadagno, io, povera ragazza...»
E i due indigenti, irritati da quel duello a parole, si affrontarono con asprezza; allora, per la prima volta, il povero artista rimproverò alla sua benefattrice di averlo strappato alla morte, per fargli condurre una vita da forzato peggio della morte, dove per lo meno - disse - uno poteva riposare. E parlò di fuggire.
«Fuggire!...» esclamò la zitella... «Ah! il signor Rivet aveva ragione!» Ed ella dimostrò in modo irrefutabile al polacco come fosse possibile, in ventiquattr'ore, metterlo in prigione per il resto dei suoi giorni. Fu una mazzata. Steinbock piombò in una cupa malinconia e in un mutismo assoluto. L'indomani, nella notte, Lisbeth sentì dei rumori che le fecero pensare a un altro tentativo di suicidio; salì dal suo inquilino, gli diede la pratica e una quietanza in piena regola.
«Prendete, ragazzo mio, perdonatemi!» disse con gli occhi umidi. Siate felice, lasciatemi, vi tormento troppo; ma ditemi che penserete qualche volta alla povera ragazza che vi ha messo in grado di guadagnarvi la vita. Che volete! Voi siete la causa delle mie cattiverie: io posso morire, che diverreste senza di me?... Ecco la ragione dell'impazienza che ho di vedervi in condizione di produrre degli oggetti che possano vendersi. Non vi chiedo di restituirmi il mio denaro, no!... Ho paura della vostra pigrizia che voi chiamate fantasticheria, dei vostri pensieri che vi fanno sprecare tante ore, durante le quali ve ne state a guardare il cielo, mentre io vorrei che voi aveste preso l'abitudine al lavoro.»
Tutto ciò fu detto con un accento, uno sguardo, delle lacrime, un atteggiamento, che commossero il nobile artista; egli afferrò la sua benefattrice, la strinse al cuore e la baciò sulla fronte.
«Tenetevi queste carte,» rispose con affettuosa gaiezza. «Perché dovreste mettermi a Clichy? Non sono forse imprigionato qui dalla mia riconoscenza?»
Questo episodio della loro vita comune e segreta, svoltosi sei mesi prima, aveva fatto produrre a Wenceslas tre cose: il sigillo che conservava Hortense, il gruppo portato al mercante d'anticaglie, e una ammirevole pendola che lo scultore terminava proprio in quel momento. Stava infatti avvitando gli ultimi dadi del modello.
La pendola raffigurava le dodici Ore, mirabilmente rappresentate da dodici fanciulle trascinate in una danza così folle e veloce, che tre Amorini, arrampicati su un mucchio di fiori e di frutti, potevano fermare al suo passaggio solo l'Ora di mezzanotte, la cui clamide strappata restava nelle mani dell'Amorino più ardito. Il gruppo poggiava su un basamento rotondo, di uno splendido ornato, dove si agitavano animali fantastici. L'Ora era indicata dentro una bocca mostruosa aperta in uno sbadiglio. Ogni Ora presentava dei simboli felicemente ideati che ne illustravano le differenti occupazioni quotidiane. È facile ora capire quella specie d'attaccamento straordinario che la signorina Fischer aveva concepito per il suo livoniano: lo voleva felice e lo vedeva deperire e intristire nella sua soffitta. E si può ben immaginare il motivo di questa situazione terribile. La lorenese sorvegliava questo ragazzo del nord con la tenerezza di una madre, con la gelosia di una donna e lo spirito di un dragone; così faceva di tutto per rendergli impossibile ogni follia, ogni dissolutezza, lasciandolo sempre senza denaro. Avrebbe voluto tenere la sua vittima e il suo compagno per sé, temperante come egli si trovava per forza a essere, e non comprendeva la crudeltà di questo desiderio insensato, poiché si era abituata, lei, a ogni privazione. Amava abbastanza Steinbock per non sposarlo, e l'amava troppo per cederlo a un'altra donna; non sapeva rassegnarsi a fargli solo da madre, e si considerava pazza quando pensava all'altro ruolo.
Queste contraddizioni, questa feroce gelosia, questa felicità di possedere un uomo per sé sola, tutto turbava smisuratamente il cuore di questa ragazza. Realmente innamorata da quattro anni, ella accarezzava la folle speranza di fare durare quella vita assurda e senza via d'uscita; ma la sua ostinazione doveva causare la perdita di quello che ella chiamava il suo bambino. Questa lotta fra i suoi istinti e la sua ragione la rendeva ingiusta e tirannica. Si vendicava sul giovane per il fatto di non essere né giovane, né ricca, né bella; e, dopo ogni vendetta, riconoscendo in se stessa la causa dei suoi torti, arrivava a delle umiltà, a delle tenerezze infinite. Non concepiva di fare sacrificio al suo idolo se non dopo avervi impresso la sua potenza a colpi d'ascia. Era insomma la Tempesta di Shakespeare alla rovescia, con Calibano padrone d'Ariele e di Prospero.
Quanto a questo giovane infelice, dai pensieri elevati, meditativo, incline alla pigrizia, i suoi occhi, come quelli dei leoni in gabbia al Jardin des Plantes, rivelavano il deserto che la sua protettrice gli creava nell'anima. Il lavoro forzato che Lisbeth esigeva da lui non ripagava i bisogni del suo cuore. Il suo tedio diventava una malattia fisica, ed egli moriva senza poter domandare, senza sapersi procurare il denaro per una follia spesso indispensabile. In certe giornate di vitalità, in cui il sentimento della sua infelicità accresceva la sua esasperazione, egli guardava Lisbeth come un viaggiatore assetato che, attraversando una costa arida, guardi un'acqua salmastra.
Questi amari frutti dell'indigenza e di quella reclusione in Parigi erano assaporati da Lisbeth come piaceri. E presentiva con terrore che la più piccola passione poteva rapirle il suo schiavo. A volte si rimproverava di aver costretto con la sua tirannia e i suoi rimproveri questo poeta a diventare un grande scultore di piccoli oggetti, così dandogli i mezzi per fare a meno di lei.
L'indomani, queste tre esistenze, così diversamente e realmente miserevoli, quella d'una madre alla disperazione, quella della famiglia Marneffe e quella del povero esiliato, dovevano tutte essere influenzate dall'ingenua passione innocente di Hortense e dal singolare epilogo che il barone stava per trovare alla sua infelice passione per Josépha.


XIX • COME CI SI LASCIA AL TREDICESIMO ARRONDISSEMENT.

Al momento di entrare all'Opéra il consigliere di Stato fu colpito dall'aspetto un po' cupo del tempio di rue Le Peletier, dove non si vedevano né gendarmi, né luci, né addetti al servizio, né transenne per contenere la folla. Guardò il manifesto e vi notò una striscia bianca in mezzo alla quale spiccava l'annuncio:

RIPOSO PER INDISPOSIZIONE

Si precipitò subito a casa di Josépha, che abitava, come tutti gli artisti dell'Opéra, da quelle parti, in rue Chauchat.
«Cosa desiderate, signore?» chiese il portiere, con grande stupore del barone.
«Non mi riconoscete dunque più?» chiese con inquietudine.
«Al contrario, signore, è proprio perché ho l'onore di riconoscervi, che vi chiedo: dove andate?»
Il barone fu scosso da un brivido, gelido come la morte.
«Cos'è successo?» domandò.
«Se il signor barone entrasse nell'appartamento della signorina Mirah, vi troverebbe la signorina Héloïse Brisetout, il signor Bixiou, il signor Léon de Lora, il signor Lousteau, il signor de Vernisset, il signor Stidmann, e delle donne tutte profumate di ‹patchouli› che inaugurano la nuova casa...»
«E dov'è lei?...»
«La signorina Mirah?... Non so se faccio bene a dirvelo.»
Il barone lasciò scivolare due monete nella mano del portiere.
«Ebbene, ora abita in rue de la Ville-l'Evêque, in un palazzo che le ha regalato, si dice, il duca d'Herouville,» rispose a voce bassa il portiere.
Dopo aver chiesto il numero del palazzo, il barone prese un milord e arrivò davanti a una di quelle graziose case moderne a doppia porta, il cui lusso si manifesta già dal lampione a gas.
Il barone, vestito con la sua marsina di panno blu, la cravatta bianca, il gilè bianco, i pantaloni di nanchino, gli stivali di vernice, il jabot tutto inamidato, passò per un invitato ritardatario agli occhi del portiere di quel nuovo Eden. La sua prestanza, il suo modo di camminare, tutto in lui lo lasciava credere.
Al rintocco della campana sonata dal portiere, apparve nel peristilio un valletto che, nuovo come il palazzo, lasciò entrare il barone. Questi, in tono autoritario e con gesto imperioso, gli disse: «Consegna questo biglietto alla signorina Josépha...»
Il patito guardò macchinalmente la stanza dove si trovava, e si vide in un salottino, pieno di fiori rari, il cui arredamento doveva costare quattromila scudi... Il valletto tornò e pregò il signore di passare in salotto, in attesa che gli invitati si alzassero da tavola per prendere il caffè. Benché il barone avesse conosciuto il lusso dell'Impero, che certamente fu uno dei più prestigiosi e le cui creazioni, se non furono durevoli, costarono pur sempre una follia, rimase come abbagliato, sbalordito, in quel salotto le cui tre finestre davano su un giardino di sogno, uno di quei giardini costruiti in un mese con terreno riportato, con fiori trapiantati e la cui erba sembrava ottenuta con procedimenti chimici. Ammirò non solo le ricercatezze, le dorature, le sculture più costose dello stile Pompadour, le stoffe meravigliose che il primo droghiere arricchito avrebbe potuto comprarsi con fiumi d'oro, ma soprattutto ciò che solo i prìncipi hanno la facoltà di scegliere, di trovare, di pagare e di offrire: due quadri di Greuze e due di Watteau, due teste di Van Dyck, due paesaggi di Ruysdael, due del Guaspre, un Rembrandt e un Holbein, un Murillo e un Tiziano, due Teniers e due Metzu, un Van Huysum e un Abraham Mignon, insomma due centomila franchi di quadri mirabilmente incorniciati. Le cornici valevano quasi quanto le tele.
«Ah! capisci ora, caro il mio ometto?» disse Josépha.
Entrata in punta di piedi da una porta silenziosa, sui folti tappeti persiani, ella colse il suo adoratore in uno di quei momenti di stupore in cui le orecchie fischiano tanto che non si sente altro che il tocco delle campane a martello preannuncianti il disastro. Quella parola - «ometto» - detta a un personaggio così altolocato nell'amministrazione, e che esprime perfettamente l'ardire con cui quelle creature annientano gli uomini più illustri, lasciò il barone impietrito. Josépha, tutta in bianco e giallo, si era adornata con tale grazia per quella festa, che poteva ancora brillare in mezzo a quel lusso stravagante come il gioiello più raro.
«Bello, vero?» continuò. «Il duca vi ha speso tutti gli utili di una società, le cui azioni sono state vendute al rialzo. Non è uno sciocco il mio piccolo duca! Non ci sono che i gran signori di una volta capaci di cambiare il carbone in oro. Il notaio, prima del pranzo, mi ha portato, perché lo firmassi, il contratto d'acquisto, che contiene la quietanza del pagamento. Poiché quelli di là son tutti gran signori: d'Esgrignon, Rastignac, Maxime, Lenoncourt, Verneuil, Laginski, Rochefide, La Palférine, nonché i banchieri Nucingen e du Tillet con Antonia, Malaga, Carabine e la Schontz, tutti sono dispiaciuti per la tua disgrazia. Sì, vecchio mio, sei invitato, ma a condizione di bere subito l'equivalente di due bottiglie di vino d'Ungheria, di Champagne e del Capo per metterti al loro livello. Siamo, mio caro, tutti troppo presi qui perché non ci sia riposo all'Opéra; il mio direttore è ubriaco fradicio e non riesce più a mettere insieme due parole.
«Oh, Josépha...» esclamò il barone.
«Che stupido dare una spiegazione!» rispose lei sorridendo. «Ecco, tu li vali i seicentomila franchi che costano il palazzo e l'arredamento? Puoi intestarmi dei titoli che mi fruttino quei trentamila franchi di rendita che il duca mi ha dato in un sacchetto di carta bianca di confetti?... Ecco un'idea carina!»
«Quanta perversità!» disse il consigliere di Stato, che in quel momento di rabbia avrebbe barattato i diamanti di sua moglie per sostituire il duca d'Herouville per ventiquattr'ore.
«È il mio mestiere l'essere perversa!» rispose lei. «Ah, ecco come prendi la cosa! Perché non hai inventato tu un'accomandita? Mio Dio, povero il mio ‹gatto tinto›, dovresti ringraziarmi: ti lascio nel momento in cui potresti mangiarti con me l'avvenire di tua moglie, la dote di tua figlia, e... Ah! piangi. L'imperatore se ne va!... Salutiamo l'Impero!»
Assunse una posa tragica e disse:

On vous appelle Hulot! Je ne vous connais plus!

E lasciò la stanza.
La porta, socchiusa per un istante, lasciò passare, come in un lampo, un getto di luce accompagnato dal fragoroso crescendo dell'orgia, carico degli odori di un festino di prim'ordine.
La cantante tornò indietro a guardare attraverso la porta socchiusa, e, trovando Hulot piantato lì sui due piedi come una statua di bronzo, fece un passo avanti e ricomparve.
«Signore,» disse, «ho ceduto gli stracci della rue Chauchat alla piccola Héloïse Brisetout di Bixiou; se volete richiedere il vostro berretto da notte, il vostro cavastivali, la panciera e il cosmetico per i favoriti, mi sono già messa d'accordo perché vi siano restituiti.»
Quell'orribile presa in giro ebbe l'effetto di fare uscire il barone così come Loth dovette uscire da Gomorra, ma senza voltarsi indietro, come la signora.


XX • UNA PERDUTA E UNA RITROVATA

Hulot tornò a casa sua camminando infuriato, parlando tra sé, e trovò la sua famiglia che giocava tranquillamente, a due soldi la fiche, il whist che egli aveva visto iniziare. Vedendo il marito, la povera Adeline credette gli fosse capitato qualche spaventoso disastro o qualcosa di disonorevole; diede le carte a Hortense e condusse Hector in quello stesso piccolo salotto dove, cinque ore prima, Crevel le aveva predetto le più vergognose agonie della miseria.
«Che cos'hai?» disse spaventata.
«Oh! perdonami, ma lascia che ti racconti l'affronto che mi è stato fatto.» E sfogò la sua rabbia per dieci minuti.
«Ma, amico mio,» rispose eroicamente quella povera donna, «quelle creature non conoscono l'amore! quell'amore puro e devoto che tu meriti. Come potresti, tu che sei così sagace, avere la pretesa di lottare con un milionario?»
«Cara Adeline!» esclamò il barone attirando a sé la moglie e stringendola al cuore.
La baronessa aveva sparso un balsamo sulle piaghe sanguinanti del suo orgoglio ferito.
«Certo, togliete la ricchezza al duca d'Herouville, e, fra noi due, lei non esiterebbe davvero!» disse il barone.
«Amico mio,» riprese Adeline facendo un ultimo sforzo, «se hai bisogno assolutamente di amanti, perché non ti prendi, come Crevel, delle donne che non siano costose e di una classe sociale che le ha abituate a esser felici per molto tempo con poco? Ci guadagneremmo tutti. Capisco il bisogno, ma non concedo nulla alla vanità.»
«Oh! che donna buona sei, che donna eccellente!» esclamò il marito. «Io sono un vecchio pazzo, non merito di avere un angelo come te per compagna.»
«Sono semplicemente la Giuseppina del mio Napoleone,» rispose lei con una punta di malinconia.
«Giuseppina non valeva te,» disse il barone. «Vieni, vado a giocare a whist con mio fratello e i miei ragazzi; bisogna che riprenda il mio mestiere di padre di famiglia, che sposi la mia Hortense e che seppellisca il libertino...»
Questa bonomia commosse talmente la povera Adeline, che ella disse:
«Quella donna ha davvero cattivo gusto se preferisce chiunque sia al mio Hector. Ah! io non ti cederei per tutto l'oro del mondo. Come ti si può lasciare quando si ha la gioia di essere amata da te?»
Lo sguardo col quale il barone ricompensò il fanatismo della moglie la confermò nell'opinione che la dolcezza e la sottomissione erano le più potenti armi della donna. Ma in questo si ingannava. I sentimenti nobili spinti fino all'assoluto producono dei risultati simili a quelli dei vizi più grandi. Bonaparte è diventato l'imperatore per aver sparato sul popolo a due passi dal luogo in cui Luigi xvi ha perso il regno e la testa per aver permesso che fosse versato il sangue di un certo signor Sauce...
L'indomani, Hortense, che aveva messo il sigillo di Wenceslas sotto il guanciale per non separarsene durante il sonno, si alzò di buon'ora e fece pregare il padre di venire in giardino appena pronto. Verso le nove e mezzo, il padre, acconsentendo a una richiesta della figlia, le dava il braccio, e andavano insieme per il lungosenna, attraverso il Pont Royal, fino a place du Carrousel.
«Se andassimo un po' a zonzo, papà,» propose Hortense quando uscirono dalla porta ad arco per attraversare la grande piazza...
«A zonzo qui?» chiese scherzosamente il padre.
«Penseranno che andiamo al Musée, e laggiù,» disse lei mostrando le baracche addossate ai muri delle case che piombano ad angolo retto sulla rue du Doyenné, «si trovano, guarda caso, dei mercanti di anticaglie, di quadri...»
«Tua cugina abita là...»
«Lo so, ma bisogna che non ci veda...»
«E che cosa vuoi fare?» disse il barone trovandosi a circa trenta passi dalle finestre della signora Marneffe, alla quale egli pensò improvvisamente.
Hortense aveva condotto il padre davanti alla porta a vetri di una delle botteghe situate all'angolo del gruppo di case che costeggia la galleria del vecchio Louvre e che si trova di fronte all'Hôtel de Nantes. Entrò nella bottega lasciando il padre intento a guardare le finestre della graziosa piccola signora che, il giorno prima, aveva impresso la sua immagine nel cuore del vecchio damerino, come per consolarlo della ferita che egli stava per ricevere, e non poté fare a meno di mettere in pratica il consiglio di sua moglie.
«Ripieghiamo sulle piccole borghesi,» si disse ripensando alle adorabili perfezioni della signora Marneffe. «Quella donnina mi farà presto dimenticare l'avida Josépha.»
Ed ecco quello che accadde, simultaneamente, dentro e fuori la bottega.
Mentre guardava le finestre della sua nuova fiamma, il barone scorse il marito che, intento a spazzolarsi la marsina, stava evidentemente in agguato e sembrava aspettare qualcuno sulla piazza. Temendo di essere notato e poi riconosciuto, il focoso barone girò le spalle alla rue du Doyenné, ma mettendosi di tre quarti al fine di potervi dare un'occhiata di tanto in tanto. Quel movimento fece sì che si incontrasse faccia a faccia con la signora Marneffe che, venendo dal lungosenna, girava l'angolo dell'isolato per tornare a casa. Valérie provò una certa emozione incrociando lo sguardo stupito del barone, e rispose con un'occhiata piena di pudore.
«Gran bella donna!» esclamò il barone, «e per la quale si farebbero molte follie!»
«Ah! signore,» rispose lei, voltandosi come una donna che prende una risoluzione improvvisa, «voi siete il barone Hulot, non è vero?»
Il barone, sempre più stupefatto, fece un gesto affermativo.
«Ebbene, poiché il caso ha fatto incontrare due volte i nostri occhi e io ho la fortuna di aver destato la vostra curiosità o il vostro interesse, vi dirò che invece di fare delle follie dovreste provvedere a fare giustizia... La sorte di mio marito dipende da voi.»
«Che intendete dire?» chiese in tono galante il barone.
«È un impiegato della vostra direzione, al Ministero della Guerra, divisione del signor Lebrun, ufficio del signor Coquet,» rispose lei sorridendo.
«Mi sento disposto, signora... signora?»
«Signora Marneffe.»
«Mia piccola signora Marneffe, a fare delle ingiustizie per i vostri begli occhi!... Ho una cugina che abita nella vostra stessa casa; andrò a farle visita uno di questi giorni, il più presto possibile; venite a presentarmi la vostra richiesta.»
«Perdonate la mia audacia, signor barone; ma capirete come io abbia osato parlare così, sono senza protezione.»
«Ah! Ah!»
«Oh! signore, voi mi fraintendete,» diss'ella abbassando gli occhi.
Il barone credette che il sole fosse d'un tratto sparito.
«Sono in grandi ristrettezze, ma sono una donna onesta,» riprese lei. «Ho perduto, sei mesi fa, il mio solo protettore, il maresciallo Montcornet.»
«Ah, siete sua figlia?»
«Sì, signore, ma egli non mi ha mai riconosciuta.»
«Per potervi lasciare una parte dei suoi beni.»
«Non mi ha lasciato nulla, signore, poiché non si è trovato il testamento.»
«Oh! povera piccola, il maresciallo è stato colpito da un attacco apoplettico... Coraggio, signora, sperate; qualcosa è pur dovuto alla figlia di uno dei cavalieri Bayard dell'Impero.»
La signora Marneffe salutò cortesemente e fu fiera del suo successo quanto il barone lo fu del proprio.
«Da dove diavolo viene così di buon'ora?» si domandò il barone, osservando con attenzione l'ondeggiare della veste alla quale ella imprimeva una grazia forse esagerata. «Ha il viso troppo stanco per venire dal bagno, e suo marito l'aspetta. È inspiegabile, ed è una cosa che dà molto da pensare.»


XXI • IL ROMANZO DELLA RAGAZZA

Una volta rincasata la signora Marneffe, il barone volle sapere ciò che sua figlia faceva nella bottega. Entrandovi, poiché guardava sempre le finestre della signora Marneffe, per poco non urtò un giovane dalla fronte pallida, dagli occhi grigi scintillanti, vestito con un paltò leggero di merino nero, pantaloni ruvidi a righe, e scarpe con ghette di cuoio giallo, che usciva dalla bottega come se fosse stordito. Lo vide correre verso la casa della signora Marneffe, dove si affrettò a entrare. Infilandosi nella bottega, Hortense aveva immediatamente notato il famoso gruppo messo bene in vista su una tavola posta al centro nel campo visivo della porta. Senza le circostanze alle quali ne doveva la conoscenza, la fanciulla sarebbe stata verosimilmente colpita, in quel capolavoro, da ciò che possiamo chiamare il brio delle grandi opere: lei, che certamente avrebbe potuto posare, in Italia, per la statua del Brio.
Tutte le creazioni degli individui di genio non hanno allo stesso grado quel fulgore, quello splendore visibile a tutti gli occhi, anche a quelli degli ignoranti. Così, certi quadri di Raffaello, quali la celebre Trasfigurazione, la Madonna di Foligno, gli affreschi delle Stanze del Vaticano, non suscitano subito l'ammirazione come invece Il suonatore di violino della galleria Sciarra, e Ritratti dei Doni e la Visione d'Ezechiele della galleria Pitti, Il Cristo che porta la croce della galleria Borghese, lo Sposalizio della Vergine del museo di Brera a Milano. Il S. Giovanni Battista della Tribuna, il San Luca che ritrae la Vergine all'Accademia di Roma non hanno il fascino del ritratto di Leone X e della Vergine di Dresda. Nondimeno tutti hanno il medesimo valore. E c'è di più! Le Stanze, la Trasfigurazione, le pitture monocrome e i tre piccoli quadri del Vaticano rappresentano il più alto grado del sublime e della perfezione. Ma questi capolavori esigono anche dall'ammiratore più colto una sorta di tensione, uno studio accurato per essere compresi in tutte le loro parti, mentre il Violinista, lo Sposalizio della Vergine, la Visione d'Ezechiele entrano da soli nel vostro cuore attraverso la doppia porta degli occhi e vi si creano un loro posto; voi prendete piacere a riceverli così, senza alcuno sforzo; non è il culmine dell'arte, è la felicità dell'arte. Ciò dimostra che la nascita delle opere artistiche presenta le stesse casualità che si incontrano nelle famiglie in cui ci siano bambini felicemente dotati che vengono fuori belli e senza procurare dolori alle loro madri, ai quali tutto sorride, tutto riesce. Vi sono insomma i fiori del genio come vi sono i fiori dell'amore.
Quel brio, parola italiana intraducibile e che noi cominciamo a usare, è la caratteristica delle prime opere. È il frutto della vitalità e della foga intrepida del talento giovanile, vitalità che si ritrova più tardi in alcuni momenti felici; ma allora quel brio non viene più dal cuore dell'artista; e invece di proiettarlo nelle sue opere come un vulcano lancia le sue fiamme, egli lo subisce, lo deve a certe circostanze, all'amore, alla rivalità, spesso all'odio e più ancora alle esigenze di una gloria da conservare.
Il gruppo di Wenceslas stava alle sue opere a venire come lo Sposalizio della Vergine sta all'opera totale di Raffaello, il primo passo del talento fatto con una grazia inimitabile, con lo slancio dell'infanzia e la sua amabile pienezza, con la sua forza nascosta sotto le carni rosee e bianche, le cui fossette sono come l'eco del sorriso della mamma. Il principe Eugenio, si dice, ha pagato quattrocentomila franchi per quel quadro che varrebbe un milione per un paese privo di quadri di Raffaello; e nessuno darebbe la stessa somma per il più bello degli affreschi, il cui valore è tuttavia superiore dal punto di vista artistico.
Hortense contenne la sua ammirazione pensando all'ammontare dei suoi risparmi di fanciulla; assunse una certa aria indifferente e disse al mercante:
«Quanto costa questo?»
«Millecinquecento franchi,» rispose il mercante lanciando un'occhiata a un giovane seduto su uno sgabello in un angolo della bottega.
Il giovane restò attonito nel vedere il capolavoro vivente del barone Hulot. Hortense, messa così sull'avviso, riconobbe allora l'artista dal rossore che gli tinse il viso pallido di sofferenza, vide brillare in quegli occhi grigi una scintilla accesa dalla sua domanda, guardò quel volto magro e tirato come quello di un monaco macerato dall'ascesi; adorò quella bocca rosea e ben disegnata, quel piccolo mento perfetto, e i capelli castani, fini come la seta, dello slavo.
«Se fossero milleduecento franchi,» rispose, «vi direi di mandarmelo a casa.»
«È antico, signorina,» fece osservare il mercante, il quale, come tutti i suoi confratelli, credeva di aver detto tutto con quel nec plus ultra dell'anticaglia.
«Scusatemi, signore, è stato fatto quest'anno,» rispose lei a bassa voce, «e vengo espressamente per pregarvi, se ci metteremo d'accordo su questo prezzo, di mandarci anche l'artista, poiché gli si potrebbero procurare delle ordinazioni assai importanti.»
«Se i milleduecento franchi sono per lui, per me cosa resta? Io sono un commerciante,» disse bonariamente il bottegaio.
«Ah! è vero,» replicò la fanciulla, lasciandosi sfuggire un'espressione sprezzante.
«Ah! Signorina, prendetelo. Mi metterò d'accordo io col mercante,» esclamò il livoniano fuori di sé dalla gioia.
Affascinato dalla sublime bellezza d'Hortense e dall'amore per l'arte che ella manifestava, aggiunse:
«Sono io l'autore di questo gruppo; sono dieci giorni che vengo qui tre volte al giorno per vedere se qualcuno, in grado di riconoscere il valore della mia opera, sia disposto a comprarla. Voi siete la prima ammiratrice, prendetela!»
«Signore, venite fra un'ora insieme col negoziante... Ecco il biglietto da visita di mio padre,» rispose Hortense.
Poi, vedendo il mercante andare in un'altra stanza per avvolgere il gruppo in un panno, aggiunse a bassa voce, con grande stupore dell'artista, che credette di sognare:
«Nell'interesse del vostro avvenire, signor Wenceslas, non mostrate a nessuno quel biglietto, non dite il nome del vostro acquirente alla signorina Fischer, perché è nostra cugina.»
A quelle parole - «nostra cugina» - l'artista restò come abbagliato: egli intravide il paradiso vedendo una delle Eve cadute di lassù. Sognava della bella cugina di cui Lisbeth gli aveva parlato, così come Hortense sognava dell'innamorato di sua cugina: perciò quando ella era entrata, aveva pensato:
«Ah! se lei potesse essere così!»
Si può immaginare lo sguardo che i due amanti scambiarono: fu come una fiamma, perché gli innamorati virtuosi non hanno la minima ipocrisia.


XXII • LASCIATE FARE ALLE RAGAZZE

«Be'! che diavolo fai là dentro?» domandò il padre alla figlia.
«Ho speso i miei milleduecento franchi di risparmi, vieni.»
Hortense riprese il braccio del padre, che ripeté: «Milleduecento franchi!»
«Anzi, milletrecento!... Ma certo tu mi presterai la differenza.»
«E per che cosa, in quella bottega, hai potuto spendere questa somma?»
«Ah! ecco,» rispose felice la ragazza; «se ho trovato un marito, non sarà caro.»
«Un marito, figliola, in quella bottega?»
«Ascolta, papà caro, mi proibiresti di sposare un grande artista?»
«No, bambina mia. Un grande artista, oggi, è un principe che non ha titolo; è la gloria e la ricchezza, i due più grandi vantaggi della società, dopo la virtù,» aggiunse con tono sornione.
«Beninteso,» rispose Hortense. «E che pensi della scultura?»
«È una professione ingrata,» disse Hulot, scuotendo la testa. «È necessario avere grandi protezioni, oltre che grande talento, poiché il governo è il solo acquirente. È un'arte senza sbocchi, oggi che non ci sono più né persone che vivono splendidamente, né grandi ricchezze, né palazzi restaurati, né maggioraschi. Non possiamo sistemare che piccoli quadri, piccole figure; perciò le arti sono minacciate dal piccolo.»
«Ma un grande artista che trovasse degli sbocchi?...» riprese Hortense.
«È la soluzione del problema.»
«E che godesse di protezioni?»
«Ancora meglio!»
«E nobile?»
«Bah!»
«Conte?»
«E fa lo scultore!»
«È senza denaro.»
«E conta su quello della signorina Hulot?» disse scherzosamente il barone fissando uno sguardo inquisitore negli occhi di sua figlia.
«Questo grande artista, conte, e che fa lo scultore, ha visto poco fa vostra figlia per la prima volta nella sua vita, e per cinque minuti, signor barone,» rispose tranquilla Hortense a suo padre. «Vedi, caro papà, ieri, mentre tu eri alla Camera, la mamma è svenuta. Questo svenimento, che lei ha attribuito ai suoi nervi, è stato provocato da qualche dispiacere relativo al mio matrimonio mancato, poiché mi ha detto che, per sbarazzarvi di me...»
«Ti ama troppo per aver adoperato un'espressione...»
«Poco parlamentare,» rispose Hortense ridendo; «no, non si è servita di quella parola; ma io so che una ragazza da marito che non si sposa è una croce molto pesante da portare per dei genitori onesti. Ebbene, lei pensa che, se si presentasse un uomo intraprendente e di talento, per il quale fosse sufficiente una dote di trentamila franchi, saremmo tutti felici! Insomma, riteneva conveniente prepararmi alla modestia della mia sorte futura e impedirmi di abbandonarmi a dei sogni troppo belli... Il che significava la rottura del mio matrimonio, e niente dote.»
«Tua madre è una donna eccellente, buonissima, nobilissima,» rispose il padre, profondamente umiliato, benché piuttosto lieto di quella confidenza.
«Ieri, mi ha detto che voi l'autorizzavate a vendere i suoi diamanti per maritarmi; ma io vorrei che lei conservasse i suoi diamanti e vorrei trovare un marito. Credo di aver trovato l'uomo, il futuro sposo che risponda al progetto della mamma...»
«Là!... Sulla place du Carrousel!... in una mattina?»
«Oh! papà, le mal vien de plus loin,» rispose lei maliziosamente.
«Su, dunque, piccola mia, diciamo tutto al nostro buon papà,» la esortò il barone con tono affettuoso, nascondendo le proprie inquietudini.
Ottenuta la promessa del più assoluto segreto, Hortense riassunse brevemente le sue conversazioni con la cugina Bette. Poi, tornati a casa, mostrò al padre il famoso sigillo come prova della sagacia delle proprie congetture. Il padre ammirò, dentro di sé, la grande abilità istintiva della ragazza, riconoscendo la semplicità del piano che quell'amore ideale aveva suggerito, in una sola notte, all'innocente fanciulla.
«Vedrai il capolavoro che ho appena comprato! Me lo porteranno fra poco, e il caro Wenceslas accompagnerà il mercante... L'autore di un gruppo simile deve fare fortuna; ma ottienigli, con il tuo credito, la commissione di una statua, e poi una sistemazione all'Istituto...»
«Come corri!» esclamò il padre. «Ma, se vi si lasciasse fare, sareste sposati entro i termini legali, fra undici giorni...»
«Si deve aspettare undici giorni?» rispose lei ridendo. «Ma io l'ho amato in cinque minuti, come tu hai amato la mamma appena l'hai vista! ed egli mi ama, come se ci conoscessimo già da due anni. Sì,» aggiunse a un gesto del padre, «ho letto dieci volumi d'amore nei suoi occhi. E come potrebbe non essere accettato da te e dalla mamma per mio marito, quando vi verrà mostrato che è un uomo di genio? La scultura è la prima delle arti!» esclamò battendo le mani e salterellando. «Ecco, ti dirò tutto...»
«C'è dunque qualcos'altro?» domandò il padre sorridendo.
Quella innocenza spontanea e loquace aveva completamente rassicurato il barone.
«Una rivelazione di estrema importanza,» rispose lei. «L'amavo senza conoscerlo, ma ne sono pazza da quando un'ora fa l'ho conosciuto.»
«Un po' troppo pazza,» fece il barone, che lo spettacolo di quella passione ingenua rendeva felice.
«Non punirmi per la fiducia che ho avuto in te,» rispose lei. «È così bello gridare nel cuore del proprio padre: ‹Amo, sono felice di amare!›» replicò lei. «Vedrai presto il mio Wenceslas! Che fronte piena di malinconia!... degli occhi grigi dove brilla il sole del genio!... e com'è distinto! Che ne pensi? È un bel paese la Livonia?... Mia cugina Bette sposare quell'uomo, lei che potrebbe essere sua madre?... Ma sarebbe un delitto! Come sono gelosa di quanto ha dovuto fare per lui! Immagino che non vedrà con piacere il mio matrimonio.»
«Su, angelo mio, non nascondiamo niente a tua madre,» disse il barone.
«Bisognerebbe mostrarle questo sigillo, e ho promesso di non tradire mia cugina, che ha, dice lei, paura di essere presa in giro dalla mamma,» rispose Hortense.
«Hai degli scrupoli per il sigillo, e rubi alla cugina Bette il suo innamorato!»
«Ho fatto una promessa per il sigillo, ma non ho promesso nulla per l'autore.» Quell'avventura, di una semplicità patriarcale, si adattava perfettamente alla situazione segreta della famiglia. Perciò il barone, lodando la figlia per essersi confidata con lui, le disse che d'ora in poi avrebbe dovuto rimettersi alla prudenza dei genitori.
«Tu comprendi, piccola mia, che non sta a te assicurarti se l'innamorato di tua cugina è conte, se ha le carte in regola, se la sua condotta offre delle garanzie... Quanto a tua cugina, ha rifiutato cinque partiti quando aveva vent'anni di meno; non sarà un ostacolo per te; comunque, me ne incarico io.»
«Ascoltate, papà, se volete vedermi sposata, non parlate a mia cugina del nostro innamorato se non al momento di firmare il mio contratto di matrimonio... Da sei mesi le faccio domande su questo argomento!... Ebbene, c'è qualcosa d'inesplicabile in lei...»
«Cosa?» disse il padre incuriosito.
«Insomma, i suoi sguardi non sono buoni quando vado troppo a fondo, fosse anche per scherzo, a proposito del suo innamorato. Prendete pure le vostre informazioni, ma lasciatemi condurre la mia barca. La mia fiducia in voi deve rassicurarvi.»
«Il Signore ha detto: ‹Lasciate che i fanciulli vengano a me!›; tu sei uno di quelli che tornano indietro,» rispose il barone con tono lievemente scherzoso.


XXIII • UN INCONTRO

Dopo colazione, fu annunciato l'arrivo del mercante e dell'artista venuti a consegnare il gruppo. Il rossore improvviso che colorò il volto della figlia rese la baronessa prima inquieta, poi attenta, e il turbamento di Hortense, la luce nei suoi occhi le rivelarono ben presto il mistero a stento trattenuto dentro quel giovane cuore.
Il conte Steinbock, tutto vestito di nero, parve al barone un giovane assai distinto.
«Fareste una statua in bronzo?» gli domandò tenendo il gruppo.
Dopo averlo ammirato da intenditore, passò il bronzo alla moglie che non si intendeva di scultura.
«Vero, mamma, che è bellissimo?» disse Hortense all'orecchio della madre.
«Una statua!... signor barone, non è tanto difficile da fare quanto il congegnare una pendola simile a quella che vedete qui, e che il signore ha avuto la compiacenza di portarvi,» rispose l'artista alla domanda del barone.
Il mercante era occupato a disporre sulla credenza della sala da pranzo il modello in cera delle dodici ore che gli Amorini tentano di fermare.
«Lasciatemi questa pendola,» disse il barone stupefatto dalla bellezza di quell'opera, «voglio mostrarla ai ministri dell'Interno e del Commercio.»
«Chi è questo giovane che ti interessa tanto?» domandò la baronessa a sua figlia.
«Un artista abbastanza ricco da poter sfruttare questo modello potrebbe guadagnarci centomila franchi,» disse il mercante, che assunse un'aria di intesa e di mistero vedendo l'accordo degli sguardi fra la fanciulla e l'artista. «Basterebbe venderne venti esemplari a ottomila franchi, poiché ciascuno verrebbe a costare circa mille scudi per produrlo; ma, numerando ogni esemplare e distruggendo il modello, si troverebbero facilmente venti amatori, soddisfatti di essere i soli a possedere quest'opera.»
«Centomila franchi!» esclamò Steinbock guardando volta a volta il mercante, Hortense, il barone e la baronessa.
«Sì, centomila franchi!» ripeté il mercante, «e, se io fossi abbastanza ricco, ve lo comprerei io, per ventimila franchi; poiché distruggendo il modello, questa diventa una proprietà... Ma uno dei principi dovrebbe pagare questo capolavoro trenta o quarantamila franchi e metterlo per ornamento nel suo salotto. Non è stata mai fatta, nelle arti, una pendola che soddisfi nel medesimo tempo i borghesi e gli intenditori, e questa, signore, è la soluzione di tale difficoltà...»
«Ecco per voi, signore,» disse Hortense, dando sei monete d'oro al mercante, che si ritirò.
L'artista accompagnò il mercante fin sulla soglia e gli disse: «Non parlate con nessuno al mondo di questa visita. Se vi domandano dove abbiamo portato il gruppo, dite dal duca di Hérouville, il celebre collezionista che abita in rue de Varenne.»
Il mercante annuì. «Vi chiamate?» domandò il barone all'artista quando questi tornò.
«Conte Steinbock.»
«Avete dei documenti che provino chi siete?...»
«Sì, signor barone; sono in lingua russa e in lingua tedesca, ma non sono legalizzati...»
«Vi sentite capace di fare una statua di nove piedi?»
«Sì, signore.»
«Ebbene, se le persone che io andrò a interpellare saranno contente delle vostre opere, io posso ottenere per voi la commissione della statua del maresciallo Montcornet, che vogliono erigere sulla sua tomba al Père-Lachaise. Il ministro della Guerra e gli ex ufficiali della guardia imperiale danno una somma abbastanza rilevante da darci il diritto di scegliere l'artista.»
«Oh! signore, sarebbe la mia fortuna!...» disse Steinbock, stupefatto dall'occorrere in un sol tempo di tanti casi felici.
«State tranquillo,» rispose affabilmente il barone, «se i due ministri ai quali io mostrerò il vostro gruppo e questo modello rimarranno ben impressionati di queste due opere, la vostra fortuna è ben avviata...»
Hortense stringeva il braccio di suo padre da fargli male.
«Portatemi i vostri documenti, e non parlate con nessuno delle vostre speranze, nemmeno alla nostra vecchia cugina Bette.»
«Lisbeth?» esclamò la signora Hulot arrivando a capire la fine del discorso senza intuirne la parte precedente.
«Posso darvi delle prove del mio talento facendo il busto della signora...» aggiunse Wenceslas. Colpito dalla bellezza della signora Hulot, l'artista confrontava la madre e la figlia.
«Coraggio, signore, la vita può diventare bella per voi,» disse il barone, completamente conquistato dall'aspetto fine e distinto del conte Steinbock. «Saprete ben presto che, a Parigi, nessuna persona di talento resta a lungo ignorata e che ogni lavoro costante vi trova la propria ricompensa.»
Arrossendo, Hortense tese al giovane una graziosa borsa algerina che conteneva sessanta monete d'oro, e il volto dell'artista, sempre un po' orgoglioso delle sue nobili origini, si colorò di un pudico rossore assai facile da interpretare.
«Sarebbe per caso il primo denaro che ricavate dai vostri lavori?» domandò la baronessa.
«Sì, signora, dai miei lavori artistici, ma non dalle mie fatiche, poiché ho lavorato come operaio...»
«Ebbene, speriamo che il denaro di mia figlia vi porti fortuna,» rispose la signora Hulot.
«E prendetelo senza scrupoli,» aggiunse il barone vedendo Wenceslas che teneva sempre la borsa in mano senza riporla. Questa somma sarà rimborsata da qualche gran signore, da un principe forse, che certo ce la renderà a usura per possedere questa bella opera.»
«Oh! ci tengo troppo, papà, per cederla a chicchessia, fosse anche il principe ereditario!»
«Posso fare per la signorina un altro gruppo più bello di questo...»
«Ma non sarebbe questo,» rispose lei.
E, confusa per aver detto troppo, uscì in giardino.
«Allora, non appena a casa, spezzerò lo stampo e il modello!» disse Steinbock.
«Avanti, portatemi i vostri documenti e sentirete ben presto parlare di me, se risponderete a tutto ciò che mi aspetto da voi, signore.»
All'udire quella frase l'artista si sentì obbligato a uscire. Dopo aver salutato la signora Hulot e Hortense, che ritornò dal giardino espressamente per ricevere quel saluto, andò a passeggiare alle Tuileries senza potere, senza osare rientrare nella sua soffitta dove il suo tiranno l'avrebbe subissato di domande e gli avrebbe strappato il suo segreto.
L'innamorato di Hortense immaginava gruppi e statue a centinaia; sentiva di possedere una forza tale da tagliare lui stesso il marmo, come Canova, che, debole come lui, per poco non ne morì. Era trasfigurato da Hortense, che per lui incarnava l'ispirazione.
«Allora?» disse la baronessa alla figlia, «che significa questo?»
«Ebbene, cara mamma, tu hai appena visto l'innamorato della nostra cugina Bette, che, io spero, è ora il mio... Ma chiudi gli occhi, fai finta di nulla. Mio Dio! io che volevo nasconderti tutto, sto per dirti tutto...»
«Arrivederci, figliole,» esclamò il barone abbracciando la figlia e la moglie, «forse andrò a vedere la Capra, e saprò da lei molte cose su quel giovane.»
«Papà, sii prudente,» ripeté Hortense.
«Oh! bambina!» esclamò la baronessa quando Hortense ebbe finito di raccontarle il suo poema, il cui ultimo canto era l'avventura di quella mattina, «cara bambina, la più grande furberia della terra sarà sempre l'Innocenza.»
Le vere passioni hanno il loro proprio istinto. Mettete un goloso in condizione di prendere un frutto da un piatto, egli non si sbaglierà e sceglierà, anche senza vedere, il migliore. Nello stesso modo, lasciate alle ragazze ben educate la scelta assoluta dei loro mariti e, se sono in condizione di avere quelli che esse sceglieranno, si inganneranno raramente. La natura è infallibile. L'opera della natura, in questo genere, si chiama amore a prima vista. In amore, la prima vista è né più né meno la seconda vista.
La contentezza della baronessa, benché nascosta sotto la dignità materna, uguagliava quella di sua figlia; poiché delle tre maniere di maritare Hortense di cui aveva parlato Crevel una - a suo giudizio la migliore - sembrava dovesse riuscire. Ella vide in quella avventura una risposta della Provvidenza alle sue fervide preghiere.


XXIV • DOVE IL CASO, CHE SI PERMETTE SPESSO DEI VERI ROMANZI, FA ANDARE TROPPO BENE LE COSE PERCHÊ VADANO COSÌ PER LUNGO TEMPO

Il forzato della signorina Fischer, costretto a rientrare a domicilio, pensò bene di nascondere la gioia dell'innamorato sotto la gioia dell'artista, felice del suo primo successo.
«Vittoria! Il mio gruppo è stato venduto al duca d'Hérouville, che mi commissionerà dei lavori,» disse egli gettando i milleduecento franchi in oro sulla tavola della zitella.
Come si può immaginare, egli aveva nascosto la borsa di Hortense, la teneva sul cuore.
«Oh! finalmente!» rispose Lisbeth, «è una fortuna perché mi stavo ammazzando di lavoro. Vedete, ragazzo mio, che il denaro viene molto lentamente nel lavoro che avete scelto; infatti questo è il primo che ricevete, e sono quasi cinque anni che vi date da fare! E la somma basta appena a rimborsare quanto mi siete costato dopo la cambiale che mi resta invece dei miei risparmi. Ma state tranquillo,» aggiunse dopo aver contato il denaro; «sarà tutto impiegato per voi. Abbiamo di che essere al sicuro per un anno. In un anno potete liberarvi dei vostri debiti e avere una bella somma tutta per voi, se continuate sempre di questo passo.»
Vedendo il successo della sua astuzia, Wenceslas raccontò alla zitella degli aneddoti sul conto del duca d'Hérouville.
«Voglio farvi vestire alla moda, tutto in nero, e rinnovare la vostra biancheria, poiché dovete presentarvi ben vestito presso i vostri protettori,» rispose Bette.
«E poi ora vi occorrerà un appartamento più grande e più adatto di questa orribile soffitta, e ben arredato... Come siete allegro! Non siete più lo stesso,» aggiunse esaminando Wenceslas.
«Mi hanno detto che il mio gruppo era un capolavoro.»
«Bene, tanto meglio! Fatene degli altri,» replicò quell'arida ragazza, tutta positiva e incapace di comprendere la gioia del trionfo o la bellezza nelle arti. «Non occupatevi più di ciò che è venduto, fabbricate qualche altra cosa da vendere. Avete speso duecento franchi, senza contare il vostro lavoro e il vostro tempo, per quel dannato Sansone. La vostra pendola vi costerà più di duecentomila franchi per farla eseguire. Ecco, se volete darmi retta, dovreste finire quei due ragazzini che incoronano la bimba con dei fiordalisi; è una cosa che affascinerà i parigini! Passerò dal signor Graff, il sarto, prima di andare dal signor Crevel... Salite a casa vostra, e lasciatemi vestire.»
L'indomani, il barone, che aveva perso la testa per la signora Marneffe, andò a far visita alla cugina Bette, che fu assai stupita, aprendo la porta, di trovarselo davanti, poiché non era mai venuto da lei. Così disse fra sé: «Che Hortense si interessi al mio innamorato?...» poiché il giorno prima aveva appreso dal signor Crevel la rottura del matrimonio con il consigliere della corte reale.
«Come, cugino, voi qui? Venite per la prima volta a farmi visita; certamente non è per i miei begli occhi.»
«Belli! è vero,» disse il barone, «hai i più begli occhi che io abbia mai visto...»
«Perché venite? Vedete, mi vergogno di ricevervi in un simile tugurio.»
Il primo dei locali di cui era composto l'appartamento della cugina Bette le serviva nello stesso tempo da salotto, da sala da pranzo, da cucina e da laboratorio. I mobili erano quelli delle case degli operai agiati: delle sedie in noce col fondo impagliato, un tavolino in noce, un tavolo da lavoro, e incisioni a colori vivaci in cornici di legno scuro, tendine di mussola alle finestre, un grande armadio in noce, e il pavimento ben pulito e lustrato. Non vi era un granello di polvere, nella stanza, ma tutto aveva toni freddi, un vero quadro di Terburg dove non mancava nulla, nemmeno il suo colore grigio rappresentato da una carta da parati una volta bluastra e ora divenuta del colore del lino. Quanto alla camera da letto, nessuno vi era mai penetrato.
Il barone abbracciò tutto con uno sguardo, vide il segno della mediocrità in ogni cosa, dalla stufa di ghisa agli utensili domestici, e fu preso da una sorta di nausea mentre diceva a se stesso:
«Ecco dunque la virtù!» - «Perché sono venuto?» rispose ad alta voce. «Tu sei una ragazza troppo furba perché, alla fine, non lo indovini; perciò è meglio che te lo dica,» esclamò sedendosi. Guardò attraverso il cortile scostando appena la tenda di mussolina pieghettata e proseguì. «C'è in questa casa una donna molto graziosa...»
«La signora Marneffe! Ah! ecco!» disse lei, avendo compreso tutto. «E Josépha?»
«Ohimè! cugina, è finita con Josépha... Sono stato messo alla porta come un lacchè.»
«E voi vorreste?...» domandò la cugina guardando il barone con la dignità di una che vuol sembrare pudica e che si offende un quarto d'ora prima del necessario.
«Poiché la signora Marneffe è una donna molto perbene, la moglie di un impiegato che puoi vedere senza comprometterti,» riprese il barone, «vorrei che tu avessi con lei rapporti di buon vicinato. Oh! sta' tranquilla, avrà i più grandi riguardi per la cugina del signor direttore.»
In quel momento, si udì il fruscio di una gonna su per le scale, accompagnato dal rumore dei passi di una donna dagli elegantissimi stivaletti. Il rumore cessò sul pianerottolo. Dopo aver bussato per due volte alla porta, entrò la signora Marneffe.
«Perdonate, signorina, questa mia irruzione in casa vostra; ma non vi ho trovata ieri quando sono venuta a farvi visita; siamo vicine, e, se avessi saputo che voi eravate la cugina del signor consigliere di Stato, già da molto tempo vi avrei chiesto il vostro appoggio presso di lui. Ho visto entrare il signor direttore, e allora mi son permessa di venire, poiché mio marito, signor barone, mi ha parlato di una relazione sul personale che sarà sottoposta domani al ministro.»
Aveva l'aria di essere eccitata, ansante, ma aveva solo fatto la scala di corsa.
«Non avete bisogno di fare la postulante, bella signora,» rispose il barone; sono io che debbo domandarvi la grazia di vedervi.»
«Ebbene, se alla signorina non dispiace, venite!» disse la signora Marneffe.
«Andate, cugino, vi raggiungerò,» disse con discrezione la cugina Bette.
La parigina contava talmente sulla visita e sull'intelligenza del signor direttore, che non solo si era agghindata in modo appropriato a un simile incontro, ma aveva agghindato anche il suo appartamento. Fin dal mattino, vi erano stati messi dei fiori comprati a credito. Marneffe aveva aiutato la moglie a pulire i mobili, a lustrare i più piccoli oggetti, insaponando, spazzolando, spolverando tutto. Valérie voleva trovarsi in un ambiente pieno di freschezza per piacere al signor direttore, e piacergli abbastanza per avere il diritto di essere crudele, di farlo sospirare, come si fa coi bambini, adoperando le risorse della tattica moderna. Aveva valutato Hulot. Lasciate ventiquattr'ore a una parigina ridotta agli estremi e vi butterà all'aria un ministero.
Quell'uomo dell'Impero, abituato allo stile di vita dell'Impero, doveva per forza ignorare i metodi dell'amore moderno, i nuovi pudori, le diverse conversazioni inventate a partire dal 1830, e in cui «la povera debole donna» finisce per farsi considerare come la vittima dei desideri del suo amante, come una suora di carità che medichi delle ferite, come un angelo che si sacrifichi. Questa nuova Ars amandi utilizza un enorme numero di parole evangeliche per l'opera del diavolo. La passione diventa un martirio. Si aspira all'ideale, all'infinito, in ogni modo si vuol diventare migliori per mezzo dell'amore. Tutte queste belle frasi sono un pretesto per mettere ancora più ardore nella pratica, più passione nelle cadute che in passato. Questa ipocrisia, caratteristica del nostro tempo, ha incancrenito la galanteria. Si è due angeli e ci si comporta come due demoni, se si può. L'amore non aveva il tempo di analizzarsi così fra due campagne, e, nel 1809, passava rapidamente da un successo all'altro, come l'Impero. Ora, sotto la Restaurazione, il bell'Hulot, diventato di nuovo donnaiolo, aveva dapprima consolato alcune vecchie amiche allora cadute, come astri spenti, dal firmamento politico, e, in seguito, invecchiando, si era lasciato catturare dalle Jenny Cadine e dalle Josépha.
La signora Marneffe aveva puntato le sue batterie dopo aver appreso gli antecedenti del direttore, che suo marito le aveva largamente riferiti sulla base di informazioni raccolte negli uffici. Poiché la commedia del sentimento moderno poteva avere per il barone il fascino della novità, la decisione di Valérie era presa, e si può ben dire che la prova delle sue capacità che ella diede quella mattina rispose alle sue aspettative. Grazie a queste manovre sentimentali, romantiche e romanzesche, Valérie ottenne per suo marito, senza aver promesso nulla, il posto di sottocapo e la croce della Legion d'onore.
Non mancarono in questa guerriglia cene al Rocher de Cancale, serate a teatro, e numerosi regali come mantiglie, sciarpe, abiti, gioielli. L'appartamento della rue de Doyenné non era soddisfacente e il barone progettò di ammobiliarne uno splendidamente, in rue Vanneau, in una bella casa moderna.
Il signor Marneffe ottenne un congedo di quindici giorni, da prendersi entro un mese, per andare a sistemare certi affari d'interesse nel suo paese, e una gratifica. Egli si ripromise di fare un viaggetto in Svizzera per studiarvi il bel sesso.
Se il barone Hulot si occupò della sua protetta, non dimenticò però il suo protetto. Il ministro del Commercio, conte Popinot, amava le arti: diede duemila franchi per un esemplare del gruppo di Sansone, a condizione che lo stampo fosse distrutto, affinché non esistessero che il suo Sansone e quello della signorina Hulot.
Questo gruppo suscitò l'ammirazione di un principe al quale fu portato il modello della pendola, e che la commissionò; ma doveva essere un pezzo unico, ed egli offrì trentamila franchi. Gli artisti consultati, fra i quali Stidmann, dichiararono che l'autore di quelle due opere poteva fare una statua. Subito, il maresciallo principe di Wissenbourg, ministro della Guerra e presidente del comitato di sottoscrizione per il monumento al maresciallo Montcornet, fece approvare una delibera con la quale l'esecuzione della statua veniva affidata a Steinbock. Il conte di Rastignac, allora segretario di Stato, volle un'opera dell'artista la cui gloria era esaltata dal plauso dei rivali. Ottenne da Steinbock il delizioso gruppo dei due ragazzini che incoronavano una bimba, e gli promise uno studio al deposito dei marmi del governo, situato, come è noto, al Gros-Caillou. Fu il successo, ma il successo come arriva a Parigi, cioè strepitoso, un successo tale da schiacciare le persone che non hanno spalle e reni abbastanza forti, il che, fra parentesi, succede spesso. Si parlava sui giornali e sulle riviste del conte Wenceslas Steinbock, senza che né lui né la signorina Fischer ne avessero il minimo sospetto. Tutti i giorni, non appena la signorina Fischer usciva per cenare, Wenceslas andava a casa della baronessa. Vi passava una o due ore, eccettuato il giorno in cui Bette veniva dalla cugina Hulot. Questo stato di cose durò per qualche giorno. Il barone, sicuro delle qualità e dello stato civile del conte Steinbock; la baronessa, felice del suo carattere e della sua condotta morale; Hortense, fiera del suo amore approvato, della gloria del suo futuro sposo, non esitavano più a parlare di questo matrimonio; infine l'artista era al colmo della felicità, quando un'indiscrezione della signora Marneffe mise tutto in pericolo. Ecco come.


XXV • STRATEGIA DI MARNEFFE

Lisbeth, che il barone Hulot desiderava stringesse amicizia con la signora Marneffe per avere l'opportunità di tenerne d'occhio la casa, aveva già pranzato da Valérie, che, da parte sua, volendo sapere ciò che si diceva in casa Hulot, cercava di adulare in ogni modo la zitella. Valérie ebbe dunque l'idea di ricorrere all'aiuto della signorina Fischer per festeggiare l'inaugurazione del suo nuovo appartamento. La zitella, felice di trovare una casa di più dove andare a pranzo e conquistata dalla signora Marneffe, le si era affezionata. Di tutte le persone con le quali si era legata d'amicizia, nessuna si era data tanto da fare per lei. Infatti la signora Marneffe, piena di piccole premure per la signorina Fischer, si trovava, per così dire, di fronte a lei nella stessa situazione in cui si trovava la cugina Bette di fronte alla baronessa, al signor Rivet, a Crevel, insomma a tutti quelli che la invitavano a pranzo. I Marneffe avevano cercato soprattutto di suscitare la commiserazione della cugina Bette rivelandole la profonda indigenza della loro vita e tingendola, come sempre, dei più bei colori: amici aiutati e dimostratisi ingrati, malattie, una madre, la signora Fortin, alla quale Valérie aveva nascosto la sua miseria, e che era morta credendo di essere sempre vissuta nell'opulenza, grazie ai sacrifici sovrumani della figlia ecc.
«Povera gente!» diceva Lisbeth al cugino Hulot, «avete ragione da vendere a interessarvi di loro; meritano davvero il vostro aiuto, perché sono così coraggiosi, così buoni! Possono appena vivere con i mille scudi del posto di sottocapo perché hanno fatto dei debiti dopo la morte del maresciallo Montcornet! È una vera barbarie che il governo costringa un impiegato con moglie e figli a vivere a Parigi, con duemilaquattrocento franchi di stipendio.»
Una giovane donna, che le manifestava amicizia, che le confidava tutto, che la lusingava e sembrava volersi far guidare da lei, divenne dunque in poco tempo più cara all'eccentrica cugina Bette di tutti i suoi parenti.
Da parte sua, il barone, ammirando nella signora Marneffe un decoro, un'educazione, dei modi che non aveva mai trovato in Jenny Cadine, in Josépha, nelle loro amiche, era stato preso per lei, in un mese, da una passione di vecchio, una passione insensata e che pur gli sembrava ragionevole. Infatti egli non vedeva in quella passione né derisione, né dissolutezze, né spese folli, né depravazione, né disprezzo per le convenienze sociali, né quella indipendenza assoluta che, nell'attrice e nella cantante, erano state causa di tutte le sue sofferenze. E allo stesso tempo si sentiva al sicuro da quella rapacità da cortigiane, paragonabile alla sete nel deserto.
La signora Marneffe, divenuta la sua amica e la sua confidente, faceva eccessive cerimonie per accettare da lui la più piccola cosa.
«Sta bene per i posti, le gratifiche, per tutto ciò che potete ottenere per noi dal governo: ma non cominciate col disonorare la donna che voi dite di amare,» diceva Valérie, «altrimenti, non vi crederò... E mi piace credervi,» aggiungeva con un'occhiata da santa Teresa con gli occhi al cielo.
A ogni regalo, era come una fortezza da espugnare, una coscienza da violare. Il povero barone usava degli stratagemmi per offrirle qualche inezia, peraltro assai costosa, compiacendosi con se stesso per aver incontrato infine la virtù, per aver trovato una donna che realizzava i suoi sogni. In quella famiglia primitiva (diceva lui), il barone era, come a casa sua, un dio. Il signor Marneffe sembrava essere lontano mille miglia del credere che il Giove del suo ministero avesse l'intenzione di scendere in pioggia d'oro su sua moglie e faceva da servitore al suo augusto capo.
La ventitreenne signora Marneffe, borghese pura e timorata, fiore nascosto nella rue du Doyenné, certo ignorava le depravazioni e la corruzione del mondo delle cortigiane che ora tanto disgustavano il barone, poiché egli non aveva ancora conosciuto il fascino della virtù che resiste, e la timorosa Valérie glielo faceva assaporare, come dice la canzone, «lungo tutto il fiume».
Così stando le cose fra Hector e Valérie, nessuno si meraviglierà di apprendere che Valérie era venuta a sapere da Hector il segreto del prossimo matrimonio del grande artista Steinbock con Hortense. Fra un amante senza diritti e una donna che non si decide facilmente a diventare un'amante, si ingaggiano battaglie verbali e morali in cui la parola tradisce spesso il pensiero, così come, in un assalto, il fioretto prende lo slancio della spada da duello.
L'uomo più prudente imita allora il signor de Turenne. Il barone aveva dunque lasciato intravedere tutta la libertà d'azione che il matrimonio di sua figlia gli avrebbe dato, per rispondere all'amorosa Valérie, che più di una volta aveva esclamato:
«Non riesco a capire come una donna possa fare una pazzia per un uomo che non le appartenga completamente.»
Già il barone aveva giurato mille volte che, da venticinque anni, tutto era finito fra lui e la signora Hulot.
«Dicono che sia tanto bella!» rispondeva la signora Marneffe, «voglio delle prove.»
«Ne avrete,» disse il barone, felice di quel desiderio con cui la sua Valérie si comprometteva.
«E come? bisognerebbe che non mi lasciaste mai,» aveva risposto Valérie.
Hector era stato allora costretto a rivelare i suoi progetti per la casa di rue Vanneau al fine di dimostrare alla sua Valérie che intendeva dedicarle quella metà della vita che appartiene a una moglie legittima, partendo dal presupposto che il giorno e la notte dividano in due parti eguali l'esistenza della gente civile. Egli parlò di lasciare la moglie in modo decoroso, una volta che la figlia si fosse sposata. La baronessa avrebbe allora passato tutto il suo tempo da Hortense e dai giovani Hulot; era sicuro dell'obbedienza di sua moglie.
«Da quel momento, mio piccolo angelo, la mia vera vita, la mia vera famiglia sarà in rue Vanneau.»
«Dio mio, come disponete di me!...» disse la signora Marneffe. «E mio marito?...»
«Quella nullità!»
«Il fatto è che vicino a voi, è così...» rispose lei ridendo.


XXVI • TERRIBILE INDISCREZIONE

Dopo avere appreso la storia del giovane conte Steinbock, la signora Marneffe provò un ardente desiderio di vederlo; forse voleva ottenere da lui qualche piccolo gioiello finché viveva ancora sotto lo stesso tetto. Questa curiosità dispiacque tanto al barone, che Valérie giurò di non guardare mai Wenceslas. Ma dopo essersi fatta ricompensare per la rinuncia a quel capriccio con un piccolo servizio da tè completo in vecchio Sèvres, pasta tenera, conservò il suo desiderio in fondo al cuore, scritto come su un'agenda. E così, un giorno ch'ella aveva pregato sua cugina Bette di venire a prendere il caffè con lei nella sua camera, fece cadere il discorso sul suo innamorato, per sapere se avrebbe potuto vederlo senza pericolo.
«Piccina mia,» le disse, poiché fra loro si chiamavano così, piccina mia, «perché non mi avete ancora presentato il vostro innamorato?... Sapete che è diventato celebre in poco tempo?»
«Lui, celebre?»
«Ma non si parla che di lui!...»
«Ah! be'!» esclamò Lisbeth.
«Farà la statua di mio padre, e io gli sarò molto utile per la riuscita della sua opera, poiché la signora Montcornet non può, come me, prestargli una miniatura di Sain, un capolavoro fatto nel 1809, prima della campagna di Wagram, e dato alla mia povera madre, insomma un Montcornet giovane e bello...»
Sain e Augustin erano i due maggiori pittori miniaturisti sotto l'Impero.
«Dite che dovrà fare una statua?...» domandò Lisbeth.
«Di nove piedi, commissionata dal Ministero della Guerra. Ma in che mondo vivete? Devo essere io a darvi queste notizie? Il governo darà al conte Steinbock uno studio e un alloggio al Gros-Caillou, al deposito dei marmi; il vostro polacco ne diverrà forse il direttore, un posto da duemila franchi, una cuccagna...»
«Come fate a sapere tutte queste cose, quando io non so nulla?» disse infine Lisbeth uscendo dal suo stupore.
«Vediamo, mia cara cuginetta Bette,» disse graziosamente la signora Marneffe, «siete capace di un'amicizia devota, a tutta prova? Volete che siamo come due sorelle? Volete giurarmi che non avrete più segreti per me, come io non ne avrò per voi, che sarete la mia spia come io sarò la vostra?... Volete soprattutto giurarmi che non mi tradirete mai, né con mio marito, né con il signor Hulot, e che non confesserete mai che sono stata io a dirvi...»
La signora Marneffe interruppe la sua manovra da picador: la cugina Bette la spaventò. L'espressione della lorenese era divenuta terribile. I suoi occhi neri e penetranti avevano la fissità di quelli delle tigri. Il suo volto somigliava a quelli che immaginiamo abbiano le pitonesse, serrava i denti per impedire che battessero, e una spaventosa convulsione le faceva tremare le membra. Aveva infilato la mano adunca fra la cuffia e i capelli per afferrarli e sorreggere il capo divenuto troppo pesante; bruciava! Il fumo dell'incendio che la devastava sembrava passare fra le rughe del suo viso come fra altrettanti crepacci prodotti da una eruzione vulcanica. Fu uno spettacolo sublime.
«Be', perché vi fermate?» disse con voce vuota, «sarò per voi tutto ciò che sono stata per lui. Oh! gli avrei dato il mio sangue!...»
«L'amate, dunque?»
«Come se fosse mio figlio!...»
«Ebbene,» riprese la signora Marneffe respirando più liberamente, «poiché lo amate solo in questo senso, sarete molto soddisfatta perché lo volete felice, vero?»
Lisbeth rispose con un cenno rapido del capo, come quello di una pazza.
«Fra un mese sposa la vostra cuginetta.»
«Hortense?» gridò la zitella battendosi la fronte con la mano e alzandosi.
«Come! Allora l'amate quel giovanotto?» chiese la signora Marneffe.
«Piccina mia, fra noi è per la vita e per la morte,» disse la signorina Fischer. «Sì, se avete degli affetti, per me saranno sacri. E i vostri vizi diverranno per me delle virtù, poiché ne avrò bisogno, io, dei vostri vizi!»
«Vivevate dunque con lui?» esclamò Valérie.
«No, volevo essere sua madre...»
«Ah! non ci capisco più niente,» riprese Valérie; «se è così, allora, non siete né beffata, né ingannata, e dovete essere ben felice di vedergli fare un bel matrimonio; come vedete, è già lanciato. D'altronde, tutto è finito per voi. Il nostro artista va tutti i giorni dalla signora Hulot, appena voi uscite per andare a pranzo...»
«Adeline!» disse fra sé Lisbeth. «Oh! Adeline, me la pagherai, ti farò diventare più brutta di me!...»
«Ma siete pallida come una morta!» riprese Valérie. «C'è dunque qualcosa?... Oh! come sono stupida! la madre e la figlia debbono temere che ostacoliate in qualche modo questo amore, visto che agiscono di nascosto da voi,» esclamò la signora Marneffe, «ma, se non vivevate col giovanotto, tutto ciò, mia cara, è per me più oscuro del cuore di mio marito...»
«Oh, ma voi non sapete,» riprese Lisbeth, «non sapete cos'è questo intrigo! è l'ultimo colpo che uccide! Ne ha ricevute di ferite la mia anima! Voi ignorate che sin dall'età in cui si comincia a capire, sono stata immolata ad Adeline! A me davano botte, a lei facevano carezze! Io andavo vestita come una serva e lei come una signora. Io vangavo il giardino, sbucciavo le verdure, e lei - lei muoveva le sue dieci dita solo per accomodarsi i vestiti!... Ha sposato il barone, è venuta a brillare alla corte dell'imperatore, ed io sono rimasta fino al 1809 nel mio villaggio, aspettando un partito decente per quattro anni; mi hanno portato via di là, ma solo per fare di me un'operaia e per propormi degli impiegati, dei capitani che somigliavano a dei portinai!... Durante ventisei anni ho avuto tutti i loro avanzi... Ed ecco che, come nell'Antico Testamento, il povero possiede un agnello che è la sua unica gioia e il ricco che ha delle greggi invidia l'agnello del povero e glielo ruba... senza avvertirlo, senza domandarglielo. Adeline mi ruba la mia felicità! Adeline... Adeline, io ti vedrò nel fango e più in basso di me!... Hortense, alla quale volevo bene, mi ha ingannata... Il barone... No, non è possibile. Vediamo, ditemi nuovamente le cose che in questa storia possono essere vere.»
«Calmatevi, piccina mia...»
«Valérie, mio caro angelo, ora mi calmo,» disse quella strana giovane sedendosi. «Una cosa sola può rendermi la ragione: datemi una prova!...»
«Ma vostra cugina Hortense possiede il gruppo di Sansone, di cui ecco la litografia pubblicata da una rivista; l'ha pagata con i suoi risparmi, ed è il barone che, nell'interesse del suo futuro genero, lo lancia e ottiene tutto.»
«Acqua!... acqua!...» domandò Lisbeth dopo aver dato un'occhiata alla litografia, sotto la quale lesse: Gruppo appartenente alla signorina Hulot d'Ervy.
«Acqua! mi brucia la testa, divento pazza!...»
La signora Marneffe portò dell'acqua; la zitella si levò la cuffia, si sciolse i capelli neri e mise la testa nella catinella retta dalla sua nuova amica; vi tuffò la fronte a più riprese e placò il calore che l'avvampava. Dopo quell'immersione riacquistò il pieno dominio di sé.
«Non una parola,» disse alla signora Marneffe asciugandosi, «non una parola di tutto questo... Vedete!... Sono tranquilla, e tutto è dimenticato; penso ormai a ben altra cosa!»
«Domani sarà a Charenton, questo è certo,» si disse la signora Marneffe guardando la lorenese.
«Che fare?» riprese Lisbeth. «Vedete, mio piccolo angelo, bisogna tacere, piegare la testa, e andare alla tomba come l'acqua va diritta al fiume. Che potrei tentare? Vorrei ridurre tutta quella gente, Adeline, sua figlia, il barone, in polvere! Ma cosa può fare una parente povera contro tutta una famiglia ricca?... Sarebbe la storia del vaso di coccio contro il vaso di ferro.»
«Sì, avete ragione,» rispose Valérie; «bisogna solo pensare a rastrellare quanto più fieno possibile. Ecco la vita a Parigi.»
«E,» disse Lisbeth, «morrò presto, credetemi, se perdo quel ragazzo, al quale pensavo di poter far sempre da madre, col quale contavo di vivere per tutta la vita...»
Si fermò, le lagrime agli occhi. Tale sensibilità in quella donna di zolfo e di fuoco fece rabbrividire la signora Marneffe.
«Ebbene, ho trovato voi,» disse Lisbeth prendendo la mano di Valérie; «è una consolazione in questa grande disgrazia... Ci ameremo molto; e perché dovremmo lasciarci? Non sarò mai la vostra rivale. Me, nessuno mi amerà mai!... tutti quelli che mi volevano, mi sposavano a causa della protezione di mio cugino... Avere tanta energia da dare la scalata al paradiso, e adoperarla per procurarsi pane, acqua, degli stracci e una soffitta! Ah! questo, mia cara, è un martirio. Mi ci sono inaridita.»
Si interruppe bruscamente e gettò negli occhi azzurri della signora Marneffe uno sguardo terribile che trapassò l'animo di quella graziosa donna, come se la lama di un pugnale le avesse trapassato il cuore.
«E perché parlare?» esclamò rivolgendo un rimprovero a se stessa. «Ah! Non ho mai detto tanto su questo argomento. Chi la fa l'aspetti!» aggiunse dopo una pausa, usando un'espressione del linguaggio infantile. «Come dite voi saggiamente: affiliamo i denti e rastrelliamo quanto più fieno è possibile.»
«Avete ragione,» disse la signora Marneffe, che quella crisi aveva non poco spaventata e che non si ricordava più di aver pronunciato quella massima. «Credo che siate nel vero, mia cara. Ecco, la vita non è poi così lunga, bisogna cavarne quanto più possiamo, e servirci degli altri per il nostro piacere!... Sono arrivata a questa conclusione io, così giovane! Sono stata allevata come una bambina viziata, mio padre si è sposato per ambizione e mi ha quasi dimenticata, dopo aver fatto di me il suo idolo, dopo avermi allevata come la figlia di una regina! La mia povera mamma, che mi cullava nei più bei sogni, è morta di dolore vedendomi sposare un impiegatuccio a milleduecento franchi, vecchio e freddo libertino a trentanove anni, corrotto come una galera, e che non vedeva in me se non quello che gli uomini vedevano in voi, una cosa da sfruttare. Ebbene, ho finito per trovare che quest'uomo infame è il migliore dei mariti. Preferendo a me le sporche baldracche del marciapiede, mi lascia libera. Si tiene per sé tutto il suo stipendio, né mi chiede mai conto della provenienza delle mie entrate.»
A sua volta si fermò, come una donna che si senta trascinata dal torrente delle confidenze e, colpita dall'attenzione che le prestava Lisbeth, giudicò necessario assicurarsi di lei prima di confidarle i suoi ultimi segreti.
«Vedete, mia cara, qual è la mia fiducia in voi!...» riprese la signora Marneffe. Lisbeth annuì convinta.
Si giura spesso con gli occhi e con un cenno del capo più solennemente che alla Corte d'Assise.


XXVII • CONFIDENZE SUPREME

«Ho tutte le apparenze della rispettabilità,» riprese la signora Marneffe posando la sua mano sulla mano di Lisbeth come per ottenerne la fiducia, «sono una donna sposata e posso disporre di me stessa, a tal punto che la mattina, quando Marneffe esce per andare al ministero e gli salta in testa di salutarmi, se trova la porta della mia camera chiusa, se ne va via tutto tranquillo. Ama il suo bambino meno di quanto io ami uno dei putti di marmo che giocano ai piedi di uno dei due ‹Fiumi› alle Tuileries. Se non rincaso per cena, lui cena benissimo con la cameriera ed è felice, perché la cameriera è tutta per lui, e, tutte le sere, dopo cena, esce per non rientrare che a mezzanotte o all'una. Sfortunatamente, da un anno non ho cameriera, e questo vuol dire che, da un anno, sono vedova... Non ho avuto che un grande amore, una sola gioia... era un ricco brasiliano partito da un anno, la mia unica colpa! È andato a vendere i suoi beni, a liquidare tutto... per potersi stabilire in Francia. Che troverà dalla sua Valérie? un letamaio. Bah! sarà colpa sua e non mia; perché tarda tanto a tornare? Forse anch'egli ha fatto naufragio, come la mia virtù.»
«Addio, mia cara,» disse bruscamente Lisbeth, «noi non ci lasceremo mai più. Vi amo, vi stimo, sono vostra! Mio cugino mi tormenta perché vada ad abitare nella vostra futura casa, in rue Vanneau; io non volevo, perché avevo intuito la ragione di questo suo nuovo atto di bontà...»
«Già, mi avreste sorvegliata, lo so bene,» disse la signora Marneffe.
«È proprio questa la ragione della sua generosità,» replicò Lisbeth. «A Parigi la maggior parte delle buone azioni sono speculazioni, come la metà delle ingratitudini sono vendette!... Con una parente povera ci si comporta come con i topi ai quali si fa vedere un pezzo di lardo. Accetterò l'offerta del barone, perché questa casa mi è diventata odiosa. Ma sì! siamo abbastanza intelligenti, noi due, per tacere quello che ci potrebbe nuocere e dire ciò che deve essere detto; così, niente indiscrezioni e una amicizia...»
«A tutta prova!...» esclamò allegramente la signora Marneffe, felice di avere una che faceva il suo gioco, una confidente, una specie di onesta zia. «Sentite! il barone fa le cose per bene, in rue Vanneau...»
«Direi!» rispose Lisbeth, «ha già speso trentamila franchi! Non so proprio dove li abbia presi, perché Josépha, la cantante, l'aveva completamente dissanguato. Oh! siete capitata bene,» aggiunse. «Il barone non esiterebbe a rubare per una che tiene il suo cuore fra due piccole mani bianche e delicate come le vostre.»
«Ebbene, mia cara,» riprese la signora Marneffe, con quella generosità che nelle sgualdrine è sinonimo di indifferenza, «prendete da questa casa tutto ciò che potrà servirvi per il vostro nuovo alloggio... questo cassettone, questo armadio a specchio, questo tappeto, la tappezzeria...»
Lisbeth rimase con gli occhi sgranati, presa da una gioia folle; non osava credere a un simile regalo.
«Fate più per me in un momento di quanto i miei parenti ricchi non abbiano fatto in trent'anni...» esclamò. «Loro non si sono mai domandati se avevo dei mobili! Alla sua prima visita, qualche settimana fa, il barone ha fatto una smorfia da ricco di fronte alla mia miseria... Ebbene, grazie, mia cara, vi contraccambierò, vedrete più tardi come!»
Valérie accompagnò sua cugina Bette fin sul pianerottolo, dove le due donne si baciarono.
«Come puzza di fòrmica!...» disse fra sé la graziosa donnina quando fu sola, «non l'abbraccerò spesso ‹mia cugina›! Intanto, stiamo in guardia, bisogna trattarla bene; mi sarà molto utile, mi farà fare fortuna.»
Da vera creola di Parigi, la signora Marneffe aborriva ogni fatica, aveva l'indolenza delle gatte, che non corrono e non si slanciano se non sono spinte dalla necessità. Per lei la vita doveva essere solo piacere, e il piacere doveva essere senza difficoltà. Amava i fiori, purché glieli mandassero a casa. Non concepiva una serata a teatro senza un buon palco tutto per sé, e una carrozza per recarvisi. Quei gusti da cortigiana, Valérie li aveva presi da sua madre, che il generale Montcornet aveva colmato di doni durante i suoi soggiorni a Parigi, e che per vent'anni aveva visto tutti ai suoi piedi; che, prodiga per natura, aveva dissipato tutto, mangiato tutto in quella vita lussuosa, i cui riti sono andati perduti dopo la caduta di Napoleone. I grandi dell'Impero hanno eguagliato, nelle loro follie, i grandi signori di una volta. Sotto la Restaurazione, la nobiltà si è sempre ricordata di essere stata battuta e derubata; e così, a parte due o tre eccezioni, è diventata economa, saggia, previdente, insomma borghese e senza smanie di grandezza. Dopo, il 1830 ha compiuto l'opera del 1793. In Francia, ormai, ci saranno grandi nomi, ma non più grandi casate, salvo cambiamenti politici, difficili da prevedere. Tutto porta impresso il sigillo dell'individualità. Il capitale dei più avveduti è vitalizio. È stata distrutta la famiglia.
La possente stretta della miseria che tormentava Valérie il giorno in cui, secondo l'espressione di Marneffe, aveva «intrappolato» Hulot, aveva indotto la giovane donna a sfruttare la sua bellezza per diventare ricca.
Perciò, da qualche giorno, provava il bisogno di avere vicino, come fosse sua madre, un'amica devota alla quale confidare ciò che si deve nascondere a una cameriera, e che può agire, andare, venire, pensare per noi, un'anima dannata insomma, che acconsenta a una disuguale ripartizione della vita. Ora, lei aveva intuito, proprio come Lisbeth, con quali intenzioni il barone voleva legarla alla cugina Bette. Consigliata dalla temibile intelligenza della creola parigina che passa le sue ore distesa su un divano a scandagliare con la sua mente tutti gli angoli oscuri delle anime, dei sentimenti e degli intrighi, ella aveva escogitato di fare della spia la sua complice. Probabilmente questa terribile indiscrezione era stata premeditata; aveva colto il vero carattere di quella zitella piena di ardore e di passione insoddisfatta e voleva legarla a sé.
Perciò quella conversazione rassomigliava alla pietra che il viaggiatore getta in un baratro per avere la dimostrazione fisica della profondità. E la signora Marneffe aveva avuto paura trovando riuniti uno Iago e un Riccardo III in quella zitella in apparenza così debole, così umile e così poco temibile.


XXVIII • TRASFORMAZIONE DI BETTE

In un istante la cugina Bette era diventata nuovamente se stessa; in un istante quel suo carattere di corsa e di selvaggia aveva spezzato i fragili legami che la trattenevano, aveva riacquistato la sua minacciosa superbia, come un albero che sfugge dalle mani del ragazzo che l'ha piegato fino a lui per rubarne i frutti acerbi.
Per chiunque osservi la società, sarà sempre oggetto di ammirazione la pienezza, la perfezione e la rapidità di concezione delle nature vergini.
La verginità, come tutte le cose abnormi, ha delle risorse straordinarie, delle grandiosità coinvolgenti. La vita, le cui forze sono state economizzate, ha preso nell'individuo vergine qualità di resistenza e di durata incalcolabili. Il cervello si è arricchito nell'insieme delle sue facoltà risparmiate. Quando le persone caste hanno bisogno del loro corpo o della loro anima, e ricorrono all'azione o al pensiero, allora trovano dell'acciaio nei loro muscoli o della scienza infusa nei loro intelletti, una forza diabolica o la magia nera della volontà.
Sotto questo aspetto, la vergine Maria, considerandola per un momento come un puro simbolo, cancella con la sua grandezza tutti gli altri tipi di divinità: indù, egiziani e greci. La Verginità, madre di tutto ciò che è grande, magna parens rerum, tiene nelle sue belle mani bianche la chiave dei mondi superiori. Insomma, quella grandiosa e terribile eccezione merita tutti gli onori che le attribuisce la chiesa cattolica.
In un attimo, dunque, la cugina Bette divenne il moicano le cui trappole sono inesorabili, le cui trame sono impenetrabili, la cui rapida decisione è basata sulla perfezione incredibile dei sensi. Essa fu l'odio e la vendetta, senza transizione, come lo sono in Italia, in Spagna, in Oriente. Questi due sentimenti, che sono intensificati dall'amicizia, dall'amore spinti all'assoluto, non sono conosciuti che nei paesi inondati dal sole. Ma Lisbeth fu soprattutto figlia della Lorena, cioè risoluta a ingannare.
Non che assumesse volentieri quest'ultima parte del suo ruolo; anzi, compì un singolare tentativo, dovuto alla sua profonda ignoranza. Immaginò che la prigione fosse ciò che tutti i bambini immaginano: confuse la segregazione con la carcerazione. La segregazione è il superlativo della detenzione, e tale superlativo è il privilegio della giustizia criminale.
Uscendo dalla casa della signora Marneffe, Lisbeth corse dal signor Rivet e lo trovò nel suo ufficio.
«Ebbene, mio buon signor Rivet,» gli disse dopo aver messo il paletto alla porta dell'ufficio, «avevate ragione, i polacchi!... sono delle canaglie... tutta gente senza né legge né fede.»
«Gente che vuol mettere l'Europa in fiamme,» disse il pacifico Rivet, «rovinare tutti i commerci e i commercianti per una patria che, si dice, è tutto un pantano, piena di orribili ebrei, senza contare i cosacchi e i contadini, specie di bestie feroci classificate a torto nel genere umano. Questi polacchi ignorano i tempi in cui viviamo. Non siamo più dei barbari! La guerra è ormai lontana, mia cara signorina, se n'è andata con i re. Il nostro tempo è il trionfo del commercio, dell'industria e della saggezza borghese che hanno creato l'Olanda. Sì,» continuò animandosi, «siamo in un'epoca in cui i popoli devono ottenere tutto con lo sviluppo legale delle loro libertà e col gioco pacifico delle istituzioni costituzionali; ecco ciò che i polacchi ignorano, e spero... Dicevate, mia cara?» aggiunse interrompendosi e vedendo, dall'espressione della sua lavorante, che l'alta politica era fuori della sua comprensione.
«Ecco l'incartamento,» replicò Bette; «se non voglio perdere i miei tremiladuecentodieci franchi, bisogna mettere questo scellerato in prigione...»
«Ah! ve l'avevo ben detto!» esclamò l'oracolo del quartiere di Saint-Denis.
La ditta Rivet, succeduta ai fratelli Pons, era sempre rimasta in rue des Mauvaises-Paroles, nell'antico palazzo Langeais, costruito da quell'illustre casata al tempo in cui i grandi signori si raggruppavano intorno al Louvre.
«Perciò, vi ho mandato delle benedizioni mentre venivo qui!...» rispose Lisbeth.
«Se si fa in modo che non abbia sospetti sarà dentro fin dalle quattro del mattino,» disse il giudice consultando il suo almanacco per verificare il sorgere del sole; «ma soltanto dopodomani, perché non si può imprigionarlo senza averlo avvertito, con una denuncia per insolvenza di debiti, che lo si vuole arrestare. Così...»
«Che stupida legge,» disse la cugina Bette, «così il debitore può scappare.»
«Ne ha tutto il diritto,» replicò il giudice sorridendo. «Sentite un po' come...»
«Quanto a ciò, prenderò il documento,» disse la Bette interrompendo il console, «e glielo rimetterò dicendogli che sono stata obbligata a tirar fuori del denaro e che il mio prestatore ha voluto questa formalità. Conosco il mio polacco, non aprirà neppure il documento, ci accenderà la pipa!»
«Ah, mica male! mica male, signorina Fischer! Ebbene, state tranquilla, l'affare sarà sistemato. Ma, un momento! Non è tutto imprigionare un uomo. Non ci si concede questo lusso giudiziario che per ottenere il denaro. Da chi sarete pagata?»
«Da quelli che lo danno a lui.»
«Già, dimenticavo che il Ministero della Guerra l'ha incaricato di fare un monumento a uno dei nostri clienti. Ah, la nostra ditta ha fornito molte uniformi al generale Montcornet, e lui le anneriva subito al fumo dei cannoni. Gran soldato, quello! E pagava alla consegna.»
Un maresciallo di Francia può anche aver salvato l'imperatore o il paese, ma il più bell'elogio che potrà ricevere dalla bocca di un commerciante sarà sempre «pagava alla consegna».
«Ebbene, a sabato, signor Rivet; avrete i vostri galloni. A proposito, lascio la rue du Doyenné, e vado ad abitare in rue Vanneau.»
«Fate bene, mi faceva pena vedervi in quel buco che, malgrado la mia ripugnanza per tutto ciò che sa di opposizione, disonora, oso dirlo, sì! disonora il Louvre e la place du Carrousel. Adoro Luigi Filippo, è il mio idolo, il simbolo più alto, perfetto della classe sulla quale ha fondato il suo regno, e non dimenticherò mai cosa ha fatto per la passamaneria istituendo nuovamente la guardia nazionale...»
«Quando vi sento parlare così,» disse Lisbeth, «mi domando perché non siate deputato.»
«Temono il mio attaccamento al trono,» rispose Rivet, «i miei nemici politici sono gli stessi del re. Ah! è un carattere nobile, una bella famiglia; insomma,» riprese continuando le sue argomentazioni, «è il nostro ideale: dei costumi, dell'economia, di tutto! Ma il completamento del Louvre era una delle condizioni alle quali gli abbiamo dato la corona, e l'appannaggio, per il quale non è stato fissato un limite, ne convengo, ci lascia il cuore di Parigi in una condizione desolante... È perché sono juste milieu che vorrei vedere il centro di Parigi in un'altra condizione. Il vostro quartiere fa rabbrividire. Vi ci avrebbero assassinata un giorno o l'altro... Ebbene, ecco il vostro signor Crevel nominato comandante di battaglione della sua legione; spero che saremo noi a fornirgli le sue grosse spalline.»
«Pranzo da lui oggi, ve lo manderò.»
Lisbeth credette di avere tutto per sé il suo livoniano, immaginandosi di tagliare tutte le comunicazioni fra lui e il mondo. Non lavorando più, l'artista sarebbe stato dimenticato come un uomo sepolto in una cripta, dove solo lei avrebbe avuto la possibilità di andare a vederlo. Ebbe così due giorni di felicità, poiché sperava di inferire dei colpi mortali alla baronessa e alla figlia. Per recarsi dal signor Crevel, che abitava in rue Saussayes, prese per il pont du Carrousel, il quai Voltaire, il quai d'Orsay, la rue Bellechasse, la rue de l'Université, il pont de la Concorde e l'avenue de Marigny. Questo itinerario illogico era dettato dalla logica delle passioni, sempre estremamente nemica delle gambe.
La cugina Bette, finché fu sul lungosenna, guardò la riva destra del fiume procedendo con grande lentezza. Il suo calcolo era giusto. Aveva lasciato Wenceslas mentre si vestiva e pensava che non appena si fosse liberato di lei, l'innamorato sarebbe andato dalla baronessa per la via più breve. Infatti, nel momento in cui lei costeggiava il parapetto del quai Voltaire, divorando con gli occhi la distanza fra le due rive del fiume, e camminando con l'immaginazione sull'altra riva, riconobbe l'artista non appena egli sbucò dalla porta delle Tuileries, dirigendosi verso il pont Royal. Raggiunse là il suo infedele e poté seguirlo senza essere vista, perché raramente gli innamorati si voltano indietro a guardare; l'accompagnò fino alla casa della signora Hulot, dove lo vide entrare come un visitatore che sia solito recarvisi.
Quest'ultima prova, che confermava le confidenze della signora Marneffe, mise Lisbeth fuori di sé.
Arrivò a casa del neo-eletto comandante di battaglione in quello stato di eccitazione mentale che fa commettere gli assassinî, e trovò papà Crevel che attendeva i suoi ragazzi, il signore e la signora Hulot figli, nel suo salotto.
Ma Célestin Crevel è il rappresentante così ingenuo e così autentico del parvenu parigino, che è difficile entrare senza cerimonie in casa di quel felice successore di César Birotteau.
Célestin Crevel rappresenta da solo tutto un mondo; perciò egli merita più di Rivet gli onori della tavolozza, causa la sua importanza in questo dramma familiare.


XXIX • DELLA VITA E DELLE OPINIONI DEL SIGNOR CREVEL

Avete notato come, nell'infanzia, o all'inizio della vita sociale, ci creiamo spesso, a nostra insaputa, un modello con le nostre stesse mani? Così il commesso di una banca sogna, entrando nel salotto del principale, di possedere un salotto uguale. Se farà fortuna, non sarà, venti anni dopo, il lusso allora alla moda che egli introdurrà a casa sua, ma il lusso di quel tempo passato che lo aveva affascinato. Non si conoscono tutte le sciocchezze dovute a questa gelosia retrospettiva, così come si ignorano tutte le follie dovute a quelle lotte segrete che spingono gli uomini a imitare il tipo ideale che si sono dati, a consumare le loro energie per arrivare a essere l'immagine riflessa di quell'ideale. Crevel fu assessore perché il suo principale era stato assessore, era comandante di battaglione perché aveva invidiato le spalline di César Birotteau. Perciò, colpito dalle meraviglie realizzate dall'architetto Grindot, nel momento in cui la fortuna era stata maggiormente favorevole al suo principale, Crevel, per usare le sue stesse parole, «non aveva messo tempo in mezzo» quando si era trattato di arredare il suo appartamento: si era rivolto, occhi chiusi e borsa aperta, a Grindot, architetto allora del tutto dimenticato. Non si sa quanto tempo possano durare le glorie estinte, sostenute dalle ammirazioni tardive!
Grindot aveva perciò ricominciato a fare in casa di Crevel, per la millesima volta, il suo salotto bianco e oro, tappezzato di damasco rosso. Il mobilio in palissandro, scolpito come si scolpiscono le opere mediocri, senza finezza, aveva suscitato in provincia un giusto orgoglio, per la fabbrica parigina, all'epoca dell'esposizione dei prodotti dell'industria. I candelabri, i braccioli, il paracenere, il lampadario, la pendola appartenevano allo stile rocaille. Il tavolo rotondo, immobile in mezzo al salotto, metteva in mostra un marmo incrostato di tutti i marmi italiani e antichi venuti da Roma, dove si fabbricano quelle specie di carte mineralogiche simili a dei campionari di sartoria, che destavano periodicamente l'ammirazione di tutti i borghesi ospiti di Crevel.
I ritratti della defunta signora Crevel, di Crevel, di sua figlia e di suo genero, dovuti al pennello di Pierre Grasson, il pittore alla moda negli ambienti borghesi, al quale Crevel doveva il ridicolo del suo atteggiamento byroniano, ornavano le pareti, disposti tutti e quattro in modo da fare riscontro. Le cornici, pagate mille franchi l'una, si intonavano bene con tutto quel lusso da caffè, che certamente avrebbe fatto alzare le spalle a un vero artista.
Mai l'oro ha perduto la minima occasione per mostrare la sua stupidità. Si potrebbero trovare oggi dieci Venezie a Parigi, se i commercianti a riposo avessero avuto quell'istinto delle cose grandiose che distingue gli italiani. Ancora ai nostri giorni, un negoziante milanese può lasciare cinquecentomila franchi al Duomo per la doratura della vergine colossale che ne sormonta la cupola. Canova, nel suo testamento, ordina al fratello di costruire una chiesa da quattro milioni, e il fratello vi aggiunge qualche cosa di suo. Un borghese di Parigi (e tutti hanno in cuore, come Rivet, amore per la loro Parigi) penserebbe mai a fare innalzare i campanili che mancano alle torri di Notre-Dame? Ora, fate il conto delle somme che, nei casi di successione senza eredi, finiscono nelle casse dello stato. Si sarebbero completati tutti gli abbellimenti di Parigi col costo delle sciocchezze in cartapesta, in dorature, in finte sculture consumate da quindici anni a questa parte dagli individui del genere di Crevel.
In fondo al salotto si trovava un magnifico studiolo arredato con tavole e armadi a imitazione di Boule.
Anche la camera da letto, tutta tappezzata con cretonne, dava nel salotto. Il mogano in tutto il suo splendore infestava la sala da pranzo, dove delle vedute della Svizzera, riccamente incorniciate, ornavano dei pannelli. Papà Crevel, che sognava un viaggio in Svizzera, ci teneva a possedere quei paesaggi dipinti, fino al momento in cui sarebbe andato a vederli nella realtà. Crevel, ex assessore, decorato, guardia nazionale, aveva, come si può vedere, riprodotto fedelmente tutte le magnificenze, persino nei mobili, del suo predecessore caduto in disgrazia. Là dove, sotto la Restaurazione, l'uno era caduto, questo del tutto dimenticato si era invece innalzato, non per uno strano gioco della fortuna, ma per la forza delle cose. Nelle rivoluzioni, come nelle tempeste marine, i valori solidi vanno a fondo, e i flutti portano a galla le cose leggere. César Birotteau, realista e invidiato, divenne il bersaglio dell'opposizione borghese, mente la borghesia trionfante rappresentava se stessa in Crevel.
Quell'appartamento di mille scudi di affitto, che traboccava di tutte le belle cose volgari che procura il denaro, occupava il primo piano di un antico palazzo, fra corte e giardino. Tutto vi si trovava ben conservato come i coleotteri nel laboratorio di un entomologo, poiché Crevel vi rimaneva assai poco.
Questo locale sontuoso costituiva il domicilio legale dell'ambizioso borghese.
Servito da una cuoca e da un cameriere, assumeva a nolo due domestici extra e faceva venire il pranzo di gala da Chevet, quando festeggiava dei politici suoi amici o delle persone che voleva bene impressionare, o quando riceveva la sua famiglia. Il vero domicilio di Crevel, una volta in rue Notre-Dame de Lorette, presso la signorina Héloïse Brisetout, era stato trasferito, come si è visto, in rue Chauchat. Tutte le mattine il vecchio negoziante (tutti i borghesi a riposo si chiamano vecchi-negozianti) passava due ore in rue des Saussayes per sbrigare i suoi affari, e dedicava il resto del suo tempo a Zaïre, cosa che seccava molto quest'ultima. Orosmane (cioè Crevel) aveva un contratto con la signorina Héloïse. Ella gli doveva cinquecento franchi di felicità ogni mese senza proroga. Del resto Crevel pagava la cena e tutti gli extra. Questo contratto con gratifiche, poiché le faceva molti regali, sembrava economico all'ex amante della celebre cantante. Egli diceva a questo proposito ai negozianti vedovi, che amavano troppo le loro figlie, quanto fosse meglio avere dei cavalli noleggiati a mese che tenere un scuderia propria. Nondimeno, se si ricorda ciò che il portiere di rue Chauchat confidò al barone, Crevel non evitava né il cocchiere né il groom.
Come si vede, Crevel aveva saputo volgere l'amore eccessivo per la figlia a vantaggio dei suoi piaceri. L'immoralità della sua situazione era giustificata da motivi di alta morale. In più l'ex profumiere traeva da questo suo modo di vita (che non poteva essere che così, piena di disordine, da Reggenza, da Pompadour, maresciallo di Richelieu ecc.) una vernice di superiorità. Crevel si atteggiava a uomo di larghe vedute, a gran signore formato ridotto, a uomo generoso, senza ristrettezze di idee, e tutto in ragione di una somma di circa milleduecento, millecinquecento franchi al mese. Non era l'effetto di una ipocrisia politica, ma un effetto della vanità borghese, che tuttavia arrivava allo stesso risultato. Alla Borsa, Crevel passava per essere superiore alla sua epoca, e soprattutto per un buontempone.
In ciò, Crevel credeva di aver superato di molto il vecchio Birotteau.


XXX • SEGUITO DEL PRECEDENTE

«Be',» esclamò Crevel andando in collera alla vista della cugina Bette, «siete dunque voi che fate sposare alla signorina Hulot un giovane conte che avete tirato su per lei nella bambagia?...»
«Si direbbe che ne siate contrariato,» rispose Lisbeth fissando su Crevel uno sguardo penetrante. «Che interesse avete dunque a impedire che mia cugina si sposi? Mi hanno detto che siete stato voi a far fallire il suo matrimonio col figlio del signor Lebas...»
«Siete una brava ragazza, una ragazza molto discreta,» riprese il vecchio Crevel. «Ebbene! Credete che io sia disposto a perdonare al signor Hulot il crimine di avermi portato via Josépha... soprattutto per fare di una creatura onesta, che avrei finito con lo sposare nella mia vecchiaia, una poco di buono, un'attricetta, una dell'Opéra?... No, no, mai!»
«Eppure è un brav'uomo, il signor Hulot,» disse la cugina Bette.
«Gentile, molto gentile, troppo gentile!» riprese Crevel. «Non gli voglio affatto del male, ma desidero prendermi la rivincita, e me la prenderò. È la mia idea fissa!»
«È forse a causa di questa vostra voglia che non venite più dalla signora Hulot?»
«Forse...»
«Ah! allora facevate la corte a mia cugina?» disse Lisbeth sorridendo. «Lo sospettavo.»
«E lei mi ha trattato come un cane; peggio, come un servo; dirò di più, come un detenuto politico! Ma riuscirò,» disse chiudendo il pugno e con quello percuotendosi la fronte.
«Pover'uomo, sarebbe spaventoso vedersi tradire dalla moglie dopo essere stato messo alla porta dall'amante!...»
«Josépha!» esclamò Crevel, «Josépha l'avrebbe lasciato, messo alla porta, cacciato?... Brava, Josépha! Josépha, mi hai vendicato! Ti invierò due perle da mettere alle orecchie, mio ex tesoro!... Non so nulla di questo, poiché, dopo avervi vista l'indomani del giorno in cui la bella Adeline mi ha pregato ancora una volta di prendere la porta, sono andato dai Lebas, a Corbeil, da dove torno ora. Héloïse si è data un gran daffare per farmi andare in campagna, e ho saputo la ragione dei suoi intrighi: voleva inaugurare, e senza di me, la nuova casa di rue Chauchat, con degli artisti, degli attorucoli, dei letterati... Sono stato giocato! Ma le perdonerò, poiché Héloïse mi diverte. È una nuova Déjazet. Quanto è buffa quella ragazza! Ecco il biglietto che ho trovato ieri sera:

«Vecchio mio, ho piantato la mia tenda in rue Chauchat. Ho preso la precauzione di fare asciugare l'intonaco da alcuni amici. Tutto va bene. Venite quando volete, signore. Agar aspetta il suo Abramo.›

«Héloïse mi darà notizie, perché conosce i pettegolezzi dei suoi amici bohémien sulla punta delle dita.»
«Ma mio cugino ha preso molto bene questa contrarietà,» rispose la cugina Bette.
«Non è possibile!» disse Crevel fermandosi in quell'andare su e giù simile al bilanciere di una pendola.
«Il signor Hulot ha una certa età,» fece osservare lei maliziosamente.
«Lo conosco,» riprese Crevel; «ma noi ci rassomigliamo sotto un certo aspetto: Hulot non potrà mai fare a meno di un affetto. È capace di ritornare a sua moglie,» disse fra sé. «Sarebbe una novità per lui, ma addio alla mia vendetta. Voi sorridete, signorina Fischer... Ah! sapete qualcosa?...»
«Rido delle vostre idee,» rispose Lisbeth. «Sì, mia cugina è ancora abbastanza bella per ispirare delle passioni; io l'amerei, se fossi uomo.»
«Chi ha bevuto una volta, berrà ancora!» esclamò Crevel; «vi prendete beffa di me! Il barone avrà trovato qualche consolazione.»
Lisbeth chinò il capo in segno di assenso.
«Ah! è veramente fortunato se può rimpiazzare da un giorno all'altro Josépha!» continuò Crevel. «Ma non ne sono meravigliato, poiché mi diceva, una sera a cena, che quando era giovane, per non rimanere sprovvisto, aveva sempre tre amanti: quella che stava per lasciare, quella in carica e quella cui faceva la corte per l'avvenire. Doveva pur tenere in serbo qualche sartina nel suo vivaio! nella sua riserva di caccia! È molto Luigi xv, il furbone! Oh! se è fortunato ad essere un bell'uomo! Nondimeno è invecchiato, è segnato... si sarà messo con qualche giovane operaia.»
«Oh! no,» rispose Lisbeth.
«Ah!» disse Crevel, «che cosa non farei per impedirgli di avere un'altra amante! Non mi era possibile riprendergli Josépha; le donne di quella specie non ritornano mai al loro primo amore. D'altronde, come si dice, la minestra riscaldata... Ma, cugina Bette, darei volentieri, cioè spenderei volentieri cinquantamila franchi per portar via a quel gran bell'uomo la sua amante, e provargli che un gran vecchio, dalla pancia di comandante di battaglione e dal cranio di futuro sindaco di Parigi, non si lascia soffiare la dama senza fargli lo sgambetto...»
«La mia situazione,» rispose Bette, «mi obbliga a sentir tutto e a non sapere niente. Voi potete parlare con me senza timore, io non ripeterò mai una parola di ciò che mi si viene a confidare. Perché volete che venga meno a questa regola della mia condotta? Nessuno avrebbe più fiducia in me.»
«Lo so,» replicò Crevel, «voi siete la perla delle zitelle... Ma, perdinci! Ci sono delle eccezioni. Guardate, non vi hanno mai messo da parte una rendita...»
«Ma io ho il mio orgoglio, non voglio costar nulla a nessuno,» disse Bette.
«Ah, se voleste aiutarmi a vendicarmi,» riprese l'ex negoziante, «vi intesterei diecimila franchi in un vitalizio. Ditemi, bella cugina, ditemi chi ha preso il posto di Josépha e avrete di che pagare il vostro affitto, la vostra colazione la mattina, quel buon caffè che vi piace tanto, potrete offrirvi del moka puro... eh? Oh! pensate com'è buono il moka puro!»
«Non tengo tanto ai diecimila franchi di vitalizio che mi renderebbero circa cinquecento franchi, quanto alla più completa discrezione,» disse Lisbeth; «perché vedete, mio caro Crevel, il barone è molto gentile con me; mi pagherà l'affitto...»
«Sì, per molto tempo! Contateci pure!» esclamò Crevel. «E dove li prenderebbe i soldi il barone?»
«Ah! non lo so davvero. Però, spende più di trentamila franchi nell'appartamento che destina a quella graziosa signora...»
«Una signora! Come, sarebbe una donna della buona società? Quello scellerato ha tutte le fortune! Tutte gli van bene!»
«Una donna sposata, una vera signora,» riprese la cugina.
«Davvero?» esclamò Crevel sgranando gli occhi eccitati, sia dal desiderio sia da quelle parole magiche: una vera signora.
«Sì,» rispose Bette, «talento, musicista, ventitré anni, e un viso grazioso e ingenuo, una pelle d'una bianchezza che abbaglia, dei denti da cucciolo, degli occhi come stelle, una fronte superba,... e dei piedini, non he ho mai visti di simili, non sono più larghi delle stecche di balena del suo corsetto.»
«E le orecchie?» domandò Crevel, vivamente eccitato dalla descrizione di quelle grazie.
«Delle orecchie perfette: da scolpire,» rispose Bette.
«Delle manine?...»
«Vi dico, in una parola, che è un gioiello di donna, e di una onestà, di un pudore, di una delicatezza!... un'anima stupenda, un angelo, distinta in tutto; infatti suo padre era un maresciallo di Francia...»
«Un maresciallo di Francia!» esclamò Crevel, facendo un balzo prodigioso. «Mio Dio! accidenti!... Ah! il mascalzone! Scusate, cugina, io divento matto... Darei centomila franchi, credo...»
«Ah! be', davvero vi dico che è una donna onesta, una donna virtuosa. Perciò il barone ha fatto le cose per bene.»
«Non ha un quattrino,... vi dico.»
«C'è un marito che lui ha spinto...»
«Spinto dove?» disse Crevel con un riso amaro.
«Già nominato sotto-capo, questo marito, che sarà senza dubbio compiacente... sarà proposto per avere la Croce.»
«Il governo dovrebbe fare attenzione, e rispettare quelli che ha decorato senza elargirla così facilmente la Croce,» disse Crevel politicamente punto sul vivo. «Ma che cos'ha dunque quel vecchio mastino di un barone?» riprese Crevel. «Mi sembra di non essergli da meno,» aggiunse rimirandosi in uno specchio e mettendosi in posa. Héloïse mi ha detto spesso, nei momenti in cui le donne non mentono, che ero formidabile.»
«Oh!» replicò la cugina, «le donne amano gli uomini grossi; sono quasi tutti buoni; e, fra voi e il barone, io sceglierei voi. Il signor Hulot è brillante, un bell'uomo, ha un bel portamento; ma voi siete solido, e poi, ve lo devo dire?... avete l'aria da cattivo soggetto ancor più di lui!»
«È incredibile come a tutte le donne, perfino alle bigotte, piacciano gli uomini che hanno quell'aria!» esclamò Crevel prendendo la Bette per la vita, tanto era contento.
«Non è questa la difficoltà,» proseguì la Bette. «Voi capite che una donna che trova tanti vantaggi non sarà infedele al suo protettore per un nonnulla, e questo costerebbe centomila franchi e più, poiché la giovane signora vede suo marito capo-ufficio da qui a due anni... È la miseria che spinge questo povero angioletto nell'abisso.»
Crevel camminava in lungo e in largo, come un pazzo furioso, nel salotto.
«Ci terrà molto a questa donna?» domandò dopo un momento nel quale il suo desiderio così sferzato da Lisbeth diventò una specie di smania.
«Giudicate voi!» riprese Lisbeth. «Non credo che abbia ancora ottenuto tanto così,» disse facendo schioccare l'unghia del pollice sotto una delle sue enormi spatole bianche, «e le ha già fatto regali per diecimila franchi.»
«Oh! Che bello scherzo sarebbe se arrivassi prima di lui!» esclamò Crevel.
«Dio mio! ho proprio torto a farvi questi pettegolezzi,» riprese Lisbeth con l'aria di provare qualche rimorso.
«No. Voglio fare arrossire la vostra famiglia. Domani vi intesterò in vitalizio una somma al cinque per cento, in modo da darvi seicento franchi di rendita, ma voi mi direte tutto: il nome e la dimora della Dulcinea. Posso confessarvelo, non ho mai avuto una vera signora, e la mia più grande ambizione è di conoscerne una. Le urì di Maometto non sono niente in confronto a ciò che mi immagino siano le donne di mondo. Insomma, questo è il mio ideale, la mia passione, e a tal punto che, vedete, la baronessa Hulot non avrà mai cinquant'anni per me,» disse Crevel, ripetendo quanto aveva detto uno degli spiriti più sottili del secolo scorso. «Vedete, mia buona Lisbeth, sono deciso a sacrificare cento, duecento... sst! Ecco i miei ragazzi, stanno attraversando la corte. Nessuno saprà quello che mi avete detto, vi do la mia parola d'onore, perché non voglio che perdiate la fiducia del barone, al contrario... Deve amare profondamente quella donna, mia cara complice!»
«Oh! ne è pazzo!» disse la cugina. «Non ha saputo trovare quarantamila franchi per sistemare la figlia, e li ha tirati fuori per questa nuova passione.»
«E lo credete riamato?» domandò Crevel.
«Alla sua età...» rispose la zitella.
«Oh! che bestia sono!» esclamò Crevel. «Io che tollero che Héloïse abbia un artista, proprio come Enrico iv permetteva che Gabrielle avesse Bellegarde. Oh! la vecchiaia! la vecchiaia. Buongiorno, Célestine, buongiorno, tesoro; e il tuo marmocchio? Ah! eccolo! Parola mia, comincia ad assomigliarmi. Buongiorno, Hulot, amico mio, come va?... Dunque avremo presto un altro matrimonio in famiglia.»
Célestine e suo marito fecero un cenno indicando Lisbeth, e la figlia rispose sfrontatamente al padre:
«E quale?»
Crevel assunse un'aria furba che voleva dire che avrebbe rimediato alla sua indiscrezione.
«Quello di Hortense,» riprese; «ma non è ancora del tutto deciso. Vengo da casa di Lebas e si parlava della signorina Popinot per il nostro giovane consigliere alla corte reale di Parigi, che accetterebbe volentieri di diventare primo presidente in provincia... Andiamo a cena.»


XXXI • ULTIMO TENTATIVO DI CALIBANO SU ARIELE

Alle sette, Lisbeth rientrava già a casa in omnibus, perché era impaziente di rivedere Wenceslas, del quale, da una ventina di giorni, era lo zimbello. Gli portava la borsa colma di frutta riempita dallo stesso Crevel, la cui tenerezza per sua cugina Bette era raddoppiata. Salì nella soffitta con una velocità da perdere il fiato, e trovò l'artista a finire la decorazione di una scatola che voleva offrire alla sua cara Hortense. Il bordo del coperchio rappresentava delle ortensie fra le quali giocavano degli Amorini. L'amante squattrinato, per far fronte alle spese di quella scatola che doveva essere di malachite, aveva fatto per Florent e Chanor due torciere, cedendone loro la proprietà. Si trattava di due capolavori.
«Lavorate troppo da qualche giorno, mio caro amico,» disse Lisbeth asciugandogli la fronte coperta di sudore e baciandola. «Una simile attività, nel mese di agosto, mi sembra pericolosa. Davvero, la vostra salute potrebbe soffrirne... Ecco delle pesche e delle prugne di casa Crevel; prendetele... Non vi affannate tanto, ho preso in prestito duemila franchi, e, se tutto va bene, potremo renderli se venderete la vostra pendola!... Tuttavia ho qualche dubbio sul conto del prestatore, perché mi ha appena inviato questa carta bollata.»
Pose la notifica di arresto per debiti sotto il bozzetto del maresciallo Montcornet.
«Per chi fate queste belle cose?» domandò, prendendo i rami di ortensie in cera che Wenceslas aveva posato per mangiare qualche frutto.
«Per un gioielliere.»
«Quale gioielliere?»
«Non so, è Stidmann che mi ha pregato di modellare questa cera per lui, perché non ha tempo.»
«Ma sono delle ortensie,» disse lei con voce cupa. «Come mai non avete mai lavorato la cera per me? Era dunque così difficile inventare un anello, un cofanetto, qualunque cosa, un ricordo!» disse lanciando uno sguardo terribile all'artista, i cui occhi erano fortunatamente abbassati. «E dite di volermi bene!»
«Ne dubitate... signorina?»
«Oh! Ecco un signorina detto con calore!... Sentite, voi siete stato il mio unico pensiero da quando vi ho visto moribondo, lì... Quando vi ho salvato, vi siete dato a me, io non vi ho parlato di quell'impegno, ma mi sono impegnata con me stessa, io! Mi sono detta: ‹Poiché questo ragazzo si dà a me, voglio renderlo felice e ricco!› Be', sono riuscita a fare la vostra fortuna!»
«E come?» domandò il povero artista, al colmo della felicità e troppo ingenuo per sospettare una trappola.
«Ecco come,» replicò la lorenese.
Lisbeth non poté rifiutarsi il piacere selvaggio di guardare Wenceslas, che la contemplava con un amore filiale in cui traspariva il suo amore per Hortense; fu questo a trarre in inganno la zitella. Scorgendo per la prima volta in vita sua la fiamma della passione negli occhi di un uomo, credette di essere stata lei ad averla accesa.
«Il signor Crevel ci dà un finanziamento di centomila franchi per fondare una ditta, se, dice, volete sposarmi; ha delle idee singolari, quel grasso brav'uomo... Che ne pensate?» chiese.
L'artista, diventato pallido come un morto, guardò la sua benefattrice con occhi senza luce e che lasciavano trasparire tutto il suo pensiero. Restò a bocca aperta e inebetito.
«Nessuno mi ha mai detto così bene,» riprese lei con un riso amaro, «che sono spaventosamente brutta!»
«Signorina,» rispose Steinbock, «la mia benefattrice non sarà mai brutta per me; ho per voi un profondissimo affetto, ma io non ho ancora trent'anni, e...»
«E io ne ho quarantatré!» disse Bette. «Mia cugina Hulot, che ne ha quarantotto, suscita ancora delle passioni frenetiche: ma lei è bella!»
«Quindici anni di differenza fra noi, signorina! Che matrimonio sarebbe il nostro? Per noi stessi, credo che dobbiamo riflettere bene. La mia riconoscenza sarà certamente uguale ai vostri benefici. D'altronde, il vostro denaro sarà reso fra qualche giorno.»
«Il mio denaro!» esclamò lei. «Oh, mi trattate come se fossi un usuraio senza cuore.»
«Scusate,» riprese Wenceslas, «ma me ne parlate così spesso... Insomma, voi mi avete creato, non distruggetemi.»
«Voi volete lasciarmi, lo vedo,» disse lei scuotendo la testa. «Chi vi ha dato dunque la forza dell'ingratitudine, voi che siete come un uomo di cartapesta? Manchereste di fiducia in me, in me che sono il vostro buon genio?... io che così spesso ho passato la notte a lavorare per voi! io che vi ho consegnato i risparmi di tutta la mia vita! io che, per quattro anni, ho diviso il mio pane, il pane di una povera operaia, con voi, e che vi prestavo tutto, finanche il mio coraggio!»
«Signorina, basta! basta!» disse egli mettendosi in ginocchio e tendendole le mani. «Non dite più nulla! Fra tre giorni parlerò, vi diro tutto; lasciatemi,» disse baciandole le mani, «lasciatemi essere felice, io amo e sono amato.»
«Ebbene, sii felice, ragazzo mio,» disse lei sollevandolo.
Poi lo baciò sulla fronte e fra i capelli con la frenesia che deve provare un condannato a morte assaporando la sua ultima mattinata.
«Ah! siete la più nobile e la più buona di tutte le creature, siete pari a quella che io amo,» disse il povero artista.
«Vi voglio ancora troppo bene per non tremare del vostro avvenire,» rispose lei con aria cupa. «Giuda si è impiccato!... tutti gli ingrati finiscono male! Voi mi lasciate, non farete più niente che valga! Pensate che, anche se noi non ci sposiamo, poiché io sono una zitella, lo so, non voglio soffocare il fiore della vostra giovinezza, la vostra poesia, come voi la chiamate, nelle mie braccia che sono come dei sarmenti di vite; ma, senza sposarci, non potremmo rimanere insieme? Statemi a sentire, io ho lo spirito del commercio, posso farvi accumulare una fortuna in dieci anni di lavoro, perché io sono l'economia in persona; mentre con una ragazza giovane, che vi farà spendere tutto, voi dissiperete tutto, non lavorerete che per renderla felice. La felicità non crea altro che ricordi. Quando penso a voi, io resto con le braccia penzoloni per ore e ore... Ebbene, Wenceslas, resta con me... Vedi, io comprendo tutto: tu potrai avere delle amanti, delle donne graziose, simili a quella piccola Marneffe che vuole vederti, e che ti darà la felicità che non puoi trovare con me. Poi ti sposerai quando avrò accumulato per te una rendita di trentamila franchi.»
«Voi siete un angelo, signorina, e non dimenticherò mai questo momento,» rispose Wenceslas asciugandosi le lacrime.
«Ecco come vi voglio, ragazzo mio,» disse lei guardandolo come ebbra.
La vanità in noi tutti è così forte, che Lisbeth credette al suo trionfo. Aveva fatto una concessione così grande offrendogli la signora Marneffe! Provò la più viva emozione della sua vita, sentì per la prima volta la gioia inondare il suo cuore. Per ritrovare un altro momento simile, avrebbe venduto l'anima al diavolo.
«Sono fidanzato,» rispose lui, «e amo una donna a paragone della quale nessun'altra può prevalere. Ma voi siete e sarete sempre la madre che ho perduto.»
Questa parola rovesciò come una valanga di neve su quel cratere infuocato. Lisbeth si sedette, contemplò con aria cupa quella giovinezza, quella bellezza raffinata, quella fronte delicata, quella bella capigliatura, tutto quello che sollecitava in lei gli istinti repressi della donna, e delle piccole lacrime subito inaridite bagnarono per un momento i suoi occhi. Rassomigliava a quelle statue ossute che i tagliapietre del medioevo hanno posto su certe tombe.
«No, non ti maledico,» disse alzandosi bruscamente, «non sei che un bambino. Che Dio ti protegga!»
Poi discese e si chiuse nel suo appartamento.
«Lei mi ama,» disse fra sé Wenceslas, «povera donna. E che calore nella sua eloquenza! È pazza.»
Quest'ultimo sforzo di una natura sterile e positiva per conservare con sé quell'immagine della bellezza, della poesia era stato tanto veemente, che lo si può confrontare soltanto con la disperata energia del naufrago, mentre compie l'ultimo tentativo per raggiungere la spiaggia.


XXXII • LA VENDETTA MANCATA

Due giorni dopo, alle quattro e mezzo del mattino, nel momento in cui il conte Steinbock dormiva del sonno più profondo, sentì bussare alla porta della sua soffitta; andò ad aprire e vide due uomini mal vestiti, accompagnati da un terzo che, a giudicare dall'abito, aveva tutta l'aria di un usciere.
«Siete il signor Wenceslas, conte Steinbock?» gli disse quest'ultimo.
«Sì, signore.»
«Mi chiamo Grasset, signore, successore del signor Louchard, ufficiale giudiziario...»
«Ebbene?»
«Siete in arresto, signore, dovete seguirci alla prigione di Clichy... Vogliate vestirvi... Abbiamo rispettato le dovute forme, come vedete: non ho preso una guardia municipale, giù c'è una carrozza pubblica.»
«Vi abbiamo usato tutti i riguardi,» disse uno dei due uomini, «per cui contiamo sulla vostra comprensione.»
Steinbock si vestì, scese le scale, tenuto sotto braccio dagli aiutanti dell'usciere; quando fu fatto salire sulla carrozza, il vetturino partì senza aspettare ordini, come uno che sa dove andare; mezz'ora dopo il povero straniero si trovò rinchiuso in prigione, senza aver potuto neanche protestare, tanta era la sua sorpresa. Alle dieci, fu chiamato nella cancelleria, e vi trovò Lisbeth, che, tutta in lacrime, gli diede del denaro perché potesse viver bene e procurarsi una camera abbastanza grande per potervi lavorare.
«Figliolo mio,» gli disse, «non parlate a nessuno del vostro arresto, non scrivete ad anima viva, ciò distruggerebbe il vostro avvenire; bisogna nascondere questa infamia, raccoglierò subito la somma e vi libererò... state tranquillo. Scrivetemi e ditemi cosa vi devo portare per i vostri lavori. Morrò o sarete subito libero.»
«Oh! vi dovrò due volte la vita!» egli esclamò, «poiché perderei più che la vita, se mi si credesse un cattivo soggetto.»
Lisbeth uscì col cuore pieno di gioia; sperava, tenendo il suo artista sotto chiave, di mandare all'aria il suo matrimonio con Hortense: le avrebbe detto che era sposato, che era stato liberato grazie agli sforzi di sua moglie, e che era partito per la Russia. Perciò, per eseguire questo piano, si recò verso le tre dalla baronessa, benché non fosse il giorno in cui abitualmente vi pranzava; ma voleva godere dei tormenti che avrebbe sofferto la sua giovane cugina all'ora in cui Wenceslas era solito venire.
«Pranzi con noi, Bette?» chiese la baronessa nascondendo il suo disappunto.
«Sì, grazie.»
«Bene!» rispose Hortense, «vado a dire che siano puntuali, perché a te non piace aspettare.»
Hortense fece un cenno a sua madre per rassicurarla; infatti si proponeva di dire al domestico di mandar via il signor Steinbock quando si fosse presentato; ma poiché il domestico era uscito, Hortense fu costretta a fare la sua raccomandazione alla cameriera, la quale salì in camera sua a prendervi il lavoro per rimanere nell'anticamera.
«E il mio innamorato?» disse la cugina Bette a Hortense quando questa fu ritornata, «non me ne parlate più.»
«A proposito, che ne è successo?» disse Hortense; «so che è diventato celebre. Devi essere contenta,» aggiunse all'orecchio della cugina, «non si parla che del signor Wenceslas Steinbock.»
«Anche troppo,» rispose lei ad alta voce. «Tutto questo non gli giova. Se si trattasse solo di usare il mio fascino per distrarlo dalle seduzioni di Parigi, be', conosco il mio potere; ma si dice che, per avere con sé un simile artista, l'imperatore Nicola gli conceda la grazia...»
«Però!» fece la baronessa.
«Come lo sai?» domandò Hortense presa da una fitta al cuore.
«Ma,» continuò la diabolica Bette, «una persona alla quale egli appartiene per i più sacri vincoli, sua moglie, glielo ha scritto ieri. E lui vuol partire; ah! sarebbe proprio uno sciocco se lasciasse la Francia per la Russia...»
Hortense guardò sua madre, reclinò il capo su una spalla, e la baronessa ebbe solo il tempo di sorreggere sua figlia svenuta, bianca come il merletto del suo fichu.
«Lisbeth, m'hai ucciso mia figlia!...» gridò la baronessa. «Tu sei nata per la nostra disgrazia.»
«Coome? Che colpa ho in tutto questo, Adeline?» domandò la lorenese alzandosi e assumendo un atteggiamento minaccioso al quale la baronessa, nel suo turbamento, non fece nessuna attenzione.
«Ho torto,» rispose Adeline sostenendo Hortense. «Suona!»
In quel momento, la porta si aprì, le due donne girarono la testa insieme e videro Wenceslas Steinbock, al quale la cuoca, in assenza della cameriera, aveva aperto la porta.
«Hortense!» gridò l'artista, precipitandosi verso il gruppo formato dalle tre donne.
E baciò in fronte la sua promessa sposa sotto gli occhi della madre, ma con tale devozione, che la baronessa non se ne adontò. Era, contro lo svenimento, un sale migliore di tutti i sali inglesi. Hortense aprì gli occhi, vide Wenceslas, e il viso le si colorò di nuovo. Un istante dopo si era completamente ripresa.
«Era dunque questo che mi nascondevate?» disse la cugina Bette sorridendo a Wenceslas, e con l'aria di indovinare la verità dalla confusione delle due cugine. «Come hai fatto a rubarmi il mio innamorato?» disse a Hortense conducendola in giardino.
Hortense raccontò ingenuamente il romanzo del suo amore alla cugina. La madre e il padre, persuasi che la Bette non si sarebbe mai sposata, avevano, disse, autorizzato le visite del conte Steinbock. Solamente, Hortense, da vera Agnès di buona razza, attribuì al caso l'acquisto del gruppo e l'arrivo dell'autore, che, secondo lei, aveva voluto conoscere il nome del suo primo acquirente. Steinbock venne subito a raggiungere le due cugine per ringraziare con effusione la zitella per la propria immediata liberazione. Lisbeth rispose gesuiticamente a Wenceslas che il creditore non le aveva fatto che vaghe promesse, lei contava di andare a liberarlo solo all'indomani; il loro prestatore, vergognandosi dell'ignobile persecuzione, l'aveva senza dubbio prevenuta. La zitella parve d'altronde felice, e si congratulò con Wenceslas per la sua fortuna.
«Cattivo ragazzo!» gli disse Bette davanti a Hortense e a sua madre, «se m'aveste confessato l'altro ieri che amavate mia cugina Hortense e che ne eravate ricambiato, mi avreste risparmiato molte lacrime. Credevo che abbandonaste la vostra vecchia amica, la vostra istitutrice, mentre, al contrario, state per diventare mio cugino; d'ora in poi mi apparterrete per dei legami, deboli, è vero, ma sufficienti per i sentimenti che ho avuto per voi...»
E baciò Wenceslas sulla fronte. Hortense si gettò nelle braccia della cugina e si sciolse in lacrime. «Ti devo la mia felicità,» le disse, «non lo dimenticherò mai...»
La baronessa, resa euforica dal felice esito della situazione, abbracciò Lisbeth. «Cugina Bette,» disse, «il barone e io abbiamo un debito verso di te, e lo pagheremo; vieni con me in giardino a parlare di affari,» aggiunse, conducendola con sé.
Lisbeth recitò dunque la parte del buon angelo di famiglia; si vedeva adorata da Crevel, da Hulot, da Adeline e da Hortense.
«Noi vogliamo che tu non lavori più,» disse la baronessa. «Supponendo che tu possa guadagnare quaranta soldi al giorno, eccettuate le domeniche, fanno seicento franchi all'anno. Ebbene, a quanto ammontano i tuoi risparmi?»
«Quattromilacinquecento franchi.»
«Povera cugina!» disse la baronessa.
Alzò gli occhi al cielo, tanto si sentiva commossa pensando a tutte le pene e alle privazioni che comportava quella somma accumulata in trent'anni. Lisbeth, che interpretò male il senso di quella esclamazione, vi vide l'ironico disprezzo della parvenue, e il suo odio si caricò di un'ulteriore dose di rancore, nel momento stesso in cui la cugina abbandonava ogni diffidenza verso il tiranno della sua infanzia.
«Noi aumenteremo questa somma di diecimilacinquecento franchi,» riprese Adeline, «metteremo il tutto a tuo nome come usufruttuaria, e a nome di Hortense solo come proprietaria; così potrai avere una rendita di seicento franchi...»
Lisbeth parve al colmo della felicità. Quando tornò, col fazzoletto sugli occhi, intenta ad asciugarsi lacrime di gioia, Hortense le raccontò di tutti i favori che piovevano su Wenceslas, il prediletto di tutta la famiglia.


XXXIII • COME SI FANNO MOLTI CONTRATTI DI MATRIMONIO

Quando il barone rientrò, trovò dunque la famiglia al completo, poiché la baronessa aveva ufficialmente accolto il conte Steinbock col nome di figlio, e fissato, salvo l'approvazione del marito, il matrimonio di lì a una quindicina di giorni. Perciò, non appena apparve in salotto, il consigliere di Stato fu attorniato dalla moglie e dalla figlia, che gli corsero incontro, una per parlargli all'orecchio, l'altra per abbracciarlo.
«Vi siete spinta troppo avanti impegnandomi in tal modo, signora,» disse severamente il barone. «Questo matrimonio non è conchiuso,» aggiunse dando uno sguardo a Steinbock, che vide impallidire.
L'infelice artista disse fra sé: «Sa del mio arresto.»
«Venite, ragazzi,» aggiunse il padre conducendo la figlia e il futuro sposo in giardino. E andò a sedersi con loro su una delle panchine del chiosco, corroso dal muschio.
«Signor conte, amate mia figlia come io amavo sua madre?» domandò il barone a Wenceslas.
«Di più, signore,» disse l'artista.
«La madre era la figlia di un contadino e non aveva un soldo.»
«Datemi la signorina Hortense così com'è, anche senza corredo...»
«Credo bene!» disse il barone sorridendo; «Hortense è la figlia del barone Hulot d'Ervy, consigliere di Stato, direttore presso il Ministero della Guerra, grand'ufficiale della Legion d'Onore, fratello del conte Hulot, la cui gloria è immortale e che sarà fra poco maresciallo di Francia. E... ha una dote!...»
«È vero,» disse l'artista innamorato, «può sembrare che io abbia dell'ambizione; ma anche se la mia cara Hortense fosse la figlia di un operaio, io la sposerei lo stesso...»
«Ecco quello che volevo sapere,» riprese il barone. «Vai pure, Hortense, lasciami chiacchierare col signor conte; vedi che ti ama molto sinceramente.»
«Oh! papà, sapevo bene che scherzavate,» rispose la fanciulla felice.
«Mio caro Steinbock,» disse il barone con infinita grazia di dizione e gran fascino di modi quando fu solo con l'artista, «ho intestato a mio figlio duecentomila franchi di dote, di cui il povero ragazzo non ha mai avuto due soldi, né mai ne avrà. La dote di mia figlia sarà di duecentomila franchi, che voi dichiarerete di aver ricevuto...»
«Sì, signor barone...»
«Che fretta!» disse il consigliere di Stato. «Ora state a sentire. Non si può chiedere a un genero la dedizione che si è in diritto di aspettarsi da un figlio. Mio figlio sapeva tutto quello che potevo fare e sa quello che farò per il suo avvenire: sarà ministro, troverà facilmente i suoi duecentomila franchi. Quanto a voi, giovanotto, è un'altra cosa! Riceverete sessantamila franchi in buoni del tesoro al cinque per cento, intestati a vostra moglie. Questa somma sarà gravata da una piccola rendita da dare a Lisbeth, ma lei non vivrà a lungo, è malata di petto, lo so. Non dite questo segreto a nessuno; che la povera ragazza muoia in pace. Mia figlia avrà un corredo da ventimila franchi; sua madre ci mette per seimila franchi dei suoi diamanti...»
«Signore, mi date troppo!...» disse Steinbock stupefatto.
«Quanto ai rimanenti centoventimila franchi...»
«Basta, signore,» disse l'artista, «io voglio solo la mia cara Hortense...»
«Volete ascoltarmi, bollente giovanotto? Quanto ai centoventimila franchi, posso dirvi che non li ho, ma che voi li riceverete...»
«Signore!...»
«Li riceverete dal governo, sotto forma di commissioni che io vi farò avere, vi do la mia parola d'onore. Vedete, state per avere uno studio al deposito dei marmi. Esponete qualche bella statua, vi farò entrare all'Istituto. In alto loco hanno una certa benevolenza per me e per mio fratello; spero dunque di riuscire chiedendo per voi dei lavori di scultura a Versailles per un quarto della somma. Infine, riceverete alcune commissioni dalla città di Parigi, ne avrete dalla Camera dei Pari, ne avrete, mio caro, tante e tante, che sarete obbligato a prendere degli aiutanti. È così che salderò il mio debito. Vedete se una dote così pagata vi va bene, considerate le vostre forze...»
«Mi sento la forza di fare la fortuna di mia moglie da me solo, anche se tutto ciò mi mancasse!» disse il nobile artista.
«Ecco quello che mi piace!» esclamò il barone, «la bella giovinezza che non esita davanti a nulla! Io avrei sbaragliato degli eserciti per una donna! Su,» disse prendendo la mano del giovane scultore e stringendogliela; «avete il mio consenso. Domenica prossima il contratto, e il sabato seguente all'altare; è il giorno della festa di mia moglie!»
«Va tutto bene,» disse la baronessa alla figlia che se ne stava incollata alla finestra, «il tuo futuro sposo e tuo padre si abbracciano.»
Rientrando a casa sua, la sera, Wenceslas ebbe la spiegazione dell'enigma della sua liberazione; trovò dal portiere un grosso pacchetto sigillato che conteneva la pratica del suo credito con una regolare quietanza in calce all'ordinanza, e accompagnato dalla lettera seguente:

«Mio caro Wenceslas,
«sono venuto a trovarti stamani, alle dieci, per presentarti a un'altezza reale che desiderava conoscerti. Qui, ho saputo che gli inglesi ti avevano portato in una delle loro piccole isole, la cui capitale si chiama Clichy's Castle.
«Sono andato subito a trovare Léon de Lora, al quale ho detto ridendo che non potevi lasciare il luogo dove ti trovavi perché ti mancavano quattromila franchi, e che compromettevi il tuo avvenire se non ti presentavi al tuo reale protettore. Bridau, quell'uomo di genio che ha conosciuto la miseria e che sa la tua storia, era là per fortuna. Fra tutti e due, ragazzo mio, hanno raccolto la somma, e sono andato a pagare per te quel barbaro che ha commesso un delitto di leso-genio mettendoti dentro. Poiché dovevo essere alle Tuileries a mezzogiorno, non ho potuto vederti respirare l'aria libera. So che sei gentiluomo, e mi sono fatto garante per te ai miei due amici; ma vai a trovarli domani.
«Léon e Bridau non vorranno il denaro; ti chiederanno ognuno un gruppo, e avranno ragione. È quel che pensa colui che vorrebbe potersi dire tuo rivale, e che è soltanto il tuo collega
Stidmann»

«P.S. Ho detto al principe che saresti tornato dal tuo viaggio solo domani, ed egli ha detto: ‹Ebbene, domani!›»

Il conte Wenceslas si coricò in quelle lenzuola di porpora che ci fa, senza una piega di rosa, il Favore, questa sciancata divinità che, per le persone di genio, cammina ancor più adagio della Giustizia e della Fortuna, poiché Giove ha voluto che non avesse una benda sugli occhi. Facilmente ingannata dalle bancarelle dei ciarlatani, attirata dai loro costumi e dalle loro trombette, questa divinità spende per vedere e pagare le loro pagliacciate quel tempo e quel denaro che dovrebbe impiegare per scoprire gli uomini di talento negli angoli dove si nascondono.
È giunto ora il momento di spiegare come mai il signor barone Hulot fosse riuscito a mettere insieme il denaro per la dote di Hortense e a far fronte alle spese strabilianti del delizioso appartamento dove avrebbe dovuto istallarsi la signora Marneffe. La sua manovra finanziaria portava il marchio di quell'istinto geniale che guida gli scialacquatori e i lussuriosi nei pantani, dove tanti incidenti li fanno perire. Niente potrà meglio rivelare la misteriosa potenza che possono comunicare i vizi, e alla quale sono dovute le imprese mirabolanti che compiono di tanto in tanto gli ambiziosi, i lussuriosi, insomma tutti i sudditi del diavolo.


XXXIV • UN MAGNIFICO ESEMPLARE DI SUCCUBO

La mattina precedente, un vecchio, Johann Fischer, per non aver potuto pagare trentamila franchi riscossi da suo nipote, si vedeva nella necessità di dichiarare fallimento se il barone non glieli avesse restituiti.
Il degno vecchio, dai capelli bianchi, dell'età di settant'anni, aveva una fiducia così cieca in Hulot, il quale, ai suoi occhi di bonapartista, appariva come una emanazione del sole napoleonico, che se ne stava tranquillamente a passeggiare con l'impiegato della banca nell'anticamera del piccolo pianterreno da ottocento franchi di affitto, dove dirigeva le sue varie imprese di cereali e di foraggi.
«Marguerite è andata a prendere i fondi a due passi da qui,» gli diceva. L'uomo dalla divisa grigia gallonata d'argento conosceva così bene l'onestà del vecchio alsaziano che voleva lasciargli i suoi trentamila franchi di cambiali, ma il vecchio insisteva perché rimanesse, facendogli osservare che le otto non erano ancora suonate. Un cabriolet si fermò, il vecchio si precipitò in istrada e con un gesto di sublime fiducia tese la mano al barone, il quale gli diede trenta biglietti di banca.
«Andate tre porte più in là, vi dirò poi perché,» disse il vecchio Fischer. «Ecco, giovanotto,» disse rientrando per contare il denaro al rappresentante della banca, che accompagnò fino alla porta.
Quando l'uomo della banca non fu più in vista, Fischer fece tornare la carrozza dove aspettava il suo augusto nipote, il braccio destro di Napoleone, e gli disse, introducendolo in casa:
«Volete che si sappia alla Banca di Francia che mi avete versato i trentamila franchi delle cambiali che avete girato?... È già troppo l'averci messo la firma di un uomo come voi!...»
«Andiamo in fondo al vostro giardinetto, papà Fischer,» disse l'alto funzionario.
«Siete in gamba,» disse sedendosi sotto una pergola e scrutando il vecchio come un mercante di carne umana scruta un sostituto.
«Così in gamba che potete investire un capitale in un vitalizio intestato a me,» rispose in tono scherzoso il vecchio, piccolo, magro, energico e dall'occhio vivo.
«Vi fa male il clima caldo?»
«Al contrario.»
«Che ne pensate dell'Africa?»
«Un bel paese!... I francesi ci sono andati col piccolo caporale.»
«Bisognerebbe, per la salvezza di tutti noi, che voi andaste in Algeria...»
«E i miei affari?»
«Un impiegato del Ministero della Guerra, che va in pensione e che ha pochi mezzi per vivere, comprerà la vostra azienda.»
«A che fare in Algeria?»
«A fornire i viveri all'esercito, cereali e foraggi; ho già il vostro contratto firmato. Troverete sul luogo le forniture al settanta per cento meno dei prezzi che noi pagheremo.»
«Chi me le consegnerà?»
«Le razzie, le imposte pagate dagli indigeni, i califfi. Ci sono in Algeria (paese ancora poco conosciuto, benché noi ci siamo già da otto anni) enormi quantità di cereali e di foraggi. Ora, quando queste derrate appartengono agli arabi, noi gliele prendiamo con una infinità di pretesti; poi, quando sono in nostro possesso, gli arabi si sforzano di riprendercele. Si combatte molto per i cereali; ma non si sa mai la quantità che è stata rubata da una parte e dall'altra. Non si ha il tempo, in aperta campagna, di misurare le granaglie per ettolitri come alla Halle e il fieno con in rue d'Eufer.
I capi arabi, proprio come i nostri spahis, preferiscono il denaro, e allora vendono quelle derrate a prezzi molto bassi. Ma l'amministrazione del Ministero della Guerra ha delle necessità fisse; per questo fa dei contratti a prezzi esorbitanti calcolati sulla difficoltà di procurarsi dei viveri, sui pericoli che corrono i trasporti. Questa è l'Algeria dal punto di vista dell'approvvigionamento. È un gran pasticcio che va avanti grazie agli espedienti ingegnosi di ogni amministrazione da poco tempo istituita. Non ci possiamo veder chiaro prima d'una decina d'anni, noialtri amministratori, ma i privati hanno dei buoni occhi. Dunque, vi ci mando a fare la vostra fortuna; vi ci metto come Napoleone metteva un maresciallo povero alla testa di un reame dove si poteva proteggere segretamente il contrabbando. Sono rovinato, mio caro Fischer. Mi occorrono centomila franchi da qui a un anno...»
«Non ci vedo niente di male a prenderli ai beduini,» replicò tranquillamente l'alsaziano. «Si faceva lo stesso sotto l'Impero...»
«L'acquirente della vostra azienda verrà da voi questa mattina e vi darà diecimila franchi,» riprese il barone Hulot. «Non è forse tutto quello che vi occorre per andare in Africa?»
Il vecchio fece un cenno di assenso.
«Quanto ai fondi, laggiù, non preoccupatevi,» riprese il barone. «La rimanenza del prezzo della vostra azienda di qui la prenderò io; ne ho bisogno.»
«Tutto è vostro, perfino il mio sangue,» disse il vecchio.
«Oh! non temete nulla,» riprese il barone attribuendo a suo zio più perspicacia di quanta non ne avesse; «quanto alla riscossione delle imposte, la vostra probità non ne soffrirà; tutto dipende dalle autorità, e sono io che ho insediato laggiù le autorità: sono sicuro di loro. Questo, papà Fischer, è un segreto di vita o di morte; vi conosco, e per questo vi ho parlato francamente e senza giri di parole.»
«Andremo,» disse il vecchio. «E questo durerà?...»
«Due anni! Avrete centomila franchi per vivere felice nei Vosgi.»
«Sarà fatto come volete, il mio onore è il vostro,» disse tranquillamente il vecchietto.
«Ecco come mi piacciono gli uomini. Comunque, non partirete senza prima aver visto la vostra pronipote felice e sposata; sarà contessa.»
Le imposte, la razzia delle razzie e il prezzo pagato dall'impiegato per l'acquisto dell'azienda Fischer non potevano fornire immediatamente sessantamila franchi per la dote d'Hortense, ivi compreso il corredo, che sarebbe costato circa cinquemila franchi, e i quarantamila franchi spesi o da spendere per la signora Marneffe. Insomma, dove li aveva presi il barone i trentamila franchi che aveva appena consegnati? Ecco come. Alcuni giorni prima, Hulot aveva fatto, presso due diverse compagnie, un'assicurazione sulla vita, per una somma di centocinquantamila franchi e per tre anni. Munito della polizza il cui premio era stato pagato, egli aveva tenuto questo discorso al signor barone di Nucingen, pari di Francia, nella cui carrozza si trovava mentre, al termine di una seduta alla Camera dei Pari, si recava a cena con lui.
«Barone, ho bisogno di settantamila franchi, e ve li chiedo. Prenderete un prestanome al quale trasmetterò per tre anni la quota impegnabile dei miei emolumenti; essa ammonta a venticinquemila franchi l'anno. Sono settantacinquemila franchi in tre anni. Voi mi direte: ‹Potreste morire.›»
Il barone fece un cenno di assenso.
«Ecco una polizza d'assicurazione di centocinquantamila franchi che vi sarà trasferita fino a concorrenza di ottantamila franchi,» rispose il barone estraendo un foglio dalla sua tasca.
«E se foi foste testituito?» disse il barone milionario ridendo.
L'altro barone, il non milionario, divenne pensieroso.
«Rassicuratefi, fi ho fatto l'opiezione zolo per farfi federe che ho qualche merito a dare a foi la zomma. Ziete tunque brobrio in tifficoltà, berghé la panca ha la fostra firma.»
«Marito mia figlia,» disse il barone, «e non ho quattrini, come tutti quelli che continuano a servire nell'amministrazione dello stato, in un'epoca ingrata come questa, nella quale cinquecento borghesi seduti su dei seggi non sapranno mai ricompensare largamente le persone devote come faceva l'imperatore.»
«Antiamo, afete afuto Josépha,» riprese il pari di Francia; «cotesto sbiega tutto! Detto fra ti noi, il tuca d'Herouville fi ha fatto un crande servizio dogliendofi quella zanguizuga talla fostra porza. ‹Ho conosciuto questo tolore, e ho saputo compatire›» aggiunse credendo di citare un verso francese. «Sentite un conzilio t'amico: chiudete questa fostra attifità o sarete testituito.»
Quel losco affare fu concluso grazie alla mediazione di un piccolo usuraio, certo Vauvinet, uno di quegli intriganti che stanno sempre davanti alle banche come quel piccolo pesce che sembra essere il domestico del pescecane. Questo uomo avido e lungimirante promise al signor barone Hulot, tanto era desideroso di ottenere la protezione di quel grande personaggio, di negoziargli trentamila franchi di cambiali, a novanta giorni, impegnandosi a rinnovarle quattro volte e a non metterle in circolazione.
Il successore di Fischer doveva dare quarantamila franchi per ottenere la ditta, ma con la promessa della fornitura di foraggi in un dipartimento vicino a Parigi.
Questo era il dedalo spaventoso in cui le passioni cacciavano un uomo fino allora fra i più onesti, uno dei più abili lavoratori dell'amministrazione napoleonica: la concussione per saldare l'usura, l'usura per appagare le sue passioni e per maritare la figlia. Quella prodigalità «scientifica», tutti quegli sforzi erano spesi per apparire grande agli occhi della signora Marneffe, per essere il Giove di quella Danae borghese. Non si può impiegare più attività, più intelligenza, più audacia per costruire onestamente la propria fortuna, di quanto il barone ne impiegasse per mettersi in quei guai: sbrigava gli affari della sua divisione, sollecitava i tappezzieri, andava a vedere gli operai, verificava minuziosamente i più piccoli dettagli della casa di rue Vanneau. Benché tutto preso dalla signora Marneffe, egli non trascurava le sedute della Camera, si occupava di mille cose, e né la famiglia, né altri si accorgevano delle sue preoccupazioni.


XXXV • DOVE LA CODA DEI ROMANZI COMUNI SI TROVA NEL MEZZO DI QUESTA STORIA TROPPO VERIDICA, ASSAI ANACRONISTICA E TERRIBILMENTE MORALE

Adeline, stupita di sapere suo zio salvo, di vedere che una dote figurava nel contratto di matrimonio, provava una specie di inquietudine, in mezzo alla felicità che le procurava il matrimonio di Hortense concluso in condizioni così onorevoli; ma la vigilia del matrimonio di sua figlia, combinato dal barone in modo da farlo coincidere col giorno in cui la signora Marneffe avrebbe preso possesso del suo appartamento in rue Vanneau, Hector mise fine allo stupore di sua moglie con questa comunicazione ufficiale:
«Adeline, nostra figlia si sposa; tutte le nostre preoccupazioni a questo riguardo sono finite. È arrivato per noi il momento di abbandonare la vita di società; fra tre anni appena, infatti, raggiungerò i limiti d'età e andrò in pensione. Perché continuare delle spese ormai inutili? Il nostro appartamento ci costa seimila franchi di affitto, abbiamo quattro domestici; ci mangiamo trentamila franchi all'anno. Se tu vuoi che io tenga fede ai miei impegni, poiché ho ceduto il mio stipendio per tre anni in cambio della somma necessaria al matrimonio di Hortense e a pagare le cambiali di tuo zio...»
«Ah! hai fatto bene, amico mio,» disse lei interrompendo il marito e baciandogli le mani.
Quella confessione metteva fine ai timori di Adeline.
«Ho qualche piccolo sacrificio da chiederti,» riprese lui, liberandosi le mani e dando un bacio sulla fronte alla moglie. «Mi hanno trovato, in rue Plumet, al primo piano, un bell'appartamento, dignitoso, con bellissimi rivestimenti in legno, che costa solo millecinquecento franchi, dove tu non avrai bisogno che di una cameriera per te, e dove io mi accontenterò di un piccolo domestico.»
«Sì, amico mio.»
«Tenendo la nostra casa con semplicità, pur senza trascurare il decoro, certo non spenderai che seimila franchi l'anno, eccettuate le mie spese particolari, alle quali provvederò da me...»
La generosa Adeline, felice, gettò le braccia al collo del marito.
«Che gioia poterti dimostrare di nuovo quanto ti amo!» esclamò, «e che uomo pieno di risorse sei!...»
«Riceveremo la nostra famiglia una volta la settimana; io, come sai, pranzo raramente a casa... Puoi, senza comprometterti, andare a pranzare due volte la settimana da Victorin, e due volte da Hortense; e poiché penso di poter operare una completa riconciliazione fra Crevel e noi, pranzeremo una volta la settimana da lui. Questi cinque pranzi e il nostro riempiranno la settimana, tenendo anche conto di qualche invito al di fuori della famiglia.»
«Farò delle economie,» disse Adeline.
«Ah!» esclamò lui, «sei una perla di donna.»
«Mio buono, meraviglioso Hector! Ti benedirò fino al mio ultimo respiro,» gli rispose la moglie, «poiché hai maritato bene la nostra cara Hortense.»
Fu così che la casa della bella signora Hulot cominciò a diventare più piccola e che il barone cominciò, possiamo ben dirlo, ad abbandonare sua moglie, come aveva solennemente promesso alla signora Marneffe.
Il buon grosso Crevel, naturalmente invitato alla firma del contratto di matrimonio, si comportò come se la scena, con cui ha inizio questo racconto, non avesse avuto luogo, come se egli non avesse alcun risentimento contro il barone Hulot. Célestin Crevel fu amabilissimo; fu un po' troppo ex profumiere, come al solito, ma, grazie al suo nuovo grado, cominciava ad assumere un'aria maestosa. Parlò di ballare alle nozze.
«Bella signora,» disse graziosamente alla baronessa Hulot, «le persone come noi sanno dimenticare tutto; non banditemi dalla vostra casa, e degnatevi qualche volta di allietare la mia venendoci con i vostri figli. State tranquilla, non vi dirò mai niente di quello che ho in fondo al mio cuore. Mi sono comportato come un imbecille, poiché ci perdevo troppo a non vedervi più...»
«Signore, una donna onesta non ha orecchi per i discorsi ai quali fate allusione; e, se manterrete la vostra parola, non dovrete dubitare del piacere che proverò nel veder finire una separazione che è sempre penosa in seno alle famiglie...»
«Ebbene, vecchio musone,» disse il barone Hulot conducendo a forza Crevel in giardino, «tu mi eviti dappertutto, perfino nella mia casa. È mai possibile che due vecchi amatori del bel sesso come noi debbano bisticciare per una sottana? Via, è una cosa che non va.»
«Signore, io non sono un bell'uomo come voi, e i miei scarsi mezzi di seduzione mi impediscono di riparare alle mie perdite con la vostra stessa facilità...»
«Dell'ironia!» rispose il barone.
«È permessa contro i vincitori quando si è dei vinti.»
Cominciata su questo tono, la conversazione terminò con una riconciliazione completa; ma Crevel ribadì il suo proposito di prendersi una rivincita.
La signora Marneffe volle essere invitata al matrimonio della signorina Hulot. Per vedere la sua futura amante nel suo salotto, il consigliere di Stato fu costretto a invitare gli impiegati della sua divisione, compresi i sotto-capi. Divenne allora necessario dare un gran ballo. Da buona economa, la baronessa calcolò che un ricevimento sarebbe costato meno caro di una cena, e avrebbe permesso di invitare più gente. Il matrimonio di Hortense fece dunque grande scalpore.
I testimoni furono il maresciallo principe di Wissembourg e il barone di Nucingen per la sposa, e i conti Rastignac e Popinot per Steinbock. Infine, il conte Steinbock credette opportuno invitare i più illustri membri dell'emigrazione polacca, i quali, a partire dal momento in cui l'artista era diventato famoso, ricercavano la sua compagnia. Il Consiglio di Stato, l'amministrazione, di cui faceva parte il barone, e l'esercito, che voleva onorare il conte di Forzheim, sarebbero stati rappresentati ai più alti livelli. Si fece il conto di duecento inviti d'obbligo. Chi non immaginerà allora l'interesse della piccola signora Marneffe ad apparire in tutto il suo splendore in mezzo a quella eletta schiera?
Da un mese, la baronessa consacrava la somma ricavata dalla vendita dei suoi diamanti alla casa della figlia, dopo aver conservato i più belli per il corredo. Il ricavo di quella vendita fu di quindicimila franchi, di cui cinquemila furono spesi per il corredo di Hortense. Che cos'erano diecimila franchi per ammobiliare l'appartamento dei giovani sposi, se si pensa alle esigenze del lusso moderno? Ma il signore e la signora Hulot figli, il vecchio Crevel e il conte di Forzheim fecero agli sposi dei bellissimi regali; infatti il vecchio zio di Hortense aveva messo da parte una bella somma per l'argenteria. Grazie a tanti aiuti, una parigina esigente sarebbe stata soddisfatta della sistemazione della giovane coppia nell'appartamento che questa aveva scelto, in rue Saint-Dominique, vicino all'Esplanade des Invalides. Tutto vi era in armonia col loro amore, così puro, così schietto, così sincero da una parte e dall'altra.
Infine il gran giorno arrivò, poiché doveva essere un gran giorno tanto per il padre, quanto per Hortense e Wenceslas; la signora Marneffe aveva deciso di inaugurare la sua nuova casa l'indomani della sua «caduta» e del matrimonio dei due innamorati.
Chi non ha, una volta in vita sua, assistito a un ballo di nozze? Ciascuno può fare appello ai propri ricordi e sorriderà, certo, nell'evocare dinanzi a sé tutte quelle persone dai gesti impacciati negli abiti da cerimonia.
Se mai fatto sociale ha dimostrato l'influenza degli ambienti, non è forse quello? Infatti lo sfarzo degli uni ha tale effetto sugli altri che la gente più abituata a indossare sempre abiti eleganti sembra appartenere alla categoria di quelli per i quali il matrimonio è una occasione unica nella vita. Infine, ricordate quelle persone gravi, quei vecchi per i quali tutto è ormai talmente indifferente, che non hanno nemmeno cambiato l'abito nero di tutti i giorni, e gli uomini sposati da tempo, sui cui volti si legge la triste esperienza della vita che i giovani stanno per incominciare. E ancora quell'atmosfera effervescente come le bollicine di gas nello champagne, e le ragazze invidiose, le donne preoccupate del successo della loro toilette, e i parenti poveri, i cui vestiti riadattati contrastano con quelli della gente in fiocchi, e i golosi che non pensano che a mangiare, e i giocatori a giocare. Vi è di tutto, ricchi e poveri, invidiosi e invidiati, scettici e illusi, tutti raggruppati come le piante di un'aiuola intorno a un fiore raro, la sposa. Un ballo di nozze è il mondo in miniatura.



XXXVI • LE DUE NUOVE SPOSE

Nel momento in cui l'animazione era al massimo, Crevel prese il barone per il braccio e gli disse all'orecchio con l'aria più naturale del mondo: «Perdinci! che bella donna quella piccola signora in rosa che ti fulmina con lo sguardo!...»
«Chi?»
«La moglie di quel sottocapo che tu fai avanzare nella carriera, Dio sa come! La signora Marneffe.»
«Come lo sai?»
«Guarda, Hulot, cercherò di perdonarti i torti che mi hai fatto se mi presenterai a lei; in cambio io ti inviterò a casa di Héloïse. Tutti si domandano chi è quella creatura affascinante. Sei sicuro che nessuno nei tuoi uffici farà sapere in che modo è stato promosso suo marito?... Oh! fortunato briccone, lei vale più di un ufficio... Ah! ci passerei dal suo ufficio... Andiamo, siamo amici, Cinna?...»
«Più che mai,» disse il barone al profumiere, «e ti prometto di essere un vero amico. Fra un mese, ti farò cenare con quell'angioletto!... Ormai stiamo con gli angeli, vecchio mio. Ti consiglio di fare come me, di lasciare i demoni...»
La cugina Bette, che ora abitava in rue Vanneau, in un piccolo e grazioso appartamento al terzo piano, lasciò il ballo alle dieci per tornarsene a casa a vedere i titoli dei milleduecento franchi di rendita in due cartelle; la nuda proprietà dell'una apparteneva alla contessa Steinbock e quella dell'altra alla giovane signora Hulot. Si capisce così come il signor Crevel avesse potuto parlare al suo amico Hulot della signora Marneffe e conoscere un segreto che tutti ignoravano. Infatti, eccetto il signor Marneffe, che era assente, soltanto la cugina Bette, il barone e Valérie conoscevano quel mistero.
Il barone aveva commesso l'imprudenza di regalare alla signora Marneffe una toilette troppo lussuosa per la moglie di un sotto-capo; le altre donne furono gelose sia della toilette che della bellezza di Valérie. Ci furono dei bisbigli dietro i ventagli, poiché tutti gli impiegati della Divisione sapevano dell'indigenza dei Marneffe. E il marito di Valérie, nel momento in cui il barone si era innamorato della moglie, andava sollecitando degli aiuti. D'altra parte Hector non seppe nascondere la sua eccitazione vedendo il successo di Valérie, la quale, dignitosa, piena di distinzione e invidiata, fu sottoposta a quell'attento esame che tante donne temono quando entrano per la prima volta in un nuovo ambiente.
Dopo aver messo sua moglie, sua figlia e suo genero in carrozza, il barone trovò il modo di allontanarsi senza farsi notare, lasciando al figlio e alla nuora il compito di fare la parte dei padroni di casa. Salì nella carrozza della signora Marneffe e l'accompagnò a casa sua; ma la trovò muta e pensierosa, quasi malinconica.
«La mia felicità vi rende assai triste, Valérie,» egli disse attirandola a sé nel fondo della carrozza.
«Come potete pensare, amico mio, che una povera donna non sia pensierosa quando commette la sua prima colpa, anche se l'infame condotta di suo marito le rende la sua libertà? Credete che io sia senza anima, senza fede, senza religione? Stasera avete manifestato la vostra gioia nel modo più indiscreto e avete compromesso la mia reputazione in maniera odiosa. Davvero, un collegiale sarebbe stato meno fatuo di voi. Così tutte quelle signore mi hanno tormentata a furia di occhiate e di parole pungenti! Qual è la donna che non tiene alla sua reputazione? Voi mi avete perduta. Ah, sì, sono ben vostra! e non ho più per scusare questa colpa, altra risorsa che quella di esservi fedele... Mostro!» disse ridendo e lasciandosi abbracciare, «sapevate benissimo ciò che facevate. La signora Coquet, la moglie del nostro capufficio, è venuta a sedersi vicino a me per ammirare i miei merletti. ‹Pizzo d'Inghilterra,› mi ha detto. ‹Vi costano cari, signora?› ‹Non so,› le ho risposto. ‹Questi merletti mi vengono da mia madre; non sono abbastanza ricca per comprarne di simili!›»
La signora Marneffe aveva finito, come si vede, per affascinare a tal punto il vecchio ganimede dell'Impero, che egli credeva davvero di farle commettere la sua prima colpa e di averle ispirato una tale passione da indurla a dimenticare tutti i suoi doveri. Gli diceva di essere stata abbandonata dall'infame Marneffe, dopo tre giorni di matrimonio, e per dei motivi abietti. Da allora, si era comportata come la più onesta delle ragazze, e ne era felice, perché il matrimonio le sembrava una cosa orribile. Da ciò proveniva la sua attuale tristezza.
«Se fosse per l'amore come è per il matrimonio,» disse piangendo.
Queste deliziose bugie, spacciate da quasi tutte le donne nella situazione in cui si trovava Valérie, facevano intravedere al barone le gioie del settimo cielo. Perciò Valérie si faceva desiderare, mentre l'artista innamorato e Hortense aspettavano forse con impazienza che la baronessa avesse dato la sua ultima benedizione e il suo ultimo bacio alla figlia.
Alle sette del mattino, il barone, al colmo della felicità, poiché aveva trovato la donna più innocente e il diavolo più consumato nella sua Valérie, ritornò per esonerare i giovani coniugi Hulot dalla loro fatica. Quei ballerini e ballerine, quasi estranei alla casa, e che finiscono per essere i padroni della sala in tutte le feste nuziali, si abbandonavano alle ultime interminabili contraddanze chiamate «cotillons», i giocatori di bouillotte giocavano con accanimento ai loro tavoli e il vecchio Crevel vinceva seimila franchi.
I giornali, distribuiti dagli strilloni, contenevano nella cronaca di Parigi questo breve articolo:

«Le nozze del conte Steinbock e della signorina Hortense Hulot, figlia del barone Hulot d'Ervy, consigliere di Stato e direttore del Ministero della Guerra, nipote dell'illustre conte di Forzheim, sono state celebrate stamane nella chiesa di San Tommaso d'Aquino. La cerimonia aveva attirato molta gente. Si notavano fra i presenti alcune delle nostre celebrità artistiche: Léon de Lora, Joseph Bridau, Stidmann, Bixiou; alte personalità dell'amministrazione del Ministero della Guerra, del Consiglio di Stato, e numerosi membri delle due Camere; infine i più importanti rappresentanti dell'emigrazione polacca, i conti Paz, Laginskj ecc.
«Il conte Wenceslas Steinbock è il pronipote del celebre generale di Carlo xii, re di Svezia. Il giovane conte, avendo preso parte all'insurrezione polacca, ha chiesto e ottenuto asilo politico in Francia, dove la meritata fama di artista gli ha valso la concessione della cittadinanza.»

Così, malgrado le ristrettezze economiche del barone Hulot d'Ervy, non mancò nulla di quanto esige l'opinione pubblica, nemmeno la pubblicità data dai giornali al matrimonio di sua figlia, la cui cerimonia fu del tutto simile a quella di Hulot figlio e della signorina Crevel. Quella festa attenuò le chiacchiere che circolavano sulla situazione finanziaria del direttore, così come la dote data a sua figlia spiegò la necessità in cui si era trovato di ricorrere al credito.
Qui termina, più o meno, l'introduzione a questa storia. Questo racconto sta al dramma che lo completa come le premesse a un sillogismo e il prologo a ogni tragedia classica.



XXXVII • RIFLESSIONI MORALI SULL'IMMORALITÀ

Quando, a Parigi, una donna ha deciso di far mestiere e mercato della sua bellezza, non è detto che sempre faccia fortuna. Vi si incontrano delle splendide creature, piene di spirito, che vivono in una mediocrità spaventosa e finiscono molto male una vita cominciata nei piaceri. Ecco perché: destinarsi alla vergognosa carriera delle cortigiane, con l'intenzione di ricavarne i vantaggi, pur conservando l'abito di un'onesta borghese, non basta. Il vizio non ottiene facilmente i suoi trionfi. Esso ha questa somiglianza col genio: tutti e due esigono un concorso di favorevoli circostanze per cumulare ricchezza e talento.
Sopprimete le terribili fasi della Rivoluzione e l'imperatore non esiste più, non sarebbe stato che una seconda edizione di Fabert. La bellezza venale senza amatori, senza celebrità, senza la croce di disonore che i patrimoni dissipati le assicurano è un Correggio in una soffitta, è il genio che languisce in una mansarda. A Parigi una Laïde deve dunque, prima di tutto, trovare un uomo ricco che si appassioni abbastanza di lei per pagarle il suo prezzo. Deve soprattutto mantenere una grande eleganza che, per lei, è un emblema, avere modi abbastanza raffinati per lusingare l'amor proprio degli uomini, possedere quella verve alla Sophie Arnould che risveglia l'apatia dei ricchi; infine deve farsi desiderare dai libertini dando l'impressione di essere fedele a uno solo, la cui felicità viene allora invidiata.
Queste condizioni, che le donne di quel genere chiamano «buona occasione», si realizzano assai difficilmente a Parigi, benché sia una città piena di milionari, di oziosi, di gente blasée e originale. In questo la Provvidenza ha senza dubbio ben protetto le famiglie degli impiegati e la piccola borghesia, per i quali gli ostacoli sono per lo meno raddoppiati dall'ambiente in cui conducono la loro esistenza. Tuttavia, si trovano ancora abbastanza signore Marneffe a Parigi perché Valérie debba figurare come un esemplare in questa storia di costumi. Di queste donne, alcune obbediscono nello stesso tempo a delle passioni vere e alla necessità, come la signora Colleville che fu per tanto tempo legata a uno dei più celebri oratori della sinistra, il banchiere Keller; altre sono mosse dalla vanità, come la signora de la Baudraye, rimasta più o meno onesta, malgrado la sua fuga con Lousteau; queste sono spinte dalle esigenze del vestir bene, quelle dall'impossibilità di mandare avanti la casa con degli stipendi evidentemente troppo modesti. La parsimonia dello Stato o delle Camere, se volete, causa molte infelicità e genera molta corruzione. Ci si commuove molto in questo momento sulla sorte delle classi operaie, che vengono presentate come le vittime degli industriali; ma lo Stato è cento volte più duro del più avido industriale; esso spinge, in fatto di stipendi, lo sfruttamento fino all'impossibile. Se lavorate molto, l'industria vi paga in ragione del vostro lavoro; ma che cosa dà lo Stato a tanti oscuri e devoti lavoratori?
Deviare dal sentiero dell'onore è, per la donna sposata, una colpa imperdonabile, ma vi sono gradi diversi in questa situazione. Alcune donne, lungi dall'essere depravate, nascondono le loro colpe e restano in apparenza donne oneste, come le due di cui sono state appena ricordate le avventure; mentre certe altre aggiungono alle loro colpe le ignominie della speculazione. La signora Marneffe è dunque in qualche modo il tipo di quelle ambiziose cortigiane sposate che, sin dall'inizio, accettano la depravazione con tutte le conseguenze che ne derivano, e che sono decise a fare fortuna divertendosi, senza scrupoli riguardo ai mezzi: queste donne hanno, però, quasi sempre, come la signora Marneffe, i loro mariti per agenti e per complici. Queste Machiavelli in gonnella sono le donne più pericolose, e, di tutte le cattive specie di parigine, è questa la peggiore. Una vera cortigiana, come le Josépha, le Schontz, le Malaga, le Jenny Cadine ecc., porta nella sincerità della sua situazione un avvertimento tanto luminoso quanto la lanterna rossa della prostituzione o le lampade di Quinquet del trente-et-quarante. Un uomo allora sa che lì rischia la sua rovina. Ma la melliflua rispettabilità, le parvenze di virtù e le maniere ipocrite di una donna sposata che non lascia vedere se non i bisogni quotidiani della sua casa e che rifiuta, apparentemente, qualsiasi follia, trascina gli uomini alla rovina: una rovina oscura, senza grandezze, tanto più singolare in quanto viene scusata senza essere spiegata. È l'ignobile libro delle spese e non la fantasia spensierata che divora i patrimoni. Un padre di famiglia si rovina senza alcuna gloria, e, nella miseria, gli manca la grande consolazione di aver soddisfatto la sua vanità.
Questa tirata andrà come una freccia al cuore di molte famiglie. Si vedono delle signore Marneffe in tutti gli strati sociali, e persino nelle corti; infatti Valérie è una triste realtà modellata dal vivo nei minimi particolari. Sfortunatamente, questo ritratto non correggerà nessuno dalla mania di amare angeli dal dolce sorriso, dall'aria sognatrice, dal volto candido, il cui cuore è una cassaforte.


XXXVIII • DOVE SI VEDE L'EFFETTO DELLE OPINIONI DI CREVEL

Circa tre anni dopo il matrimonio di Hortense, nel 1841, il barone Hulot d'Ervy passava per uno che si era rimesso a fare una vita regolare, per uno che ha smesso di correre la cavallina, secondo l'espressione del primo chirurgo di Luigi xv, e tuttavia la signora Marneffe gli costava due volte di più di quanto non gli fosse costata Josépha. Ma Valérie, benché sempre ben messa, ostentava la semplicità di una donna sposata a un sottocapo e riservava il lusso alle sue vesti da camera e agli abiti che indossava in casa. In questo modo sacrificava le sue vanità di parigina al suo amato Hector. Tuttavia, quando andava a teatro, vi si faceva vedere sempre con un grazioso cappellino e con un vestito elegante e all'ultima moda; il barone ve la conduceva in carrozza e l'accompagnava in un palco di prim'ordine.
L'appartamento di rue Vanneau, che occupava tutto il secondo piano di un palazzetto moderno situato tra corte e giardino, aveva un'aria di rispettabilità. Il lusso consisteva in tappezzerie di cretonne, in bei mobili confortevoli e di buon gusto. Solo nella camera da letto si poteva vedere quel lusso profuso dalle varie Jenny Cadine e Schontz: tende di merletto, cachemire, tendaggi di broccato, un servizio da caminetto modellato da Stidmann, un mobiletto pieno di oggettini preziosi. Hulot non aveva voluto vedere la sua Valérie in un nido inferiore in magnificenza al mondezzaio d'oro e di perle di una Josépha. Le due stanze principali, il salotto e la sala da pranzo, erano state rivestite l'una di damasco rosso, l'altra di legno di quercia scolpito. Ma, spinto dal desiderio di creare un tutto armonico, dopo sei mesi, il barone aveva aggiunto il lusso solido al lusso effimero, offrendo in dono preziosi oggetti da arredamento, come ad esempio un servizio d'argento del valore di oltre ventiquattromila franchi.
La casa della signora Marneffe acquistò in due anni la fama di ritrovo molto piacevole. Vi si giocava. Valérie stessa fu ben presto nota come donna amabile e spiritosa. Fu sparsa la voce, per giustificare il cambiamento della sua situazione economica, di un immenso legato che il padre naturale, il maresciallo Montcornet, le aveva trasmesso mediante un fidecommisso. Pensando all'avvenire, Valérie aveva aggiunto l'ipocrisia religiosa alla sua ipocrisia sociale. Sempre puntuale alle funzioni della domenica, ebbe tutti gli onori riservati alla devozione. Faceva la questua, divenne dama di carità, distribuiva il pane benedetto, e fece anche qualche beneficenza nel quartiere, tutto a spese di Hector. In casa sua dunque tutto si svolgeva nel modo più decoroso, per cui molti si dicevano certi della purezza delle sue relazioni col barone, portando a riprova l'età del consigliere di Stato, al quale veniva attribuita una ammirazione platonica per la gentilezza dell'animo, il fascino dei modi, la conversazione della signora Marneffe, pressappoco uguale a quella del defunto Luigi xviii per i biglietti scritti con eleganza.
Il barone usciva verso mezzanotte con gli altri invitati e rientrava un quarto d'ora dopo.
Ecco il segreto di questo profondo segreto:
I portieri della casa erano il signore e la signora Olivier, i quali, grazie alla protezione del barone, amico del proprietario che era in cerca di un portiere, erano passati dalla loro portineria oscura e poco remunerativa di rue du Doyenné a quella, splendida e redditizia, di rue Vanneau. Ora, la signora Olivier, ex guardarobiera della casa di Carlo x, e decaduta da quella «posizione» con la monarchia legittima, aveva tre figli. Il maggiore, già giovane di studio di un notaio, era oggetto dell'adorazione dei coniugi Olivier. Questo beniamino, che rischiava di partire soldato e di vedere interrotta per sei anni la sua brillante carriera, fu esentato dal servizio militare grazie all'intervento della signora Marneffe, per uno di quei difetti di costituzione che le commissioni di revisione sanno ben scoprire quando arrivi al loro orecchio la discreta sollecitazione di qualche potente personalità ministeriale. Olivier, ex bracchiere di Carlo x, e la sua sposa, avrebbero dunque rimesso Gesù in croce per il barone Hulot e per la signora Marneffe.
Che poteva dire la gente, alla quale l'antecedente del brasiliano, signor Montès de Montejanos, era sconosciuto? Assolutamente niente. La gente è, del resto, piena d'indulgenza per la padrona di un salotto in cui ci si diverte. La signora Marneffe aggiungeva infine, a tutte le sue attrattive, l'apprezzatissimo vantaggio di essere una potenza occulta. Così Claude Vignon, divenuto segretario del maresciallo di Wissemburg e che sognava di diventare referendario al Consiglio di stato, era un frequentatore assiduo di quel salotto, dove venivano anche qualche deputato, compagnone e giocatore. Il circolo della signora Marneffe si era composto con sapiente lentezza; a far gruppo erano solo le persone di opinioni e di costumi conformi, che avevano interesse a favorirsi l'un l'altro e a proclamare i meriti infiniti della padrona di casa. Il comparaggio, ricordate questo assioma, è la vera Santa Alleanza, a Parigi. Gli interessi finiscono sempre per creare suddivisioni interne, gli individui viziosi finiscono sempre per intendersi.
Tre mesi dopo essersi sistemata in rue Vanneau, la signora Marneffe aveva già ricevuto il signor Crevel, divenuto ben presto sindaco del suo arrondissement e ufficiale della Legion d'Onore. Crevel esitò a lungo prima di andare da lei: si trattava di mettere da parte la celebre uniforme di guardia nazionale nella quale si pavoneggiava alle Tuileries credendosi un vero militare, proprio come l'imperatore; ma l'ambizione, consigliata dalla signora Marneffe, fu più forte della vanità. Il signor sindaco aveva giudicato la sua relazione con la signora Héloïse Brisetout del tutto incompatibile con la sua posizione politica. Molto tempo prima del suo avvento al trono borghese del municipio, le sue avventure galanti furono avvolte da un profondo mistero. Ma Crevel, come si può ben capire, aveva pagato il diritto di prendersi, il più sovente possibile, la rivincita per il ratto di Josépha con un'assegnazione di seimila franchi di rendita al nome di Valérie Fortin, sposa di Marneffe, ma con i beni separati da quelli del marito. Valérie, che aveva forse ereditato dalla madre il genio tipico della donna mantenuta, intuì alla prima occhiata il carattere di quel grottesco adoratore. Quella frase - «Non ho mai avuto donne del gran mondo!» - detta da Crevel a Lisbeth e riportata da Lisbeth alla sua cara Valérie, era stata largamente sfruttata nella transazione alla quale ella dovette i suoi seimila franchi di rendita al cinque per cento. Da allora, aveva fatto in modo che il suo prestigio non diminuisse agli occhi dell'ex commesso viaggiatore di César Birotteau.
Crevel aveva fatto un matrimonio di interesse sposando la figlia di un mugnaio della Brie, figlia unica del resto e la cui eredità veniva a costituire i tre quarti della sua fortuna, perché, nella maggior parte dei casi, i piccoli negozianti si arricchiscono, più che con gli affari, con l'unione fra la bottega e l'economia rurale. Un gran numero di fittavoli, di mugnai, di allevatori, di coltivatori dei dintorni di Parigi sognano per le loro figlie le glorie del banco di bottega, e vedono in un merciaio, in un chincagliere, in un cambiavalute, un genero assai più gradito di un notaio, o un avvocato, la cui alta posizione sociale li impensierisce; hanno paura di essere disprezzati in seguito da quest'alti esponenti della borghesia. La signora Crevel, donna piuttosto brutta, volgare e stupida, morta in tempo per fortuna, non aveva dato altri piaceri a suo marito che quelli della paternità. Ora, all'inizio della sua carriera commerciale, questo libertino, impedito dai doveri del suo stato e trattenuto dall'indigenza, si era trovato a recitare la parte di Tantalo. In relazione, secondo la sua espressione, con le donne più a modo di Parigi, egli le riaccompagnava alla porta con dei saluti ossequiosi da bottegaio, ammirando le loro grazie, il loro modo di vestire alla moda, e tutti gli indefinibili effetti di ciò che si chiama la razza. Innalzarsi fino a una di quelle fate da salotto era un desiderio accarezzato fin dalla giovinezza e racchiuso nel suo cuore. Ottenere i favori della signora Marneffe fu dunque per lui la realizzazione del suo sogno, e, ancor più, una questione di orgoglio, di vanità, d'amor proprio, come si è potuto vedere. La sua ambizione aumentò col successo. La sua mente conobbe godimenti immensi e, quando la mente è presa, il cuore ne subisce l'influenza e la felicità si decuplica. La signora Marneffe prodigò del resto a Crevel delle raffinatezze che egli neppure immaginava, poiché né Josépha né Héloïse lo avevano amato; e gliele prodigò perché giudicava necessario far perdere la testa a quell'uomo nel quale vedeva una cassa inesauribile.
Gli inganni dell'amore venale sono più seducenti della realtà. L'amore vero comporta dei battibecchi in cui ci si può ferire al cuore; ma il litigio fatto per finta è, al contrario, una carezza fatta all'amor proprio dell'ingenuo. Così, la rara frequenza dei convegni manteneva in Crevel il desiderio allo stadio di passione. Egli cozzava sempre contro l'ostinazione virtuosa di Valérie, che simulava il rimorso, che parlava di ciò che suo padre doveva pensare di lei nel paradiso degli eroi. Crevel doveva vincere una specie di freddezza sulla quale l'astuta Marneffe gli faceva credere di trionfare, quando sembrava cedere alla passione folle di quel borghese; ma poi riprendeva, come se si vergognasse, il suo orgoglioso riserbo da donna onesta e le sue arie da virtuosa, né più né meno di una donna inglese, e schiacciava sempre il suo Crevel sotto il peso della propria dignità, poiché Crevel l'aveva, fin da principio, creduta virtuosa. Infine certe speciali manifestazioni di tenerezza, di cui Valérie era maestra, la rendevano indispensabile sia a Crevel che al barone.
In presenza della gente, ella mostrava un'incantevole combinazione di candore pudico e sognante, di decoro irreprensibile, di spirito arguto ravvivato dalla gentilezza, dalla grazia e dai suoi modi da creola; ma, nei convegni intimi, superava le cortigiane, era estrosa, divertente, capace di sempre nuove invenzioni. Questo contrasto piace enormemente ai tipi Crevel che, lusingati di essere i soli ispiratori di questa commedia, la credono recitata unicamente per loro e ridono di quella deliziosa ipocrisia, ammirando l'attrice.


XXXIX • IL BEL HULOT DEMOLITO

Con arte consumata Valérie aveva ridotto in suo potere il barone Hulot; lo aveva perfino obbligato a invecchiare con una di quelle adulazioni raffinate che possono servire a rappresentare lo spirito diabolico di quel tipo di donne. Anche nelle costituzioni privilegiate arriva il momento in cui, come in una piazzaforte assediata che abbia resistito a lungo, la realtà della situazione salta agli occhi. Prevedendo la prossima dissoluzione del bello dell'Impero, Valérie giudicò necessario affrettarla.
«Ma perché ti tormenti, mio vecchio brontolone?» gli disse sei mesi dopo il loro matrimonio clandestino e doppiamente adultero. «Avresti forse altre aspirazioni? Vorresti essermi infedele? Guarda, a me piaceresti molto di più se non ti truccassi. Fammi il sacrificio delle tue grazie posticce. Credi forse che siano quei due soldi di lucido da scarpe sui tuoi stivali, la tua ventriera di caucciù, il tuo gilè attillato, il tuo falso tupè che io amo in te? Del resto, più sarai vecchio, meno avrò paura di vedermi portar via il mio Hulot da una rivale!»
E il consigliere di Stato, credendo nella divina amicizia come nell'amore della signora Marneffe con la quale contava di finire la propria esistenza, aveva seguito quel consiglio privato smettendo di tingersi i favoriti e i capelli.
Dopo aver ricevuto da Valérie quella toccante dichiarazione, un mattino il grande e bel Hector si mostrò tutto bianco. La signora Marneffe fece credere facilmente al suo caro Hector che ella aveva visto cento volte la linea bianca formata dalla crescita dei capelli.
«I capelli bianchi si addicono mirabilmente al vostro viso,» gli disse vedendolo, «lo addolciscono; siete infinitamente meglio, siete affascinante.»
Infine il barone, una volta presa quella via, si tolse il gilè di pelle, il busto; si sbarazzò di tutti i suoi finimenti. Il ventre cedette, l'obesità si fece manifesta. La quercia divenne una torre, e la pesantezza dei movimenti fu tanto più preoccupante, in quanto il barone, nel suo ruolo di Luigi xii, invecchiava in maniera sorprendente. Le sopracciglia rimasero nere e ricordavano vagamente il bel Hulot, come in certi resti di mura feudali sopravvive un piccolo particolare di scultura a darci l'idea di ciò che fu il castello ai suoi bei tempi. Quella discordanza rendeva lo sguardo, ancora giovane e vivo, tanto più singolare in quel volto bistrato, in quanto là dove così a lungo fiorirono toni di carnagione alla Rubens, si vedevano, da certe macchie livide e nel solco teso della ruga, gli sforzi di una passione in rivolta contro la natura. Hulot fu allora una di quelle belle rovine umane in cui la virilità risalta per certe specie di cespugli alle orecchie, al naso, alle dita, producendo l'effetto del muschio che spunta sui monumenti quasi eterni dell'impero romano.
Come aveva fatto Valérie a tenere Crevel e Hulot in casa sua, l'uno a fianco dell'altro, quando il vendicativo comandante di battaglione voleva trionfare clamorosamente su Hulot? Senza rispondere immediatamente a questo quesito, che sarà risolto dal dramma, si può osservare che Lisbeth e Valérie avevano inventato fra loro due una prodigiosa macchinazione il cui gioco possente conduceva a questo risultato. Marneffe, al vedere sua moglie diventare sempre più bella in quell'ambiente nel quale troneggiava, come il sole di un sistema stellare, sembrava, agli occhi del mondo, essersi riacceso di passione per lei, ne era diventato pazzo. Se quella gelosia faceva del signor Marneffe un guastafeste, dava peraltro un valore straordinario ai favori di Valérie. Marneffe manifestava comunque per il suo direttore una fiducia completa che degenerava in una compiacenza quasi ridicola. Il solo personaggio che lo indisponeva era precisamente Crevel.
Marneffe, distrutto dalle dissolutezze proprie delle grandi capitali, descritte dai poeti romani e per le quali il nostro pudore moderno non trova parole, era diventato ripugnante come un modello anatomico di cera. Ma quella malattia ambulante, vestita di bel panno, si dondolava su quelle sue gambe secche come pali, infilate in un elegante paio di pantaloni. Il petto scarnito si profumava di candida biancheria, e il muschio spegneva il fetore della putredine umana. Quella laidezza del vizioso, quel moribondo calzato di stivaletti rossi, poiché Valérie aveva messo Marneffe in tono con la sua ricchezza, con la sua Croce, con la sua carica, spaventava Crevel, che non sosteneva facilmente lo sguardo degli occhi vacui del sotto-capo. Marneffe era l'incubo del sindaco. Accorgendosi del singolare potere che Lisbeth e sua moglie gli avevano conferito, quel furfante ci si divertiva, ne traeva, come da uno strumento musicale, tutte le possibili variazioni; e, poiché le carte da gioco erano l'ultima risorsa di quell'anima logorata al pari del corpo, spennava Crevel, che si vedeva obbligato a «rigar diritto» col rispettabile funzionario «che egli ingannava»!
Vedendo Crevel, proprio come un bambino, in balia di quella schifosa e infame mummia, la cui corruzione era per il sindaco un mistero, vedendolo soprattutto così profondamente disprezzato da Valérie, la quale rideva di Crevel come si ride di un buffone, verosimilmente il barone si credeva così al sicuro da ogni rivalità, che lo invitava costantemente a pranzo.
Valérie, protetta da quelle due passioni che le stavano al fianco come due sentinelle e da un marito geloso, attirava tutti gli sguardi, eccitava tutti i desideri, nella cerchia in cui brillava. Così, pur salvando le apparenze, era arrivata, in tre anni circa, a realizzare le condizioni più difficili di quel successo che cercano le cortigiane, e che esse ottengono così raramente, aiutate dallo scandalo, dalla loro audacia, e dallo sfoggio lussuoso della loro vita agli occhi del mondo. Come un diamante ben tagliato che Chanor avesse deliziosamente incastonato, la bellezza di Valérie, un tempo nascosta negli anfratti di rue du Doyaunné, valeva più del suo valore reale, creava degli infelici!... Claude Vignon amava Valérie in segreto.
Questa spiegazione retrospettiva, piuttosto necessaria quando si rivede la gente a distanza di tre anni, è come il bilancio di Valérie. Ecco ora quello della sua socia Lisbeth.


XL • UNA DELLE SETTE PIAGHE DI PARIGI

La cugina Bette occupava in casa Marneffe la posizione di una parente che svolgesse la duplice funzione di dama di compagnia e di governante; ma ella ignorava le molteplici umiliazioni che, per la maggior parte del tempo, affliggono le creature abbastanza sfortunate da accettare quelle posizioni ambigue. Lisbeth e Valérie offrivano lo spettacolo commovente di una di quelle amicizie così intense e così poco probabili fra donne che i parigini, sempre troppo maliziosi, le diffamano subito. Il contrasto fra la maschia e arida natura della lorenese e la dolce natura creola di Valérie favorì la calunnia. La signora Marneffe aveva del resto, senza volerlo, dato adito ai pettegolezzi per la cura che si prese della sua amica a proposito di un progetto matrimoniale che doveva, come si vedrà, rendere completa la vendetta di Lisbeth.
Un'immensa rivoluzione si era compiuta nella cugina Bette; Valérie, che volle rivestirla, ne aveva tirato fuori il meglio. Quella singolare ragazza, ora sottomessa al busto, aveva un vitino sottile ed elegante, usava della «brillantina» per i suoi capelli ben tirati, accettava i vestiti così come glieli faceva la sarta, portava stivaletti di prima qualità e calze di seta grigia, compresi del resto dai fornitori nei conti di Valérie, e pagati da chi di dovere. Così restaurata, sempre in cachemire giallo, Bette sarebbe stata irriconoscibile per chi l'avesse rivista dopo questi tre anni. Quest'altro diamante nero, il più raro dei diamanti, tagliato da una mano abile e montato nel castone che gli si addiceva, era apprezzato in tutto il suo valore da qualche impiegato ambizioso. Chi vedeva Bette per la prima volta, fremeva involontariamente di fronte a quella selvaggia poesia che l'abile Valérie aveva saputo mettere in rilievo curando con arte la toilette di quella «Monaca sanguinaria», incorniciando con folte bande di capelli quel viso duro e olivastro nel quale brillavano degli occhi di un nero intonato a quello delle chiome, valorizzando la sua figura troppo rigida.
Bette, come una Vergine di Cranach o di Van Eyok, come una Vergine bizantina, uscita dalle loro cornici, conservava la rigidità, l'austerità di quelle figure misteriose, cugine germane delle Isidi e delle divinità avvolte nelle bende dagli scultori egiziani. Era granito, basalto, porfido che camminava. Al riparo dal bisogno per il resto dei suoi giorni, la Bette era di un umore incantevole, portava con sé l'allegria dovunque andasse a pranzo. Il barone pagava del resto l'affitto del piccolo appartamento, ammobiliato, come sappiamo, con i mobili del boudoir e della camera che la sua amica Valérie le aveva dato nel lasciare il suo vecchio appartamento.
«Dopo aver cominciato la vita come una vera capra affamata, la finisco come una leonessa,» diceva spesso.
Continuava a confezionare i più difficili lavori di passamaneria per il signor Rivet, ma solo, come diceva, per non stare senza far nulla. Eppure la sua vita era, come vedremo, straordinariamente attiva; ma è nello spirito della gente venuta dalla campagna di non abbandonare mai il lavoro quotidiano: in questo somigliano agli ebrei.
Tutte le mattine, di buon'ora, la cugina Bette di persona andava, insieme alla cuoca, al mercato generale. Nei piani della Bette, il libro della spesa, che rovinava il barone Hulot, doveva arricchire la sua cara Valérie, e in effetti l'arricchiva.
Qual è la padrona di casa che non abbia, dal 1838, provato i funesti risultati delle dottrine antisociali diffuse nelle classi inferiori da certi scrittori incendiari? In tutte le famiglie la piaga del personale di servizio è oggi la più dolorosa di tutte le piaghe finanziarie. Salvo rarissime eccezioni, e che meriterebbero il premio Montyon, un cuoco e una cuoca sono dei ladri domestici, dei ladri salariati, sfrontati, di cui il governo si è compiacentemente fatto il favoreggiatore, incoraggiando così la tendenza al furto quasi autorizzata fra le cuoche dal vecchio e arguto modo di dire: «fare la cresta sulla spesa». Dove queste donne una volta cercavano quaranta soldi per la loro puntata alla lotteria, oggi prendono cinquanta franchi per la cassa di risparmio. E i freddi puritani, che si divertono a fare in Francia degli esperimenti filantropici, credono di aver moralizzato il popolo! Fra la mensa dei padroni e il mercato, i domestici hanno stabilito il loro dazio segreto; e la città di Parigi non è così abile a riscuotere i suoi diritti d'entrata quanto essi lo sono a prelevare i loro su ogni cosa. Oltre al cinquanta per cento di cui gravano ogni acquisto di alimentari, esigono consistenti mance dai fornitori. I più solidi commercianti tremano davanti a questa potenza occulta; pagano senza fiatare, tutti: carrozzieri, gioiellieri, sarti ecc. A chi tenta di controllarli, i domestici rispondono con parole insolenti, o con le costose malefatte di una finta sbadataggine. Oggi assumono essi informazioni sui padroni, come una volta i padroni ne assumevano su di loro. Il male, giunto davvero al colmo, e contro il quale i tribunali cominciano a infierire, ma invano, potrà scomparire solo grazie a una legge che assoggetti i domestici salariati al libretto dell'operaio. Il male cesserebbe allora come per incanto. Se ogni domestico fosse tenuto a esibire il suo libretto, e i padroni avessero l'obbligo di annotarvi le cause del licenziamento, la corruzione troverebbe senza dubbio un potente freno.
Quanti si occupano dell'alta politica del momento, ignorano fin dove arriva la corruzione delle classi inferiori a Parigi: essa è pari alla gelosia che le divora.
Non esistono statistiche sull'enorme numero di operai ventenni che sposano delle cuoche di quaranta e di cinquant'anni arricchitesi mediante il furto. C'è di che fremere al pensiero delle conseguenze di simili unioni dal triplice punto di vista della criminalità, dell'imbastardimento della razza, della vita familiare di queste coppie. Quanto al male puramente finanziario provocato dai furti domestici, esso è, dal punto di vista politico, enorme. Il costo della vita, così raddoppiato, preclude a molte famiglie tutto ciò che sia superfluo. Il superfluo!... è la metà del commercio degli stati, come l'eleganza lo è della vita. Per molta gente i libri, i fiori sono necessari quanto il pane.
Lisbeth, che conosceva questa spaventosa piaga delle famiglie parigine, pensava a dirigere l'amministrazione della casa di Valérie: le aveva promesso il suo appoggio in quella terribile scena nel corso della quale avevano giurato tutte e due di essere come sorelle. Perciò aveva fatto venire, dal cuore della regione dei Vosgi, una parente per parte materna, vecchia cuoca del vescovo di Nancy, pia zitella e di una straordinaria probità. Temendo nondimeno la sua inesperienza a Parigi e soprattutto i cattivi consigli che rovinano tante di queste lealtà così fragili, Lisbeth accompagnava Mathurine al mercato centrale, e cercava di abituarla a saper comprare. Conoscere il vero prezzo delle cose per ottenere il rispetto del venditore, mangiare cibi freschi, come il pesce, ad esempio, quando non son cari, essere al corrente dei prezzi dei generi alimentari e prevederne l'aumento per comprare nel momento più favorevole, questo spirito di massaia è, a Parigi, il più necessario all'economia domestica. Poiché Mathurine percepiva un buon salario ed era colmata di regali, amava abbastanza quella casa per essere felice dei buoni acquisti. Per cui da qualche tempo rivaleggiava con Lisbeth, che la trovava abbastanza formata e abbastanza fidata e pertanto andava lei al mercato solo nei giorni in cui Valérie aveva gente, il che, fra parentesi, succedeva piuttosto spesso. Ecco perché.
Il barone aveva cominciato coll'osservare il più stretto decoro; ma la sua passione per la signora Marneffe era in poco tempo divenuta tanto viva, tanto avida, che desiderò abbandonarla il meno possibile. Dopo aver pranzato da lei quattro volte la settimana, trovò piacevole sedere tutti i giorni alla sua tavola. Sei mesi dopo il matrimonio di sua figlia, egli le passò duemila franchi al mese a titolo di pensione. La signora Marneffe invitava le persone con le quali il suo caro barone desiderava intrattenersi. Del resto, il pranzo veniva sempre preparato per sei persone, e il barone poteva portarne tre all'improvviso. Con la sua economia Lisbeth risolse il problema straordinario di provvedere splendidamente a quella tavola per la somma di mille franchi, dando mille franchi al mese alla signora Marneffe.



XLI • SPERANZE DELLA CUGINA BETTE

Gli abiti di Valérie erano generosamente pagati da Crevel e dal barone, per cui le due amiche riuscivano a mettere da parte su questa spesa un altro biglietto da mille franchi al mese. Perciò questa donna così pura, così ingenua, possedeva allora circa centocinquantamila franchi. Aveva accumulato le sue rendite e i suoi guadagni mensili investendo il suo denaro con enormi profitti dovuti alla generosità con la quale Crevel faceva partecipare il capitale della «sua piccola duchessa» al successo delle sue operazioni finanziarie. Crevel aveva iniziato Valérie al gergo e alle speculazioni della Borsa; e, come tutte le parigine, ella era ben presto diventata più abile del suo maestro. Lisbeth, che non spendeva nemmeno un soldo dei suoi milleduecento franchi, che aveva il fitto e i vestiti pagati, che non tirava mai fuori nulla di tasca sua, possedeva anch'ella un piccolo capitale da cinque a seimila franchi che Crevel, paternamente, le faceva fruttare. L'amore del barone e quello di Crevel erano tuttavia un pesante fardello per Valérie. Il giorno in cui ricomincia il racconto di questo dramma, scossa da uno di quegli avvenimenti che hanno nella vita la stessa funzione del suono della campana che chiama a raccolta le moltitudini, Valérie era salita da Lisbeth per abbandonarsi alle sue confidenze malinconiche che duravano a lungo, specie di sigarette fumate a piccole boccate, e con le quali le donne alleviano le piccole miserie della loro vita.
«Lisbeth, amore mio, due ore con Crevel questa mattina! Oh, come vorrei poter mandare te al mio posto!»
«Purtroppo non si può,» disse Lisbeth sorridendo. «Io morirò vergine.»
«Essere di quei due vecchioni! ci sono dei momenti in cui ho vergogna di me! Ah! se la mia povera mamma mi vedesse!»
«Mi prendi per Crevel,» rispose Lisbeth.
«Dimmi, mia cara piccola Bette, tu non mi disprezzi, vero?»
«Ah! se fossi stata carina, ne avrei avute... delle avventure!» esclamò Lisbeth. «Eccoti scagionata.»
«Ma tu non avresti ascoltato che il tuo cuore,» disse la signora Marneffe sospirando.
«Oh!» rispose Lisbeth, «Marneffe è un morto che si sono dimenticati di sotterrare, il barone è come se fosse tuo marito, Crevel è il tuo adoratore; vedo che sei, come tutte le donne, perfettamente in regola.»
«No, non è da questo, mia cara, che viene il mio dolore, tu non vuoi capirmi...»
«Oh! sì!...» esclamò la lorenese; «il sottinteso fa parte della mia vendetta. Che vuoi!... Mi ci diverto.»
«Amare Wenceslas da morire e non riuscire a vederlo!» disse Valérie stirando le braccia. «Hulot gli propone di venire a cena qui da noi, e il mio artista rifiuta!» Non sa di essere idolatrato, quel mostro d'uomo! Che cos'è sua moglie? un corpo! sì, è bella, ma io mi conosco: non sono peggio di lei!»
«Stai tranquilla, piccola mia, verrà,» disse Lisbeth usando il tono con cui le nutrici parlano ai bambini quando si impazientiscono, «lo voglio...»
«Ma quando?»
«Forse questa settimana.»
«Lascia che ti abbracci.»
Come si vede, le due donne andavano perfettamente d'accordo; tutte le azioni di Valérie, anche le più sconsiderate, i suoi piaceri, i suoi bronci venivano decisi dopo mature riflessioni fra loro. Lisbeth, stranamente eccitata da quella vita di cortigiana, consigliava Valérie in tutto, mentre perseguiva i suoi piani di vendetta con una logica spietata. Del resto adorava Valérie, ne aveva fatto la sua figlia, la sua amica, il suo amore; trovava in lei la docilità delle creole, l'indolenza della donna voluttuosa; chiacchierava con lei tutte le mattine molto più volentieri che con Wenceslas, e insieme potevano ridere delle loro comuni malignità, della stupidità degli uomini, e rifare i conti degli interessi che andavano ad aumentare i loro rispettivi tesori. Nella nuova attività, nella nuova amicizia, Lisbeth aveva trovato, più che nel suo amore insensato per Wenceslas, qualcosa di cui alimentare il suo bisogno d'azione. I godimenti dell'odio soddisfatto sono per il cuore i più forti e i più ardenti. L'amore è in un certo qual modo l'oro, e l'odio è il ferro di quella miniera dei sentimenti che si trova dentro di noi. Infine Valérie offriva, in tutto il suo splendore a Lisbeth, quella bellezza che ella adorava, come si adora tutto ciò che non si possiede, bellezza molto più docile di quella di Wenceslas, che nei suoi confronti era stato sempre freddo e insensibile.
Dopo quasi tre anni, Lisbeth cominciava a vedere i progressi di quello scavo sotterraneo al quale dedicava tutte le sue forze e consacrava la sua intelligenza. Lisbeth pensava e la signora Marneffe agiva. La signora Marneffe era la scure, Lisbeth era la mano che la dirigeva, la mano che demoliva colpo dopo colpo quella famiglia che, di giorno in giorno, le diventava più odiosa, poiché si odia sempre di più, come si ama ogni giorno di più, quando si ama. L'amore e l'odio sono sentimenti che si alimentano da sé; ma, dei due, l'odio ha vita più lunga. L'amore ha per confini delle forze limitate, riceve i suoi poteri dalla vita e dalla prodigalità; l'odio somiglia alla morte, all'avarizia, è in qualche modo un'astrazione attiva, al di sopra degli esseri e delle cose. Lisbeth, entrata in un'esistenza che le era congeniale, vi dispiegò tutte le sue facoltà; regnava alla maniera dei gesuiti, da potenza occulta. Perciò la rigenerazione della sua persona era completa. Il suo volto risplendeva. Lisbeth sognava di essere la signora marescialla Hulot.
Questa scena, in cui le due amiche si confidavano con franchezza tutti i loro più riposti pensieri, senza tanti giri di parole, aveva luogo precisamente al ritorno dal mercato, dove Lisbeth era andata per comprare il necessario per una cena squisita. Marneffe, che ambiva al posto del signor Coquet, lo riceveva con la virtuosa signora Coquet, e Valérie sperava di indurre Hulot a trattare delle dimissioni da capufficio quella sera stessa. Lisbeth si stava vestendo per andare a cena dalla baronessa.
«Ritornerai per servirci il tè, mia cara Bette?» disse Valérie.
«Lo spero...»
«Come lo speri?... Saresti forse arrivata al punto di andare a letto con Adeline per bere le sue lacrime mentre dorme?»
«Se solo fosse possibile!» rispose Lisbeth ridendo, «non direi di no. Sta espiando la sua felicità, e io sono felice, mi ricordo della mia infanzia. Per ognuno arriva il suo turno. Lei sarà nel fango, e io sarò la contessa di Forzheim.»


XLII • IN QUALI DISPERATE CONDIZIONI I LIBERTINI RIDUCONO LE LORO MOGLI LEGITTIME

Lisbeth si diresse verso la rue Plumet dove andava da qualche tempo, come si va a teatro, per pascersi di emozioni.
L'appartamento scelto da Hulot per sua moglie consisteva in una grande e vasta anticamera, un salotto e una camera da letto con una stanza da toilette. La sala da pranzo comunicava col salotto. Due camere per i domestici e una cucina, situate al terzo piano, completavano l'abitazione, che era ancora degna di un consigliere di Stato, direttore presso il Ministero della Guerra. Il palazzetto, la corte e le scale erano maestosi. La baronessa, avendo dovuto ammobiliare il salotto, la camera da letto e la sala da pranzo con i resti del suo antico splendore, aveva preso i migliori mobili dell'appartamento di rue de l'Université. La povera donna amava del resto questi muti testimoni della sua vita felice, i quali, per lei, avevano una eloquenza quasi consolatrice. Intravedeva nei suoi ricordi dei fiori, così come vedeva sui suoi tappeti dei rosoni che gli altri non scorgevano nemmeno.
Entrando nella vasta anticamera dove dodici sedie, un barometro, una grande stufa e lunghe tende in calicò bianco bordate di rosso ricordavano le orribili anticamere dei ministeri, il cuore si stringeva; si avvertiva la solitudine nella quale viveva quella donna. Il dolore, così come il piacere, si crea un'atmosfera. Alla prima occhiata data in una casa, si può capire se vi regna l'amore o la disperazione. Si poteva trovare Adeline in un'immensa camera da letto, ammobiliata coi bei mobili di Jacob Desmalters, in mogano screziato, decorati con gli ornamenti dell'Impero, quei bronzi che hanno trovato il modo di essere più freddi di quelli di Luigi xvi! E si rabbrividiva al vedere quella donna seduta in una poltrona romana, davanti alle sfingi di un tavolino da lavoro scolorito, affettando una gaiezza menzognera, conservando la sua aria imperiale, come sapeva conservare il vestito di velluto azzurro che metteva in casa. Quell'anima fiera sosteneva il corpo e ne manteneva la bellezza. La baronessa, alla fine del primo anno del suo esilio in quell'appartamento, aveva misurato la propria disgrazia in tutta la sua vastità.
«Relegandomi qui, il mio Hector mi ha reso la vita ancora più bella di quanto potesse essere quella di una semplice contadina,» diceva a se stessa. «Lui mi vuole così: sia fatta la sua volontà! Io sono la baronessa Hulot, la cognata di un maresciallo di Francia. Non ho commesso la minima colpa; i miei due figli sono sistemati, io posso attendere la morte avvolta nei veli immacolati della mia purezza di sposa, nel crespo della mia felicità svanita.»
Il ritratto di Hulot, dipinto da Robert Lefebvre nel 1810 in uniforme di commissario ordinatore della guardia imperiale, faceva bella mostra di sé al di sopra del tavolino da lavoro, nel cui cassetto Adeline, all'annuncio di una visita, chiudeva una Imitazione di Cristo, il libro che leggeva abitualmente. Questa Maddalena irreprensibile ascoltava anche la voce dello Spirito Santo nel suo deserto.
«Mariette, ragazza mia,» disse Lisbeth alla cuoca che venne ad aprirle, «come sta la mia buona Adeline?»
«Oh! apparentemente bene, signorina; ma, detto fra noi, se persiste nelle sue idee, si ammazzerà,» disse Mariette all'orecchio di Lisbeth. «Davvero, dovreste persuaderla a vivere meglio. Da ieri la signora mi ha detto di darle la mattina per colazione due soldi di latte e un panino da un soldo; di servirle a cena o un'aringa o un po' di vitello freddo, dopo averne fatto cuocere una libbra per tutta la settimana, ben inteso quando cenerà sola, qui... Non vuole spendere più di dieci soldi al giorno per mangiare. Non è ragionevole quello che fa. Se parlassi di questo suo bel progetto al signor maresciallo, lui potrebbe mettersi in urto col signor barone e diseredarlo; voi invece, che siete così buona e così intelligente potreste mettere a posto le cose...»
«Ebbene, perché non vi rivolgete a mio cugino?» disse Lisbeth.
«Ah! mia cara signorina, saranno venti o venticinque giorni che non viene, insomma tutto il tempo che siamo rimaste senza vedervi! Del resto, la signora mi ha proibito, pena il licenziamento, di chiedere del denaro al signore. Ma, quanto a dispiaceri... ah! la povera signora ne ha avuti! È la prima volta che il signore la dimentica così a lungo... Ogni volta che suonavano, correva ad affacciarsi alla finestra;... ma, da cinque giorni, non lascia più la sua poltrona. Legge tutto il tempo. Ogni volta che va dalla signora contessa, mi dice: ‹Mariette, se viene il signore, dite che sono in casa e mandate il portiere a cercarmi; sarà ben ricompensato per questa commissione!›»
«Povera cugina!» disse Bette, «è una cosa che mi spezza il cuore. Parlo di lei a mio cugino tutti i giorni. Che volete! Dice: ‹Hai ragione, Bette, io sono un miserabile; mia moglie è un angelo e io sono un mostro! Andrò domani...› E resta dalla signora Marneffe; quella donna lo rovina e lui l'adora; non vive che vicino a lei. Io faccio quello che posso! Se non fossi là, se non avessi con me Mathurine, il barone avrebbe speso il doppio; e, poiché egli non ha quasi più niente, forse si sarebbe già fatto saltare le cervella. Ebbene, Mariette, Adeline morirebbe per la morte di suo marito, ne sono sicura. Per lo meno io cerco là di contenere le spese e di impedire che mio cugino butti via troppo denaro.»
«Ah! è quel che dice la povera signora; conosce bene i suoi obblighi verso di voi,» rispose Mariette; «diceva che per molto tempo vi aveva giudicato male...»
«Ah!» fece Lisbeth. «Non vi ha detto altro?»
«No, signorina. Se volete farle piacere, parlatele del signore; vi giudica fortunata perché avete la possibilità di vederlo tutti i giorni.»
«È sola?»
«Domando scusa, c'è il maresciallo. Oh! viene tutti i giorni, e lei gli dice sempre che ha visto il signore la mattina, e che rientra la notte molto tardi.»
«E c'è una buona cena, oggi?» chiese Bette.
Mariette, che esitava a rispondere, sosteneva a fatica lo sguardo della lorenese. Ad un tratto la porta del salotto si aprì e il maresciallo Hulot uscì così precipitosamente che salutò Bette senza guardarla, e lasciò cadere un foglio di carta. Bette raccolse quel foglio e corse verso le scale, poiché era inutile gridare dietro un sordo; ma fece in modo di non raggiungere il maresciallo; rientrò e lesse quanto segue, scritto a lapis:
«Caro fratello, mio marito mi ha dato il denaro per la spesa del trimestre; ma mia figlia Hortense ne ha avuto così grande bisogno, che le ho prestato l'intera somma, che del resto bastava appena a trarla d'impaccio. Potete prestarmi qualche centinaio di franchi? Non vorrei chiedere ancora del denaro a Hector; un suo rimprovero mi farebbe troppo male.»
«Ah!» pensò Lisbeth, «deve trovarsi veramente in una condizione disperata per aver piegato a tal punto il suo orgoglio!»



XLIII • LA FAMIGLIA ADDOLORATA

Lisbeth entrò, sorprese Adeline in lacrime e le si gettò al collo.
«Adeline, mia cara bambina, so tutto!» disse la cugina Bette. «Guarda, il maresciallo ha lasciato cadere questo foglio di carta: era molto turbato e correva come un levriero... Da quanto quel mostro di Hector non ti dà più denaro?»
«Me ne dà con molta regolarità,» rispose la baronessa, «ma Hortense ne ha avuto bisogno e...»
«E non avevi niente da darci per cena,» disse Bette interrompendo la cugina. «Ora capisco l'aria imbarazzata di Mariette quando le ho parlato della minestra. Tu fai la bambina, Adeline! ecco, lascia che ti dia i miei risparmi.»
«Grazie, mia buona Bette,» rispose Adeline asciugandosi una lagrima. «Si tratta di ristrettezze temporanee e ho provveduto per l'avvenire. Le mie spese saranno ormai di duemilaquattrocento franchi l'anno, compreso il fitto, e li avrò. Soprattutto, Bette, non una parola a Hector. Come sta?»
«Lui? Benone. È felice come un fringuello, non pensa che a Valérie, la sua incantatrice.»
La signora Hulot guardava un gran pino argentato che si trovava nel campo della finestra, e Lisbeth non poté legger nulla di quel che potevano esprimere gli occhi della cugina.
«Gli hai detto che è il giorno in cui pranziamo tutti qui?»
«Sì, ma che vuoi! La signora Marneffe dà una grande cena, durante la quale spera di poter discutere delle dimissioni del signor Coquet! e questo passa innanzi a tutto! Ascoltami, Adeline: tu conosci l'ostinazione del mio carattere quando si tratta dell'indipendenza. Tuo marito, mia cara, ti rovinerà certamente. Ho creduto di poter essere utile a tutti vivendo vicino a quella donna. Ma è una creatura di una depravazione senza limiti; riuscirà a ottenere da tuo marito delle cose da metterlo in condizione di disonorarvi tutti.»
Adeline sussultò come chi riceve una pugnalata al cuore.
«Ma, mia cara Adeline, ne sono sicura. Bisogna pure che provi a farti capire certe cose. Ebbene, pensiamo all'avvenire! Il maresciallo è vecchio, ma vivrà ancora a lungo; ha un buon stipendio. La sua vedova, se lui morisse, avrebbe una pensione di seimila franchi. Con quella somma io m'incaricherei di farvi vivere tutti! Esercita la tua influenza su quell'uomo per convincerlo a sposarmi. Non è per essere la signora marescialla; mi preoccupo di queste sciocchezze come della coscienza della signora Marneffe; ma voi avrete tutti del pane. Vedo che Hortense non ne ha abbastanza, visto che le dai il tuo.»
Il maresciallo apparve. Il vecchio soldato aveva fatto una corsa così veloce, che si asciugò la fronte col suo foulard.
«Ho dato duemila franchi a Mariette,» disse all'orecchio di sua cognata. Adeline arrossì fino alla radice dei capelli. Due lagrime bagnarono le sue ciglia ancora lunghe, e strinse silenziosamente la mano del vecchio, il cui volto esprimeva la gioia di un amante felice.
«Volevo, Adeline, farvi un regalo con questa somma,» continuò, «invece di restituirmela, scegliete voi stessa ciò che vi piace di più.»
Poi prese la mano che gli tese Lisbeth, e la baciò, tanto era distratto dal piacere che provava.
«Promesso,» disse Adeline a Lisbeth, sorridendo tanto quanto le era possibile.
In quel momento arrivarono Hulot figlio e sua moglie.
«Mio fratello cena con noi?» chiese il maresciallo con tono asciutto.
Adeline prese un lapis e su un piccolo pezzo di carta scrisse queste parole:
«Lo aspetto, mi ha promesso questa mattina che avrebbe cenato qui; ma, se non dovesse venire, vuol dire che lo avrebbe trattenuto il maresciallo; ha tanto da fare in questo periodo!»
Poi porse il foglio al cognato. Ella aveva escogitato questo sistema per conversare con lui, e una provvista di quadratini di carta era stata messa, insieme a un lapis, sul tavolino da lavoro.
«So,» rispose il maresciallo, «che è subissato di lavoro a causa dell'Algeria.» Hortense e Wenceslas entrarono in quel momento, e, vedendo la sua famiglia intorno a lei, la baronessa rivolse uno sguardo al maresciallo, il cui significato non fu compreso che da Lisbeth.
La felicità aveva considerevolmente abbellito l'artista, adorato da sua moglie e vezzeggiato dalla buona società.
Il suo viso era diventato quasi pieno, la sua figura elegante metteva in rilievo le doti che il sangue dà a tutti i veri gentiluomini. La sua gloria prematura, la sua importanza, gli elogi fallaci che la buona società fa agli artisti, così come ci si dice buongiorno o come si parla del tempo, gli davano quella coscienza del suo valore che degenera in fatuità quando viene a mancare il talento. La croce della Legion d'Onore completava l'immagine del grande uomo che egli credeva di essere.
Dopo tre anni di matrimonio, Hortense era con suo marito come un cane col suo padrone: rispondeva a tutti i suoi movimenti con uno sguardo che somigliava a una domanda, teneva sempre gli occhi su di lui, come un avaro sul suo tesoro; insomma commoveva con la sua ammirazione, piena di abnegazione. Si riconoscevano in lei la natura e gli ammaestramenti di sua madre. La sua bellezza, sempre la stessa, era allora alterata, poeticamente d'altronde, dalle dolci ombre di una nascosta malinconia.
Vedendo entrare sua cugina, Lisbeth pensò che le lamentele, trattenute per molto tempo, stessero per rompere il debole involucro della discrezione. Lisbeth, fin dai primi giorni della luna di miele, aveva giudicato che quella giovane coppia aveva un reddito troppo modesto per una così grande passione.
Hortense nel baciare sua madre scambiò, da bocca a orecchio, e da cuore a cuore, qualche frase il cui segreto fu tradito a Bette dai cenni del capo.
«Adeline sarà presto costretta, proprio come me, a lavorare per vivere,» pensò la cugina Bette. «Voglio che mi metta al corrente di quello che farà... Le sue graziose dita sapranno finalmente, come le mie, ciò che vuol dire essere costretti a lavorare.»
Alle sei, la famiglia passò nella sala da pranzo. Era stato messo anche il coperto di Hector.
«Lasciatelo!» disse la baronessa a Mariette; «il signore qualche volta viene tardi.»
«Oh! papà verrà,» disse Hulot figlio a sua madre; «me l'ha promesso alla Camera al momento di lasciarci.»



XLIV • LA CENA

Lisbeth, proprio come un ragno al centro della sua tela, osservava l'espressione di tutti i volti. Quelli di Hortense e di Victorin, che ella aveva visto nascere, non avevano alcun segreto per lei: erano come degli specchi attraverso i quali poteva leggere in quelle giovani anime. Ora, a giudicare da certi sguardi che Victorin gettava di sfuggita su sua madre, ella intuì che qualche sventura stava per abbattersi su Adeline, che Victorin esitava a rivelare. Il giovane e celebre avvocato si sentiva profondamente triste. La sua grande venerazione per la madre si manifestava nel dolore col quale egli la contemplava. Hortense, da parte sua, era chiaramente intenta a pensare alle proprie pene. Da quindici giorni Lisbeth sapeva che ella provava le prime inquietudini che la mancanza di denaro causa alla gente onesta, alle giovani donne alle quali la vita ha sempre sorriso e che nascondono le loro angosce. Perciò, fin dal primo momento, la cugina Bette capì che la madre non aveva dato niente a sua figlia. La dolce Adeline era dunque arrivata a mentire, come fanno coloro che, per bisogno, sono costretti a prendere del denaro in prestito. La preoccupazione di Hortense, quella di suo fratello, la profonda malinconia della baronessa resero la cena triste, soprattutto se si pensa al gelo che già si creava per effetto della sordità del vecchio maresciallo. Tre persone animavano la scena: Lisbeth, Célestine e Wenceslas. L'amore di Hortense aveva sviluppato nell'artista la vivacità dei polacchi, quella vivacità di spirito guascone, quella amabile allegria rumorosa che distingue i polacchi, questi francesi del nord. Il suo stato d'animo, l'espressione del suo volto, rivelavano chiaramente la sua piena fiducia in se stesso, e la povera Hortense, fedele ai consigli di sua madre, gli nascondeva tutte le angosce domestiche.
«Devi essere molto felice,» disse Lisbeth alla giovane cugina al momento di alzarsi da tavola, «tua madre ti ha tirato fuori da una situazione difficile dandoti il suo denaro.»
«La mamma!» rispose Hortense stupita. «Oh, povera mamma, io che per lei vorrei fabbricarlo, il denaro! Tu non lo sai, Lisbeth, ma ho il terribile sospetto che si sia messa a lavorare in segreto.»
Stavano attraversando il grande salotto buio, senza candelabri, seguendo Mariette che portava il lume della sala da pranzo nella camera da letto di Adeline. In quel momento Victorin toccò il braccio di Lisbeth e di Hortense; tutte e due compresero il significato di quel gesto; lasciarono che Wenceslas, Célestine, il maresciallo e la baronessa andassero nella camera, e si raccolsero insieme nel vano di una finestra.
«Che c'è, Victorin?» disse Lisbeth. «Scommetto che si tratta di qualche disastro causato da tuo padre.»
«Ahimè! Sì,» riprese Victorin. «Un usuraio, di nome Vauvinet, ha delle cambiali di mio padre per sessantamila franchi e vuole procedere contro di lui! Ho voluto parlare di questo deplorevole affare a mio padre alla Camera, e non ha voluto ascoltarmi, mi ha quasi evitato. Sarà il caso di informare nostra madre?»
«No, no,» disse Lisbeth, «ha troppi dispiaceri; tu le daresti il colpo mortale, bisogna avere dei riguardi per lei. Non sapete a che punto è arrivata; senza l'aiuto di vostro zio, non avreste trovato nulla da mangiare, oggi.»
«Ah! mio Dio, Victorin, siamo dei mostri,» disse Hortense al fratello; «Lisbeth ci mette al corrente di ciò che avremmo dovuto intuire noi. La cena mi soffoca...» Hortense non terminò la frase: per non scoppiare in singhiozzi si mise il fazzoletto alla bocca; piangeva.
«Ho detto a Vauvinet di venire a trovarmi domani, continuò Victorin; ma si accontenterà della mia garanzia ipotecaria? Non credo. Quella gente vuole del denaro contante per trarne profitto con degli interessi esosi.»
«Vendiamo i nostri titoli!» disse Lisbeth a Hortense.
«Ma cosa volete che siano: quindici o sedicimila franchi,» replicò Victorin, «e ne occorrono sessantamila.»
«Cara cugina!» esclamò Hortense abbracciando Lisbeth con l'entusiasmo di un cuore sincero.
«No, Lisbeth, tenete la vostra piccola fortuna,» disse Victorin dopo aver stretto la mano della lorenese. «Domani vedrò ciò che quell'uomo ha in animo di fare. Se mia moglie acconsente, saprò impedire o almeno ritardare il procedimento contro mio padre; perché vedere messo in pericolo il suo buon nome!... sarebbe terribile. Cosa direbbe il ministro della Guerra? Lo stipendio di mio padre, impegnato da tre anni, non sarà disponibile che nel mese di dicembre; non si può quindi offrirlo in garanzia. Questo Vauvinet ha rinnovato undici volte le cambiali; giudicate perciò le somme che mio padre ha dovuto pagare in interessi! bisogna chiudere questa voragine.»
«Se la signora Marneffe potesse lasciarlo...» disse Hortense con amarezza.
«Ah! Dio ce ne scampi!» disse Victorin. «Mio padre andrebbe forse altrove; e non c'è dubbio che con lei le spese più grosse sono già state fatte.»
Quale cambiamento in quei ragazzi una volta così rispettosi e che la madre aveva mantenuti così a lungo in una assoluta venerazione per il loro padre! Ora erano arrivati a giudicarlo.
«Senza di me,» riprese Lisbeth, «vostro padre sarebbe ancor più rovinato di quanto non lo sia ora.»
«Rientriamo,» disse Hortense, «la mamma osserva tutto e potrebbe sospettare qualcosa; nascondiamole tutto, come dice la nostra cara Lisbeth... cerchiamo di essere allegri!»
«Victorin, voi non sapete dove vi condurrà vostro padre con la sua passione per le donne,» disse Lisbeth. «Pensate ad assicurarvi dei redditi facendomi sposare col maresciallo; dovreste parlargliene tutti questa sera; io andrò via presto apposta.»
Victorin entrò nella camera.
«Ebbene, mia povera piccola,» disse Lisbeth a voce bassa alla sua giovane cugina, «e tu come farai?»
«Vieni a pranzo con noi domani, parleremo,» rispose Hortense. «Non so proprio cosa fare; tu che hai conosciuto tante difficoltà nella vita, potresti consigliarmi.»
Mentre tutta la famiglia riunita cercava di raccomandare il matrimonio al maresciallo, e Lisbeth ritornava in rue Vanneau, lì accadeva uno di quegli avvenimenti che stimolano nelle donne come la signora Marneffe la forza del vizio obbligandole a mettere in atto tutte le risorse della loro perversità. Riconosciamo almeno questa verità: a Parigi la vita è vissuta troppo intensamente perché la gente viziosa faccia il male per istinto; essa usa il vizio per difendersi contro le aggressioni, ecco tutto.



XLV • UN REDIVIVO RITORNA

La signora Marneffe, il cui salotto era pieno dei suoi assidui frequentatori, aveva dato l'avvio alle partite di whist, quando il cameriere, un militare a riposo reclutato dal barone, annunciò:
«Il signor barone Montès de Mentejanos.»
Valérie provò una violenta emozione, ma si slanciò verso la porta gridando:
«Mio cugino!...»
E, giunta vicino al brasiliano, gli sussurrò in un orecchio:
«Fingi di essere mio parente, o tutto è finito fra noi!»
Poi, conducendo il brasiliano verso il caminetto riprese ad alta voce: «E così, Henri, non hai fatto naufragio, come mi avevano detto! E io che ho pianto per tre anni...»
«Buongiorno, amico mio,» disse il signor Marneffe tendendo la mano al brasiliano, il cui aspetto era quello di un vero brasiliano milionario.
Il signor barone Henri Montès de Montejanos, che dal clima equatoriale aveva preso il fisico e il colore che noi attribuiamo all'Otello teatrale, incuteva spavento con la sua aria cupa, effetto peraltro dovuto solo all'apparenza esteriore, poiché il suo carattere pieno di dolcezza e di tenerezza lo predestinava a quello sfruttamento che le donne deboli praticano sugli uomini forti. Il disdegno che esprimeva il suo volto, la potenza muscolare di cui testimoniava la sua figura ben fatta, tutte le sue energie si manifestavano solo nei riguardi degli uomini: lusinga questa rivolta alle donne e che esse assaporano con tanta ebbrezza, da far sì che quanti danno il braccio alle loro amanti prendano certe arie smargiasse assolutamente spassose.
Il barone, splendidamente modellato da una marsina blu con bottoni d'oro massiccio e da un paio di pantaloni neri, i piedi calzati da eleganti stivaletti irreprensibilmente lucidati, le mani guantate secondo le regole, non aveva di brasiliano che un grosso diamante di circa centomila franchi che brillava come una stella su una sontuosa cravatta di seta azzurra, incorniciata da un gilè bianco semiaperto in modo da lasciar vedere una camicia di tela di una finezza favolosa. La fronte, convessa come quella di un satiro, segno di testardaggine nella passione, era sormontata da una capigliatura di giaietto, folta come una foresta vergine, sotto la quale scintillavano due occhi luminosi e così selvaggi, da far credere che la madre del barone, quando era incinta di lui, avesse avuto paura di qualche giaguaro.
Quel magnifico esemplare della razza portoghese in Brasile si piantò con le spalle rivolte al caminetto in una posa che rivelava delle abitudini parigine; e, tenendo il cappello in una mano e un braccio appoggiato sul velluto della mensola, si chinò verso la signora Marneffe per parlare a voce bassa con lei, curandosi assai poco di quei detestabili borghesi che, a suo parere, affollavano inopportunamente il salotto.
Quell'entrata in scena, quella posa e l'aria del brasiliano provocarono in Crevel e nel barone un identico moto di curiosità mista ad angoscia. Ci fu in entrambi la stessa espressione, lo stesso presentimento. Perciò la strana mimica ispirata da queste due passioni reali si manifestò con così comica simultaneità da far sorridere quanti, tra i presenti, furono abbastanza arguti da penetrarne lo stato d'animo. Crevel, sempre maledettamente borghese e bottegaio, benché sindaco di Parigi, restò sfortunatamente in quella posizione più a lungo del compare, e il barone poté cogliere al volo l'involontaria rivelazione dei suoi sentimenti. Fu una freccia di più piantata nel cuore del vecchio innamorato, che decise di avere una spiegazione con Valérie.
«Questa sera,» si disse a sua volta Crevel, riordinando le sue carte, «bisogna farla finita.»
«Avete cuore,» gli gridò Marneffe, «e ci avete rinunciato.»
«Ah, scusate,» rispose Crevel volendo riprendere la sua carta. «Quest'altro barone mi sembra di troppo,» continuò parlando a se stesso. «Che Valérie viva col mio barone, è la mia vendetta, e conosco il mezzo per sbarazzarmi di lui; ma quel cugino!... è un barone di troppo; non intendo essere turlupinato io, voglio sapere in che modo è suo parente!»
Quella sera, per una di quelle felici combinazioni che capitano solo alle donne belle, Valérie era straordinariamente affascinante. Il suo bianco seno scintillava stretto in una trina di seta i cui toni rossi mettevano in risalto il raso opaco di quelle belle spalle delle parigine che sanno (si ignora con quali mezzi) essere bene in carne e restare snelle. Vestita di un abito di velluto nero, che sembrava a ogni istante scivolarle dalle spalle, ella aveva i capelli adornati di merletto a grappoli di fiori. Le sue braccia, leggiadre e ben tornite insieme, uscivano dalle larghe maniche guarnite di pizzo. Somigliava a quei bei frutti graziosamente disposti in un bel vassoio e in cui viene voglia di infilare il coltello.
«Valérie,» disse il brasiliano all'orecchio della giovane donna, «io ti sono ancora fedele; mio zio è morto, e sono due volte più ricco di quanto non fossi al momento della mia partenza. Voglio vivere e morire a Parigi, vicino a te e per te.»
«Più piano, Henri, ti prego...»
«Ah! be'! Dovessi gettare tutta questa gente dalla finestra, voglio parlarti questa sera, soprattutto dopo aver passato due giorni a cercarti. Resterò per ultimo, non è vero?»
Valérie sorrise al suo sedicente cugino e gli disse:
«Ricordate che dovete essere il figlio di una sorella di mia madre, la quale, durante la campagna di Junot in Portogallo, sposò vostro padre.»
«Io, Montès de Montejanos, pronipote di uno dei conquistatori del Brasile, mentire!»
«Più piano, o non ci rivedremo più...»
«E perché?»
«Marneffe, come tutti i moribondi che si aggrappano a un ultimo desiderio, si è preso una passione per me.»
«Quel lacchè?...» disse il brasiliano che conosceva il suo Marneffe, «lo pagherò...»
«Che violenza!»
«Piuttosto, da dove ti viene questo lusso?...» disse il brasiliano che finì per notare la sfarzo del salotto.
Lei si mise a ridere. «Che modi grossolani, Henri!» disse.
Aveva appena ricevuto due sguardi infiammati di gelosia che l'avevano colpita al punto di obbligarla a guardare quelle due anime in pena. Crevel, che giocava contro il barone e il signor Coquet, aveva come compagno il signor Marneffe. La partita finì in parità a causa delle distrazioni rispettive di Crevel e del barone, che accumularono errori su errori. Quei due vecchi innamorati rivelarono, in un momento, la passione che per tre anni Valérie era riuscita a far loro nascondere; ma neppure lei era riuscita a nascondere nei suoi occhi la felicità di rivedere l'uomo che, per primo, le aveva fatto battere il cuore, il suo primo amore. I diritti di quei felici mortali vivono tanto quanto la donna su cui li hanno acquisiti.
Fra quelle tre passioni assolute, la prima fondata sull'insolenza del denaro, la seconda sul diritto del possesso, l'ultima sulla giovinezza, la forza, la ricchezza e la priorità, la signora Marneffe rimase calma, la mente libera, come lo fu il generale Bonaparte quando, all'assedio di Mantova, si trovò a rispondere a due armate volendo continuare il blocco della fortezza.



XLVI • A CHE ETÀ GLI UOMINI CHE HANNO SUCCESSO CON LE DONNE DIVENTANO GELOSI

La gelosia, palesandosi sul viso di Hulot, lo rese terribile come quello del defunto maresciallo Montcornet allorché si lanciava alla testa di una carica di cavalleria contro i russi che facevano quadrato. Da bell'uomo qual era, il consigliere di Stato non aveva mai conosciuto la gelosia, così come Murat ignorava il sentimento della paura. Si era sempre creduto certo del trionfo. Il suo smacco con Josépha, il primo della sua vita, l'attribuiva alla sete di denaro; si diceva vinto da un milione e non da un aborto come il duca di Herouville. I filtri e le vertigini che questo sentimento folle riversa a torrenti nell'animo, avevano invaso il suo cuore in un momento. Egli si girava dal tavolino da gioco verso il caminetto con dei movimenti alla Mirabeau e, quando lasciava le carte per abbracciare con uno sguardo provocatore il brasiliano e Valérie, gli habitués del salotto provavano quel timore misto a curiosità che suscita la violenza quando è lì lì per esplodere. Il falso cugino guardava il consigliere di Stato come se esaminasse qualche grosso vaso di porcellana cinese. Questa situazione non poteva durare, senza sfociare in un terribile scandalo. Marneffe temeva il barone Hulot, quanto Crevel temeva Marneffe, poiché non gli piaceva l'idea di morire sotto-capo. I moribondi credono nella vita come i forzati credono nella libertà. Quell'uomo voleva essere capufficio a ogni costo. Giustamente allarmato dalla pantomima di Crevel e del consigliere di Stato, si alzò, disse una parola all'orecchio di sua moglie, e, con grande stupore dei presenti, Valérie passò nella camera da letto col brasiliano e suo marito.
«La signora Marneffe vi ha mai parlato di quel cugino?» domandò Crevel al barone Hulot.
«Mai!» rispose il barone alzandosi. «Basta per questa sera,» aggiunse; «perdo due luigi, eccoli.»
Buttò due monete d'oro sul tavolo e andò a sedersi sul divano con un'aria che tutti interpretarono come l'atteggiamento di chi si appresta ad andarsene. Il signore e la signora Coquet, dopo aver scambiato due parole, lasciarono il salotto, e Claude Vignon, disperato, li imitò. L'uscita di queste persone si trascinò dietro quella degli altri che non capivano e che si videro di troppo. Hulot, che finì per non accorgersi più della presenza di Crevel, andò in punta di piedi ad ascoltare alla porta della camera, e fece un salto prodigioso all'indietro, poiché il signor Marneffe aprì la porta, si mostrò col volto sereno e sembrò meravigliato di non trovare che due persone.
«E il tè?» disse.
«Dov'è dunque Valérie?» rispose il barone furioso.
«Mia moglie?» replicò Marneffe; «ma è salita da vostra cugina; tornerà presto.»
«E perché ci ha piantato qui per quella stupida capra?»
«Ma,» disse Marneffe, «la signorina Lisbeth è arrivata da casa della signora baronessa, vostra moglie, con una specie di indigestione; Mathurine ha chiesto del tè a Valérie, la quale è andata a vedere che cos'ha vostra cugina.»
«E il cugino?»
«È partito!»
«Lo credete?» disse il barone.
«L'ho accompagnato io stesso alla carrozza!» rispose Marneffe con un atroce sorriso.
Il rumore di ruote di una carrozza si fece sentire nella rue Vanneau. Il barone, non dando nessuna importanza a quanto aveva detto Marneffe, uscì e salì da Lisbeth. Gli passò per la testa una di quelle idee che vi manda il cuore quando è sconvolto dalla gelosia. Conosceva così bene la bassezza di Marneffe che ebbe il sospetto di ignobili connivenze fra moglie e marito.
«Che ne è stato dei signori e delle signore?» domandò Marneffe, vedendosi solo con Crevel.
«Quando il sole va a letto, altrettanto fa il pollaio,» rispose Crevel. «La signora Marneffe è sparita, i suoi adoratori sono partiti. Vi propongo un picchetto,» aggiunse Crevel, che voleva restare.
Anch'egli credeva che il brasiliano fosse in casa.
Il signor Marneffe accettò. Il sindaco era astuto quanto il barone, poteva restare nell'appartamento indefinitamente giocando col marito, il quale, dal momento in cui erano state soppresse la case da gioco, si accontentava di giocare pochi soldi rimanendo chiuso in casa. Il barone Hulot salì rapidamente da sua cugina Bette, ma trovò la porta chiusa; e le domande d'uso attraverso l'uscio presero abbastanza tempo per permettere a due donne accorte e astute di preparare lo spettacolo di una indigestione curata con grandi sorsate di tè. Lisbeth soffriva tanto da destare le più vive preoccupazioni di Valérie, che pertanto fece appena attenzione all'irruente ingresso del barone. La malattia è uno dei paraventi che le donne mettono di solito fra loro e la tempesta di un litigio. Hulot guardò dappertutto senza darlo a vedere, e non scorse nella camera da letto della cugina Bette nessun luogo adatto a nascondere un brasiliano.
«La tua indigestione, Bette, fa onore alla cena di mia moglie,» disse esaminando la zitella, che stava benissimo e si sforzava di imitare, mentre beveva del tè, il rantolo dei conati di vomito.
«Vedete che fortuna che la nostra cara Bette sia alloggiata in casa mia! Senza di me la povera ragazza sarebbe morta...» disse la signora Marneffe.
«Avete l'aria di credere che io stia benissimo,» aggiunse Lisbeth, rivolgendosi al barone, «e sarebbe un'infamia...»
«Perché?» chiese il barone; «conoscete dunque la ragione della mia visita?»
E sbirciò la porta di uno spogliatoio dalla quale era stata tolta la chiave.
«Parlate greco?...» rispose la signora Marneffe con un'espressione straziante di tenerezza e di fedeltà misconosciuta.
«Ma è per voi, mio caro cugino; sì, è per colpa vostra che sono nello stato in cui mi vedete,» disse Lisbeth con energia.
Quel grido distolse l'attenzione del barone, che guardò la zitella con grande stupore.
«Sapete quanto vi sono affezionata,» riprese Lisbeth; «sono qui per voi; ed è tutto dire. Consumo le ultime forze della mia vita a vegliare sui vostri interessi, mentre bado a quelli della nostra cara Valérie. La sua casa le costa dieci volte di meno di un'altra casa che si volesse tenere come la sua. Senza di me, cugino mio, invece di duemila franchi al mese, sareste costretto a spenderne tre o quattromila.»
«So tutto questo,» rispose il barone spazientito; «ci proteggete in molti modi,» aggiunse ritornando vicino alla signora Marneffe e prendendola per il collo; «non è forse vero, mia cara piccola?...»
«Parola mia,» disse Valérie, «io vi credo pazzo!...»
«Ebbene, non potete dubitare del mio attaccamento,» riprese Lisbeth; «ma vi assicuro che amo ugualmente mia cugina Adeline, e devo dirvi che l'ho trovata in lacrime. È un mese che non vi vede! No, questo non dovete farlo. Voi lasciate la mia povera Adeline senza denari, vostra figlia Hortense ha creduto di morire, quando ha appreso che è stato grazie a vostro fratello che abbiamo potuto pranzare! Non c'era pane a casa vostra oggi! Adeline ha preso la risoluzione eroica di bastare a se stessa. Mi ha detto: ‹Farò come te!› Queste parole, mi hanno dato una tale stretta al cuore, dopo mangiato, che pensando a quel che mia cugina era nel 1811 e a quello che è ora, nel 1841, trent'anni dopo, mi si è fermata la digestione!... Ho voluto vincere il male, ma, arrivata qui, ho creduto di morire...»
«Vedete, Valérie,» disse il barone, «dove mi conduce la mia adorazione per voi!... a commettere dei crimini contro la mia famiglia...»
«Oh! ho fatto bene a rimanere zitella!» esclamò Lisbeth con gioia selvaggia. «Voi siete un uomo buono, eccellente, Adeline è un angelo, ed ecco la ricompensa di una devozione cieca.»
«Un vecchio angelo!» disse dolcemente la signora Marneffe rivolgendo uno sguardo fra il tenero e il canzonatorio al suo Hector, che la contemplava come un giudice istruttore esamina un imputato.
«Povera donna!» disse il barone. «Sono più di nove mesi che non le do del denaro; e ne trovo per voi, Valérie, e a quale prezzo! Voi non sarete mai amata così da nessuno, e quanti dispiaceri mi date in cambio!»
«Dispiaceri?» rispose lei. «E cos'è allora che chiamate felicità?»
«Non so ancora quali siano state le vostre relazioni con questo sedicente cugino, del quale non mi avete mai parlato,» continuò il barone senza badare alle parole di Valérie. «Ma, quando è entrato, ho ricevuto come una coltellata al cuore. Per quanto io sia accecato, non sono un cieco. Ho letto nei vostri occhi e nei suoi. Insomma, si sprigionavano di tra le palpebre di quella scimmia delle scintille che ricadevano su di voi, il cui sguardo... Oh! voi non mi avete mai guardato così, mai! Quanto a questo mistero, Valérie, si svelerà presto... Voi siete la sola donna chi mi abbia fatto conoscere il sentimento della gelosia, perciò non vi meravigliate di ciò che vi dico... Ma c'è un altro mistero che si è chiarito e che mi sembra un'infamia...»
«Ma via! via!» disse Valérie.
«È che Crevel, quella gran massa di carne senza cervello, vi ama, e che voi accettate le sue galanterie tanto volentieri che quello sciocco ha lasciato vedere la sua passione a tutti quanti...»
«E tre! Ce ne sono altri?» chiese la signora Marneffe.
«Forse ce ne sono!» disse il barone.
«Che il signor Crevel mi ami, è nel suo diritto di uomo; che io corrisponda alla sua passione, sarebbe l'atteggiamento di una civetta o di una donna alla quale lascereste molte cose da desiderare... Ebbene, amatemi con i miei difetti, o lasciatemi. Se mi renderete la libertà, né voi, né il signor Crevel ritornerete qui; prenderò mio cugino, per non perdere le deliziose abitudini di cui mi accusate. Addio, barone Hulot.»
E si alzò; ma il consigliere di Stato l'afferrò per un braccio e la fece sedere. Il vecchio non poteva più sostituire Valérie; ella era diventata per lui un bisogno più imperioso delle necessità della vita, e preferì restare nell'incertezza anziché acquisire la più piccola prova dell'infedeltà di Valérie.
«Mia cara Valérie,» disse, «non vedi le pene che soffro? Non ti chiedo che di giustificarti... Dammi delle buone ragioni...»
«Bene, andate ad aspettarmi dabbasso, poiché non vorrete assistere, credo, alle varie cerimonie di cui necessita lo stato di vostra cugina.»
Hulot si ritirò lentamente.
«Vecchio libertino,» esclamò la cugina Bette, «non mi chiedete dunque notizie dei vostri figlioli?... Che cosa fate per Adeline? Io, per prima cosa, domani le porto i miei risparmi.»
«Un marito deve provvedere a portare a sua moglie almeno il pane comune,» disse sorridendo la signora Marneffe.
Il barone, senza offendersi del tono di Lisbeth, che lo trattava non meno duramente di Josépha, se ne andò felice di evitare un argomento importuno. Una volta messo il catenaccio, il brasiliano lasciò lo spogliatoio, dove era in attesa, e apparve con gli occhi pieni di lacrime, in uno stato da fare pietà. Montès aveva evidentemente sentito tutto.



XLVII • UNA PRIMA SCENA DI ALTA COMMEDIA FEMMINILE

«Non mi ami più, Henri! lo vedo,» disse la signora Marneffe nascondendosi la fronte nel suo fazzoletto e sciogliendosi in lacrime.
Era il grido del vero amore. Il pianto di disperazione della donna è così persuasivo da strappare il perdono che si trova in fondo al cuore di tutti gli innamorati, soprattutto quando la donna è giovane, graziosa e così scollata che dall'alto del suo vestito emerge nel costume di Eva.
«Ma perché non lasciate tutto per me, se mi amate?» domandò il brasiliano.
Quell'indigeno d'America, logico come lo sono tutti gli uomini che vivono nella natura, riprese subito la conversazione al punto in cui l'aveva lasciata, prendendo di nuovo Valérie per la vita.
«Perché?...» disse ella alzando la testa e guardando Henri che dominò con uno sguardo carico d'amore. «Ma, tesoro mio, perché sono sposata, perché siamo a Parigi, e non nelle savane, nella pampa, nelle solitudini dell'America. Mio caro Henri, mio primo e mio solo amore, ascoltami dunque. Questo mio marito, semplice sottocapo al Ministero della Guerra, vuole essere capufficio e ufficiale della Legion d'Onore; posso impedirgli di avere delle ambizioni? Ora, per la stessa ragione per cui ci lasciava completamente liberi tutti e due (quasi quattro anni fa, te ne ricordi, cattivo?...), oggi Marneffe m'impone il signor Hulot. Non posso disfarmi di quell'orribile amministratore che soffia come una foca, che ha dei ciuffi di peli nelle narici, che ha sessantatré anni, che da tre anni si è invecchiato di dieci per voler essere giovane; che mi è così odioso che, l'indomani del giorno in cui Marneffe sarà capufficio e ufficiale della Legion d'onore...»
«Che cosa avrà ancora tuo marito?»
«Mille scudi.»
«Glieli darò io vita natural durante,» riprese il barone Montès, «lasciamo Parigi e andiamo...»
«Dove?» disse Valérie facendo uno di quei graziosi bronci con i quali le donne sfidano scherzosamente gli uomini di cui sono sicure. «Parigi è la sola città in cui noi possiamo vivere felici. Tengo troppo al tuo amore per vederlo affievolirsi trovandoci soli in un deserto; ascolta, Henri, tu sei il solo uomo, in tutto l'universo, imprimitelo bene nel tuo cranio da tigre.»
Le donne riescono sempre a persuadere quegli uomini dei quali hanno fatto delle pecore, anche se sono dei leoni, e hanno un carattere di ferro.
«Ascoltami bene, ora! Al signor Marneffe non restano cinque anni di vita; è incancrenito fin nel midollo delle ossa. Su dodici mesi dell'anno, ne passa sette a bere droghe e tisane; vive nella bambagia. Insomma è, come dice il medico, esposto al colpo della falce in ogni momento; la malattia più banale per un uomo sano sarà mortale per lui. Il sangue è corrotto, la vita è minata alle radici. Per cinque anni non ho voluto che mi abbracciasse una sola volta, poiché quell'uomo è la peste! Un giorno, e questo giorno non è lontano, sarò vedova. Ebbene, ti giuro che malgrado sia stata richiesta da un uomo che possiede sessantamila franchi di rendita, io che sono padrona di quest'uomo come di questa zolletta di zucchero, ti giuro, dicevo, che sei tu solo che voglio come marito, tu solo che amo e del quale voglio portare il nome, anche se tu fossi povero come Hulot, lebbroso come Marneffe e se tu mi picchiassi. E sono pronta a darti tutte le prove d'amore che vorrai...»
«Ebbene, questa sera...»
«Ma, figlio di Rio, mio bel giaguaro uscito per me dalle foreste vergini del Brasile,» disse lei prendendogli la mano, baciandogliela e accarezzandogliela, «rispetta dunque un po' la creatura della quale tu vuoi fare tua moglie... Sarò tua moglie, Henri?...»
«Sì,» disse il brasiliano vinto dalla sfrenata loquacità della passione.
E si mise in ginocchio.
«Vediamo, Henri,» disse Valérie prendendogli le mani e guardandolo fissamente nel fondo degli occhi, «mi giuri qui, in presenza di Lisbeth, la mia migliore e la mia sola amica, mia sorella, di prendermi in moglie dopo il mio anno di vedovanza?»
«Lo giuro.»
«Non basta! giura sulle ceneri e la salvezza eterna di tua madre, giuralo sulla Vergine Maria e sulle tue speranze di cattolico!»
Valérie sapeva che il brasiliano avrebbe mantenuto quel giuramento, anche se ella fosse caduta nei più sporchi bassifondi della società. Il brasiliano fece quel giuramento solenne abbassando la testa fin quasi a toccare col naso il bianco seno di Valérie e i suoi occhi maliardi; era ebbro, come si può esserlo nel rivedere una donna amata, dopo una traversata di centoventi giorni!
«Bene, ora stai tranquillo. Rispetta, nella signora Marneffe, la futura baronessa di Montejanos. Non spendere nemmeno un soldo per me, te lo proibisco. Resta qui, nella prima stanza, sdraiato su questo piccolo canapè; verrò io stessa ad avvertirti quando potrai lasciare il tuo posto... Domattina faremo colazione insieme e poi te ne andrai verso l'una, come se tu fossi venuto a farmi una visita a mezzogiorno. Non temere nulla; i portieri mi appartengono come se fossero mio padre e mia madre... Ora scendo giù nel mio appartamento per servire il tè.»
Poi fece un cenno a Lisbeth che l'accompagnò fin sul pianerottolo. Là Valérie disse all'orecchio della zitella:
«Quel mulatto è venuto un po' troppo presto! perché morirò se non ti vendicherò di Hortense...»
«Stai tranquilla, mio caro, grazioso demonietto,» disse la zitella baciandola sulla fronte, «l'amore e la vendetta, cacciando insieme, non saranno mai vinti.» Hortense mi aspetta domani, è in miseria. Per avere mille franchi, Wenceslas ti bacerà mille volte.


XLVIII • SCENA DA PORTINERIA

Lasciando Valérie, Hulot era sceso fino alla portineria e si era presentato improvvisamente alla signora Olivier.
«Signora Olivier?...»
Udendo quel richiamo così imperioso e vedendo il gesto col quale il barone l'accompagnò, la signora Olivier uscì dalla portineria e andò fino in cortile, nel punto in cui il barone la condusse.
«Sapete bene che, se qualcuno può un giorno aiutare vostro figlio a metter su uno studio, quello sono io; lo dovete a me se egli oggi è terzo commesso di notaio e se sta completando i suoi studi di diritto.»
«Sì, signor barone; e il signor barone può contare sulla nostra riconoscenza. Non c'è giorno che non preghi Dio per la felicità del signor barone.»
«Non tante parole, buona donna,» disse Hulot, «ma delle prove.»
«Che cosa devo fare?» chiese la signora Olivier.
«Stasera è venuto un uomo in carrozza, lo conoscete?»
La signora Olivier aveva ben riconosciuto Montès; come avrebbe potuto dimenticarlo? Montès, in rue du Doyenné, le faceva scivolare in mano una moneta da cento soldi tutte le volte che usciva di casa un po' troppo presto, la mattina. Se il barone si fosse rivolto al signor Olivier, forse avrebbe saputo tutto. Ma Olivier dormiva. Nelle classi meno abbienti, la donna non solo è superiore all'uomo, ma lo governa quasi sempre. Da molto tempo la signora Olivier aveva già preso la sua decisione, in caso di contrasto fra i suoi due benefattori, ed ella considerava la signora Marneffe come la più forte di quelle due potenze.
«Se lo conosco?...» rispose. «No, in fede mia, non l'ho mai visto!...»
«Come! il cugino della signora Marneffe non veniva mai a farle visita quando abitava in rue du Doyenné?»
«Ah! è suo cugino!...» esclamò la signora Olivier. «Sarà forse venuto, ma non l'ho riconosciuto. La prossima volta, signore, farò bene attenzione...»
«Sta per scendere,» disse Hulot, togliendo la parola di bocca alla signora Olivier.
«Ma è già andato via,» replicò la signora Olivier, che aveva capito tutto. «La carrozza non c'e più.»
«L'avete visto partire?»
«Come vedo voi. Ha detto al suo domestico: ‹All'ambasciata!›»
Quel tono, quell'assicurazione strapparono un sospiro di sollievo al barone; prese la mano della signora Olivier e gliela strinse.
«Grazie, mia cara signora Olivier, ma non è tutto!... E il signor Crevel?»
«Il signor Crevel? Che volete dire? Non capisco,» disse la signora Olivier.
«Ascoltatemi bene! lui ama la signora Marneffe...»
«Non è possibile, signor barone, non è possibile!» disse lei giungendo le mani.
«Ama la signora Marneffe!» ripeté con tono autoritario il barone. «Come fanno? Non so nulla, ma voglio saperlo e voi lo saprete. Se sarete in grado di informarvi su questo intrigo, vi assicuro che vostro figlio sarà notaio.»
«Signor barone, non state a farvi il sangue cattivo in questo modo. La signora vi ama e non ama che voi; la sua cameriera lo sa bene, e noi ce lo diciamo spesso che voi siete l'uomo più fortunato della terra, perché sapete quanto vale la signora... Ah! è la perfezione... Si alza alle dieci tutti i giorni; poi pranza, e dopo impiega un'ora per fare la sua toilette; quando ha finito, sono le due. Allora esce per andare a fare una passeggiata alle Tuileries sotto gli occhi di tutti e rientra sempre alle quattro per l'ora del vostro arrivo... Oh! è regolata come una pendola. Non ha segreti per la sua cameriera, e Reine non ne ha per me! Reine non può averne, per riguardo a mio figlio, al quale è molto affezionata. Vedete bene che, se la signora avesse dei rapporti col signor Crevel, noi lo sapremmo.»
Il barone salì di nuovo dalla signora Marneffe col viso raggiante e, convinto di essere il solo uomo amato da quella orribile cortigiana, così infida, ma bella e affascinante come una sirena.
Crevel e Marneffe stavano cominciando una seconda partita a picchetto. Crevel perdeva come perde tutta la gente che pensa ad altro mentre gioca. Marneffe, che sapeva la ragione delle distrazioni del sindaco, ne approfittava senza scrupolo: guardava le carte da prendere e scartava in conseguenza; poi, vedendo nel gioco dell'avversario, giocava a colpo sicuro. Poiché il valore di una fiche era di venti soldi, nel momento in cui il barone rientrò aveva già derubato il sindaco di trenta franchi.
«Ebbene,» disse il consigliere di Stato, meravigliato di non trovare nessuno, «siete soli? Dove sono tutti gli altri?»
«Il vostro buon umore ha messo tutti in fuga,» rispose Crevel.
«No, è stato l'arrivo del cugino di mia moglie,» replicò Marneffe. «I signori e le signore hanno pensato che Valérie e Henri dovevano avere qualcosa da dirsi, dopo una separazione di tre anni, e si sono discretamente ritirati... Se fossi stato qui, li avrei trattenuti; ma, a pensare a quanto è accaduto, avrei fatto male, poiché l'indisposizione di Lisbeth, che serve sempre il tè verso le dieci e mezzo, ha scombussolato tutto...»
«Lisbeth è dunque realmente indisposta?» domandò Crevel furibondo.
«Me l'hanno detto,» replicò Marneffe con l'immorale noncuranza degli uomini per i quali le donne non esistono più.
Il sindaco aveva guardato la pendola e, facendo i calcoli, si accorse che il barone aveva passato quaranta minuti da Lisbeth. L'espressione felice di Hulot lo faceva sospettare gravemente di Hector, Valérie e Lisbeth.
«L'ho vista poco fa; soffre orribilmente, povera ragazza,» disse il barone.
«La sofferenza degli altri fa dunque la vostra gioia, mio caro amico,» rispose con acredine Crevel; «infatti voi tornate con un viso raggiante. Lisbeth è forse in pericolo di vita? Vostra figlia eredita da lei, dicono. Non sembrate più lo stesso: siete partito con la faccia del Moro di Venezia e tornate con quella di Saint-Preux!... Vorrei proprio vedere il viso della signora Marneffe...»
«Che intendete dire con queste parole?» domandò il signor Marneffe a Crevel raccogliendo le sue carte e mettendosele davanti.
Gli occhi spenti di quell'uomo decrepito a quarantasette anni si animarono; un pallido colorito tinse le sue guance flaccide e fredde; socchiuse la bocca devastata, dalle labbra nerastre, sulle quali apparve una specie di schiuma bianca come il gesso e lattiginosa. La rabbia di quell'uomo impotente, la cui vita era appesa a un filo e che, in un duello, non avrebbe rischiato nulla, mentre Crevel avrebbe avuto tutto da perdere, spaventò il sindaco.
«Dico,» rispose Crevel, «che vorrei proprio vedere il viso della signora Marneffe, e ho tanto più ragione in quanto il vostro, in questo momento, è assai poco piacevole. Parola d'onore, siete orribilmente brutto, mio caro Marneffe...»
«Sapete che non siete affatto gentile?»
«Un uomo che vince trenta franchi in quaranta minuti, non mi sembra mai bello.»
«Ah!» riprese il sotto-capo, «se mi aveste veduto diciassette anni fa...»
«Eravate carino?» replicò Crevel.
«È quello che mi ha perduto; se fossi stato come voi, a quest'ora sarei deputato e sindaco.»
«Sì,» disse sorridendo Crevel, «ne avete fatte troppe di battaglie, e dei due metalli che si conquistano coltivando il dio del commercio, vi è toccato il peggiore, il farmaco.
E Crevel scoppiò a ridere. Se Marneffe andava in collera per gli argomenti che toccavano il suo onore, in compenso prendeva bene queste volgari e ignobili battute: erano come gli spiccioli della conversazione fra Crevel e lui.
«Eva mi costa caro, è vero; ma, in fede mia, amore breve, ecco il mio motto.
«Io preferisco lunga e felice,» replicò Crevel.



XLIX • SECONDA SCENA DI ALTA COMMEDIA FEMMINILE

La signora Marneffe entrò, vide suo marito che giocava con Crevel, e il barone: tutti e tre soli nel salotto. Ella comprese, al solo vedere l'espressione del viso del dignitario municipale, tutti i pensieri che l'avevano agitato, e prese la sua decisione.
«Marneffe, micione,» disse andando ad appoggiarsi sulla spalla del marito e passando le sue graziose dita nei capelli di un brutto color grigio, che, anche ravviati, non arrivavano a coprirgli il capo, «è già molto tardi per te; dovresti andare a letto. Sai che domani devi purgarti, l'ha detto il dottore, e Reine ti farà prendere un infuso di erbe alle sette... Se vuoi vivere, smetti di giocare a picchetto...»
«Lo facciamo in cinque punti?» domandò Marneffe a Crevel.
«Bene... ne ho già due,» rispose Crevel.
«Quanto durerà?» domandò Valérie.
«Dieci minuti,» replicò Marneffe.
«Sono già le undici,» rispose Valérie. «Davvero, signor Crevel, si direbbe che vogliate uccidere mio marito. Sbrigatevi, almeno.»
Quel discorso a doppio senso fece sorridere Crevel, Hulot e lo stesso Marneffe.
Valérie andò a parlare col suo Hector.
«Esci, mio caro,» gli disse all'orecchio, «e passeggia per la rue Vanneau; ritornerai quando vedrai uscire Crevel.»
«Preferirei uscire dall'appartamento e rientrare in camera tua dalla porta dello spogliatoio; potresti dire a Reine di aprirmelo.»
«Reine è di sopra a curare Lisbeth.»
«Bene, e se salissi da Lisbeth?»
Valérie vedeva pericoli dappertutto, e così, prevedendo di avere una spiegazione con Crevel, non voleva Hulot nella propria camera, dove avrebbe potuto udire tutto... E il brasiliano aspettava da Lisbeth.
«Davvero voialtri uomini,» disse Valérie a Hulot, «quando avete un'idea in testa, per entrare in una casa sareste capaci di darle fuoco. Lisbeth è in uno stato tale da non potervi ricevere... Temete forse di prendere un raffreddore per la strada?... Andate... o buona notte!...»
«Arrivederci, signori,» disse il barone ad alta voce.
Una volta attaccato nel suo amor proprio di vecchio, Hulot ci tenne a dimostrare che poteva fare il giovanotto aspettando l'alba nella strada, e uscì.
Marneffe diede la buona notte a sua moglie, alla quale, per una dimostrazione di tenerezza apparente, prese le mani. Valérie strinse la mano del marito con un gesto d'intesa che voleva dire: «E ora liberami da Crevel.»
«Buona notte, Crevel,» disse allora Marneffe; «spero che non resterete a lungo con Valérie. Ah! la gelosia!... m'è venuta tardi, ma ormai ne sono posseduto... Verrò a vedere se siete andato via.»
«Dobbiamo parlare d'affari, ma non resterò a lungo,» disse Crevel.
«Parlate sottovoce! Che volete dirmi?» riprese Valérie su due toni e guardando Crevel con un'aria in cui l'alterigia si univa al disprezzo.
Ricevendo quello sguardo sdegnoso, Crevel, che rendeva immensi servizi a Valérie e che voleva gloriarsene, ridiventò umile e sottomesso.
«Quel brasiliano...»
Crevel, spaventato dallo sguardo fisso e sprezzante di Valérie, s'interruppe.
«Ebbene?» disse lei.
«Quel cugino...»
«Non è mio cugino,» riprese lei. «È mio cugino per la gente e per il signor Marneffe. Fosse il mio amante, voi certo non avreste il diritto di dire una parola. Un bottegaio che compra una donna per vendicarsi di un uomo è al di sotto, nella mia stima, di quello che compra per amore. Voi non eravate innamorato di me; avete solo visto in me l'amante del signor Hulot, e mi avete comprata come si compra una pistola per uccidere il proprio avversario. Io avevo fame e ho acconsentito.»
«Ma voi non avete rispettato i patti,» rispose Crevel ridiventando commerciante.
«Ah! Volete che il barone Hulot sappia che gli prendete la sua amante per avere la rivincita, perché lui vi ha preso Josépha?... Non c'è nulla che possa provare meglio la vostra bassezza. Voi dite di amare una donna, la trattate da duchessa, e poi volete disonorarla! Sì, mio caro, avete ragione: questa donna non vale quanto Josépha. Quella ragazza ha il coraggio della sua infamia, mentre io sono un'ipocrita che dovrebbe essere frustata su una pubblica piazza. Ohimè! Josépha si protegge col suo talento e con la sua ricchezza. Per me la sola difesa è invece la rispettabilità; io sono ancora una degna e virtuosa borghese; ma se voi parlate e fate uno scandalo, che sarà di me? Se fossi ricca, ancora passi! Ma posseggo tutt'al più quindicimila franchi di rendita, vero?»
«Molto di più,» disse Crevel; «da due mesi ho raddoppiato i vostri risparmi investendoli nell'Orléans.»
«Be'! la considerazione a Parigi parte da cinquantamila franchi di rendita e voi non mi potete dare nemmeno gli spiccioli della posizione che perderò. Che cosa volevo? Far nominare Marneffe capufficio; così avrebbe seimila franchi di stipendio. Sono già ventisette anni che è in servizio e fra tre anni avrei diritto a millecinquecento franchi di pensione, se morisse. E voi, che ho colmato di gentilezze e riempito di felicità, non sapete aspettare!... E questo sarebbe amare!» esclamò lei.
«Se ho cominciato per calcolo,» disse Crevel, «in seguito sono diventato il vostro cagnolino; voi calpestate i miei sentimenti, mi schiacciate, mi mortificate, e io vi amo come non ho mai amato. Valérie, vi amo quanto la mia Célestine! Per voi sono capace di tutto... Sentite! invece di venire due volte la settimana in rue du Dauphin, veniteci tre.»
«Nientemeno! Voi ringiovanite, mio caro...»
«Lasciate che mandi via Hulot, che l'umili, che vi liberi di lui,» disse Crevel senza rispondere a quella insolenza; «non ricevete più quel brasiliano, siate tutta mia e non ve ne pentirete. Per prima cosa vi intesterò ottomila franchi, in vitalizio; vi darò in aggiunta la nuda proprietà solo dopo cinque anni di fedeltà...»
«Sempre mercanteggiare! I borghesi non impareranno mai a donare! Volete assicurarvi delle scadenze d'amore nella vita con delle cessioni di rendita?... Ah! bottegaio, mercante di pomate! tu metti il prezzo su tutto! Hector mi diceva che il duca d'Herouville aveva portato trentamila franchi di rendita a Josépha in un sacchetto da confetti di droghiere! Io valgo sei volte di più di Josépha! Ah! essere amata!» disse riaggiustandosi i boccoli e andando a guardarsi allo specchio. «Henri mi ama; vi ucciderebbe come una mosca a un cenno dei miei occhi! Hulot mi ama, riduce sua moglie sul lastrico per me! Su, siate buon padre di famiglia, mio caro. Oh! Avete, per fare le vostre scappatelle, trecentomila franchi oltre al vostro capitale, un bel gruzzolo insomma, e non pensate ad altro che ad aumentarlo...»
«Per te, Valérie, perché te ne offro la metà!» disse lui, cadendo in ginocchio.
«Come, siete ancora qui?» esclamò l'odioso Marneffe in veste da camera. «Che cosa fate?»
«Mi chiede perdono, mio caro, per una proposta insultante che mi ha appena rivolto. Non potendo ottenere nulla da me, il signore ha pensato di potermi comprare...»
Crevel avrebbe voluto sprofondare attraverso una botola, come si fa a teatro.
«Alzatevi, mio caro Crevel,» disse sorridendo Marneffe, «siete ridicolo. Vedo dall'espressione di Valérie che non corro alcun pericolo.»
«Vai pure a letto e dormi tranquillo,» disse la signora Marneffe.
«Che donna ingegnosa!» pensava Crevel; «è adorabile! mi ha salvato!»
Quando Marneffe fu rientrato in camera sua, il sindaco prese le mani di Valérie e gliele baciò, lasciandovi la traccia di qualche lagrima.
«Tutto a tuo nome!» disse.
«Questo è amore,» gli disse lei piano all'orecchio. «Ebbene, amore per amore. Hulot è giù in strada. Quel povero vecchio aspetta, per salire da me, che io metta una candela a una delle finestre della mia camera da letto; vi permetto di dirgli che voi siete il solo che io ami. Non vorrà credervi; conducetelo allora da voi in rue du Dauphin e dategli le prove, umiliatelo! ve lo permetto, ve lo ordino. Quel bestione mi annoia, mi esaspera. Trattenete il vostro uomo in rue du Dauphin durante tutta la notte, cuocetelo a fuoco lento, vendicatevi perché vi ha portato via Josépha. Hulot forse ne morirà, ma noi salveremo sua moglie e i suoi figli da una spaventosa rovina. La signora Hulot lavora per vivere!...»
«Oh! povera signora! Davvero, è una cosa atroce,» esclamò Crevel, nel cui animo subentrarono gli innati buoni sentimenti.
«Se mi ami, Célestine,» gli sussurrò lei all'orecchio, sfiorandolo con le labbra, «trattienilo lontano da me, o sono perduta. Marneffe ha dei sospetti, Hector ha la chiave del portone e conta di ritornare!»
Crevel strinse la signora Marneffe fra le braccia, e uscì; era al colmo della felicità. Valérie l'accompagnò teneramente fino al pianerottolo; poi, come magnetizzata, scese al primo piano, e andò fino in fondo alla rampa delle scale.
«Valérie, mia cara! torna di sopra, non comprometterti agli occhi dei portieri... Vai, la mia vita e la mia ricchezza, tutto è tuo... Ritorna in casa, mia duchessa!»
«Signora Olivier!» chiamò sottovoce Valérie quando la porta si richiuse.
«Come! signora, voi qui?» disse la signora Olivier stupefatta.
«Mettete il catenaccio al portone in basso e in alto, e non aprite più.»
«Bene, signora.»
Sprangato il portone, la signora Olivier raccontò il tentativo di corruzione che l'alto funzionario si era permesso di fare a suo riguardo.
«Vi siete comportata come un angelo, mia cara Olivier; ma parleremo di tutto domani.»
Valérie raggiunse il terzo piano con la rapidità di una freccia, batté tre piccoli colpi alla porta di Lisbeth e tornò nel suo appartamento, dove diede i suoi ordini alla signorina Reine; una donna, infatti, non perde mai l'occasione di un Montès tornato dal Brasile.



L • CREVEL SI VENDICA

«No! perdinci, non ci sono che le donne dell'alta società che sanno amare così!» si diceva Crevel. «Come scendeva le scale illuminandole coi suoi occhi, mentre io la precedevo! Mai Josépha... Josépha è una caccola in confronto a lei!» gridò l'ex commesso viaggiatore. «Che cosa ho detto? caccola... Mio Dio! sono capace di lasciarmi sfuggire questa parola alle Tuileries, qualche giorno... No, se Valérie non mi rende più raffinato, non posso diventare nessuno... Io che ci tengo tanto a passare per un gran signore... Ah! che donna! mi sconvolge tutto come una colica, quando mi guarda freddamente... Che grazia! Che ingegno! Mai Josépha mi ha dato simili emozioni! E che perfezioni nascoste! Ah! bene, ecco il mio uomo.»
Scorgeva, nelle tenebre della rue de Babylone, l'alta figura di Hulot, un po' incurvata, che si muoveva furtivamente lungo le assi di una casa in costruzione, e andò diritto verso di lui.
«Buongiorno, barone, poiché ormai è più di mezzanotte, mio caro! Che diavolo fate qui?... Passeggiate con questa pioggerellina insistente! Non fa bene, alla nostra età. Volete che vi dia un buon consiglio? Torniamocene ognuno a casa propria, poiché, detto fra noi, non vedrete lumi alla finestra...»
Sentendo quest'ultima frase, il barone si rese conto che aveva sessantatré anni e che il suo mantello era bagnato.
«Chi dunque ha potuto dirvi...?» domandò.
«Ma Valérie, la ‹nostra› Valérie, che vuole essere unicamente la ‹mia› Valérie. Siamo pari, barone; giocheremo la bella quando vorrete. Non potete arrabbiarvi, sapete che non ho mai fatto mistero del diritto che avevo di prendermi la rivincita; voi avete impiegato tre mesi a prendermi Josépha, io vi ho preso Valérie in... Ma non parliamo di questo,» riprese. «Ora la voglio tutta per me, ma non per ciò non dobbiamo restare buoni amici.»
«Crevel, non scherzare,» rispose il barone con una voce soffocata dalla rabbia, «è un affare di vita o di morte.»
«Accidenti come la prendete!... Barone, non vi ricordate più di quanto mi avete detto il giorno del matrimonio di Hortense: ‹Forse che due vecchi dongiovanni come noi devono bisticciare per una sottana? È da droghiere, è da gente comune...› Noi siamo, lo abbiamo convenuto, Reggenza, giustacuore blu, Pompadour, diciottesimo secolo, tutto ciò che c'è di più maresciallo di Richelieu, Rocaille e, oso dire, Liaisons dangereuses!...»
Crevel avrebbe potuto seguitare per un pezzo ad ammucchiare i suoi motti letterari: il barone ormai ci sentiva come sentono i sordi all'inizio della sordità. Vedendo, alla luce del lampione a gas che il viso del suo nemico si era fatto bianco, il vincitore s'interruppe. Fu un colpo terribile per il barone, dopo le dichiarazioni della signora Olivier, dopo l'ultimo sguardo di Valérie.
«Dio mio! c'erano tante altre donne a Parigi!...» esclamò infine.
«È quel che ti ho detto quando mi hai preso Josépha,» replicò Crevel.
«Sentite, Crevel, è impossibile... Datemi delle prove!... Avete una chiave come me, per entrare?»
E il barone, arrivato davanti alla casa, infilò una chiave nella serratura; ma trovò la porta sprangata e tentò invano di forzarla.
«Non fate schiamazzi notturni,» disse tranquillamente Crevel. «Ecco, barone, io ho delle chiavi molto migliori delle vostre.»
«Delle prove! delle prove!» ripeté il barone che il dolore esasperava fino a farlo impazzire.
«Venite, ve ne darò,» riprese Crevel.
E, secondo le istruzioni di Valérie, trascinò il barone verso il lungosenna, per la rue Hillerin-Bertin. Lo sfortunato consigliere di Stato camminava, così come camminano i commercianti il giorno prima di quello in cui devono andare a dichiarare il fallimento; si perdeva in congetture sulle ragioni della depravazione nascosta in fondo al cuore di Valérie e si credeva la vittima di qualche mistificazione. Passando sul Pont-Royal, vide la sua esistenza così vuota, così realmente finita, così ingarbugliata dagli affari finanziari, che fu sul punto di cedere alla tentazione di gettare Crevel nel fiume, e di gettarvisi dopo di lui.



LI • LA PICCOLA CASA DEL SIGNOR CREVEL

Arrivato in rue du Dauphin, che, in quel tempo, non era stata ancora allargata, Crevel si fermò davanti a una porta secondaria. La porta dava su un lungo corridoio, pavimentato con piastrelle bianche e nere, che formava un peristilio, e in fondo al quale si trovavano una scala e una portineria che prendevano luce da una piccola corte interna come ce ne sono tante a Parigi. La corte, in comune con la proprietà vicina, presentava la singolare particolarità di essere divisa in maniera ineguale. La piccola casa di Crevel, perché ne era lui il proprietario, aveva una dipendenza con un tetto di vetro, costruita sul terreno adiacente, e col divieto di sopraelevazione, interamente nascosta alla vista dalla portineria e dalla sporgenza della scala.
Quel locale era a lungo servito da magazzino, da retrobottega e da cucina a una delle due botteghe situate sulla strada. Crevel aveva separato, dal quartiere affittato, le tre stanze del pianterreno, e Grindot le aveva trasformate in un piccolo pied-à-terre. Vi si accedeva in due modi: attraverso la bottega di un venditore di mobili, al quale Crevel l'affittava a prezzo modico e con scadenza mensile, per poterlo punire nel caso che fosse indiscreto, e attraverso una porta nascosta così abilmente nel muro del corridoio da essere quasi invisibile.
L'appartamentino, composto da una sala da pranzo, da un salotto e da una camera da letto, e illuminato dall'alto, occupava parte del terreno del vicino e parte di quello di Crevel ed era quasi introvabile. A eccezione del venditore di mobili di occasione, gli inquilini ignoravano l'esistenza di questo piccolo paradiso. La portiera, pagata per essere complice di Crevel, era un'eccellente cuoca. Il signor sindaco poteva dunque entrare nel suo piccolo alloggio e uscirne a ogni ora della notte senza temere di essere spiato. Durante il giorno, una donna vestita come si vestono le parigine per andare a far compere e munita di una chiave, non rischiava nulla a venire a casa di Crevel; osservava la merce d'occasione, discuteva sul prezzo, entrava nella bottega e la lasciava senza suscitare il minimo sospetto se qualcuno l'incontrava.
Quando Crevel ebbe acceso i candelabri nel salottino, il barone rimase stupito del lusso intelligente e civettuolo che vi era stato profuso. L'ex profumiere aveva dato carta bianca a Grindot, e il vecchio architetto si era distinto con una creazione del genere Pompadour che, del resto, costava sessantamila franchi.
«Voglio,» aveva detto Crevel a Grindot, «che una duchessa entrando qui resti sorpresa...»
Aveva voluto il più bell'Eden parigino per possedervi la sua Eva, la sua donna di classe, la sua Valérie, la sua duchessa.
«Ci sono due letti,» disse Crevel a Hulot mostrando un divano da cui si poteva tirar fuori un letto come si tira un cassetto di un comò. «Eccone uno, l'altro è nella camera da letto. Così possiamo passare qui la notte tutti e due.»
«Le prove!» disse il barone.
Crevel prese un candeliere e condusse l'amico nella camera da letto, dove, su un piccolo canapè, Hulot vide una magnifica veste da camera appartenente a Valérie, e che ella aveva indossato in rue Vanneau, per farne sfoggio, prima di adoperarla nella piccola casa di Crevel. Il sindaco fece scattare il cassetto segreto di un piccolo e grazioso mobile intarsiato chiamato bonheur du jour, vi frugò, prese una lettera e la porse al barone:
«To', leggi.»
Il consigliere di Stato lesse quel bigliettino scritto a lapis:
«Ti ho aspettato invano, vecchio spilorcio! Una donna come me non aspetta mai un ex profumiere. Non c'era né cena pronta, né sigarette. Me la pagherai.»
«Non è la sua scrittura?»
«Mio Dio,» disse Hulot, mentre si sedeva prostrato. «Riconosco tutte queste cose che ha usato: ecco le sue cuffie e le sue pantofole. Ah, è così! Ma da quando...?»
Crevel fece cenno che capiva e prese un fascio di fatture dal piccolo stipo intarsiato.
«Guarda, vecchio mio! ho pagato i costruttori nel dicembre del 1838. In ottobre, due mesi prima, questa deliziosa casetta era inaugurata.»
Il consigliere di Stato abbassò la testa.
«Come diavolo fate?» perché so come impiega il tempo, ora per ora.
«E la passeggiata alle Tuileries...» disse Crevel fregandosi le mani ed esultando.
«Be'?...» fece Hulot inebetito.
«La tua presunta amante viene alle Tuileries, e tutti pensano che vi passeggi dall'una alle quattro. Ma crac! In un baleno è qui. Conosci Molière? Ebbene, barone, non c'è niente di immaginario nel titolo che ti spetta.»
Hulot, non potendo più dubitare di nulla, mantenne un cupo silenzio. Le catastrofi spingono tutti gli uomini forti e intelligenti verso la filosofia. Il barone era, moralmente, simile a un uomo che cerchi di notte la strada in una foresta. Quel silenzio cupo, il cambiamento che si produsse su quel volto accasciato, tutto impensierì Crevel che non voleva la morte del suo collega.
«Come ti dicevo, vecchio mio, siamo pari e patta; giochiamo la bella... La vuoi giocare? Che vinca il migliore!»
«Perché,» si diceva Hulot parlando fra sé, «su dieci belle donne, ce ne sono almeno sette perverse?»



LII • DUE COMPARI DELLA GRANDE CONFRATERNITA DEI COMPARI

Il barone era troppo turbato per trovare la soluzione di quel problema. La bellezza è il più grande dei poteri umani. Ogni potere senza contrappesi, senza freni, conduce all'abuso, alla follia. L'arbitrario è la demenza del potere. Nella donna l'arbitrario è la fantasia.
«Non hai di che lamentarti, mio caro compare, hai la più bella delle mogli, ed è virtuosa.»
«Merito la mia sorte,» si disse Hulot, «ho misconosciuto mia moglie, la faccio soffrire, ed è un angelo! Oh, mia povera Adeline, sei stata ben vendicata! Soffre, sola, in silenzio; è degna di adorazione e merita il mio amore. Io dovrei... poiché è ancora bella, bianca e ridiventata fanciulla... Ma si è mai vista una donna più ignobile, più infame, più cattiva di questa Valérie?»
«È una donna spregevole, una furfante da frustare sulla piazza du Chatelet,» disse Crevel. «Ma mio caro Canillac, se noi ci sentiamo giustacuori blu, maresciallo di Richelieu, Trumeau, Pompadour, Du Barry, compagni di bagordi, e tutto ciò che c'è di meglio nel xviii secolo, non abbiamo più un luogotenente di polizia.»
«Come riuscire a farsi amare?...» si domandava Hulot senza ascoltare Crevel.
«È stupido da parte nostra pensare di poter essere amati, mio caro,» disse Crevel, «tutt'al più possiamo essere sopportati, poiché la signora Marneffe è cento volte più astuta di Josépha...»
«E avida! mi costa centonovantaduemila franchi!» esclamò Hulot.
«E quanti centesimi?» domandò Crevel con l'insolenza del finanziere, trovando la somma del tutto risibile.
«Si vede bene che tu non l'ami,» disse malinconicamente il barone.
«Quel tanto che basta,» replicò Crevel, «perché da me ha avuto più di trecentomila franchi!...»
«Ma dove, dove va a finire tutto questo denaro?» disse il barone prendendosi la testa fra le mani.
«Se ci fossimo messi d'accordo, come quei giovanottelli che fanno una colletta per mantenere una cortigiana da due soldi, ci costerebbe meno cara...»
«È un'idea!» replicò il barone; «ma ci ingannerebbe comunque; a proposito, vecchio ciccione, che ne pensi di quel brasiliano?...»
«Ah! vecchio mio, hai ragione,» disse Crevel, «siamo stati giocati come degli... azionisti!... Tutte quelle donne sono delle accomandite!»
«È stata dunque lei a parlarti del lume sulla finestra?...»
«Caro mio,» riprese Crevel mettendosi in posa, «siamo stati fregati! Valérie è una... Mi ha detto di trattenerti qui... Ora mi spiego tutto... Ha il suo brasiliano... Ah! rinuncio a lei: se uno le tenesse le mani, quella troverebbe il mezzo di ingannarlo coi piedi! Sì, è un'infame! una donna senza scrupoli!»
«È al di sotto delle prostitute,» disse il barone. «Josépha, Jenny Cadine erano nel loro diritto quando ci ingannavano. Delle loro attrattive fisiche fanno una professione, loro!»
«Ma lei che fa la santa, la puritana!» disse Crevel. «Senti, Hulot, ritorna da tua moglie, perché sei in cattive acque. Si comincia a parlare di certe cambiali firmate a un piccolo usuraio la cui specialità consiste nel fare prestiti alle donnine allegre, un certo Vauvinet. Quanto a me, eccomi guarito dalle donne perbene. Del resto, alla nostra età, che bisogno abbiamo di queste baldracche, che, siamo franchi, non possono non ingannarci? Tu hai i capelli bianchi e i denti finti, barone. Io ho l'aria di Sileno. Mi metterò a far quattrini. Il denaro non inganna mai. Se il Tesoro si apre ogni sei mesi per tutti, vi dà almeno degli interessi, e questa donna ne costa... Con te, mio caro compare Gubetta, mio vecchio complice, io potrei accettare una situazione chocnoso... no, da filosofo; ma un brasiliano che, forse, porta dal suo paese delle derrate coloniali sospette...»
«La donna,» disse Hulot, «è un essere inesplicabile!»
«Io me lo spiego il suo comportamento,» disse Crevel, «noi siamo vecchi, il brasiliano è giovane e bello...»
«Sì, è vero,» disse Hulot, «lo riconosco: noi invecchiamo. Ma, amico mio, come rinunciare a vedere queste belle creature quando si spogliano o si fanno i riccioli ai capelli, oppure quando ci guardano con un malizioso sorriso attraverso le loro dita mentre si mettono i bigodini, o quando ci fanno tutte quelle moine, o ci raccontano le loro bugie, dicendosi poco amate quando ci vedono stanchi per il nostro lavoro, e, malgrado tutto, ci distraggono?»
«Sì, in verità, è la sola cosa piacevole della vita...» esclamò Crevel. «Ah! quando una donna con quel suo musetto ti sorride e ti dice: ‹Mio tesoro, non sai quanto sei carino! Senza dubbio io sono fatta diversamente dalle altre donne, che si infiammano per quei giovani dalla barbetta di caprone, dei ragazzini che fumano e sono villani come lacchè! Perché la loro giovinezza li fa essere talmente insolenti!... Insomma vengono, vi dicono buongiorno e se ne vanno... Io, che tu sospetti di civetteria, preferisco a questi mocciosi gli uomini di cinquant'anni, che rimangono con noi per un pezzo; ci sono affezionati, loro; sanno che una donna si trova difficilmente, e ci apprezzano... Ecco perché ti amo, gran furfante che sei...› e accompagnano queste specie di confessioni con moine, gentilezze, con... Ah! tutto ciò è falso come i programmi delle elezioni comunali...»
«La menzogna vale spesso più della verità,» disse Hulot, ricordandosi di qualche adorabile scena evocata dalla mimica di Crevel che scimmiottava Valérie. «Si è costretti a manipolare la menzogna, a cucire dei lustrini sui suoi abiti di scena...»
«E poi infine, riusciamo ad averle, queste bugiarde!» disse brutalmente Crevel.
«Valérie è una fata,» gridò il barone, «le riesce di trasformare un vecchio in un giovanotto...»
«Ah! sì,» riprese Crevel, «è un'anguilla che vi sguscia fra le mani; ma è la più graziosa delle anguille... bianca e dolce come lo zucchero!... divertente come Arnal e con certe trovate!...»
«Oh, sì, è piena di spirito!» esclamò il barone, che non pensava più a sua moglie.
I due compari si coricarono come i migliori amici del mondo, rievocando a una a una tutte le perfezioni di Valérie, le intonazioni della sua voce, le sue moine, i suoi gesti, i suoi scherzi, le sue battute spiritose, le sue parole affettuose; perché quell'artista in amore aveva degli slanci meravigliosi, come i tenori che cantano un'aria meglio un giorno dell'altro. E tutti e due si addormentarono, cullati da quelle reminiscenze tentatrici e diaboliche, illuminate dai fuochi dell'inferno.
L'indomani, alle nove, Hulot parlò di andare al ministero; Crevel aveva da fare in campagna. Uscirono insieme, e Crevel tese la mano al barone dicendogli:
«Senza rancore, vero? poiché né l'uno né l'altro pensiamo più alla signora Marneffe.»
«Oh! è tutto finito!» rispose Hulot con una specie di orrore.



LIII • DUE ACCANITI BEVITOR

Alle dieci e mezzo, Crevel saliva a quattro a quattro le scale della signora Marneffe. Trovò l'infame creatura, l'adorabile incantatrice nel suo più seducente deshabillé. Faceva una deliziosa colazione in compagnia del barone Henri Montès de Montejanos e di Lisbeth. Malgrado il colpo che gli aveva procurato la vista del brasiliano, Crevel pregò la signora Marneffe di concedergli due minuti di udienza. Valérie accettò e passò nel salotto con Crevel.
«Valérie, angelo mio,» disse l'innamorato Crevel, «il signor Marneffe non ha più molto da vivere; se, alla sua morte, vorrai essermi fedele, noi ci potremo sposare. Pensaci. Ti ho intanto liberata di Hulot... Così, vedi se questo brasiliano può valere un sindaco di Parigi, un uomo che, per te, ha intenzione di arrivare alle più alte cariche, e che già possiede oltre ottantamila franchi di rendita.»
«Ci penserò,» disse lei. «Sarò in rue du Dauphin alle due, e ne parleremo. Ma siate prudente e non dimenticate di portare a termine quell'operazione che mi avete promesso ieri.»
Tornò in sala da pranzo, seguita da Crevel, che si beava di aver trovato il mezzo di avere Valérie tutta per sé; ma scorse subito il barone Hulot che, durante quel colloquio, era entrato per realizzare lo stesso disegno.
Il consigliere di Stato chiese, come Crevel, un attimo di udienza. La signora Marneffe si alzò per ritornare nel salotto, sorridendo al brasiliano, come per dirgli: «Sono pazzi. Ma non ti vedono, dunque?»
«Valérie, bambina mia,» disse il consigliere di Stato, «questo cugino è un cugino d'America...»
«Oh! Basta!» esclamò lei interrompendo il barone. «Marneffe non è mai stato, non sarà più, non può più essere mio marito. Il primo, il solo uomo che abbia amato è ritornato, senza che lo attendessi... Non è colpa mia! Ma guardate bene Henri e poi guardate voi. E domandatevi se una donna, soprattutto quando ama, può esitare. Mio caro, non sono una mantenuta. A partire da oggi, non voglio più essere come Susanna fra due vecchioni. Se tenete a me, voi e Crevel, potete essere nostri amici; ma fra noi tutto è finito, poiché ho ventisei anni e voglio essere per l'avvenire una santa, la migliore e la più virtuosa delle mogli... come la vostra.»
«È così?» disse Hulot. «Ah! ecco come mi accogliete! E pensare che io venivo come un papa, con le mani piene di indulgenze!... Ebbene, vostro marito non sarà mai capufficio né ufficiale della Legion d'Onore...»
«È quello che vedremo!» disse la signora Marneffe, guardando Hulot in un certo modo.
«Non bisticciamo,» riprese Hulot disperato, «verrò questa sera, e ci metteremo d'accordo.»
«Da Lisbeth, sì!...»
«Va bene,» disse il vecchio innamorato, «da Lisbeth!»
Hulot e Crevel discesero insieme senza dirsi una parola fin nella strada; ma, sul marciapiede, si guardarono e si misero a ridere malinconicamente.
«Siamo due vecchi pazzi!...» disse Crevel.
«Li ho congedati,» disse la signora Marneffe a Lisbeth, rimettendosi a tavola. «Non ho mai amato, non amo e non amerò mai che il mio giaguaro,» aggiunse sorridendo a Henri Montès. «Lisbeth, ragazza mia, non sai?... Henri mi ha perdonato le infamie cui la miseria mi ha costretta.»
«È colpa mia,» disse il brasiliano, «avrei dovuto inviarti centomila franchi...»
«Povero caro!» esclamò Valérie, «io avrei dovuto lavorare per vivere, ma non ho le dita fatte per questo... chiedilo a Lisbeth.»
Il brasiliano se ne andò come l'uomo più felice di tutta Parigi.
Verso mezzogiorno, Valérie e Lisbeth chiacchieravano insieme nella magnifica camera da letto dove quella pericolosa parigina dava alla sua toilette gli ultimi ritocchi che una donna ama dare da sé. Chiuse le porte e tirate le tende, Valérie raccontò nei minimi dettagli tutti gli avvenimenti della serata, della notte e della mattinata.
«Sei contenta, mio tesoro?» disse a Lisbeth terminando. «Che cosa dovrò essere un giorno, la signora Crevel o la signora Montès? Qual è la tua opinione?»
«Crevel non ha più di dieci anni di vita, libertino com'è,» rispose Lisbeth, «e Montès è giovane. Crevel ti lascerà trentamila franchi di rendita circa. Che Montès aspetti; sarà felice abbastanza di rimanere il preferito. Così, verso i trentatré anni, potrai, mia cara bambina, conservandoti sempre bella, sposare il tuo brasiliano e sostenere una parte importante in società con sessantamila franchi di rendita tutti per te, soprattutto se protetta da una marescialla...»
«Sì, ma Montès è brasiliano, non arriverà mai a essere qualcuno,» fece osservare Valérie.
«Siamo,» disse Lisbeth, «nell'epoca delle ferrovie, in cui gli stranieri finiscono in Francia con l'occupare delle ottime posizioni.»
«Vedremo,» riprese Valérie, «quando Marneffe sarà morto: ormai non ne ha per molto.»
«Quelle continue malattie,» disse Lisbeth, «sono come i rimorsi del fisico... Via, vado da Hortense.»
«Bene! Va', angelo mio,» rispose Valérie, «e portami il mio artista! Non aver ancora guadagnato, in tre anni, un solo pollice di terreno! È una cosa vergognosa per tutte e due! Wenceslas e Henri, ecco le mie sole due passioni. L'uno è l'amore; l'altro, il capriccio.»
«Come sei bella, stamattina!» disse Lisbeth prendendo Valérie per la vita e baciandola sulla fronte. «Godo di tutti i tuoi piaceri, della tua ricchezza, delle tue toilettes... Non ho vissuto che dal giorno in cui siamo diventate sorelle...
«Aspetta, mia tigre!» disse ridendo Valérie, «il tuo scialle è tutto di traverso... Non sai ancora portare uno scialle, malgrado le mie lezioni, dopo tre anni, e vuoi diventare la marescialla Hulot...»


LIV • UN'IMMAGINE DIVERSA DI UNA COPPIA LEGITTIMA

Calzata di stivaletti color prugna, di calze di seta grigia, armata di un abito di magnifica levantina, i capelli a bande sotto una graziosissima cuffia di velluto nero foderata di raso giallo, Lisbeth si recò in rue Saint-Dominique per il boulevard des Invalides, domandandosi se lo sconforto di Hortense le avrebbe infine consentito di avere in suo potere quell'anima forte, e se l'incostanza degli slavi, colta in un momento in cui tutto è possibile per quelle nature, avrebbe fatto diminuire l'amore di Wenceslas.
Hortense e Wenceslas occupavano il pianterreno di una casa va sull'esplanade des Invalides. Questo appartamento, una volta in armonia con la luna di miele, presentava a quell'epoca un aspetto mezzo fresco, mezzo appassito, che si dovrebbe chiamare l'autunno dell'arredamento. Gli sposi novelli sono spreconi; sciupano, senza saperlo, senza volerlo, le cose intorno a loro, come abusano dell'amore. Non pensano che a sé e si preoccupano poco dell'avvenire, il quale, più tardi, preoccupa la madre di famiglia.
Lisbeth trovò sua cugina Hortense; aveva appena finito di vestire un piccolo Wenceslas, che era stato portato in giardino.
«Buongiorno, Bette,» disse Hortense, che venne ad aprire lei stessa la porta alla cugina.
La cuoca era andata 0al mercato; la cameriera, che era anche bambinaia, stava facendo il bucato.
«Buongiorno, piccola cara,» rispose Lisbeth abbracciando Hortense. «E Wenceslas è allo studio?» le disse all'orecchio.
«No, sta parlando con Stidmann e Chanor in salotto.»
«Potremmo star sole un momento?» domandò Lisbeth.
«Vieni in camera mia.»
La camera era tappezzata in cretonne a fiori rosa e foglie verdi su fondo bianco, e, poiché vi batteva sempre il sole, era, al pari del tappeto, sbiadita. Da molto tempo le tende non erano state lavate. Si sentiva l'odore del sigaro di Wenceslas che, divenuto gran signore dell'arte e nato gentiluomo, lasciava cadere la cenere del tabacco sui braccioli delle poltrone, sulle cose più belle, come fa un uomo amato dal quale tutto si sopporta, l'uomo ricco che non prende le precauzioni tipiche dei borghesi.
«Ebbene, parliamo dei tuoi affari,» disse Lisbeth vedendo la bella cugina starsene muta nella poltrona dove si era sprofondata. «Ma che cos'hai? ti trovo palliduccia, mia cara.»
«Sono usciti due nuovi articoli in cui il mio povero Wenceslas è stato stroncato. Io li ho letti, ma glieli nascondo, perché si scoraggerebbe completamente. La statua in marmo del maresciallo Montcornet è considerata un'opera assolutamente brutta. Si fa grazia ai bassorilievi solo per esaltare con atroce perfidia il talento di decoratore di Wenceslas, e ciò al fine di dare più peso all'opinione che l'arte severa ci è interdetta! Stidmann, che io ho supplicato di dirmi la verità, mi ha gettato nello sconforto confessandomi che la sua opinione concordava con quella di tutti gli artisti, dei critici, del pubblico. ‹Se Wenceslas,› mi ha detto lì in giardino, prima di pranzo, ‹non espone, l'anno prossimo, un capolavoro, dovrà abbandonare la grande scultura e limitarsi alle piccole opere di soggetto amoroso, alle statuine, alle opere di gioielleria e di alta oreficeria!› Questa sentenza mi ha causato il più vivo dispiacere, perché Wenceslas non vorrà mai accettarla; lui sente di essere un grande artista, ha tante belle idee...»
«Non è con le idee che si pagano i fornitori,» fece osservare Lisbeth; «mi sfiatavo a dirgli queste cose... È col denaro. E il denaro non si ottiene che producendo delle opere che piacciano abbastanza ai borghesi da essere comprate. Quando si tratta di vivere, è meglio che lo scultore abbia sul suo banco di lavoro il modello di un candeliere, di un parafuoco, di un tavolo, anziché un gruppo o una statua; tutti, infatti, hanno bisogno di queste cose, mentre l'amatore del gruppo e il suo denaro si fanno attendere per mesi...»
«Hai ragione, mia buona Lisbeth! diglielo, tutto questo; io non ne ho il coraggio... Del resto, come lui diceva a Stidmann, se si mette a fare lavori di decorazione, oppure piccole opere, bisognerà rinunciare all'Istituto, alle grandi creazioni dell'arte, e non avremo più i trecentomila franchi di ordinazioni che Versailles, la città di Parigi, il ministero, ci avevano accordato. Ecco che cosa ci tolgono questi terribili articoli ispirati da concorrenti che vorrebbero ereditare le nostre commissioni.»
«Non è certo questo che sognavi, povera gattina mia!» disse Bette baciando Hortense sulla fronte. «Tu volevi un gentiluomo che dettasse legge nel mondo dell'arte, il primo degli scultori... Ma questa è poesia, vedi... Questo sogno esige cinquantamila franchi di rendita, e voi non ne avete che duemilaquattrocento finché vivrò e tremila dopo la mia morte.»
Qualche lacrima spuntò negli occhi di Hortense e Bette le bevve con lo sguardo come una gatta beve il latte.


LV • CIO' CHE FA GRANDI GLI ARTISTI

Ecco in succinto la storia di quella luna di miele, una storia che non sarà forse del tutto inutile per gli artisti.
La fatica morale, la caccia nelle alte sfere dell'intelligenza, è uno dei più grandi sforzi dell'uomo. Ciò che fa meritare la gloria nell'arte - e con questa parola bisogna intendere tutte le creazioni del pensiero - è soprattutto il coraggio, un coraggio che l'uomo comune non sospetta, e che forse viene spiegato qui per la prima volta.
Spinto dalla terribile pressione della miseria, mantenuto da Bette nella situazione di quei cavalli ai quali si mettono i paraocchi per impedire che vedano a destra e a sinistra della strada, sferzato da quella donna ostinata, immagine della Necessità, una specie di secondo destino, Wenceslas, nato poeta e sognatore, era passato dalla concezione all'esecuzione, superando, senza misurarli, gli abissi che separano questi due emisferi dell'arte.
Pensare, sognare, concepire delle belle opere è un'occupazione deliziosa. È come fumare dei sigari che ti mandano in estasi, come condurre la vita della cortigiana che vive a seconda del suo capriccio. L'opera appare allora nella grazia dell'infanzia, nella gioia folle della creazione, con i colori profumati del fiore e i succhi sapidi del frutto già gustato in anticipo. Tale è la concezione dell'opera d'arte, tali sono i suoi piaceri.
Colui che può dar forma al suo progetto per mezzo della parola passa già per un uomo straordinario. Quella facoltà, tutti gli artisti e gli scultori la posseggono. Ma produrre! ma partorire! ma allevare laboriosamente il bambino, coricarlo satollo di latte tutte le sere, abbracciarlo tutte le mattine con l'amore inesauribile della madre, pulirlo quando è sporco, mettergli cento volte i più begli abitini ch'egli strappa incessantemente, e inoltre non stancarsi mai dei tormenti di quella vita folle e farne il capolavoro vivente che parla in scultura a tutti gli sguardi, in letteratura a tutte le intelligenze, in pittura a tutti i ricordi, in musica a tutti i cuori, questi sono i duri compiti della esecuzione. La mano deve protendersi continuamente, pronta a ubbidire alla testa. Ora, la testa non può creare a comando, così come l'amore non può essere continuo.
L'abitudine della creazione, questo amore infaticabile della maternità che crea una madre (il capolavoro della natura così ben compreso da Raffaello!), infine, quella maternità intellettuale, così difficile da conquistare, si perde con prodigiosa facilità. L'ispirazione è l'occasione del genio. Essa non corre su un rasoio, è nell'aria e vola via con la diffidenza dei corvi; non ha una sciarpa per la quale il poeta la possa afferrare, la sua chioma è una fiamma, ed essa fugge via come quei fenicotteri bianchi e rosa, che sono la disperazione dei cacciatori. Perciò il lavoro è una lotta sfibrante, temuto e insieme amato da quelle belle e potenti costituzioni, che spesso ne restano stroncate. Un grande poeta dei nostri tempi, parlando di questo lavoro terribile, diceva: «Mi ci metto con disperazione e lo lascio con dolore.»
Che gli ignoranti lo sappiano! Se l'artista non si precipita nella sua opera come Curzio nell'abisso, come il soldato contro una trincea, senza riflettere, e se, in questo cratere, egli non lavora come il minatore sepolto sotto una frana; se, insomma, si mette a contemplare le difficoltà invece di superarle a una a una, come quegli innamorati delle fiabe, che, per conquistare le loro principesse, combattono gli incantesimi che continuamente si rinnovano, l'opera resta incompiuta, perisce in fondo allo studio, dove la produzione diventa impossibile, e l'artista assiste al suicidio del proprio talento. Rossini, quel genio fratello di Raffaello, ne offre un esempio sorprendente, con la sua giovinezza indigente paragonata alla sua opulenta maturità. Questa è la ragione dell'uguale ricompensa, dell'uguale trionfo, dell'uguale alloro accordati ai grandi poeti e ai grandi generali.
Wenceslas, natura sognatrice, aveva speso tanta energia nel produrre, nell'istruirsi, nel lavorare sotto la dispotica guida di Lisbeth, che l'amore e la felicità portarono a una reazione. Il vero carattere ricomparve. La pigrizia, l'indolenza, la mollezza dei Sarmati ritornarono a occupare nel suo animo quei solchi compiacenti da dove la verga del maestro le aveva scacciate.



LVI • EFFETTO DELLA LUNA DI MIELE SULLE ARTI

L'artista, durante i primi mesi, amò sua moglie. Hortense e Wenceslas si abbandonarono alle deliziose puerilità della passione legittima, felice, spensierata. Hortense fu allora la prima a esimere Wenceslas da ogni lavoro, orgogliosa di trionfare così della propria rivale, la scultura. Le carezze di una donna, del resto, fanno svanire la musa e indebolire la feroce, decisa volontà di lavorare dell'artista. Passarono sei, sette mesi, le dita dello scultore disimpararono a tenere lo scalpello. Quando la necessità di lavorare si fece sentire, quando il principe di Wissembourg, presidente del comitato di sottoscrizione, volle vedere la statua, Wenceslas pronunciò le parole supreme dei perdigiorno: «Incomincerò presto a lavorare.» E cullava la sua cara Hortense con parole menzognere, con i grandiosi progetti dell'artista da salotto. L'amore di Hortense per il suo poeta raddoppiò, ed ella già s'immaginava una statua sublime del maresciallo Montcornet. Montcornet doveva essere la rappresentazione dell'audacia, l'ideale della cavalleria, il coraggio alla Murat. Insomma, alla sola vista di questa statua si dovevano intuire tutte le vittorie dell'imperatore. E quale esecuzione! La matita, docile e compiacente, assecondava perfettamente la parola.
In fatto di statue, arrivò un piccolo, delizioso Wenceslas.
Non appena si trattava di andare allo studio del Gros-Caillou, a maneggiare la creta e realizzare il bozzetto, ora la pendola del principe esigeva la presenza di Wenceslas nel laboratorio di Florent e Chanor, dove le figure venivano cesellate; ora la giornata era grigia e scura; oggi c'erano degli affari di cui si doveva occupare, domani un pranzo di famiglia, senza contare i malesseri del talento e quelli del fisico, e infine i giorni in cui si folleggia con una moglie adorata. Il maresciallo principe di Wissembourg fu costretto ad arrabbiarsi per ottenere il modello, e a dire che sarebbe tornato sulla sua decisione. Fu solo dopo mille rimproveri e parole grosse che il comitato di sottoscrizione poté vedere il modello in gesso. Dopo ogni giornata di lavoro, Steinbock ritornava visibilmente stanco e si lamentava di quel duro lavoro da muratore e della sua debolezza fisica.
Durante quel primo anno, la coppia godeva di una certa agiatezza. La contessa Steinbock, pazza di suo marito, nelle gioie dell'amore soddisfatto, malediceva il ministro della guerra; andò da lui e gli disse che le grandi opere non si fabbricano come i cannoni, e che lo stato doveva essere, come Luigi xiv, Francesco i e Leone x, agli ordini del genio. La povera Hortense, credendo di tenere un Fidia fra le braccia, aveva per il suo Wenceslas la debolezza materna di una donna che spinge l'amore fino all'idolatria.

«Non aver fretta,» diceva al marito, «in quella statua è tutto il nostro avvenire, prendi tempo, fai un capolavoro.»
Veniva allo studio, e Steinbock, innamorato, perdeva con la moglie cinque ore su sette per descriverle la sua statua invece di farla. Impiegò così diciotto mesi a terminare quell'opera, per lui di capitale importanza.
Quando il gesso fu colato, quando il modello esistette, la povera Hortense, dopo aver assistito agli enormi sforzi di suo marito, la cui salute soffriva per quelle fatiche che fiaccano il corpo, le braccia e la mano degli scultori, trovò l'opera ammirevole. Suo padre, ignorante in fatto di scultura, la baronessa, non meno ignorante, gridarono al capolavoro. Venne, condotto da loro, il ministro della guerra e, influenzato da loro, fu contento di quel modello posto nella giusta luce e ben presentato davanti a un drappo verde. Ohimè! all'esposizione del 1841, il biasimo unanime degenerò, sulla bocca della gente irritata da un idolo così precipitosamente elevato su un piedistallo, in schiamazzi e in scherno. Stidmann volle parlare chiaramente al suo amico Wenceslas e fu accusato di gelosia. Gli articoli dei giornali furono per Hortense grida d'invidia. Stidmann, quel degno amico, fece in modo che venissero pubblicati degli articoli in cui le critiche furono combattute, in cui venne fatto osservare che gli scultori modificavano molto le loro opere fra il modello in gesso e il marmo, e che, alla fine si esponeva il marmo. «Fra il progetto in gesso e la statua eseguita in marmo era possibile,» diceva Claude Vignon, «rovinare un capolavoro o fare una cosa grande da una brutta. Il gesso è il manoscritto, il marmo è il libro.»
In due anni e mezzo, Steinbock fece una statua e un bimbo. Il bimbo era di sublime bellezza, la statua pessima.
La pendola del principe e la statua pagarono i debiti della giovane coppia. Steinbock aveva allora preso l'abitudine di far vita di società, di andare a teatro agli «Italiens», egli parlava mirabilmente di arte, era sempre, agli occhi dell'alta società, grande artista, per il modo di parlare, per le sue spiegazioni critiche. Ci sono delle persone di genio a Parigi che passano la loro vita a parlarsi e che si accontentano di una specie di gloria da salotto. Steinbock, imitando quegli affascinanti eunuchi, nutriva per il lavoro un'avversione sempre crescente. Tutte le volte che si accingeva a cominciare un'opera, ne intravedeva tutte le difficoltà e lo scoraggiamento che ne seguiva fiaccava la sua volontà. L'ispirazione, questa follia della creazione intellettuale, se ne volava via alla vista di quell'amante malato.



LVII • DELLA SCULTURA

La scultura è come l'arte drammatica, la più difficile e insieme la più facile di tutte le arti. Copiate un modello, e l'opera è compiuta; ma imprimervi un'anima, creare un tipo, nel rappresentare un uomo o una donna, è il peccato di Prometeo. Negli annali della scultura questi successi sono rari quanto nell'umanità lo sono i poeti. Michelangelo, Michel Columb, Yean Goujon, Fidia, Prassitele, Policleto, Puget, Canova, Albrecht Dürer sono i fratelli di Milton, di Virgilio, di Dante, di Shakespeare, del Tasso, di Omero e di Molière. L'opera di questi scultori è così grandiosa che basta una sola statua a rendere immortale uno di loro, come le figure di Figaro, di Lovelace e di Manon Lescaut bastarono a rendere immortali Beaumarchais, Richardson e l'abate Prévost.
Le persone superficiali (e gli artisti ne contano anche troppe fra loro) hanno detto che la scultura aveva un senso solo se rappresentava il nudo, che era morta con la Grecia e che i vestiti moderni la rendevano impossibile. Ma innanzitutto c'è da dire che gli antichi hanno fatto delle statue sublimi, anche se completamente velate come la Polymnia, la Giulia ecc. e noi non abbiamo ritrovato nemmeno la decima parte delle loro opere. Poi, che i veri amanti dell'arte vadano a Firenze a vedere il Pensatore di Michelangelo, e nella cattedrale di Magonza la Vergine di Albrecht Dürer, che ha fatto, in ebano, una donna viva sotto la sua triplice veste, e la chioma più ondulata, più docile che una cameriera abbia mai pettinata. Che gli ignoranti vi accorrano, e tutti riconosceranno che il genio può impregnare l'abito, l'armatura, la veste, di un pensiero e immettervi un corpo proprio come l'uomo imprime il suo carattere e le abitudini della sua vita sul suo proprio involucro. La scultura è la realizzazione continua dell'evento che si è concretizzato una sola volta nella pittura con Raffaello! La soluzione di questo arduo problema si trova solo in un lavoro costante, continuo, perché le difficoltà materiali devono essere talmente dominate, la mano deve essere così docile, così pronta e obbediente, in modo che lo scultore possa lottare, anima contro anima, con quella inafferrabile essenza morale che occorre trasfigurare materializzandola. Se Paganini, che faceva parlare la propria anima attraverso le corde del suo violino, avesse passato tre giorni senza studiare, avrebbe perduto, insieme alla sua capacità di esprimersi, il registro del suo strumento, per usare il termine con cui designava l'unione esistente fra il legno, l'archetto, le corde e se stesso. Una volta dissolto questo accordo, egli sarebbe improvvisamente divenuto un violinista comune.
Il lavoro costante è la legge dell'arte così come quella della vita, poiché l'arte è la creazione idealizzata. Perciò i grandi artisti, i poeti completi non aspettano né le commissioni, né i clienti; essi creano oggi, domani, sempre. Ne risulta quell'abitudine del lavoro, quella perpetua conoscenza delle difficoltà che li mantiene in intima unione con la musa, con le sue forze creatrici. Canova viveva nel suo atelier come Voltaire ha vissuto nel suo studio; anche Omero e Fidia hanno dovuto vivere così.
Wenceslas Steinbock si trovava sull'arido sentiero percorso da quei grandi uomini, e che conduce alla Alpi della gloria, quando Lisbeth lo aveva incatenato nella sua soffitta.
La felicità, impersonata in Hortense, aveva restituito il poeta alla pigrizia, stato normale di tutti gli artisti, perché per loro la pigrizia è un'occupazione. È il piacere del pascià nel serraglio: accarezzano delle idee, si inebriano alle sorgenti dell'intelligenza. Dei grandi artisti, come Steinbock, divorati dall'immaginazione, sono stati giustamente chiamati sognatori. Questi mangiatori d'oppio cadono tutti nella miseria, mentre, sostenuti dall'inflessibilità delle circostanze, sarebbero stati dei grandi uomini. Questi mezzi artisti hanno del resto un loro fascino, gli uomini li amano e li inebriano di lodi, sembra siano superiori ai veri artisti, accusati di superbia, di selvatichezza, di ribellione alle leggi della società. Ecco perché:
I grandi uomini appartengono alle loro opere. Il loro distacco dalle cose del mondo, il loro attaccamento al lavoro, li fanno passare per egoisti agli occhi degli sciocchi, poiché li si vorrebbe vestiti degli stessi abiti del dandy, dediti alle evoluzioni sociali che la gente chiama doveri mondani. Si vorrebbe che i leoni dell'Atlante fossero pettinati e profumati come i cagnolini di una marchesa. Quegli uomini, che contano pochi simili e che li incontrano raramente, cadono nell'esclusivismo della solitudine; essi diventano incomprensibili per la maggioranza, composta, come si sa, di sciocchi, di invidiosi, di ignoranti e di gente superficiale. Comprendete ora qual è il ruolo di una donna che vive accanto a questi uomini d'eccezione? Una donna deve essere contemporaneamente ciò che era stata Lisbeth per cinque anni, e offrire in più l'amore, un amore umile, discreto, sempre pronto, sempre sorridente.
Hortense, resa più consapevole dalle sue sofferenze di madre, incalzata da terribili necessità, si accorgeva troppo tardi degli errori che il suo amore eccessivo le aveva fatto involontariamente commettere; ma, degna figlia di sua madre, si sentiva spezzare il cuore all'idea di tormentare Wenceslas; amava troppo per divenire il carnefice del suo caro poeta, e vedeva arrivare il momento in cui la miseria li avrebbe colpiti, lei, suo figlio e suo marito.



LVIII • DOVE SI VEDE LA POTENZA DI QUESTO
GRANDE DISSOLVENTE SOCIALE, LA MISERIA


«Su, via! piccola mia,» disse Bette, vedendo spuntare le lagrime nei begli occhi della cugina, «non bisogna disperare. Un bicchiere pieno delle tue lagrime non pagherebbe un piatto di minestra! Di quanto avete bisogno?»
«Di cinque o seimila franchi.»
«Io ho al massimo tremila franchi.» disse Lisbeth. «E che fa adesso Wenceslas?»
«Gli propongono di fare per seimila franchi, in collaborazione con Stidmann, dei vassoi d'argento per il duca d'Herouville. In tal caso il signor Chanor si incaricherebbe di pagare quattromila franchi che dobbiamo a Léon de Lora e a Bridau, un debito sulla parola.»
«Come! avete già ricevuto la somma dovutavi per la statua e i bassorilievi del monumento del maresciallo Montcornet, e non avete ancora pagato questo debito?»
«Ma,» disse Hortense, «da tre anni spendiamo milleduecento franchi all'anno, e io ho solo cento luigi di rendita. Il monumento del maresciallo, tolte tutte le spese, non ci ha dato più di sedicimila franchi. In verità, se Wenceslas non lavora, non so cosa sarà di noi. Ah, se solo potessi imparare a fare delle statue, come plasmerei l'argilla!» disse protendendo la sue belle braccia.
Si vedeva, in lei, che la donna manteneva le promesse della fanciulla. Gli occhi di Hortense scintillavano; nelle sue vene scorreva un sangue vigoroso, impetuoso; deplorava di impiegare la propria energia a occuparsi del suo bambino.
«Ah! mia piccola cara, una ragazza ragionevole deve sposare un artista quando egli ha già fatto fortuna e non quando deve ancora farla.»
In quel momento si udì il rumore dei passi e delle voci di Stidmann e di Wenceslas che accompagnavano Chanor fino alla porta; subito dopo giunse Wenceslas in compagnia di Stidmann. Stidmann, artista lanciato nel mondo dei giornalisti, delle attrici illustri e delle cortigiane celebri, era un giovane elegante che Valérie voleva avere nel suo salotto e che Claude Vignon le aveva già presentato.
Stidmann aveva appena veduto la fine della sua relazione con la famosa signora Schontz, sposata da alcuni mesi e partita per la provincia. Valérie e Lisbeth, che avevano saputo di questa rottura da Claude Vignon, giudicarono necessario attirare l'amico di Wenceslas in rue Vanneau. Poiché Stidmann, per discrezione, visitava poco gli Steinbock, e Lisbeth non aveva assistito alla sua recente presentazione a opera di Claude Vignon, lo vedeva per la prima volta. Mentre esaminava il celebre artista, sorprese qualche sguardo da lui rivolto a Hortense, e ciò le fece intravedere la possibilità di darlo come consolazione alla contessa Steinbock nel caso in cui Wenceslas l'avesse tradita. Stidmann pensava in effetti che, se Wenceslas non fosse stato suo amico, Hortense, quella giovane e deliziosa contessa, avrebbe potuto essere una adorabile amante. Ma quel desiderio, contenuto dall'onore, lo allontanava da quella casa. Lisbeth notò quel significativo imbarazzo che mette a disagio gli uomini in presenza di una donna che si sono imposti di non corteggiare.
«Niente male, quel giovane,» disse all'orecchio di Hortense.
«Ah! trovi?» rispose lei, «non l'ho mai notato...»
«Stidmann, amico mio,» disse Wenceslas all'orecchio del suo compagno, «tra noi non facciamo complimenti; ebbene, dobbiamo parlare d'affari con quella zitella.»
Stidmann salutò le due cugine e se ne andò.
«È fatta,» disse Wenceslas ritornando dopo aver accompagnato Stidmann; «ma quel lavoro richiederà sei mesi, e bisognerà pur vivere durante tutto questo tempo.»
«Ho i miei diamanti,» esclamò la giovane contessa Steinbock con il sublime slancio delle donne che amano.»
Una lagrima spuntò negli occhi di Wenceslas.
«Oh! lavorerò,» rispose andando a sedersi accanto alla moglie, che prese sulle sue ginocchia. «Farò dei lavoretti: regali di nozze, dei gruppi in bronzo...»
«Ma, miei cari ragazzi,» disse Lisbeth, «poiché sapete che siete i miei eredi, e vi lascerò, contateci, un bel gruzzolo, soprattutto se mi aiuterete a sposare il maresciallo. Se ci riuscissimo presto, vi prenderei in pensione a casa mia, voi e Adeline. Ah! potremo vivere felici insieme. Per il momento, date retta alla mia lunga esperienza. Non ricorrete al Monte di Pietà; è la rovina di chi prende in prestito. Ho sempre visto che nel momento in cui i bisognosi dovevano rinnovare il prestito, mancavano del denaro necessario per pagare gli interessi... e allora se ne va tutto. Io posso farvi prestare del denaro solo al cinque per cento semplicemente contro cambiale.
«Ah! saremmo salvi!» disse Hortense.
«Ebbene, piccola mia, basta che Wenceslas venga dalla persona che, dietro mia preghiera, sarebbe disposta a favorirlo. È la signora Marneffe. Adulandola, poiché è vanitosa come i nuovi ricchi, ella vi tirerà fuori d'imbarazzo nel modo più cortese. Vieni in quella casa, mia cara Hortense.»
Hortense guardò Wenceslas con l'aria che devono avere i condannati a morte quando salgono sul patibolo.
«Claude Vignon ci ha già portato Stidmann e l'ha presentato. È un ambiente molto piacevole.»
Hortense abbassò la testa. Ciò che provava in quel momento basta una sola parola a farlo capire: non era un dolore, era una malattia.
«Ma, cara Hortense, impara dunque a vivere!» esclamò Lisbeth comprendendo l'eloquenza del gesto di Hortense. «Altrimenti sarai come tua madre, confinata in una stanza deserta dove piangerai come Calipso dopo la partenza di Ulisse, e a un'età in cui non c'è più un Telemaco!...» aggiunse ripetendo una battuta crudele della signora Marneffe. «In società bisogna considerare le persone come degli strumenti di cui ci si serve, che si prendono e che si lasciano a seconda della loro utilità. Servitevi, miei cari ragazzi, della signora Marneffe, e più tardi abbandonatela. Hai forse paura che Wenceslas, il quale ti adora, si innamori di una donna di quattro o cinque anni maggiore di te, appassita come un fascio d'erba medica, e...»
«Preferisco impegnare i miei diamanti,» disse Hortense. «Oh! non andare mai là, Wenceslas!... è l'inferno!»
«Hortense ha ragione!» disse Wenceslas, baciando sua moglie.
«Grazie, amico mio,» rispose la giovane donna al colmo della gioia. «Vedi, Lisbeth, mio marito è un angelo, non gioca, andiamo dappertutto insieme. Se solo potesse lavorare... Ma no, sarei troppo felice. Perché andare dall'amante di nostro padre, da una donna che lo rovina e che è causa delle sofferenze che portano alla morte la nostra eroica mamma?»
«Bambina mia, non è di là che viene la rovina di tuo padre; è la sua cantante che lo ha rovinato, poi il tuo matrimonio!» rispose la cugina Bette. «Mio Dio! la signora Marneffe gli è assai utile, suvvia!... ma io non devo dir nulla.»
«Tu difendi tutti, cara Bette...»
Hortense fu richiamata in giardino dalle grida del suo bambino, e Lisbeth restò sola con Wenceslas.
«Avete un angelo per moglie, Wenceslas!» disse la cugina Bette; «amatela molto e non procuratele mai alcun dolore.»
«Sì, l'amo tanto, che le nascondo la nostra situazione,» rispose Wenceslas; «ma a voi, Lisbeth, posso parlarne... Ecco, anche se mettessimo i diamanti di mia moglie al Monte di Pietà, la nostra situazione non migliorerebbe.»
«Ebbene, chiedete un prestito alla signora Marneffe...» disse Lisbeth. «Persuadete Hortense, Wenceslas, a lasciarvi andare da lei o, perdinci, andateci senza che lei sospetti nulla.»
«È quel che pensavo,» rispose Wenceslas, «nel momento in cui rifiutavo di andarci, per non affliggere Hortense.»
«Sentite, Wenceslas, voglio troppo bene a tutti e due per non avvertirvi del pericolo. Se andate in quella casa, tenete ben saldo il vostro cuore, poiché quella donna è un demonio. Tutti quelli che la vedono, l'adorano; è così viziosa, così seducente!... Ti affascina come un capolavoro. Chiedetele in prestito il vostro denaro e non lasciate in pegno la vostra anima. Non mi darei pace se mia cugina dovesse essere tradita... Eccola!» esclamò Lisbeth; «non diciamo più nulla: sistemerò tutto io.»
«Abbraccia Lisbeth, angelo mio,» disse Wenceslas a sua moglie; «ci tirerà fuori dalle difficoltà portandoci i suoi risparmi.»
E fece un cenno a Lisbeth: lei capì.
«Spero allora che lavorerai, cherubino mio?» disse Hortense.
«Ah!» rispose l'artista, «fin da domani.»
«È quel tuo domani che ci rovina,» disse Hortense sorridendo.
«Ah! cara bambina, dillo tu stessa se ogni giorno non ci sono stati degli impedimenti, degli ostacoli, sempre qualcosa da fare?»
«Sì, hai ragione, amore mio.»
«Ho qui certe idee,» rispose Steinbock battendosi la fronte. «...Oh! voglio stupire tutti i miei nemici. Voglio fare un servizio da tavola stile tedesco del xvi secolo, uno stile romantico! Intreccerò delle foglie piene di insetti, in mezzo vi adagerò dei fanciulli e vi mescolerò dei mostri fantastici, delle vere chimere, le creazioni dei nostri sogni... Ce li ho in mente! Sarà un lavoro minuzioso, leggero e complesso nello stesso tempo. Chanor ne è rimasto incantato. Avevo bisogno di essere incoraggiato, perché l'ultimo articolo sul monumento di Montcornet mi aveva completamente abbattuto.»
Durante la giornata, in un momento in cui Lisbeth e Wenceslas furono soli, l'artista convenne con la zitella che l'indomani sarebbe andato a trovare la signora Marneffe.
Se sua moglie non glielo avesse permesso, ci sarebbe andato in segreto.



LIX • CONSIDERAZIONI SULLE CIVETTERIE

Valérie, messa al corrente la sera stessa di quel trionfo, pretese che il barone Hulot andasse a invitare a cena Stidmann, Claude Vignon e Steinbock: infatti cominciava a tiranneggiarlo come sa fare un certo tipo di donna con i vecchi costringendoli a trottare per la città a chiedere favori a chiunque possa soddisfare gli interessi e le vanità delle loro implacabili amanti.
L'indomani, Valérie affilò le sue armi scegliendo una di quelle toilettes che le parigine sanno inventare quando vogliono far colpo mettendo in mostra tutte le loro grazie. Si preparò minuziosamente all'impresa, come un uomo che stia per battersi ripassa le finte e le parate. Non una piega, non una ruga, Valérie appariva bellissima nel candore del suo incarnato, nella morbidezza dei suoi tratti delicati. Infine i suoi finti nei attiravano lo sguardo. Si pensa che i vezzi del diciottesimo secolo siano andati in disuso o siano stati soppressi; e ci si sbaglia. Oggi le donne, più abili di quelle dei tempi passati, attirano l'interesse dell'occhialino con audaci stratagemmi. Una scopre per prima la coccarda di nastri al centro della quale viene posto un diamante, e si accaparra gli sguardi durante tutta la serata; un'altra risuscita la reticella o si pianta un pugnale nei capelli per far pensare alla sua giarrettiera; questa si mette dei polsini di velluto nero; quella ricompare con un'acconciatura adorna di nastri. Quegli sforzi sublimi, quelle Austerlitz della civetteria o dell'amore diventano allora la moda per gli ambienti più bassi, mentre le felici creatrici già ne cercano altre. Per quella serata, in cui Valérie voleva aver successo, si mise tre civetterie.
Si era fatta tingere i capelli con un'acqua che, per qualche giorno, cambiò i suoi capelli biondi in biondo cenere. Poiché quelli della signora Steinbock erano di un biondo vivo, non volle rassomigliarle in nulla. Quel nuovo colore le diede qualcosa di piccante e di diverso, qualcosa che colpì a tal punto i suoi adoratori da far sì che Montès dicesse: «Che cosa avete dunque questa sera?...» Poi Valérie si mise al collo un nastro di velluto nero piuttosto largo, che fece risaltare il candore del suo petto. Il terzo vezzo poteva paragonarsi al «neo-assassino» delle nostre nonne. Valérie si infilò il più grazioso bocciolo di rosa in mezzo al corpetto, nella parte alta della stecca di balena, nel più delizioso e attraente degli incavi. C'era di che far chinare lo sguardo di tutti gli uomini al di sotto dei trent'anni.
«Sono da mangiare!» disse a se stessa, ripassando tutte le sue mosse davanti allo specchio, proprio come una ballerina prova i suoi pliés.
Lisbeth era andata alla Halle; la cena doveva essere una di quelle cene eccezionali che Mathurine cucinava per il suo vescovo quando invitava i prelati della vicina diocesi.


LX • UNA BELLA ENTRATA

Stidmann, Claude Vignon, e il conte Steinbock arrivarono quasi contemporaneamente, verso le sei. Una donna comune o spontanea, se volete, sarebbe accorsa sentendo il nome dell'essere tanto ardentemente desiderato; ma Valérie, che da cinque ore aspettava in camera sua, lasciò i suoi tre convitati insieme, certa di essere l'oggetto della loro conversazione o dei loro pensieri segreti. Lei stessa, sovrintendendo alla sistemazione del suo salotto, aveva messo in evidenza quei deliziosi gingilli che produce Parigi, e che nessun'altra città potrebbe produrre, i quali rivelano una donna e ne testimoniano, per così dire, la presenza: oggettini-ricordo ricoperti di smalto e ornati di perle, coppe piene di anelli fantasiosi, capolavori di Sèvre o di Saxe montati con gusto squisito da Florent e Chanor, infine statuette e album, tutti quei gingilli che costano somme folli, e che sono ordinati ai fabbricanti dalla passione nel suo primo delirio o per la sua ultima riconciliazione.
Valérie si trovava del resto in quello stato di ebbrezza che dà il successo. Aveva promesso a Crevel di essere sua moglie, se Marneffe fosse morto. Ora, l'innamorato Crevel aveva fatto trasferire a nome di Valérie Fortin diecimila franchi di rendita, pari alla somma che aveva guadagnato in tre anni nei suoi investimenti sulle ferrovie, tutto quanto gli aveva fruttato quel capitale di centomila scudi offerti alla baronessa Hulot. Così Valérie possedeva trentaduemila franchi di rendita. E poco prima Crevel si era lasciato sfuggire una promessa ben più importante del dono dei suoi profitti. Nel parossismo della passione in cui la sua duchessa lo aveva fatto sprofondare durante il loro incontro dalle due alle quattro (egli dava questo soprannome alla signora de Marneffe per completare le proprie illusioni), poiché Valérie aveva superato se stessa in rue du Dauphin, egli pensò bene di incoraggiare la promessa fedeltà facendole intravedere la prospettiva di un grazioso palazzotto che un imprudente imprenditore si era costruito in rue Barbette e che stava per essere messo in vendita. Valérie si vedeva ormai in quella deliziosa casa con corte e giardino, e con una carrozza sua!
«Quale vita onesta può dare tutto ciò in così poco tempo e così facilmente?» aveva detto Valérie a Lisbeth dando gli ultimi ritocchi alla sua toilette.
Lisbeth cenava quel giorno da Valérie per poter dire di lei a Steinbock ciò che nessuno può dire personalmente di sé. La signora Marneffe, il viso raggiante di gioia, fece il suo ingresso nel salotto con grazia modesta, seguita da Bette, che, vestita tutta di nero e giallo, le serviva da contrasto, per usare un termine da atelier.
«Buongiorno, Claude,» disse tendendo la mano all'ex critico tanto celebre.
Claude Vignon era diventato, come tanti altri, un uomo politico, nuova espressione per designare un ambizioso alla prima tappa del suo cammino. L'uomo politico del 1840 è, in qualche modo, l'abate del XVIII secolo. Nessun salotto sarebbe completo, senza il suo uomo politico.
«Mia cara, ecco mio cugino in secondo grado, il conte Steinbock,» disse Lisbeth presentando Wenceslas, che Valérie sembrava ignorare.
«Ho già conosciuto il signor conte,» rispose Valérie facendo all'artista un grazioso cenno col capo. «Vi vedevo spesso in rue du Doyenné; ho avuto il piacere di assistere al vostro matrimonio. Mia cara,» disse poi a Lisbeth, «è assai difficile dimenticare il tuo ex figliolo, quand'anche lo si sia veduto una sola volta. Il signor Stidmann è stato davvero buono,» riprese salutando lo scultore, «ad accettare il mio invito a così breve scadenza; ma necessità non conosce legge! Sapevo che eravate l'amico di questi due signori. Niente è più freddo e più noioso di una cena in cui i convitati sono sconosciuti gli uni agli altri, e io vi ho fatto venire per far piacere a loro; ma verrete un'altra volta per me, non è vero?... dite di sì!...»
E passeggiò per qualche istante con Stidmann, dando l'impressione di occuparsi solamente di lui. Vennero successivamente annunciati Crevel, il barone Hulot, e un deputato di nome Beauvisage. Questo personaggio, un Crevel di provincia, una di quelle persone messe al mondo per far numero, era un seguace di Giraud, consigliere di Stato, e di Victorin Hulot.
Questi due uomini politici volevano creare un nucleo progressista nella grande falange dei conservatori. Giraud veniva qualche volta dalla signora Marneffe, che sperava di avere anche Victorin Hulot; ma l'avvocato puritano aveva fino allora trovato dei pretesti per resistere a suo padre e a suo suocero. Frequentare la casa della donna che faceva versare lagrime a sua madre, gli sembrava un crimine. Victorin Hulot stava ai puritani della politica come una donna bigotta sta ai devoti. Beauvisage, ex negoziante di maglierie, «voleva prendere il tono di Parigi...» Quest'uomo, uno dei pilastri della Camera, si veniva formando presso la deliziosa e seducente signora Marneffe. Affascinato da Crevel, lo aveva accettato, su consiglio di Valérie, come modello e maestro; lo consultava in tutto, gli domandava l'indirizzo del suo sarto, lo imitava, si sforzava di mettersi in posa come lui, insomma Crevel era il suo grand'uomo. Valérie, circondata da questi personaggi e dai tre artisti, bene valorizzata da Lisbeth, apparve a Wenceslas a maggior ragione una donna superiore in quanto Claude Vignon gli fece l'elogio della signora Marneffe da uomo innamorato.
«È Madame de Maintenon nella sottana di Ninon!» disse l'ex critico. «Piacerle per una serata non è difficile: basta essere brillante. Ma essere amato da lei, è un trionfo che può bastare all'orgoglio di un uomo e riempirne la vita.»
Valérie, apparentemente fredda e incurante nei confronti del suo ex vicino di casa, ne offese la vanità, peraltro senza saperlo, poiché ella non conosceva il carattere dei polacchi.



LXI • DEI POLACCHI IN GENERALE E DI STEINBOCK IN PARTICOLARE

C'è negli slavi un lato puerile, come presso tutti i popoli primitivamente selvaggi, i quali, anziché civilizzarsi, hanno fatto irruzione nelle nazioni civilizzate. Questa razza è dilagata come un'inondazione e ha coperto un'immensa estensione del globo. Essa vi abita lande desolate dove gli spazi sono così vasti, che vi si trova a suo agio; non ci si sta gomito a gomito, come in Europa, e la civiltà è impossibile senza il continuo attrito di idee e di interessi. L'Ucraina, la Russia, le pianure del Danubio, il popolo slavo insomma, è un trait d'union fra l'Europa e l'Asia, fra la civiltà e la barbarie. Perciò i polacchi, il gruppo più importante del popolo slavo, hanno nel carattere la puerilità e l'incostanza delle nazioni imberbi. Possiedono il coraggio, l'intelligenza, la forza; ma, privi di tenacia, questo coraggio e questa forza, questa intelligenza mancano di metodo e di direzione, poiché il polacco presenta una mobilità simile a quella del vento che regna su quell'immensa pianura inframmezzata da acquitrini: se ha l'impetuosità degli spazzaneve, che dirompono le case e le trascinano via, come quelle terribili valanghe che precipitano dall'alto, egli però va a perdersi nel primo stagno che trova, e si dissolve in acqua. L'uomo prende sempre qualcosa dagli ambienti nei quali vive. Continuamente in lotta contro i turchi, i polacchi hanno preso da loro il gusto orientale per lo sfarzo. Essi sacrificano spesso il necessario per il piacere di brillare, si adornano come donne, e tuttavia il clima ha dato loro la dura fibra degli arabi. Perciò il polacco, sublime nel dolore, ha logorato la forza dei suoi oppressori a furia di farsi torturare, ripresentando così, nel xix secolo, lo spettacolo offerto dai primi cristiani. Immettete un dieci per cento di ipocrisia inglese nel carattere polacco, così sincero e così aperto, e la generosa aquila bianca regnerebbe oggi dovunque si insinua l'aquila a due teste. Un po' di machiavellismo avrebbe impedito alla Polonia di salvare l'Austria, che l'ha divisa; di chiedere prestiti dalla Prussia, la sua usuraia, che l'ha minata; di dividersi al momento della sua prima spartizione. Al battesimo della Polonia, una fata Carabosse, dimenticata dai geni che dotavano questa seducente nazione delle più brillanti qualità, è senza dubbio venuta a dire: «Tienti pure tutti i doni che le mie sorelle ti hanno dispensato, ma non saprai mai quel che vuoi.» Se nel suo eroico duello contro la Russia, la Polonia avesse trionfato, i polacchi, oggi, si batterebbero fra di loro, come un tempo nelle loro diete, per impedirsi l'un l'altro di essere re. Il giorno in cui questa nazione, unicamente composta di uomini coraggiosi e passionali, avrà il buon senso di cercare un Luigi xi nelle sue viscere e di accettarne la tirannide e la dinastia, sarà salva.
Ciò che la Polonia è stata in politica, la maggior parte dei polacchi lo è nella vita privata, soprattutto quando capitano i disastri. Così Wenceslas Steinbock, che da tre anni adorava sua moglie, e che sapeva di essere un dio per lei, fu talmente offeso al vedersi appena notato dalla signora Marneffe, che riuscire a ottenerne le attenzioni divenne per lui un punto d'onore. Paragonando Valérie a sua moglie, riconobbe la superiorità della prima. Hortense era un bel pezzo di figliola, come diceva Valérie a Lisbeth, ma la signora Marneffe aveva una bellezza più ricca di personalità e più eccitante. La devozione di Hortense è uno di quei sentimenti che un marito ritiene gli sia dovuto; la coscienza dell'immenso valore di un amore assoluto si perde ben presto, allo stesso modo che il debitore crede, dopo qualche tempo, che il prestito gli appartiene. Questa sublime fedeltà diventa in qualche modo il pane quotidiano dell'anima, e l'infedeltà attira come una ghiottoneria. La donna sdegnosa, una donna pericolosa soprattutto, stimola la curiosità, così come le spezie rendono più piccanti i buoni cibi. Il disprezzo, tanto ben simulato da Valérie, era del resto una novità per Wenceslas, dopo tre anni di piaceri facili. Hortense fu la moglie e Valérie l'amante.
Molti uomini vogliono avere queste due edizioni della stessa opera, benché il non saper fare di una moglie un'amante sia in un uomo un'immensa prova di inferiorità. La varietà, in questo genere di cose, è un segno d'impotenza. La costanza sarà sempre il genio dell'amore, l'indizio di una forza immensa, quella che fa il poeta!
Bisogna avere tutte le donne nella propria donna, come i poetastri del xvii secolo facevano delle loro Manon delle Iris e delle Chloés!
«Be',» disse Lisbeth al cugino quando lo vide ammaliato, «come trovate Valérie?»
«Troppo affascinante!» rispose Wenceslas.
«Non avete voluto darmi retta,» rispose la cugina Bette. «Ah! mio piccolo Wenceslas, se noi fossimo rimasti insieme, voi sareste stato l'amante di quella sirena, l'avreste sposata appena ella fosse rimasta vedova, e inoltre avreste avuto le quarantamila lire di rendita che lei ha!»
«Davvero!...»
«Ma sì,» rispose Lisbeth. «Ora però state in guardia, vi ho avvertito del pericolo, non vi avvicinate troppo alla fiamma! Datemi il braccio, la cena è pronta.»
Nessun discorso poteva essere più corruttore di quello, perché, se mostrate un precipizio a un polacco, egli vi si getta subito. Quel popolo ha soprattutto il genio della cavalleria, crede di poter travolgere tutti gli ostacoli e uscirne vittorioso. Il colpo di sperone col quale Lisbeth spronava la vanità del cugino fu reso più efficace dallo spettacolo della sala da pranzo, dove brillava una magnifica argenteria, nella quale Steinbock scorse tutte le delicatezze e le ricercatezze del lusso parigino.
«Avrei fatto meglio,» si disse, « a sposare Célimène.»



LXII • COMMENTARI SULLA STORIA DI DALILA

Durante la cena, Hulot, contento di vedere lì suo genero, e ancor più soddisfatto per la certezza di una riconciliazione con Valérie, che si illudeva di rendere fedele con la promessa di nominare suo marito al posto di Coquet, fu affascinante. Stidmann rispose all'amabilità del barone con i frizzi dell'arguzia parigina e con il suo brio d'artista. Steinbock, che non volle lasciarsi eclissare dal collega fece sfoggio del suo spirito e delle sue brillanti battute, fece effetto, insomma fu contento di sé; la signora Marneffe gli sorrise a più riprese, dimostrandogli che sapeva capirlo. La buona tavola, i vini inebrianti finirono per far sprofondare Wenceslas in quella che dobbiamo chiamare la palude del piacere. Animato dal troppo vino bevuto, si distese, dopo il pranzo, su un divano, in preda a una felicità insieme fisica e spirituale, che la signora Marneffe portò al colmo venendo a sedersi accanto a lui, leggera, profumata, bella da far dannare gli angeli. Si piegò verso Wenceslas, gli sfiorò quasi l'orecchio per parlargli a bassa voce.
«Non è questa sera che potremo parlare d'affari, a meno che non vogliate rimanere qui per ultimo. Fra voi, Lisbeth e io, potremmo sistemare le cose come meglio vi conviene...»
«Ah! siete un angelo, signora!» disse Wenceslas rispondendole nella stessa maniera. «Ho fatto una grande sciocchezza a non dar retta a Lisbeth...»
«Che vi diceva?»
«Sosteneva, in rue du Doyenné, che mi amavate!...»
La signora Marneffe guardò Wenceslas, parve confusa e si alzò bruscamente. Una donna, giovane e bella, non ha mai impunemente risvegliato in un uomo l'idea di un successo immediato. Quel gesto di donna virtuosa, che reprime una passione serbata in fondo al cuore, era mille volte più eloquente della dichiarazione più appassionata.
Pertanto il desiderio fu così vivamente acceso in Wenceslas che egli moltiplicò le sue attenzioni per Valérie. Donna in vista, donna desiderata!
Da ciò deriva la terribile potenza delle attrici. La signora Marneffe, sapendo di essere osservata, si comportò come un'attrice di successo. Fu affascinante e ottenne un trionfo completo.
«Le follie di mio suocero non mi sorprendono più,» disse Wenceslas a Lisbeth.
«Se parlate così, Wenceslas,» rispose la cugina, «mi pentirò per tutta la vita di avervi fatto prestare quei diecimila franchi. Dunque anche voi, come tutti loro,» disse indicando i convitati, «sareste innamorato pazzo di quella creatura? Pensate un po' che sareste il rivale di vostro suocero. E pensate infine a tutto il dolore che dareste a Hortense.»
«È vero,» disse Wenceslas, «Hortense è un angelo, sarei un mostro!»
«È già abbastanza che ce ne sia uno in famiglia,» replicò Lisbeth.
«Gli artisti non dovrebbero mai sposarsi!» esclamò Steinbock.
«Ah! Era quanto vi dicevo in rue du Doyenné. Per voi, i vostri figli sono i vostri gruppi, le vostre statue, i vostri capolavori.»
«Di che cosa state parlando?» chiese Valérie, unendosi a Lisbeth. «Servi il tè, cugina.»
Steinbock, per una vanteria tutta polacca, volle sembrare in confidenza con quella fata del salotto. Dopo aver rivolto uno sguardo di sfida a Stidmann, Claude Vignon e Crevel, egli prese Valérie per la mano e la costrinse a sedersi accanto a lui sul divano.
«Siete un po' troppo gran signore, conte Steinbock!» disse ella resistendo un poco.
E si mise a ridere cadendogli vicino, non senza lasciar vedere il piccolo bocciolo di rosa che ornava il suo corsetto.
«Ahimè! se fossi gran signore,» disse lui, «non verrei qui a chieder prestiti.»
«Povero ragazzo! mi ricordo delle vostre notti di lavoro in rue du Doyenné. Davvero siete stato un po' sciocco. Vi siete sposato, come un affamato si getta su un pezzo di pane. Voi non conoscete Parigi! Vedete a che punto siete arrivato! Ma voi siete stato sordo alla devozione di Bette come all'amore della donna parigina, che conosceva a fondo la sua Parigi.»
«Non ditemi più nulla,» esclamò Steinbock, «sono al giogo.»
«Avrete i vostri diecimila franchi, mio caro Wenceslas, ma a una condizione,» disse lei giocherellando con i suoi splendidi boccoli.
«Quale?»
«Ebbene, non voglio interessi...»
«Signora!...»
«Oh, non arrabbiatevi; mi darete in cambio un gruppo di bronzo. Avete incominciato la storia di Sansone, finitela... Fate Dalila che taglia i capelli all'Ercole ebreo!... Ma voi che sarete, se vorrete darmi retta, un grande artista, spero saprete capire il soggetto. Si tratta di esprimere la potenza della donna. Sansone non è più nulla. È il cadavere della forza. Dalila è la passione che tutto distrugge. Quella riproduzione... è così che dite, vero?» aggiunse abilmente vedendo Claude Vignon e Stidmann che si avvicinavano sentendo che si parlava di scultura,
«... quella riproduzione di Ercole ai piedi di Onfale quanto è più bella del mito greco! È la Grecia che ha copiato dalla Giudea? o è la Giudea che ha preso quel simbolo della Grecia?»
«Oh! voi sollevate, signora, una grave questione! quella delle epoche in cui sarebbero stati composti i libri della Bibbia. Il grande e immortale Spinoza, così scioccamente annoverato fra gli atei, e che ha matematicamente provato l'esistenza di Dio, sosteneva che la Genesi è la parte politica, per così dire, della Bibbia, è del tempo di Mosè, e dimostrava le interpolazioni con prove filologiche. Perciò ha ricevuto tre colpi di coltello all'entrata della sinagoga.»
«Non sapevo di essere così dotta, « disse Valérie, contrariata di vedere interrotto il suo tête à tête.
«Le donne sanno tutto per istinto,» ribatté Claude Vignon.
«Allora, mi promettete?» disse lei a Steinbock prendendogli la mano con la timidezza di una ragazza innamorata.
«Per il solo fatto che la signora vi chiede qualcosa, vi potete considerare un uomo davvero fortunato,» esclamò Stidmann.
«Cos'è?» disse Claude Vignon.
«Un piccolo gruppo in bronzo,» rispose Steinbock. «Dalila che taglia i capelli a Sansone.»
«È difficile,» fece osservare Claude Vignon, «per via del letto...»
«Al contrario, è straordinariamente facile,» replicò Valérie sorridendo.
«Ah, fateci della scultura!...» disse Stidmann.
«È la signora la cosa da scolpire!» replicò Claude Vignon con un'occhiata maliziosa a Valérie.
«Ebbene,» riprese lei, «ecco come mi immagino la composizione. Sansone si è svegliato senza capelli, come molti dandy che portano il parrucchino. L'eroe è lì, sulla sponda del letto - non avete dunque che da rappresentarne la base - nascosta da lenzuola e da drappeggi. Sta lì come Mario sulle rovine di Cartagine, le braccia conserte, la testa rasata, o come Napoleone a Sant'Elena. Dalila è in ginocchio pressappoco come la Maddalena del Canova. Quando una donna ha distrutto il suo uomo, lo adora. Secondo me, l'ebrea ha avuto paura di Sansone, terribile, potente, ma ha dovuto amarlo quando è divenuto di nuovo un ragazzino. Perciò, Dalila deplora la sua colpa, vorrebbe restituire all'amante i suoi capelli, non osa guardarlo; poi lo guarda sorridendo, poiché intravede il suo perdono nella debolezza di Sansone. Questo gruppo e quello della feroce Giuditta dovrebbero rappresentare il carattere della donna. La Virtù taglia la testa, il Vizio non vi taglia che i capelli. Fate attenzione ai vostri parrucchini, signori!»
Ed ella lasciò i due artisti sbalorditi a intonare, insieme al critico, un concerto di lodi in suo onore.
«Non si può essere più deliziose di lei!» esclamò Stidmann.
«Oh!» disse Claude Vignon, «è la donna più intelligente e più desiderabile che io abbia visto! Unire intelligenza e bellezza, è talmente raro!»
«Se voi, che avete avuto l'onore di conoscere intimamente Camille Maupin, esprimete simili giudizi,» rispose Stidmann, «che dobbiamo pensare noi?»
«Caro conte, se volete fare di Dalila un ritratto di Valérie,» disse Crevel, che aveva appena lasciato il gioco per un momento e che aveva udito tutto, «vi pago un esemplare di quel gruppo mille scudi. Oh! sì, perdinci! mille scudi, li sgancio tutti.»
«Li sgancio! Cosa vuol dire?» chiese Beauvisage a Claude Vignon...
«Bisognerebbe che la signora si degnasse di posare...» disse Steinbock, indicando Valérie a Crevel. «Chiedeteglielo.»



LXIII • GIOVANE ARTISTA E POLACCO. CHE VOLEVATE FACESSE?

In quel momento, Valérie portava personalmente a Steinbock una tazza di tè. Era più di un riguardo, era un favore. C'è, nella maniera in cui una donna svolge questo compito, tutto un linguaggio, ma le donne lo sanno bene; e c'è tutto uno studio curioso da fare - dei movimenti, dei gesti, degli sguardi, del tono, dell'accento - mentre compiono quell'atto di gentilezza in apparenza così semplice. Dalla domanda: «Prendete del tè?», «Volete del tè?», «Una tazza di tè?» freddamente formulata, e l'ordine di portarne dato alla ninfa che tiene l'urna, fino allo straordinario poema dell'odalisca che viene dal tavolino da tè, la tazza in mano, fino al suo signore e gliela presenta con aria sottomessa, offrendola con una voce carezzevole, con uno sguardo pieno di promesse voluttuose, un fisiologo può osservare tutti i sentimenti femminili; dall'avversione, dall'indifferenza, fino alla dichiarazione di Fedra a Ippolito. In queste occasioni le donne possono farsi, a volontà, sprezzanti fino all'insulto, umili fino alla schiavitù d'Oriente. Valérie fu più che donna, fu il serpente fatto donna; e completò la sua opera diabolica andando verso Steinbock, con una tazza di tè in mano.
«Prenderò,» disse l'artista all'orecchio di Valérie alzandosi e sfiorando con le sue dita quelle di lei, «tutte le tazze di tè che voi vorrete offrirmi, per vedermele porgere così!...»
«Che dicevate a proposito di posare?» domandò lei senza dare l'impressione di aver ricevuto nel profondo del cuore quell'esplosione attesa con tanta rabbiosa impazienza.
«Papà Crevel mi compra un esemplare del vostro gruppo per mille scudi.»
«Mille scudi per un gruppo?»
«Sì, se volete posare da Dalila,» disse Steinbock.
«Lui non ci sarà, spero,» riprese lei, «il gruppo varrebbe allora più della sua fortuna, perché Dalila deve essere un po' scollata...»
Così come Crevel amava mettersi in posa, tutte le donne assumono un atteggiamento che le valorizza al massimo, una posa studiata, in cui si fanno irresistibilmente ammirare. Se ne vedono che, nei salotti, passano la loro vita a guardarsi il merletto della camicetta e a rimettere a posto le spalline dell'abito, oppure a far scintillare i brillanti delle loro pupille contemplando le cimase. La signora Marneffe non dava il meglio di sé vista di fronte, come tutte le altre. Si girò bruscamente per andare al tavolo da tè a raggiungere Lisbeth. Quel movimento da danzatrice che faceva ondeggiare le vesti, col quale aveva conquistato Hulot, affascinò Steinbock.
«La tua vendetta è compiuta,» disse Valérie all'orecchio di Lisbeth. «Hortense piangerà tutte le sue lacrime e maledirà il giorno in cui ti ha preso Wenceslas.»
«Finché non sarò la signora marescialla, non avrò fatto nulla,» rispose la lorenese; «ma loro cominciano tutti a volerlo... Stamani sono andata da Victorin. Ho dimenticato di raccontartelo. I giovani Hulot hanno riscattato le cambiali del barone a Vauvinet, e domani sottoscrivono un'obbligazione di settantaduemila franchi al cinque per cento d'interesse, rimborsabile in tre anni, con un'ipoteca sulla loro casa. Ecco i giovani Hulot nelle strettezze per tre anni. Ora sarebbe loro impossibile trovare del denaro su quella proprietà. Victorin è di una tristezza spaventosa, ha capito com'è suo padre. Infine Crevel è capace di non rivedere più i suoi figli, tanto sarà in collera per la faccenda dell'obbligazione.»
«Ora il barone è senza risorse, no?» disse Valérie all'orecchio di Lisbeth sorridendo a Hulot.
«Non ha più niente; ma rientra in possesso del suo stipendio al mese di settembre.»
«E ha la sua polizza di assicurazione, l'ha rinnovata! Ormai è tempo che nomini Marneffe capufficio. Stasera lo costringerò a farlo.»
«Cuginetto mio,» andò a dire Lisbeth a Wenceslas, «congedatevi, vi prego. Siete ridicolo, guardate Valérie in maniera da comprometterla, e suo marito è di una gelosia terribile. Non imitate vostro suocero, e tornate a casa; sono sicura che Hortense vi aspetta...»
«La signora Marneffe mi ha detto di andar via per ultimo, per sistemare il nostro piccolo affare fra noi tre,» rispose Wenceslas.
«No,» disse Lisbeth; «vi consegnerò io i diecimila franchi, perché suo marito ha gli occhi su di voi, e sarebbe imprudente da parte vostra rimanere. Domani, alle nove, portate le cambiali; a quell'ora quel cinese di Marneffe è in ufficio e Valérie è tranquilla... Le avete dunque chiesto di posare per un gruppo?... Entrate prima in casa mia. Ah! L'avevo ben capito,» disse Lisbeth osservando lo sguardo col quale Steinbock salutò Valérie, «che eravate un libertino in erba. Valérie è bellissima, ma cercate di non far soffrire Hortense.»
Niente irrita di più gli uomini sposati quanto l'imbattersi a ogni istante nella moglie che si intromette fra loro e un loro desiderio, fosse anche passeggero.


LXIV • RITORNO A CASA

Wenceslas rientrò a casa verso l'una di notte; Hortense l'aspettava dalle nove e mezzo circa.
Dalle nove e mezzo alle dieci, ascoltò il rumore delle carrozze, dicendosi che mai Wenceslas, quando cenava senza di lei da Chanor e Florent, era rientrato così tardi. Cuciva accanto alla culla del figlio, poiché cominciava a risparmiare la giornata di un'operaia facendo da sé alcuni lavori di rammendo.
Dalle dieci alle dieci e mezzo ebbe qualche sospetto e si domandò: «Ma è andato davvero a cena, come mi ha detto, da Chanor e Florent? Ha voluto, per vestirsi, la sua più bella cravatta, la sua più bella spilla. Ha impiegato a fare la sua toilette tanto tempo quanto ne impiega una donna che vuole apparire ancora più bella di quello che è... Ma sono pazza! Lui mi ama. Eccolo, del resto.»
Invece di fermarsi, la carrozza che la giovane donna udiva, passò oltre. Dalle undici a mezzanotte, Hortense fu presa da strane paure dovute alla solitudine che regnava nel quartiere.
«Se è tornato a piedi,» disse fra sé, «gli può capitare qualche incidente!... Ci si può ammazzare anche inciampando in un marciapiede o andando a finire inavvertitamente in una buca. Gli artisti sono così distratti!... E se dei ladri l'avessero fermato?... È la prima volta che mi lascia qui sola per sei ore e mezzo... Ma perché tormentarmi? Non ama che me.»
Gli uomini dovrebbero essere fedeli alle donne che li amano, non fosse altro che a causa dei miracoli continui che il vero amore produce nel mondo sublime chiamato «mondo spirituale»... Una donna che ama è, in rapporto a un uomo amato, nella situazione di una donna ipnotizzata, alla quale l'ipnotizzatore abbia conferito il triste potere, nel momento in cui cessa di essere lo specchio del mondo, di continuare ad aver coscienza, come donna, di quanto vede in stato di ipnosi. La passione porta la tensione nervosa della donna a quello stato di estasi in cui il presentimento ha la stessa potenza della visione dei veggenti. Una donna che si sa tradita non ascolta la voce della ragione, dubita, tanto ama! e così rende vano il grido della sua potenza di pitonessa. Questo parossismo dell'amore dovrebbe essere oggetto di culto. Negli spiriti nobili, l'ammirazione di questo divino fenomeno sarà sempre una barriera che li separerà dall'infedeltà. Come non adorare una creatura bella e sublime la cui anima arriva a simili manifestazioni?... All'una del mattino, Hortense aveva raggiunto un tale grado di angoscia, che si precipitò verso la porta riconoscendo Wenceslas per il suo modo di suonare; lo prese fra le braccia e lo strinse maternamente.
«Eccoti, finalmente!...» disse riacquistando l'uso della parola. «Amico mio, ormai verrò dovunque tu andrai, perché non voglio provare una seconda volta la tortura di una simile attesa... Ti ho visto inciampare in un marciapiede, cadere e fracassarti la testa! ucciso dai ladri!... No, sento che un'altra volta diventerei pazza... dunque ti sei divertito molto... senza di me? Cattivo!»
«Che vuoi, mio piccolo angelo. C'era Bixiou, che ci ha fatto delle nuove caricature; Léon de Lora, il cui spirito non ha perso nulla della sua vivacità, Claude Vignon, al quale devo il solo articolo incoraggiante che sia stato scritto sul monumento del maresciallo Montcornet. C'era...»
«Non c'erano donne?...» domandò prontamente Hortense.
«La rispettabile signora Florent...»
«Mi avevi detto che era al Rocher de Cancale, era invece a casa loro?»
«Sì, da loro, mi sono sbagliato...»
«Non sei tornato in carrozza?»
«No.»
«E arrivi a piedi da rue des Tournelles?»
«Stidmann e Bixiou mi hanno accompagnato per i boulevard fino alla Madeleine, così, chiacchierando.»
«Deve essere molto asciutto sui boulevard, sulla place de la Concorde e in rue de Bourgogne; non sei per niente infangato,» disse Hortense osservando gli stivali lucidi del marito.
Era piovuto, ma da rue Vanneau a rue Saint-Dominique, Wenceslas non aveva potuto sporcarsi gli stivali.
«Guarda, ecco cinquemila franchi che Chanor mi ha generosamente prestati,» disse Wenceslas per tagliar corto a quelle domande inquisitorie.
Aveva fatto due mazzetti dei suoi dieci biglietti da mille franchi, uno per Hortense e uno per sé, perché aveva cinquemila franchi di debiti che Hortense ignorava. Denaro che doveva al suo sbozzatore e ai suoi operai.
«Eccoti senza problemi, mia cara,» disse abbracciando la moglie. «Già da domani mi metterò al lavoro! Oh! domani esco di casa alle otto e mezzo e via allo studio! Vado perciò subito a letto per potermi alzare presto; me lo permetti, gattina?»
Il sospetto che si era fatto strada nel cuore di Hortense si dileguò: era lontana mille miglia dalla verità. La signora Marneffe! non ci pensava nemmeno. Temeva invece per il suo Wenceslas la compagnia delle donnine.
I nomi di Bixiou, di Léon de Lora, due artisti conosciuti per la loro vita sregolata, l'avevano impensierita.
L'indomani, vide andar via Wenceslas alle nove, completamente rassicurata.
«Eccolo adesso al lavoro,» diceva fra sé mentre vestiva il bambino. «Oh! lo vedo, è in vena! Ebbene, se non avremo la gloria di Michelangelo, avremo quella di Benvenuto Cellini!»



LXV • IL PRIMO COLPO DI PUGNALE

Cullata dalle proprie speranze, Hortense immaginava per sé uno splendido avvenire; e parlava al figlio, di venti mesi, quel linguaggio onomatopeico che fa sorridere i bambini, quando, verso le undici, la cuoca, che non aveva visto uscire Wenceslas, introdusse Stidmann.
«Scusate, signora,» disse l'artista. «Come, Wenceslas è già uscito?»
«È allo studio.»
«Venivo a prendere accordi con lui per i nostri lavori.»
«Ora lo mando a chiamare,» disse Hortense facendo cenno a Stidmann di sedersi.
La giovane donna, ringraziando in cuor suo il cielo per quella combinazione, volle trattenere Stidmann per avere qualche particolare sulla serata precedente. Stidmann si inchinò per ringraziare la contessa di quel favore. La signora Steinbock suonò, venne la cuoca, ed ella le diede l'ordine di andare a cercare il signore allo studio.
«Vi siete divertito molto ieri?» disse Hortense. «Wenceslas non è tornato che dopo l'una.»
«Divertito? ...non precisamente,» rispose l'artista, il quale la sera prima aveva voluto conquistare la signora Marneffe. «Ci si diverte in società solo quando vi si hanno degli interessi. Quella piccola signora Marneffe è straordinariamente spiritosa, ma è una civetta...»
«E come l'ha trovata Wenceslas?...» domandò la povera Hortense, sforzandosi di rimanere calma. «Non me ne ha neanche parlato.»
«Io vi dirò una cosa sola,» rispose Stidmann, «ed è che la trovo molto pericolosa.»
Hortense divenne pallida come una puerpera.
«Così, è proprio... dalla signora Marneffe... e non da Chanor che avete cenato...,» disse, «ieri... con Wenceslas, e lui...?»
Stidmann si rese conto di aver combinato, senza saperlo, qualche guaio. La contessa non terminò neppure la frase ma cadde svenuta. L'artista suonò, accorse la cameriera. Quando Louise si sforzò di portare la contessa Steinbock in camera sua, una crisi di nervi della massima gravità si manifestò con delle terribili convulsioni. Stidmann, come tutti quelli che con un'involontaria indiscrezione distruggono l'impalcatura innalzata dalla menzogna del marito nella propria casa, non poteva credere che le sue parole avessero avuto una simile conseguenza; pensò che la contessa si trovasse in quello stato di salute cagionevole in cui la più leggera contrarietà diventa un pericolo.
Disgraziatamente arrivò la cuoca, annunciando ad alta voce che il signore non era allo studio. In preda alla crisi, la contessa udì quella risposta, e le convulsioni ricominciarono.
«Andate a chiamare la madre della signora!» disse Louise alla cuoca; «correte!»
«Se sapessi dove si trova Wenceslas, andrei ad avvertirlo,» disse Stidmann disperato.
«È da quella donna!...» gridò la povera Hortense. «Si è vestito in ben altro modo che per andare allo studio.»
Stidmann corse dalla signora Marneffe riconoscendo la verità di quella intuizione dovuta alla seconda vista della passione. In quel momento Valérie posava da Dalila. Troppo astuto per chiedere della signora Marneffe, Stidmann passò dritto davanti alla portineria, salì rapidamente al secondo piano, facendo fra sé questo ragionamento: «Se chiedo della signora Marneffe, mi diranno che non c'è. Se domando stupidamente di Steinbock, mi rideranno sul muso. Be', corriamo il rischio!» Al suono del campanello Reine arrivò.
«Dite al signor conte Steinbock di venire; sua moglie sta morendo!...»
Reine, che non era meno astuta di Stidmann, lo guardò con aria passabilmente stupida.
«Ma, signore, non so... quello che voi...»
«Vi dico che il mio amico Steinbock è qui; sua moglie sta morendo, ed è proprio il caso che disturbiate la vostra padrona.»
E Stidmann se ne andò.
«Oh! È lì,» si disse.
Infatti, dopo aver sostato alcuni istanti in rue Vanneau, vide uscire Wenceslas, e gli fece cenno di affrettarsi. Dopo avergli raccontato la tragedia che si svolgeva in rue Saint-Dominique, Stidmann rimproverò Steinbock per non averlo avvertito di tenere il segreto sulla cena della sera prima.
«Sono perduto,» gli rispose Wenceslas, «ma ti perdono. Ho completamente dimenticato il nostro appuntamento di questa mattina, e ho commesso lo sbaglio di non dirti che avevamo cenato a casa di Florent. Che vuoi! Quella Valérie mi ha fatto impazzire; ma, mio caro, vale bene la gloria, vale l'infelicità... Ah! è... Mio Dio, eccomi in un bell'impiccio! Consigliami tu! Che dire? come giustificarmi?»
«Consigliarti? non saprei,» rispose Stidmann. «Ma tua moglie ti ama, non è vero? E allora crederà a tutto. Dille soprattutto che stavi venendo da me, mentre io andavo a casa tua; così salverai in ogni modo la posa di stamattina. Arrivederci!»
All'angolo di rue Hillerin-Bertin, Lisbeth, avvertita da Reine, correndo dietro a Steinbock, lo raggiunse: temeva la sua ingenuità polacca. Non volendo essere compromessa, disse alcune parole a Wenceslas, che, grato e felice, l'abbracciò in mezzo alla strada. Ella aveva senza dubbio offerto all'artista il modo di saldare quella prima incrinatura della sua vita coniugale.



LXVI • LA PRIMA LITE DELLA VITA CONIUGALE

Alla vista della madre, arrivata in tutta fretta, Hortense versò torrenti di lacrime. Così, la crisi di nervi fortunatamente ebbe modo di sfogarsi.
«Tradita! Mamma mia cara,» le disse. «Wenceslas, dopo avermi dato la sua parola d'onore che non sarebbe andato dalla signora Marneffe, ha cenato ieri a casa sua, e non è rientrato che all'una e un quarto di notte!... Se tu sapessi, mamma, il giorno prima avevamo avuto, non una lite, ma una spiegazione. Gli evevo detto delle cose così commoventi: che ero gelosa, che una infedeltà mi avrebbe fatto morire; che ero ombrosa e che doveva rispettare le mie debolezze, poiché nascevano dal mio amore per lui; che avevo nelle vene tanto del sangue di mio padre quanto del tuo, e che sotto la prima impressione di un tradimento potrei impazzire al punto di commettere delle follie, di vendicarmi, di disonorare tutti, lui, suo figlio e me stessa; che insomma potrei ucciderlo e poi uccidermi a mia volta! eccetera. E lui è andato là, e c'è ancora! Quella donna si è messa in testa di rovinarci tutti! Ieri mio fratello e Célestine si sono impegnati per ritirare settantaduemila franchi di cambiali sottoscritte per quella creatura spregevole... Sì, mamma, stavano per perseguire papà e metterlo in prigione. Quell'orribile donna non ne ha abbastanza di mio padre e delle tue lacrime? Perché prendermi Wenceslas?... Andrò da lei, la pugnalerò!»
La signora Hulot, colpita al cuore dalla terribile confidenza che Hortense nel suo sfogo di rabbia le faceva senza rendersene conto, dominò il suo dolore con uno di quegli eroici sforzi di cui sono capaci le grandi madri, e attirò il capo della figlia sul suo seno per coprirlo di baci.
«Aspetta Wenceslas, bambina mia, e tutto si chiarirà. Il male non deve essere tanto grande quanto pensi! Anch'io sono stata tradita, mia cara Hortense. Tu mi trovi bella, sono virtuosa e malgrado ciò sono abbandonata da ventitré anni per delle Jenny Cadine, delle Josépha, delle Marneffe!... Lo sapevi?»
«Tu, mamma, tu!... soffri tutto ciò da vent?...»
Si fermò dinanzi ai suoi pensieri.
«Imita me, bambina mia,» riprese la madre. «Sii dolce e buona, e avrai la coscienza tranquilla. In punto di morte, un uomo si dice: ‹Mia moglie non mi ha mai procurato il minimo dolore!...› E Dio, che ode quegli ultimi sospiri, ne terrà conto per noi. Se mi fossi abbandonata come te a degli eccessi di rabbia, che sarebbe accaduto?... Tuo padre si sarebbe inasprito, forse mi avrebbe abbandonata, e non sarebbe stato trattenuto dal timore di affliggermi; la nostra rovina, consumata oggi, lo sarebbe stata dieci anni prima, e noi avremmo offerto lo spettacolo di un marito e di una moglie che vivono ciascuno per proprio conto, scandalo orribile, desolante, poiché è la morte della famiglia. Né tu né tuo fratello avreste potuto sistemarvi... Mi sono sacrificata, e così coraggiosamente che, senza quest'ultima relazione di tuo padre, la gente mi crederebbe ancora felice. La mia bugia coraggiosa, fatta a fin di bene, finora ha protetto Hector; egli è tenuto ancora in considerazione; soltanto questa passione senile lo trascina troppo oltre, lo vedo. La sua follia, temo, lacererà il sipario che mettevo fra il mondo e noi... Ma l'ho tenuto per ventitré anni quello schermo dietro il quale piangevo, senza madre, senza confidente, senz'altro aiuto che quello della religione, e ho procurato ventitré anni di onore alla famiglia...»
Hortense ascoltava sua madre, gli occhi fissi. La voce calma e la rassegnazione di quel supremo dolore placarono il bruciore della prima ferita nella giovane donna: le lagrime ebbero il sopravvento e tornarono a scorrere a torrenti.
In un eccesso di pietà filiale, sopraffatta dalla sublimità di sua madre, ella si mise in ginocchio davanti a lei, le prese l'orlo della veste e lo baciò, come certi pii cattolici baciano le sante reliquie di un martire.
«Alzati, mia cara Hortense,» disse la baronessa; «una simile attestazione da parte di mia figlia cancella tanti cattivi ricordi! vieni sul mio cuore, oppresso solo dalla tua pena. La disperazione della mia povera piccola, la cui felicità era la sola mia gioia, ha spezzato il sigillo sepolcrale che nulla doveva rimuovere dalle mie labbra. Sì, volevo portare via con me i miei dolori nella tomba, come un sudario di più. Per calmare il tuo furore ho parlato... Dio mi perdonerà. Oh! se la tua vita dovesse essere come la mia, che cosa non farei!... Gli uomini, la gente, il caso, la natura, Dio, credo, ci vendono l'amore a prezzo delle più crudeli torture. Pagherò con ventiquattro anni di disperazione, di dolori incessanti, di amarezze, dieci anni di felicità...»
«Tu hai avuto dieci anni, mamma cara, e io tre solamente!» disse l'egoista innamorata.
«Nulla è perduto, piccola mia, aspetta Wenceslas.»
«Mamma,» disse lei, «ha mentito! mi ha ingannata... mi ha detto: ‹Non andrò›, e c'è andato. E questo davanti alla culla del suo bambino!...»
«Per il loro piacere, gli uomini, angelo mio, commettono le più grandi bassezze, delle infamie, dei crimini; è, a quanto pare, nella loro natura. Noi altre donne siamo votate al sacrificio. Credevo che i miei tormenti fossero finiti, e invece ricominciano, poiché non mi aspettavo di soffrire doppiamente soffrendo per mia figlia. Coraggio e silenzio!... Mia cara Hortense, giurami di parlare a me sola delle tue pene, di non lasciar trapelare nulla davanti agli altri... Oh! sii orgogliosa come tua madre!»
In quel momento Hortense trasalì; aveva udito il passo di suo marito.
«Sembra,» disse Wenceslas, entrando, «che Stidmann sia venuto mentre io ero andato da lui.»
«Davvero!...» esclamò la povera Hortense con la selvaggia ironia di una donna offesa che si serve delle parole come di un pugnale.
«Ma sì, ci siamo appena incontrati,» rispose Wenceslas con aria stupita.
«E..., ieri?...» riprese Hortense.
«Ebbene, ti ho ingannata amor mio, e tua madre giudicherà...»
Quella franchezza allargò il cuore di Hortense. Tutte le donne veramente nobili preferiscono la verità alla menzogna. Esse non vogliono vedere il loro idolo degradato, vogliono essere fiere del dominio che accettano.
V'è un po' di questo sentimento nei russi, nei riguardi del loro zar.
«Ascoltate, cara mamma,...» disse Wenceslas, «amo tanto la mia buona e dolce Hortense, che le ho nascosto la gravità della nostra miseria. Che volete, lei allattava ancora, e dei dispiaceri le avrebbero fatto assai male. Voi sapete quanto rischia una donna in questi casi. La sua bellezza, la sua freschezza, la sua salute, sono in pericolo. È una colpa questa?... Lei crede che abbiamo solo cinquemila franchi di debiti, ma noi ne dobbiamo altri cinquemila... Ier l'altro eravamo alla disperazione!... Nessuno al mondo fa prestiti agli artisti. Diffidano del nostro talento come del nostro estro. Ho bussato invano a tutte le porte. Lisbeth ci ha offerto i suoi risparmi.»
«Povera ragazza,» disse Hortense.
«Povera ragazza!» disse la baronessa.
«Ma i duemila franchi di Lisbeth, che cosa sono? Per lei tutto, per noi niente. Allora la cugina ci ha parlato, tu lo sai bene, Hortense, della signora Marneffe, che, per amor proprio, dovendo tanto al barone, non avrebbe preso il benché minimo interesse... Hortense avrebbe voluto mettere i suoi diamanti al Monte di Pietà. Avremmo avuto qualche migliaio di franchi, ma ce ne occorrevano diecimila. Questi diecimila franchi erano là pronti per noi, senza interessi, per un anno!... Mi sono detto: ‹Hortense non ne saprà nulla, andiamo a prenderli.› Ieri sera quella donna mi ha fatto invitare a cena da mio suocero, lasciandomi capire che Lisbeth le aveva parlato, e che io avrei avuto il denaro. Fra la disperazione di Hortense e quella cena, non ho esitato. Ecco tutto. E Hortense, a ventiquattro anni, fresca, pura e virtuosa, lei che è la mia felicità e il mio orgoglio, che non ho mai lasciata dal giorno del nostro matrimonio, può immaginare che le preferirei, che cosa?... Una donna sfiorita, ritoccata,» disse adoperando una atroce espressione del linguaggio degli ateliers per convincerla del suo disprezzo con una di quelle esagerazioni che piacciono alle donne.
«Ah! se tuo padre mi avesse parlato in questo modo!» esclamò la baronessa.
Hortense si gettò piena di felicità al collo di suo marito.
«Sì, ecco quello che avrei fatto,» disse Adeline. «Wenceslas, amico mio, vostra moglie ha corso il rischio di morire;» riprese gravemente. «Vedete quanto vi ama. È vostra, ohimè.»
E sospirò profondamente.
«Egli può farne una martire o una donna felice,» disse fra sé, pensando ciò che pensano tutte le madri al momento del matrimonio delle loro figlie. «Credo,» aggiunse poi ad alta voce, «di soffrire già abbastanza per vedere i miei figli felici.»
«State tranquilla, cara mamma,» disse Wenceslas al colmo della gioia nel vedere che quella crisi era felicemente superata. «Fra due mesi avrei restituito il denaro a quell'orribile donna. Che volete!» riprese ripetendo quell'espressione tipicamente polacca, con la sua grazia polacca, «ci sono dei momenti in cui si chiederebbe un prestito anche al diavolo. È, dopotutto, denaro della famiglia. E, una volta invitato, l'avrei forse avuto quel denaro che ci costa così caro, se avessi risposto con delle villanie a una gentilezza?»
«Oh! mamma, quanto male ci ha fatto papà!» esclamò Hortense.
La baronessa si mise un dito sulle labbra, e Hortense si pentì di quelle sue parole, il primo biasimo che si fosse lasciata sfuggire su un padre così eroicamente protetto da un sublime silenzio.
«Addio, ragazzi miei,» disse la signora Hulot, «ecco tornato il sereno. Ma non bisticciate più.»



LXVII • UN SOSPETTO SEGUE SEMPRE IL PRIMO COLPO DI PUGNALE

Quando, dopo aver accompagnato la baronessa, Wenceslas e sua moglie furono rientrati nella loro camera, Hortense disse a suo marito:
«Parlami della tua serata!» E spiò l'espressione di Wenceslas durante quel racconto, interrotto da quelle domande che si affollano sulle labbra di una donna in simili casi. Il racconto rese Hortense pensosa; ella vi intravedeva i diabolici divertimenti che gli artisti dovevano trovare in quella viziosa compagnia.
«Sii sincero, Wenceslas carissimo!... C'erano Stidmann, Claude Vignon, Vernisset, e chi ancora?... Insomma, ti sei divertito?...»
«Io?... Non pensavo che ai nostri diecimila franchi e mi dicevo: ‹La mia Hortense sarà finalmente tranquilla!›»
Quell'interrogatorio stancava enormemente il livoniano, il quale approfittò di un momento di allegria per dire a Hortense:
«E tu, angelo mio, che cosa avresti fatto se il tuo artista fosse stato colpevole?»
«Io,» disse ella con un'aria di ripicca, «avrei preso Stidmann, ma senza amarlo, beninteso!»
«Hortense,» esclamò Steinbock alzandosi bruscamente e con gesto teatrale, «non ne avresti avuto il tempo, ti avrei uccisa.»
Hortense si gettò sul marito, l'abbracciò fino a soffocarlo, lo coprì di carezze e gli disse:
«Ah! mi ami, Wenceslas! Ebbene, non temo più nulla! Ma niente più Marneffe. Non ti lasciare più trascinare in quel fango.»
«Ti giuro, mia cara Hortense, che vi ritornerò soltanto per ritirare la mia cambiale...»
Lei fece il broncio, ma come lo fanno le donne innamorate che vogliono trarre vantaggio da un broncio. Wenceslas, affaticato da una mattinata come quella, lasciò che la moglie facesse il muso e uscì per andare al suo studio a farvi il bozzetto del gruppo di Sansone e Dalila di cui aveva in tasca il disegno. Hortense, scontenta d'aver fatto il broncio e credendo che Wenceslas fosse in collera, andò allo studio nel momento in cui suo marito finiva di plasmare l'argilla con quella foga che sospinge certi artisti quando si sentono fortemente ispirati.
Alla vista della moglie, egli gettò prontamente un panno bagnato sul bozzetto e prese Hortense fra le braccia dicendole:
«Ah! non siamo in collera, vero, tesoro?»
Hortense che aveva visto il gruppo e il panno gettatovi sopra, non disse nulla; ma prima di lasciare lo studio, si voltò, afferrò il cencio, guardò l'abbozzo e domandò:
«Che cos'è?»
«Un gruppo di cui mi è venuta l'idea.»
«E perché me l'hai nascosto?»
«Te lo volevo mostrare una volta finito.»
«La donna è molto bella!» disse Hortense.
E mille sospetti crebbero nel suo animo, come, nelle Indie, crescono, da un giorno all'altro, certe vegetazioni grandi e folte.



LXVIII • UN BAMBINO TROVATO

Di lì a tre settimane circa, la signora Marneffe fu profondamente irritata contro Hortense. Le donne di quella specie hanno il loro amor proprio, vogliono che si baci lo sperone del diavolo, non perdonano mai alla virtù che non teme la loro potenza o che lotta contro di loro. Ora, Wenceslas non aveva fatto una sola visita in rue Vanneau, neanche quella che la cortesia imponeva dopo che una donna aveva posato in veste di Dalila.
Ogni volta che Lisbeth era andata dagli Steinbock, non aveva trovato nessuno in casa. Il signore e la signora vivevano allo studio. Lisbeth, che diede la caccia alle due tortorelle fin nel loro nido del Gros-Caillou, vide Wenceslas che lavorava con foga, e apprese dalla cuoca che la signora non lasciava mai il signore. Wenceslas subiva il dispotismo dell'amore. Valérie fece dunque proprio l'odio di Lisbeth per Hortense. Le donne tengono tanto agli amanti contesi quanto gli uomini tengono alle donne desiderate da più corteggiatori vanesi. Perciò, le riflessioni fatte a proposito della signora Marneffe si applicano perfettamente agli uomini che hanno successo con le donne, e che sono delle specie di cortigiane-maschi. Il capriccio di Valérie divenne una fissazione: voleva soprattutto avere il suo gruppo; e si era proposta, una mattina, di andare allo studio a trovare Wenceslas, quando accadde uno di quei fatti importanti che possono essere chiamati, per quella specie di donne, fructus belli. Ecco come Valérie diede la notizia di questo fatto, del tutto personale. Stava facendo colazione con Lisbeth e Marneffe.
«Di' un po', Marneffe, ci crederesti di essere padre per la seconda volta?»
«Davvero saresti incinta? Oh, lascia che ti abbracci.»
Egli si alzò, fece il giro della tavola, e sua moglie gli porse la fronte in modo che il bacio scivolasse sui capelli.
«Con questo colpo,» riprese lui, «sarò capufficio e ufficiale della Legion d'Onore! Certo, piccola mia, non voglio che Stanislas sia rovinato! Povero piccolo!...»
«Povero piccolo?...» esclamò Lisbeth. «Non lo vedete da sette mesi e tutti, al collegio, credono che io sia sua madre, poiché sono la sola della casa che si occupi di lui...»
«Un bambino che ci costa cento scudi ogni tre mesi!...» disse Valérie. «D'altronde, è tuo figlio quello lì, Marneffe! Dovresti ben pagare la sua retta col tuo stipendio... Quello nuovo, invece di farci arrivare i conti di qualche gretto direttore di collegio, ci salverà dalla miseria...»
«Valérie,» rispose Marneffe, imitando Crevel in posa, «spero che il barone Hulot avrà cura di suo figlio, e che non vorrà scaricarne il peso su un povero impiegato. Conto di mostrarmi molto esigente con lui, per cui, prendete le vostre precauzioni, signora! Cercate di avere da lui delle lettere in cui vi parla della sua gioia, poiché si fa tirare un po' troppo l'orecchio per la mia nomina...»
E Marneffe partì per il Ministero, dove la preziosa amicizia del suo direttore gli permetteva di andare in ufficio verso le undici; d'altra parte, lì non faceva un granché, vista la sua notoria incapacità e la sua avversione per il lavoro.
Una volta sole, Lisbeth e Valérie si guardarono per un momento come due aruspici e sbottarono insieme in una gran risata.
«Dimmi, Valérie, è vero?» disse Lisbeth, «o è solo una commedia?»
«È una verità fisica!» rispose Valérie. «Hortense mi manda in bestia, e, questa notte, ho pensato di lanciare questo bambino come una bomba nella vita familiare di Wenceslas.»
Valérie passò in camera sua seguita da Lisbeth, e le mostrò, bell'e scritta; la lettera seguente:
«Wenceslas, amico mio, credo ancora al tuo amore, benché non ti veda da quasi venti giorni. Mi disprezzi, forse? Dalila non potrebbe pensarlo. Non è piuttosto l'effetto della tirannia di una donna che mi hai detto di non poter più amare? Wenceslas, tu sei un artista troppo grande per lasciarti dominare così. La famiglia è la tomba della gloria... Guardati e dimmi se rassomigli al Wenceslas di rue du Doyenné. Hai sbagliato il monumento a mio padre; ma in te l'amante è molto superiore all'artista, sei più fortunato con la figlia: sei padre, mio adorato Wenceslas. Se non venissi a trovarmi nello stato in cui mi trovo, passeresti per un uomo ben cattivo agli occhi dei tuoi amici; ma, lo sento, ti amo così follemente, che non avrei mai la forza di maledirti. Possa io dirmi sempre la tua Valérie.»

«Che ne dici del mio progetto di mandare questa lettera allo studio nel momento in cui la nostra cara Hortense vi si troverà da sola?» domandò Valérie a Lisbeth. «Ieri sera ho saputo da Stidmann che Wenceslas deve andare a prenderlo alle undici per un affare da Chanor; così quella sciocca d'Hortense sarà sola.»
«Dopo uno scherzo simile,» rispose Lisbeth, «non potrò più restare tua amica davanti a tutti, e bisognerà che prenda le distanze in modo che tutti credano che non ci vediamo e non ci parliamo più.»
«Evidentemente,» disse Valérie, «ma....»
«Oh! stai tranquilla,» la interruppe Lisbeth. «Ci rivedremo quando sarò la signora marescialla; adesso loro lo vogliono, tutti quanti, solo il barone ignora questo progetto, ma tu lo persuaderai.»
«Ma,» rispose Valérie, «è possibile che presto io mi venga a trovare in una situazione delicata col barone.»
«La signora Olivier è la sola che possa farsi sorprendere da Hortense con la lettera in mano,» disse Lisbeth; «bisogna mandarla in rue Saint-Dominique prima che allo studio.»
«Oh! la nostra bella piccina sarà in casa,» rispose la signora Marneffe suonando a Reine per far chiamare la signora Olivier.



LXIX • SECONDO PADRE DI CASA MARNEFFE

Dieci minuti dopo l'invio di quella fatale lettera, arrivò il barone Hulot.
La signora Marneffe si slanciò, con un movimento di gatta, al collo del vecchio. «Hector, sei padre!» gli disse all'orecchio. «Ecco cosa succede a bisticciare e poi fare la pace...»
Notando un certo stupore che il barone non dissimulò abbastanza prontamente, Valérie prese un'aria fredda che portò alla disperazione il consigliere di stato. Ella si fece strappare le prove più decisive, a una a una. Quando la convinzione, che la vanità prese dolcemente per mano, fu entrata nell'anima del vecchio, lei gli parlò della collera del signor Marneffe.
«Mio vecchio brontolone,» gli disse, «ora ti è davvero difficile non far nominare il tuo editore responsabile, il nostro gerente, se vuoi, capufficio e ufficiale della Legion d'Onore; poiché l'hai rovinato, quell'uomo; lui adora il suo Stanislas, quel piccolo ‹mostriciattolo› che gli assomiglia e che io non posso soffrire. A meno che tu non preferisca dare una rendita di milleduecento franchi a Stanislas, in nuda proprietà, beninteso, e con l'usufrutto a mio nome.»
«Ma se debbo assegnare delle rendite, preferisco che ciò sia fatto a nome di mio figlio, e non a quello del ‹mostriciattolo›!» disse il barone.
Questa frase imprudente, in cui le parole mio figlio vennero fuori come un fiume che straripa, fu trasformata, dopo un'ora di conversazione, in una promessa formale di assegnare milleduecento franchi di rendita al nascituro.
In seguito quella promessa fu, sulla bocca e sul volto di Valérie, ciò che è un tamburo fra le mani di un marmocchio: l'avrebbe suonato per venti giorni.



LXX • DIFFERENZA FRA LA MADRE E LA FIGLIA

Nel momento in cui il barone Hulot, felice come un uomo sposato da un anno che desideri un erede, usciva da rue Vanneau, la signora Olivier si era fatta strappare da Hortense la lettera che doveva consegnare al signor conte «sue proprie mani». La giovane donna pagò per quella lettera una moneta da venti franchi. Il suicida paga il suo oppio, la sua pistola, il suo carbone. Hortense lesse la lettera, la rilesse; non vedeva che quel foglio bianco attraversato da righe nere, non esisteva al mondo che quel foglio di carta, tutto era nero intorno a lei. La luce dell'incendio che divorava l'edificio della sua felicità illuminava il foglio, poiché la notte più profonda regnava intorno a lei. Le grida del suo piccolo Wenceslas, che stava giocando, arrivavano al suo orecchio come se egli fosse stato in fondo a un vallone ed ella in cima a una vetta. Subire un oltraggio a ventiquattro anni nel pieno fulgore della sua bellezza, col cuore colmo di un amore puro e devoto, era per lei non un colpo di pugnale, ma la morte. La prima reazione era stata puramente nervosa; il corpo si era contorto sotto la stretta della gelosia; ma la certezza del tradimento assalì la sua anima e il corpo fu annientato. Hortense restò per circa dieci minuti sotto il peso di quella oppressione. Il fantasma di sua madre le apparve e la trasformò completamente; divenne calma e fredda, recuperò la ragione, poi suonò.
«Mia cara,» disse alla cuoca, «fatevi aiutare da Louise. Fate, il più presto possibile, dei pacchi di tutto ciò che appartiene a me in questa casa, e di tutto ciò che è di mio figlio. Vi do un'ora di tempo. Quando tutto sarà pronto, andate a cercare in piazza una carrozza, e avvertitemi. Nessun commento! Lascio la casa e porto con me Louise. Voi resterete col signore; abbiate cura di lui...»
Passò poi in camera sua, si sedette al suo scrittoio e scrisse la seguente lettera:

«Signor conte,
«la lettera acclusa alla mia vi spiegherà la ragione della decisione che ho preso.
«Quando leggerete queste righe, io avrò lasciato la vostra casa, e mi sarò ritirata presso mia madre, col nostro bambino.
«Non contate che io ritorni mai sulla mia decisione. Non pensate alla collera della giovinezza, alla sua irriflessione, all'irruenza dell'amor giovane offeso, vi ingannereste nel modo più assoluto.
«Ho pensato intensamente, in questi quindici giorni, alla vita, all'amore, alla nostra unione, ai nostri doveri reciproci. Ho conosciuto la dedizione completa di mia madre, mi ha detto dei suoi dolori! Lei è eroica tutti i giorni, da ventitré anni; ma io non mi sento la forza di imitarla: non che vi abbia amato meno di quanto lei ami mio padre, ma per delle ragioni che derivano dal mio carattere. La nostra casa diventerebbe un inferno, e io potrei perdere la testa al punto di disonorarvi, di disonorare il nostro bambino. Non voglio essere una signora Marneffe; e su questa strada una donna della mia tempra forse non si fermerebbe! Sono, sfortunatamente per me, una Hulot e non una Fischer.
«Sola e lontana dallo spettacolo della vostra condotta sregolata, risponderò della mia vita, occupandomi sopra ogni altra cosa del nostro bambino, accanto alla mia forte e sublime madre, la cui vita influirà sui moti tumultuosi del mio cuore. Lì potrò essere una buona madre, educare bene nostro figlio e vivere. In casa vostra la donna avrebbe il sopravvento sulla madre, e liti continue inasprirebbero il mio animo.
«Accetterei una morte improvvisa, ma non voglio esser malata per venticinque anni come mia madre. Se mi avete tradita dopo tre anni di un amore assoluto, continuo, per l'amante di vostro suocero, quali rivali non mi dareste più tardi? Ah! signore, voi iniziate, molto prima di mio padre, quella carriera di libertinaggio e di eccessi che disonora un padre di famiglia, che diminuisce il rispetto dei figli e in fondo alla quale si trovano la vergogna e la disperazione.
«Non sono implacabile. I sentimenti inflessibili non convengono a degli esseri deboli che vivono sotto l'occhio di Dio. Se conquisterete gloria e fortuna con opere elevate, se rinuncerete alle cortigiane, ai sentieri ignobili e vergognosi, ritroverete una moglie degna di voi.
«Vi credo troppo gentiluomo per ricorrere alla legge. Rispettate la mia volontà, signor conte, lasciandomi da mia madre; e soprattutto, non presentatevi mai là. Vi ho lasciato tutto il denaro che vi ha prestato quell'odiosa donna. Addio!
HORTENSE HULOT»

La lettera fu scritta con sofferenza; Hortense si abbandonava al pianto, alle grida della passione oltraggiata. Abbandonava e riprendeva la penna per esprimere in modo semplice ciò che l'amore esprime ogni giorno con magniloquenza in queste lettere testamentarie. Il cuore si sfogava in esclamazioni, in gemiti, in pianti; ma era la ragione a dettare.
La giovane donna, avvertita da Louise che tutto era pronto, percorse lentamente il giardinetto, la camera, il salotto e vi guardò tutto per l'ultima volta. Poi fece alla cuoca le raccomandazioni più vive perché vegliasse sul benessere del signore, promettendole di ricompensarla se si fosse comportata con onestà. Infine, salì in carrozza col cuore affranto, piangendo da far pena alla cameriera, e coprendo di baci il piccolo Wenceslas con una gioia delirante che tradiva ancora molto amore per il padre.
La baronessa aveva già saputo da Lisbeth che il suocero aveva molta parte nella colpa del genero; perciò non fu sorpresa di vedere arrivare sua figlia, approvò la sua decisione e acconsentì a tenerla con sé. Adeline, vedendo che la dolcezza e la devozione non avevano mai trattenuto il suo Hector, per il quale la sua stima cominciava a diminuire, trovò che la figlia aveva ragione di prendere un'altra strada.
In venti giorni la povera madre aveva ricevuto due ferite le cui sofferenze superavano tutte le sue passate torture. Il barone aveva messo Victorin e sua moglie in difficoltà finanziarie, e poi era stato la causa, secondo Lisbeth, del tradimento di Wenceslas; aveva insomma corrotto suo genero. La maestà del padre di famiglia, tanto a lungo difesa a prezzo di sacrifici inimmaginabili, aveva perso la sua grandezza. Senza rimpiangere il loro denaro, gli Hulot figli nutrivano nei confronti del barone inquietudine e diffidenza. Quel sentimento, abbastanza palese affliggeva profondamente Adeline, che presentiva la dissoluzione della famiglia.



LXXI • TERZO PADRE PER IL FIGLIO DI CASA MARNEFFE

La baronessa alloggiò la figlia nella sala da pranzo, che fu prontamente trasformata in camera da letto, grazie al denaro del maresciallo; l'anticamera divenne, come in molte famiglie, la sala da pranzo.
Quando Wenceslas ritornò a casa, quando ebbe finito di leggere le due lettere, provò come un sentimento di gioia misto a tristezza. Guardato, per così dire, a vista da sua moglie, si era interiormente ribellato contro quella nuova prigionia simile a quella di Lisbeth. Da tre anni sazio d'amore, anch'egli aveva riflettuto durante quei quindici giorni; e trovava che la famiglia era un fardello troppo pesante per lui. Aveva appena ricevuto le congratulazioni di Stidmann per la passione che egli ispirava a Valérie, perché Stidmann, con un secondo fine facilmente immaginabile, riteneva opportuno lusingare la vanità del marito di Hortense nella speranza di consolare la vittima.
Wenceslas fu dunque felice di poter ritornare dalla signora Marneffe. Ma ricordò la felicità pura e completa di cui aveva goduto, le perfezioni di Hortense, la sua saggezza, il suo innocente e ingenuo amore, e la rimpianse vivamente. Volle correre da sua suocera per ottenervi il suo perdono, ma fece come Hulot e Crevel: andò a trovare la signora Marneffe e le portò la lettera di sua moglie per farle vedere il disastro di cui era stata la causa, e, per così dire, scontare quel disastro chiedendo in cambio i favori della sua amante.
Trovò Crevel da Valérie. Il sindaco, gonfio d'orgoglio, andava su e giù per il salotto, come un uomo agitato da sentimenti tumultuosi. Si metteva in posa come se volesse parlare, e non osasse. Il suo volto risplendeva di gioia, e correva alla finestra a tamburellare con le dita sui vetri. Guardava Valérie con un'aria commossa e affettuosa. Fortunatamente per Crevel, entrò Lisbeth.
«Cugina,» le disse all'orecchio, «sapete la novità? Sono padre! Mi sembra di amare meno la mia povera Célestine. Oh! Che cosa avere un bambino da una donna che si idolatra! Unire la paternità del cuore alla paternità del sangue. Ditelo a Valérie! Lavorerò per questo bambino; voglio che sia ricco! Mi ha detto che credeva, da certi sintomi, che sarà un maschio! Se è un maschio, voglio che si chiami Crevel: consulterò il mio notaio.»
«So quanto lei vi ami,» disse Lisbeth; «ma, in nome del vostro avvenire e del suo, controllatevi, non vi fregate le mani a ogni momento.»
Mentre Lisbeth faceva questo a parte con Crevel, Valérie si era fatta restituire la sua lettera da Wenceslas e gli faceva all'orecchio certi discorsi che dissipavano la sua tristezza.
«Eccoti libero, amico mio,» disse; «forse che i grandi artisti dovrebbero sposarsi? Voi non esistete che per la fantasia e la libertà! Vedrai, ti amerò tanto, mio caro poeta, che non rimpiangerai mai tua moglie. Tuttavia, se, come molta gente, vuoi salvare il decoro, mi incarico io di far tornare Hortense a casa, in breve tempo...»
«Oh! se fosse possibile!...»
«Ne sono sicura,» disse Valérie punta sul vivo. «Il tuo povero suocero è un uomo finito sotto tutti gli aspetti; per amor proprio vuol dimostrare agli altri di essere amato, vuol far credere che ha un'amante; e tale è in proposito la sua vanità che gli faccio fare ciò che voglio. La baronessa ama ancora tanto il suo Hector (mi sembra di parlare sempre dell'Iliade), che i due vecchi otterranno da Hortense che vi riconciliate. Soltanto, se non vuoi aver tempeste in casa tua, non restare più venti giorni senza venire a trovare la tua amante... Stavo per morirne. Mio caro, quando si è un gentiluomo, si devono dei riguardi a una donna che è stata compromessa al punto in cui lo sono io, soprattutto quando questa donna deve prendere molte precauzioni per la propria reputazione... «Resta a cena, angelo mio... e pensa che devo essere tanto più fredda con te, in quanto tu sei il responsabile di questa colpa troppo ben visibile.»



LXXII • I CINQUE PADRI DELLA CHIESA MARNEFFE

Fu annunciato il barone Montès; Valérie si alzò, gli corse incontro, gli parlò per qualche istante all'orecchio, e fece a lui le stesse raccomandazioni di prudenza che aveva appena fatto a Wenceslas, perché il brasiliano ebbe un contegno diplomatico e appropriato alla grande notizia che lo colmava di gioia; era certo della sua paternità, lui!...
Grazie a questa strategia basata sull'amor proprio dell'uomo nella sua condizione di amante, Valérie ebbe alla sua tavola, felici, innamorati, affascinati, quattro uomini che si credevano tutti adorati, e che Marneffe chiamò scherzosamente con Lisbeth, includendovi anche se stesso, i cinque Padri della Chiesa. Solo il barone Hulot mostrò dapprima una espressione preoccupata. Ecco perché: nel momento di lasciare il suo ufficio, era andato a trovare il direttore del personale, un generale, suo compagno da trent'anni, e gli aveva chiesto di nominare Marneffe al posto di Coquet, che acconsentiva a dare le dimissioni.
«Mio caro amico,» gli disse, «non vorrei chiedere questo favore al maresciallo senza che noi si sia d'accordo e che io abbia avuto il vostro consenso.»
«Mio caro amico,» rispose il direttore del personale, «permettetemi di farvi osservare che, nel vostro interesse, non dovreste insistere su questa nomina. Vi ho già detto la mia opinione. Sarebbe uno scandalo nell'ufficio, dove si occupano già assai troppo di voi e della signora Marneffe. Questo sia detto fra noi. Non vorrei toccarvi in quello che è il vostro punto debole, né contrariarvi in alcun modo, ve ne darò la prova. Se voi ci tenete assolutamente, se volete chiedere il posto del signor Coquet, che sarà veramente una perdita per i nostri uffici (ci si trova fin dal 1809), me ne andrò per quindici giorni in campagna, al fine di lasciarvi campo libero nei confronti del maresciallo che vi ama come un figlio. Non sarò quindi né pro né contro di voi, e nello stesso tempo non avrò fatto niente contro la mia coscienza di amministratore.»
«Vi ringrazio,» rispose il barone, «rifletterò su ciò che mi avete detto.»
«Se mi è permessa un'osservazione, mio caro amico, vi dico che è in gioco più il vostro interesse personale che il mio tornaconto o il mio amor proprio. Il maresciallo è il capo, del resto. Poi, mio caro, ci rimproverano tante cose, che una di più o di meno! Non siamo certo vergini in fatto di critiche. Sotto la Restaurazione, è stata nominata della gente per darle uno stipendio, senza preoccuparsi del servizio... noi siamo dei vecchi camerati...»
«Sì,» rispose il barone, «ed è proprio per non guastare la nostra vecchia e preziosa amicizia che io...»
«Suvvia,» riprese il direttore del personale, vedendo l'imbarazzo dipinto sul volto di Hulot, «farò un viaggio, vecchio mio... Ma state attento! Avete dei nemici, cioè a dire delle persone che aspirano al vostro magnifico stipendio, e voi siete ormeggiato su un'ancora sola. Ah! Se foste stato deputato come me, non avreste avuto nulla da temere; perciò comportatevi bene...»
Quel discorso pieno d'amicizia fece una viva impressione sul consigliere di Stato.
«Ma insomma, Roger, cosa c'è? Non fate il misterioso con me!»
La persona che Hulot chiamava Roger guardò Hulot, gli prese la mano e gliela strinse.
«Siamo troppo vecchi amici perché io non vi dia un consiglio. Se volete rimanere qui bisogna che vi facciate la vostra tana. Così, invece di chiedere al maresciallo il posto del signor Coquet per il signor Marneffe, io lo pregherei di usare la sua influenza per riservarmi il Consiglio di Stato, dove morirei tranquillo, e, come il castoro, abbandonerei la mia direzione generale ai cacciatori.»
«Come! il maresciallo dimenticherebbe...?»
«Vecchio mio, il maresciallo vi ha così ben difeso in pieno Consiglio dei ministri che non si pensa più a destituirvi; ma se ne è discusso!... Perciò, non offrite pretesti... Non voglio dirvi di più. In questo momento, voi potete porre le vostre condizioni, essere consigliere di Stato e pari di Francia. Se aspettate troppo, se date qualche appiglio per la vostra condotta, non rispondo di niente... Allora, devo partire?»
«Aspettate, vedrò il maresciallo,» rispose Hulot, «e manderò mio fratello per sondare il terreno presso il capo.»
Si può capire di quale umore fosse il barone quando tornò dalla signora Marneffe; aveva quasi dimenticato di essere padre; Roger aveva dato prova di vero e sincero cameratismo illuminandolo sulla sua posizione. Nondimeno, tale era l'influenza di Valérie che, durante la cena, il barone si mise all'unisono e diventò tanto più allegro quanto più numerose erano le preoccupazioni che doveva dimenticare; non pensava, lo sciagurato, che quella sera si sarebbe trovato nella condizione di scegliere fra la sua felicità e il pericolo segnalato dal direttore del personale, cioè costretto a optare fra la signora Marneffe e la sua posizione.



LXXIII • SFRUTTAMENTO DEL PADRE

Verso le undici, nel momento in cui l'animazione della serata toccava il massimo, e il salotto era pieno di gente, Valérie invitò Hector a sedersi vicino a lei in un angolo del suo divano.
«Vecchio mio caro,» gli disse all'orecchio, «tua figlia è talmente irritata perché Wenceslas viene qui da me, che lo ha piantato. È una testa dura quell'Hortense. Chiedi a Wenceslas che ti faccia vedere la lettera che quella scioccherella gli ha scritto. Questa separazione di due innamorati, di cui si vuole che io sia la causa, può farmi un gran torto, perché questa è la maniera che usano le donne virtuose per attaccarsi fra di loro. È una cosa indegna atteggiarsi a vittima, per gettare il biasimo su una donna che ha il solo torto di avere una casa accogliente. Se mi ami, mi discolperai facendo tornare insieme le due tortorelle. Non ci tengo per niente, del resto, a ricevere tuo genero in casa mia; sei tu che me l'hai condotto, riportalo pur via! Se hai qualche autorità nella tua famiglia, mi sembra che potresti ben esigere da tua moglie che si adoperi per ottenere questa riconciliazione. Dille da parte mia, a quella buona vecchia, che se mi si attribuirà ingiustamente il torto di aver seminato la zizzania fra due giovani sposi, di rompere l'armonia di una famiglia, e di prendere nello stesso tempo il padre e il genero, io farò di tutto per meritarmi questa reputazione tartassandoli a modo mio. E Lisbeth, non parla forse di lasciarmi?... Preferisce la sua famiglia a me, non voglio biasimarla per questo. Resterà qui solo a condizione che i giovani tornino a vivere insieme riappacificati. Proprio un bell'affare! le spese ne uscirebbero triplicate!...»
«Oh! quanto a ciò,» disse il barone dopo aver saputo dello scandalo di sua figlia, «ci penserò io a sistemare le cose.»
«Be',» riprese Valérie, «passiamo a un altro argomento... E il posto di Coquet?»
«Questo,» rispose Hector, abbassando gli occhi, «è più difficile, per non dire impossibile!...»
«Impossibile, mio caro Hector?» disse la signora Marneffe all'orecchio del barone, «ma non sai a quali eccessi è capace di arrivare Marneffe! Io sono in suo potere; lui è immorale, per il suo interesse, come la maggior parte degli uomini, ma è estremamente vendicativo al modo degli spiriti meschini, degli impotenti. Nella situazione in cui mi hai messo, può fare di me quello che vuole. Se sono costretta a rimettermi per qualche giorno con lui, è capace di non lasciare più la mia camera.»
Hulot ebbe un gran sussulto.
«Mi lasciava tranquilla a condizione di essere capufficio. È una cosa infame, ma è logico.»
«Valérie, mi ami?»
«Questa domanda, nello stato in cui mi trovo, è, mio caro, un'ingiustizia da lacchè...»
«Ebbene, se voglio tentare, solamente tentare di domandare al maresciallo un posto per Marneffe, io non sarò più niente e Marneffe sarà destituito.»
«Credevo che tu e il principe foste due amici intimi!»
«Certo, e me ne ha dato la prova; ma, bambina mia, al di sopra del maresciallo, c'è qualcuno... C'è, per esempio, ancora tutto il Consiglio dei ministri. Con un po' di tempo, manovrando opportunamente, potremo arrivarci. Per riuscire, bisogna aspettare il momento in cui mi si domanderà qualche favore. Allora potrò dire: ‹Io vi do questo, e voi in cambio mi date quest'altro...›»
«Se dico queste cose a Marneffe, mio povero Hector, ci giocherà qualche brutto tiro. Guarda, diglielo tu stesso che bisogna aspettare, io non intendo farlo. Oh! conosco la mia sorte, lui sa come punirmi, non lascerà più la mia camera... Non dimenticare i milleduecento franchi di rendita per il piccolo.»
Hulot prese da parte il signor Marneffe, sentendosi minacciato nel proprio piacere, e, per la prima volta, abbandonò il tono altero che aveva tenuto fino allora, tanto era spaventato dalla prospettiva di quell'agonizzante nella camera della bella donna.
«Marneffe, mio caro amico,» gli disse. «Si è parlato di voi oggi! Purtroppo non potete essere capufficio d'un colpo... Occorrerà del tempo.»
«Lo sarò, signor barone,» replicò decisamente Marneffe.
«Ma, mio caro...»
«Lo sarò, signor barone,» ripeté freddamente Marneffe guardando ora il barone ora Valérie. «Avete messo mia moglie nella necessità di riappacificarsi con me e io me la terrò, mio caro amico, è affascinante,» aggiunse con spaventosa ironia. «Sono io il padrone qui, più di quanto voi non lo siate al Ministero.»
Il barone sentì dentro di sé uno di quei dolori che producono, nel cuore, l'effetto di un furioso mal di denti, e per poco gli occhi non gli si riempirono di lacrime. Durante questa breve scena Valérie, parlando all'orecchio di Henri Montès, gli comunicava la presunta volontà di Marneffe, e così si sbarazzava di lui per qualche tempo.
Dei quattro spasimanti, solo Crevel, possessore della palazzina, era esentato da quella misura, cosicché mostrava sul volto un'aria di beatitudine davvero insolente, malgrado i rimproveri che gli rivolgeva Valérie aggrottando le sopracciglia e lanciandogli degli sguardi significativi; ma egli non poteva fare a meno di esprimere, in tutti i suoi tratti, la radiosa gioia della paternità. A una parola di rimprovero che Valérie gli disse all'orecchio, l'afferrò per la mano e le rispose:
«Domani, mia duchessa, avrai la tua palazzina!... domani c'è l'aggiudicazione definitiva.»
«E l'arredamento?» rispose lei sorridendo.
«Ho mille azioni di Versailles, rive gauche, comprate a centoventicinque franchi, che andranno a trecento a causa di una fusione delle due ferrovie: è un segreto di cui sono stato messo a parte. Avrai un arredamento da regina!... Ma tu sarai solo mia, non è vero?...»
«Sì, sindacone mio,» disse sorridendo quella madame de Merteuil borghese; «ma un po' di contegno! rispetta la futura signora Crevel.»
«Mio caro cugino,» diceva Lisbeth al barone, «sarò da Adeline domani di buon'ora, perché, capirete, non posso, in coscienza, rimanere qui. Prenderò cura della casa di vostro fratello il maresciallo.»
«Torno stasera a casa mia,» disse il barone.
«Bene, ci verrò domani a colazione,» rispose Lisbeth sorridendo.



LXXIV • UNA TRISTE FELICITÀ

Lisbeth capì quanto la sua presenza fosse necessaria alla scena familiare che doveva aver luogo l'indomani. Perciò, fin dal mattino, andò da Victorin, al quale comunicò la notizia della separazione di Hortense e Wenceslas.
Quando il barone entrò in casa sua, verso le dieci e mezzo di sera, Mariette e Louise, che avevano avuto una giornata assai faticosa, stavano chiudendo la porta dell'appartamento. Hulot non ebbe perciò bisogno di suonare. Il marito, molto seccato di dover fare l'uomo virtuoso, andò diritto verso la camera di sua moglie; e, attraverso la porta socchiusa, la vide prosternata davanti al crocifisso, sprofondata nella preghiera e in una di quelle pose espressive che fanno la gloria dei pittori e degli scultori abbastanza fortunati da renderle bene dopo averle trovate. Adeline, trascinata dall'esaltazione, diceva ad alta voce:
«Dio mio, fateci la grazia di illuminarlo!...»
Così la baronessa pregava per il suo Hector. A quello spettacolo, così diverso da quello che aveva appena lasciato, sentendo quella frase dettata dall'avvenimento di quel giorno, il barone commosso si lasciò sfuggire un sospiro. Adeline si voltò col viso pieno di lacrime. Credette che la sua preghiera fosse stata così bene esaudita, che fece un balzo, e abbracciò il suo Hector con la forza che dà la passione ricambiata. Adeline si era spogliata di ogni interesse femminile, il dolore ne spegneva perfino il ricordo. Per lei non esistevano più che la maternità, l'onore della famiglia, e l'attaccamento più puro di una sposa cristiana per un marito fuorviato, quella santa tenerezza che sopravvive a tutto nel cuore di una moglie.
Tutto ciò si poteva facilmente intuire.
«Hector!» disse infine, «torneresti forse da noi? Dio avrebbe pietà della nostra famiglia?»
«Cara Adeline!» rispose il barone entrando e facendo sedere sua moglie su una poltrona accanto a lui, «tu sei la più santa creatura che io conosca, ed è tanto tempo che non mi sento più degno di te.»
«Avresti poco da fare, amico mio,» disse tenendo la mano di Hulot e tremando così forte da sembrare scossa da un tic nervoso; «veramente poco per ristabilire l'ordine...»
Non osò continuare, sentì che ogni parola poteva suonare biasimo, e non volle turbare la gioia che quel colloquio le versava a torrenti nell'anima.
«È Hortense che mi conduce qui,» riprese Hulot. «Questa nostra figlia può farci più male con la sua decisione troppo affrettata di quanto non ce ne abbia fatto la mia assurda passione per Valérie. Ma parleremo di tutto ciò domattina. Mi ha detto Mariette che Hortense dorme; lasciamola tranquilla.»
«Sì,» disse la signora Hulot d'un subito pervasa da una profonda tristezza.
Intuiva che il barone tornava a casa, non tanto spinto dal desiderio di vedere la sua famiglia ma da un interesse estraneo a essa.
«Lasciamola tranquilla ancora domani. La poverina è in uno stato pietoso; ha pianto tutto il giorno,» disse la baronessa.


LXXV • QUALI DANNI POSSONO PROVOCARE
LE SIGNORE MARNEFFE IN SENO A UNA FAMIGLIA


L'indomani, alle nove del mattino, il barone, mentre aspettava la figlia, alla quale aveva fatto dire di raggiungerlo, passeggiava nell'immenso salone disabitato, cercando degli argomenti persuasivi per vincere l'ostinazione più difficile da domare, quella di una giovane donna offesa e implacabile, come lo è la gioventù intransigente, alla quale sono ignoti i turpi compromessi della società, poiché di essa ignora le passioni e gli interessi.
«Eccomi, papà!» disse con voce tremante Hortense, pallida per le sofferenze subite.
Hulot, seduto su una sedia, prese sua figlia per la vita e la costrinse a metterglisi sulle ginocchia.
«Ebbene, bambina mia,» disse baciandola sulla fronte, «ci sono dunque degli screzi nella famiglia, e abbiamo fatto un colpo di testa?... Non è così che si comporta una ragazza ben educata. La mia cara Hortense non doveva prendere da sola una decisione così importante, come quella di lasciare la casa, di abbandonare il marito, senza consultarsi con i suoi genitori. Se la mia cara Hortense fosse venuta a trovare la sua buona ed eccellente madre, non mi avrebbe causato il grande dolore che provo!... Tu non conosci la gente, è molto cattiva. È capace di dire che è stato tuo marito a rimandarti dai tuoi genitori. I figli educati, come voi, sempre vicini alla mamma, restano bambini più a lungo degli altri, non conoscono la vita! La passione ingenua e fresca, come quella che tu hai per Wenceslas, disgraziatamente non tien conto di nulla, conosce solamente i suoi impulsi. Il nostro cuoricino parte, la testa gli va dietro. Si sarebbe capaci di bruciare Parigi per vendicarsi, senza pensare alla Corte d'assise! Quando il tuo vecchio padre viene a dirti che non hai osservato le convenienze, puoi credergli; e ancora non ti parlo del profondo dolore che ho provato, un amaro dolore, poiché tu getti il tuo biasimo su una donna di cui non conosci il cuore e la cui inimicizia può diventare terribile... Ohimè! Tu che sei così piena di candore, di innocenza, di purezza, non diffidi di nulla: puoi essere disonorata, diffamata. Del resto, angelo mio, hai preso sul serio uno scherzo, e posso, io, garantirti l'innocenza di tuo marito. La signora Marneffe...»
Fino a quel momento, il barone, da vero artista della diplomazia, era riuscito a modulare in maniera ammirevole le sue rimostranze. Aveva, come si è visto, preparato con grande abilità il terreno prima di introdurre quel nome; ma, appena l'ebbe udito, Hortense fece il gesto di una persona ferita sul vivo.
«Ascoltami, ho dell'esperienza e ho osservato tutto,» riprese il padre impedendo a sua figlia di parlare. «Quella signora tratta tuo marito molto freddamente. Sì, tu sei stata la vittima di una mistificazione, e te ne darò le prove. Guarda, ieri, Wenceslas era a cena...»
«Era a cena là?...» domandò la giovane donna alzandosi in piedi e guardando suo padre con l'orrore dipinto sul viso. «Ieri! Dopo aver letto la mia lettera? Oh! mio Dio!... Perché non sono entrata in convento invece di sposarmi? La mia vita ormai non appartiene più a me, ho un bambino!» aggiunse singhiozzando.
Quelle lacrime colpirono al cuore la signora Hulot; ella uscì dalla sua stanza, corse dalla figlia, la prese fra le braccia e le fece delle domande, le prime che le vennero alle labbra, domande confuse ispirate dal dolore.
«Ecco le lacrime!...» diceva fra sé il barone. «Tutto andava così bene! ora, che fare con delle donne che piangono?»
«Bambina mia,» disse la baronessa a Hortense, «ascolta tuo padre! egli ci ama, sai...»
«Su, Hortense, mia piccola cara, non piangere, diventi troppo brutta,» disse il barone. «Su, cerchiamo di ragionare. Fai la brava, ritorna in seno alla tua famiglia, e ti prometto che Wenceslas non metterà mai più piede in quella casa. Ti chiedo questo sacrificio, se poi è un sacrificio perdonare la più leggera delle colpe a un marito che si ama! Te lo chiedo per i miei capelli bianchi, per l'amore che tu porti a tua madre... Non vorrai riempire i giorni della mia vecchiaia di amarezza e di dolore?...»
Hortense si gettò, come una pazza, ai piedi di suo padre con un atto così disperato che i suoi capelli, male appuntati, si sciolsero, e gli tese le mani con un gesto in cui si poteva vedere tutto il suo strazio.
«Padre mio, voi mi chiedete la vita!» disse, «prendetela se volete; ma almeno prendetela pura e senza macchia, ve l'abbandonerò certo con piacere. Non chiedetemi però di morire disonorata, con il marchio di una colpa! Io non rassomiglio a mia madre! non accetterò mai gli oltraggi! Se tornassi sotto il tetto coniugale, potrei strangolare in un eccesso di gelosia Wenceslas, o fare anche peggio. Non esigete da me cose al di sopra delle mie forze. Non piangetemi viva! Perché il meno che possa capitarmi è di diventare pazza... Sento la pazzia a due passi da me! Ieri, ieri, cenava da quella donna dopo aver letto la mia lettera!... Gli altri uomini sono fatti così?... vi do la mia vita, ma a condizione che la morte non sia ignominiosa!... La sua colpa?... leggera!... Avere un figlio da quella donna!»
«Un figlio?» disse Hulot facendo due passi indietro. «Via! si tratta certamente di uno scherzo.»
In quel momento Victorin e la cugina Bette entrarono e restarono come inebetiti da fronte a quello spettacolo. La figlia era prosternata ai piedi di suo padre. La baronessa, muta e divisa fra il sentimento materno e quello coniugale, aveva il viso sconvolto, coperto di lacrime.
«Lisbeth,» disse il barone afferrando la mano della zitella e indicandole Hortense, «tu puoi venirmi in aiuto. La mia povera Hortense sragiona, crede che il suo Wenceslas sia amato dalla signora Marneffe, mentre ella ha semplicemente voluto un gruppo da lui.»
«Dalila!» gridò la giovane donna, «la sola cosa che egli abbia fatta rapidamente dopo il nostro matrimonio. Il signore non poteva lavorare per me, per suo figlio, mentre ha lavorato per quella donna spregevole, con un ardore... Oh! datemi il colpo di grazia, padre mio, perché ognuna delle vostre porole è per me una pugnalata.»
Rivolgendosi alla baronessa e a Victorin, Lisbeth alzò le spalle in atto di commiserazione, indicando loro il barone che non poteva vederla.
«Ascoltatemi, cugino,» disse Lisbeth, «non sapevo che cosa fosse la signora Marneffe quando mi avete pregato di andare ad alloggiare sopra di lei e di prendere cura della sua casa; ma, in tre anni, si capiscono molte cose. Quella donna è una ‹prostituta› e una prostituta di una depravazione che si può solo confrontare con quella del suo infame e schifoso marito. Voi siete lo zimbello, il gran signore tutto casa e famiglia di quella gente, vi porteranno molto più lontano di quanto non pensiate! Bisogna che vi parli chiaro, poiché siete nel fondo di un abisso...»
Sentendo parlare in quel modo Lisbeth, la baronessa e sua figlia le rivolsero degli sguardi simili a quelli dei devoti quando ringraziano la Madonna per aver loro salvato la vita.
«Ha voluto, quella donna tremenda, mettere la discordia nella famiglia di vostro genero; con quale scopo? Non ne so niente, perché la mia intelligenza è troppo debole per veder chiaro in quei tenebrosi intrighi, così perversi, ignobili, infami. La vostra signora Marneffe non ama vostro genero, ma lo vuole ai suoi ginocchi per vendetta. Ho trattato quella spregevole donna come meritava. È una cortigiana senza pudore, le ho dichiarato che lasciavo quella casa, che volevo liberare il mio onore da quel pantano... Appartengo, prima di tutto, alla mia famiglia. Ho saputo che mia cugina aveva lasciato Wenceslas, e sono venuta! La vostra Valérie, che voi considerate una santa, è la causa di questa crudele separazione; posso forse rimanere con una donna simile? La nostra piccola, cara Hortense,» disse toccando il braccio del barone, in modo significativo, «è probabilmente vittima di un desiderio, tipico di quel genere di donne che, per avere un gioiello, sacrificherebbero tutta una famiglia. Non credo Wenceslas colpevole, ma lo credo debole, e non dico che non potrebbe soccombere a delle civetterie così raffinate. La mia decisione è presa. Quella donna è funesta per voi, vi ridurrà sul lastrico. Non voglio avere l'aria di essere complice della rovina della mia famiglia, io che sono in quella casa da tre anni al solo scopo di impedirla. Siete ingannato, cugino. Dite molto fermamente che non vi occuperete della nomina di quell'ignobile signor Marneffe, e vedrete che cosa succederà! Vi daranno una lezione che non dimenticherete facilmente.»
Lisbeth aiutò la giovane cugina ad alzarsi e l'abbracciò affettuosamente.
«Mia cara Hortense, tieni duro,» le disse all'orecchio.
La baronessa abbracciò la cugina Bette con l'entusiasmo di una donna che si sente vendicata. Tutta la famiglia manteneva un profondo silenzio intorno al padre, il quale era abbastanza intelligente per capire ciò che quel silenzio significasse. La sua fronte e il suo viso mostrarono i segni di una tremenda collera: tutte le vene si gonfiarono, gli occhi si iniettarono di sangue, la pelle si coprì di chiazze.
Adeline si gettò in ginocchio davanti a lui, gli prese le mani e gli disse:
«Mio caro, mio caro, grazia!»
«Io vi sono odioso!» disse il barone lasciandosi sfuggire il grido della propria coscienza. Ciascuno di noi, nel suo intimo, conosce i propri torti. Quasi sempre attribuiamo alle nostre vittime quei sentimenti di odio che la vendetta deve loro ispirare; e, malgrado gli sforzi dell'ipocrisia, il nostro linguaggio o il nostro volto confessano, sotto una imprevista tortura, così come in altri tempi il criminale confessava fra le mani del carnefice.
«I nostri figli,» disse poi, per ritrattare la sua confessione, «finiscono per diventare i nostri nemici.»
«Papà...» disse Victorin.
«Osate interrompere vostro padre!...» riprese con voce minacciosa il barone, guardando il figlio.
«Papà, ascoltate,» disse Victorin con voce ferma e chiara, la voce di un deputato puritano. «Conosco troppo bene il rispetto che vi devo per venir meno a esso, e certo voi avrete sempre in me il figlio più devoto e obbediente.»
Tutti quanti assistono alle sedute delle Camere riconosceranno gli schemi della lotta parlamentare in quelle frasi contorte e prolisse con le quali si calmano gli animi degli avversari per guadagnare tempo.
«Siamo ben lontani dall'essere i vostri nemici,» disse Victorin; «mi sono messo in urto con mio suocero, il signor Crevel, per aver ritirato i sessantamila franchi di cambiali da Vauvinet, e certamente quel denaro è nelle mani della signora Marneffe. Oh, non vi biasimo affatto, padre mio,» aggiunse poi a un gesto del barone, «ma voglio unire la mia voce a quella della cugina Lisbeth, e farvi osservare che se la mia devozione per voi è cieca e senza limiti, padre mio carissimo, disgraziatamente le nostre risorse sono limitate.»
«Denaro!» disse il vecchio turbato, lasciandosi cadere a sedere su una sedia, schiacciato da quel ragionamento. «Ed è mio figlio! vi verrà restituito, signore, il vostro denaro,» aggiunse alzandosi.
Si avviò verso la porta.
«Hector!»
Quel grido fece voltare il barone ed egli mostrò improvvisamente un viso inondato di lacrime alla moglie, che lo cinse con le sue braccia stringendolo con la forza della disperazione.
«Non te ne andare così,... non lasciarci in collera. Non ti ho detto nulla, io!...»
A questo grido sublime i figli si gettarono alle ginocchia del padre.
«Noi tutti vi amiamo,» disse Hortense.
Lisbeth, immobile come una statua, osservava quel gruppo con un sorriso di orgoglioso disprezzo sulle labbra. In quel momento il maresciallo Hulot entrò nell'anticamera, e tutti ne udirono la voce. La famiglia comprese quanto fosse importante mantenere il segreto, e la scena cambiò immediatamente aspetto.
I due giovani si alzarono, e ognuno si sforzò di nascondere la propria emozione.


LXXVI • RIASSUNTO DELLA STORIA DELLE FAVORITE

Una discussione avveniva intanto alla porta fra Mariette e un soldato; questi diventò così insistente, che la cuoca entrò in salotto.
«Signore, il furiere di un reggimento che ritorna dall'Algeria vuole assolutamente parlarvi.»
«Che aspetti.»
«Signore,» disse Mariette all'orecchio del padrone, «mi ha detto di dirvi sottovoce che si tratta del vostro signor zio.»
Il barone trasalì, credette che gli portassero i soldi che egli aveva segretamente richiesti da due mesi per pagare le sue cambiali; lasciò la sua famiglia e corse nell'anticamera, dove poté vedere un alsaziano.
«Siete il signor parone Hilotte...?»
«Sì...»
«In persona?»
«In persona.»
Il furiere, che durante questo colloquio rovistava nella fodera del suo berretto, ne tirò fuori una lettera che il barone aprì in fretta, leggendo quanto segue:

«Mio caro nipote, lungi dal potervi inviare i centomila franchi che mi chiedete, vi dico che la mia posizione non è più sostenibile, se non prendete delle misure energiche per salvarmi. Ci sta addosso un procuratore del re, che parla di morale e farfuglia bestialità sull'amministrazione. Impossibile far tacere quel borghese. Se il Ministero della Guerra dà troppa confidenza a questa gente in marsina, io sono perduto. Il latore della presente è degno di fiducia, cercate di dargli un avanzamento, poiché ci ha reso un gran servizio. Non lasciatemi in pasto ai corvi.»

La lettera fu come un colpo di fulmine; il barone vi vedeva il manifestarsi delle discordie intestine fra civili e militari che affliggono ancora oggi il governo dell'Algeria: doveva trovare subito dei rimedi per sanare quella piaga. Disse al soldato di ritornare l'indomani, e, dopo averlo congedato non senza delle belle promesse di avanzamento, rientrò nel salotto.
«Buongiorno, e arrivederci, caro fratello!» disse al maresciallo.
«Addio, cari figlioli; addio, mia buona Adeline. E tu, Lisbeth, cosa farai ora?» disse poi rivolgendosi alla cugina.
«Baderò alla casa del maresciallo, perché bisogna che termini la mia carriera rendendovi sempre qualche servigio, agli uni e agli altri.»
«Non lasciare Valérie fino a che non ti abbia rivista,» disse Hulot all'orecchio della cugina. «Addio, Hortense, mia piccola ribelle, cerca di essere più ragionevole; mi sono sopravvenuti degli affari gravi; riprenderemo la questione della tua riappacificazione. Pensaci, mia cara gattina,» disse, baciandola.
Lasciò sua moglie e i suoi figli, così visibilmente turbato, che tutti restarono in preda alle più vive apprensioni.
«Lisbeth,» disse la baronessa, «bisogna sapere che cosa è successo a Hector; non l'ho mai visto in un simile stato; resta ancora due o tre giorni da quella donna; a lei dice tutto, così potremo sapere la causa del suo improvviso cambiamento. Stai tranquilla, penseremo noi a combinare il tuo matrimonio col maresciallo, perché questo matrimonio è davvero necessario.»
«Non dimenticherò mai il coraggio che hai avuto questa mattina,» disse Hortense abbracciando Lisbeth.
«Hai vendicato la nostra povera mamma,» disse Victorin.
Il maresciallo osservava con aria incuriosita le testimonianze d'affetto prodigate a Lisbeth, che andò a raccontare a Valérie quanto era accaduto.
Questo schizzo permette alle anime ingenue di indovinare le varie calamità che le signore Marneffe provocano nelle famiglie e con quali mezzi esse colpiscono delle povere donne virtuose, in apparenza così lontane da loro. Ma se si vogliono trasferire col pensiero questi disordini morali ai livelli superiori della società, vicino al trono, considerando ciò che devono essere costate le amanti dei re, si può misurare quanto vasta sia la riconoscenza che il popolo deve ai sovrani quando questi danno l'esempio di buoni costumi e di una onesta vita familiare.



LXXVII • AUDACIA DI UNO DEI CINQUE PADRI

A Parigi, ogni ministero è una piccola città dalla quale le donne sono bandite; ma vi si fanno dei pettegolezzi e vi si commettono delle perfidie come se la popolazione femminile vi fosse presente. Dopo tre anni, la posizione del signor Marneffe era stata per così dire messa a punto, e ci si domandava negli uffici: «Il signor Marneffe sarà o non sarà il successore del signor Coquet?» Proprio come alla Camera ci si domandava recentemente: «L'appannaggio passerà o non passerà?» Si osservavano i più piccoli movimenti della direzione del personale, si scrutava tutto nella divisione del barone Hulot. L'astuto consigliere di stato aveva attirato dalla sua parte la vittima della promozione di Marneffe, un lavoratore capace, dicendogli che se avesse voluto prestarsi al gioco sarebbe poi infallibilmente succeduto a Marneffe, il quale, assicurò, non aveva molto da vivere. Per cui l'impiegato complottava a favore di Marneffe.
Quando Hulot attraversò il suo salone delle udienze, pieno di visitatori, scorse in un angolo il viso pallido di Marneffe, e questi fu il primo a essere chiamato.
«Cosa avete da chiedermi, mio caro?» disse il barone nascondendo la propria inquietudine.
«Signor direttore, negli uffici si prendono beffa di me, poiché si è appena saputo che il signor direttore del personale stamattina si è preso un periodo di congedo per ragioni di salute: il suo viaggio durerà circa un mese. Aspettare un mese, si sa cosa vuol dire. Voi mi abbandonate allo scherno dei miei nemici; è già abbastanza essere battuto come un tamburo da una parte sola, ma se lo si è da tutte e due le parti nello stesso tempo, signor direttore, la cassa può rompersi.»
«Mio caro Marneffe, ci vuole molta pazienza per arrivare al proprio scopo. Non potete essere capufficio, se mai lo sarete, prima di due mesi. Non è nel momento in cui mi trovo obbligato a consolidare la mia posizione, che posso chiedere una promozione scandalosa.»
«Se verrete licenziato, io non sarò più capufficio,» disse freddamente il signor Marneffe; «fatemi nominare, per voi sarà la stessa cosa.»
«Così devo sacrificarmi per voi?» domandò il barone.
«Se fosse altrimenti, le mie aspettative su di voi andrebbero deluse.»
«Siete un po' troppo Marneffe, signor Marneffe!» disse il barone alzandosi e indicando la porta al sottocapo.
«Ho l'onore di salutarvi, signor barone,» rispose umilmente Marneffe.
«Che uomo abietto!» si disse il barone. «Questa ha un po' l'aria di una ingiunzione di pagamento entro le ventiquattro ore, sotto pena di esproprio.»



LXXVIII • UN'ALTRA INGIUNZIONE

Due ore dopo, mentre il barone finiva di dare le istruzioni necessarie a Claude Vignon, che voleva inviare al Ministero della Giustizia per assumere delle informazioni sulle autorità giudiziarie nella cui circoscrizione si trovava Johann Fischer, Reine aprì l'ufficio personale del signor direttore e gli consegnò una letterina, chiedendone la risposta.
«Mandare Reine!» si disse il barone. «Valérie è pazza, ci compromette tutti, e compromette la nomina di quell'abominevole Marneffe!»
Congedò il segretario particolare del ministro e lesse quanto segue:
«Ah! mio caro, che scenata ho dovuto subire; se mi hai dato la felicità per tre anni, l'ho pagata cara! È rientrato dal suo ufficio in uno stato di collera da far rabbrividire. Lo conoscevo come un essere abietto, l'ho veduto mostruoso. I suoi quattro denti veri tremavano, e mi ha minacciato di impormi la sua odiosa compagnia, se avessi continuato a riceverti. Ahimè, mio povero caro! la nostra porta sarà ormai chiusa per te. Vedi le mie lacrime; cadono su questo foglio, lo inzuppano! Riuscirai a leggermi, mio caro Hector? Ah! non poterti più vedere, rinunciare a te, quando ho in me un po' della tua vita, come credo di avere il tuo cuore, è per me una sofferenza terribile. Pensa al nostro piccolo Hector! non abbandonarmi; ma non disonorarti per Marneffe, non cedere alle sue minacce! Ah! ti amo come non ho mai amato! mi sono ricordata di tutti i sacrifici che hai fatto per la tua Valérie; essa non è e non sarà mai ingrata: tu sei e sarai il mio solo marito. Non pensare più ai milleduecento franchi di rendita che ti chiedo per quel piccolo Hector che verrà fra qualche mese... non voglio costarti più nulla. Del resto, il mio patrimonio sarà sempre il tuo. Ah, se tu mi amassi quanto ti amo io, mio caro Hector, lasceresti il servizio, pianteremmo qui ognuno la nostra famiglia, le nostre preoccupazioni, il nostro ambiente così pieno di odio, e andremmo a vivere con Lisbeth in qualche bel paese, in Bretagna, dove vorresti tu. Là non vedremmo nessuno e saremmo felici, lontani da tutti. La tua pensione, e quel poco che ho a nome mio, ci basterebbe. Tu cominci a diventare geloso; ebbene, potresti vedere allora la tua Valérie occuparsi unicamente del suo Hector, e non avresti mai più da fare la voce grossa come l'altro giorno. Non avrò che un solo bambino, sarà il nostro, sii certo, mio caro vecchio brontolone.
«No, non puoi immaginare la mia collera, perché bisogna sapere come mi ha trattato e le villanie che ha vomitato sulla tua Valérie! Quelle parole insudicerebbero questo foglio; una donna come me, la figlia di Montcornet, non avrebbe dovuto mai udirne una sola in tutta la sua vita. Oh! avrei voluto che fossi qui per poterlo punire con lo spettacolo della passione folle che sentivo per te. Mio padre lo avrebbe fatto fuori a sciabolate quel miserabile, io posso fare soltanto ciò che può una donna: amarti con frenesia! Perciò, amor mio, nello stato di esasperazione in cui mi trovo, mi è impossibile rinunciare a vederti. Sì, voglio vederti in segreto tutti i giorni! Siamo fatte così, noi altre donne: condivido il tuo risentimento. Di grazia, se mi ami, non farlo nominare capufficio, che crepi sottocapo!... In questo momento non connetto più, sento ancora le sue ingiurie. Bette, che voleva lasciarmi, ha avuto pietà di me, e resta ancora qualche giorno.
«Mio caro, non so ancora che fare. Non vedo che la fuga. Ho sempre adorato la campagna, la Bretagna, il Languedoc, tutto quello che vorrai, purché possa amarti in libertà. Povero micio mio, come ti compiango! Eccoti costretto a ritornare dalla tua vecchia Adeline, da quell'urna lacrimale, poiché certo te l'ha detto, il mostro, egli veglierà giorno e notte su di me; ha parlato di commissario di polizia! Non venire, sento che è capace di tutto, dal momento che faceva di me la più ignobile delle sue speculazioni. Perciò vorrei poterti rendere tutto ciò che ho avuto dalla tua generosità. Ah! mio caro Hector, ho potuto civettare, sembrarti leggera, ma tu non conoscevi la tua Valérie; le piaceva tormentarti, ma ti preferisce a tutti. Non ti si può impedire di venire a trovare tua cugina; studierò con lei i mezzi che ci consentiranno di parlarci. Micio adorato, scrivimi, di grazia, qualche parola per rassicurarmi, in mancanza della tua cara presenza... (Oh! darei una mano per averti sul mio divano). Una lettera sarà per me come un talismano; scrivimi qualcosa in cui ci sia tutta la tua anima; ti restituirò poi la lettera, poiché bisogna essere prudenti; non saprei del resto dove nasconderla, lui rovista dappertutto. Insomma, rassicura la tua Valérie, la tua donna, la madre del tuo bambino. Essere obbligata a scriverti, io che ti vedevo tutti i giorni... Perciò dico a Lisbeth: ‹Non conoscevo la mia felicità.› Mille baci, mio caro. Ama molto
la tua Valérie.»

«E delle lacrime!...» si disse Hulot terminando di leggere la lettera, «delle lacrime che rendono il suo nome quasi illeggibile.»
«Come sta?» disse poi a Reine.
«La signora è a letto, ha delle convulsioni,» rispose Reine. «L'attacco di nervi ha fatto contorcere la signora come un salcio di una fascina; è successo dopo aver scritto la lettera. Oh! è per aver pianto... Si sentiva la voce del signore per le scale.»
Il barone, tutto turbato, scrisse la lettera seguente, su carta ufficiale intestata:

«Sii tranquilla, angelo mio, morirà sottocapo! La tua idea è eccellente; ce ne andremo subito lontano da Parigi e saremo felici col nostro piccolo Hector; mi metterò in pensione e saprò trovare un buon posto in qualche ferrovia. Mia adorata amica, mi sento ringiovanito dalla tua lettera! Oh! ricomincerò la vita, e farò, vedrai, una fortuna al nostro caro piccolo. La tua lettera, mille volte più ardente di quelle della Nouvelle Héloïse, ha operato in me, mentre la leggevo, un miracolo! Non credevo che il mio amore per te potesse aumentare. Vedrai questa sera da Lisbeth
il tuo Hector, tuo per la vita!»

Reine portò a Valérie quella risposta, la prima lettera che il barone scriveva alla sua adorata amica. Simili emozioni facevano da contrappeso alle tempeste che si addensavano all'orizzonte; ma, in quel momento, si credeva sicuro di parare i colpi portati a suo zio, Johann Fischer, e non si preoccupava che del deficit.
Una delle particolarità del carattere bonapartista è la fede nella potenza della spada, la certezza della preminenza del militare sul civile. Hulot se ne infischiava del procuratore del re in Algeria, dove regna il Ministero della Guerra. L'uomo rimane ciò che è stato. Come possono dimenticare gli ufficiali della guardia imperiale di aver visto i sindaci delle belle città dell'Impero, i prefetti dell'imperatore, questi imperatori in piccolo, che venivano a ricevere la guardia imperiale, a porgerle il loro saluto al confine dei dipartimenti che essa attraversava, e a renderle infine onori sovrani?



LXXIX • LA PORTA IN FACCIA

Alle quattro e mezzo, il barone andò difilato dalla signora Marneffe; mentre saliva le scale, il cuore gli batteva come a un giovanotto, poiché dentro di sé si faceva questa domanda: «La vedrò o non la vedrò?» Come poteva ricordarsi della scena della mattina, in cui la sua famiglia in lacrime stava in ginocchio ai suoi piedi? La lettera di Valérie, custodita per sempre in un sottile portafogli sul suo cuore, non gli provava forse che egli era più amato dei più amabili giovanotti? Dopo aver suonato, lo sfortunato barone sentì lo strascichio delle ciabatte e i disgustosi colpi di tosse dell'invalido Marneffe. Marneffe aprì l'uscio, ma per mettersi in posa e per indicare la scala a Hulot con un gesto esattamente simile a quello col quale Hulot gli aveva indicato la porta del suo ufficio.
«Siete un po' troppo Hulot,... signor Hulot!» disse.
Il barone tentò di passare, ma Marneffe tirò fuori di tasca una pistola e la caricò.
«Signor consigliere di Stato, quando un uomo è vile come me - poiché mi credete vile, non è vero? - sarebbe l'ultimo dei galeotti, se non si prendesse tutti i vantaggi del suo onore venduto. Voi volete la guerra. Ebbene, sarà guerra dura e senza quartiere. Non ritornate più, e non tentate di passare: ho avvertito il commissario di polizia di quella che è la mia posizione rispetto a voi.»
E, approfittando dello stupore di Hulot, lo spinse fuori e chiuse la porta.
«Che uomo ignobile, che scellerato!» disse Hulot fra sé salendo da Lisbeth. «Oh! ora capisco la lettera! Valérie e io lasceremo Parigi. Valérie sarà mia per il resto dei miei giorni; sarà lei a chiudermi gli occhi.»
Lisbeth non era in casa. La signora Olivier informò Hulot che era andata dalla baronessa, pensando di trovarci il barone.
«Povera ragazza! non l'avrei mai creduta così sottile come ha dimostrato di esserlo stamattina,» si disse il barone, ricordando la condotta di Lisbeth mentre percorreva il tratto di strada fra rue Vanneau e rue Plumet. Alla svolta di rue Vanneau con rue de Babylone, egli guardò l'Eden da dove Imene lo bandiva con la spada della legge in mano. Dalla finestra Valérie seguiva con gli occhi Hulot: quando egli alzò la testa, ella agitò un fazzoletto; ma l'infame Marneffe diede uno strattone alla cuffia della moglie, e la scostò violentemente dalla finestra.
Una lacrima salì agli occhi del consigliere di Stato.
«Essere amato così! veder maltrattare una donna, e aver presto settant'anni!» si disse.
Lisbeth era venuta ad annunciare alla famiglia la lieta notizia. Adeline e Hortense sapevano già che il barone, non volendo disonorarsi agli occhi di tutta l'amministrazione nominando Marneffe capufficio, sarebbe stato buttato fuori di casa da quel marito divenuto Hulottofobo. Perciò Adeline, felice, aveva ordinato una cena squisita in maniera che il suo Hector la trovasse migliore che a casa di Valérie, e la devota Lisbeth aiutava Mariette a ottenere quel difficile risultato. La cugina Bette era diventata l'idolo della famiglia: la madre e la figlia le baciavano le mani, e l'avevano informata con gioia commossa che il maresciallo acconsentiva a far di lei la sua governante.
«E da qui, mia cara, a diventare sua moglie, non c'è che un passo,» disse Adeline.
«Insomma, non ha detto di no, quando Victorin gliene ha parlato,» aggiunse la contessa Steinbock.
Il barone fu accolto nella sua famiglia con delle testimonianze d'affetto così premurose, così commoventi e dalle quali traboccava tanto amore, che fu obbligato a dissimulare il suo dolore. Il maresciallo venne a cena. Dopo cena Hulot non se ne andò. Vennero Victorin e sua moglie. Si giocò a whist.
«È molto tempo, Hector,» disse gravemente il maresciallo, «che non ci hai dato una serata simile a questa!...»
Quelle parole del vecchio soldato, che viziava il fratello e nello stesso tempo implicitamente lo rimproverava, fecero una profonda impressione. Vi si potevano leggere le larghe e profonde ferite di un cuore in cui tutti i dolori intuiti avevano lasciato la loro traccia. Alle otto, il barone volle accompagnare Lisbeth, promettendo che sarebbe tornato.
«Ebbene, Lisbeth, lui la maltratta!» le disse per strada. «Ah! non l'ho mai amata tanto!»
«Ah! non avrei mai creduto che Valérie vi amasse tanto!» riprese Lisbeth. «È leggera, è civetta, le piace essere corteggiata, vuole che si rappresenti per lei la commedia dell'amore, come dice lei, ma voi siete il suo solo affetto.»
«Che ti ha detto per me?»
«Ecco,» riprese Lisbeth. «Lei ha avuto, lo sapete, delle gentilezze per Crevel; non bisogna volergliene, poiché ciò l'ha messa al riparo dalla miseria per il resto dei suoi giorni, ma lo detesta, ed è quasi tutto finito. Ebbene, si è tenuta la chiave di un appartamento...»
«Rue du Dauphin!» esclamò felice Hulot. «Solo per questo, le perdonerei Crevel... Ci sono andato, so...»
«Questa è la chiave,» disse Lisbeth; «fatene fare una uguale domani in giornata, due se potete.»
«E dopo?...» disse avidamente Hulot.
«Ebbene, domani ritornerò ancora a cena da voi, e mi restituirete la chiave di Valérie (poiché il vecchio Crevel può richiedergliela); potrete ritrovarvi là insieme dopodomani e convenire sul da farsi. Sarete perfettamente al sicuro perché esistono due uscite. Se, per caso, Crevel, che senza dubbio ha dei costumi Régence, come dice lui, entrasse dal corridoio, voi uscireste dalla bottega, e viceversa. Ebbene, vecchio furfante, è a me che dovete tutto ciò. Che farete per me?...»
«Tutto ciò che vorrai!»
«Bene, non opponetevi al mio matrimonio con vostro fratello!»
«Tu, la marescialla Hulot! Tu, contessa di Forzheim!» esclamò Hector sorpreso.
«Adeline è baronessa, no?...» replicò con un tono acre e deciso Bette. «Ascoltate, vecchio libertino, sapete a che punto sono i vostri affari! la vostra famiglia può trovarsi senza pane e nel fango...»
«È il mio terrore!» disse Hulot colpito da queste porole.
«Se vostro fratello muore, chi sostenterà vostra moglie, vostra figlia? La vedova di un maresciallo di Francia può ottenere almeno seimila franchi di pensione, non è vero? Ebbene, io mi sposo solo per assicurare il pane a vostra figlia e a vostra moglie, vecchio pazzo!»
«Non avevo pensato a questo,» disse il barone. «Esorterò mio fratello, poiché siamo sicuri di te... Di' al mio angelo che la mia vita le appartiene!...»
E il barone, dopo aver visto entrare Lisbeth in rue Vanneau, ritornò per giocare a whist e restò in casa. La baronessa era al colmo della felicità: suo marito sembrava essere ritornato alla vita di famiglia. Per circa quindici giorni, la mattina alle nove andò al Ministero, e alle sei tornò a casa per cena; la sera rimaneva in seno alla famiglia. Condusse due volte Adeline e Hortense a teatro. Madre e figlia fecero dire due messe di ringraziamento, e pregarono Dio di conservare loro il marito e il padre che Egli aveva loro restituito.


LXXX • UN RISVEGLIO

Una sera, Victorin Hulot, guardando suo padre che andava a coricarsi, disse alla madre:
«Ebbene, siamo felici, mio padre è ritornato; per cui non rimpiangeremo i nostri capitali, se la cosa dura...»
«Fra poco vostro padre avrà settant'anni,» rispose la baronessa; «pensa ancora alla signora Marneffe, me ne sono accorta, ma ben presto non ci penserà più: la passione per le donne non è come il gioco, come la speculazione, o come l'avarizia; per essa c'è un termine.»
La bella Adeline, poiché quella donna era sempre bella a dispetto dei suoi cinquant'anni e dei suoi dolori, in questo si ingannava. I libertini, esseri che la natura ha dotato della facoltà preziosa di amare al di là dei limiti che essa fissa all'amore, non hanno quasi mai la loro età. Durante questo periodo di vita virtuosa, il barone era andato tre volte in rue du Dauphin, e non vi si era certo comportato come un uomo di settant'anni. La passione riaccesa lo ringiovaniva e per Valérie egli avrebbe rinunciato a tutto senza un rimpianto, anche al suo onore e alla sua famiglia. Ma Valérie, completamente cambiata, non gli parlava mai né di denaro, né dei milleduecento franchi di rendita da dare al loro figlio; al contrario, gli offriva dell'oro, amava Hulot come una donna di trentasei anni ama un bello studente in legge, spiantato, ma innamorato, e sognatore. E la povera Adeline credeva di aver riconquistato il suo Hector! Il quarto appuntamento dei due amanti era stato preso negli ultimi minuti del terzo, proprio come una volta la Comédie Italienne annunciava alla fine della rappresentazione lo spettacolo dell'indomani. L'ora concordata era le nove del mattino. Il giorno stabilito per l'incontro felice, la cui attesa faceva accettare all'appassionato vecchio la vita di famiglia, verso le otto, Reine si recò a casa del barone e chiese di lui. Hulot, temendo qualche catastrofe, andò a parlare con Reine, che non voleva entrare nell'appartamento. La fedele cameriera consegnò la seguente lettera al barone:

«Mio vecchio brontolone, non andare in rue du Dauphin, il nostro incubo è malato, e io devo curarlo; ma sii là questa sera alle nove. Crevel è a Corbeil dal signor Lebas, sono certa che non porterà qualche principessa nel suo appartamentino. Io ho fatto in modo di avere la notte libera; posso essere di ritorno prima che Marneffe si svegli. Rispondimi, perché temo che quella grande ‹elegia› di tua moglie non ti lasci più libero come una volta. Dicono che sia ancora così bella, che tu sei capace di tradirmi, sei un così gran libertino! Brucia la lettera, io diffido di tutto.»

Hulot scrisse queste poche righe di risposta:

«Amore mio, mai, come ti ho detto, mia moglie mi ha impedito, da venticinque anni in qua, di prendermi i miei piaceri. Ti sacrificherei cento Adeline! Sarò questa sera, alle nove, nel tempio di Crevel ad aspettare la mia divinità. Possa il sottocapo crepare al più presto! Non saremmo più separati, ecco l'augurio più grande del
tuo Hector.»

La sera, il barone disse alla moglie che sarebbe andato a lavorare col ministro a Saint-Cloud e che sarebbe rientrato alle quattro o alle cinque del mattino. Poi uscì e andò in rue du Dauphin. Si era allora sul finire del mese di giugno.
Pochi uomini hanno provato realmente nella vita la sensazione terribile di andare alla morte; quelli che ritornano dal patibolo si possono contare sulla punta delle dita. Ma alcuni hanno sentito vivamente questa agonia in sogno e ne hanno provato tutte le sensazioni fino a quella della lama che arriva sul collo, nel momento in cui sopravviene, col giorno, il risveglio, per liberarli... Ebbene, la sensazione alla quale il consigliere di Stato fu in preda alle cinque del mattino, nel letto elegante e civettuolo di Crevel, superò di molto quella di sentirsi sulla fatale basculla in presenza di diecimila spettatori che vi guardano con ventimila raggi di fuoco. Valérie dormiva in una posa incantevole. Era bella come lo sono le donne abbastanza belle per essere belle mentre dormono. È l'arte che invade la natura, è come un quadro vivente. Stando in posizione orizzontale, il barone aveva gli occhi a tre piedi dal suolo; i suoi occhi, vaganti qua e là a caso, come quelli di ogni uomo che si sveglia e che riordina le proprie idee, caddero su una porta dipinta a fiori da Jan, un artista che disprezza la gloria. Il barone non vide, come il condannato a morte, ventimila raggi di fuoco, ne vide solo uno, il cui sguardo è in verità più penetrante di quei diecimila della pubblica piazza. Quella sensazione, ricevuta nel momento di massimo piacere, molto più rara di quella dei condannati a morte, sicuramente un gran numero d'inglesi afflitti dallo spleen la pagherebbe a gran prezzo. Il barone si trovò, rimanendo sempre in posizione orizzontale, letteralmente bagnato da capo a piedi di un sudore freddo. Voleva dubitare, ma quell'occhio assassino parlottava. Un mormorio di voci proveniva da dietro la porta...
«Se fosse soltanto Crevel che vuol farmi uno scherzo!» si disse il barone non potendo più dubitare della presenza di una persona nel tempio.
La porta si aprì. La maestosa legge francese che appare sui proclami dopo il potere regio si manifestò sotto forma di un buon piccolo commissario di pubblica sicurezza, accompagnato da un alto giudice di pace, condotti lì tutti e due dal signor Marneffe.



LXXXI • FARINA, CRUSCA E CRUSCHELLO

La figura del commissario, piantata su certe scarpe legate con nastri a grossi nodi, finiva con un cranio giallo, povero di capelli, che denotava un volpone licenzioso e burlone, per il quale la vita di Parigi non aveva più segreti.
Dietro le spesse lenti, i suoi occhi mandavano occhiate penetranti, furbe e beffarde. Il giudice di pace, ex procuratore legale, vecchio adoratore del bel sesso, invidiava l'uomo che doveva giudicare.
«Vogliate scusare il rigore del nostro Ministero, signor barone!» disse il commissario, «il nostro intervento è richiesto da un querelante. Il signor giudice di pace ha presenziato all'ingresso nel domicilio. So chi siete e chi è colei che commette reato.»
Valérie sgranò gli occhi stupita, gettò quello strido acuto che le attrici hanno creato per rappresentare sulla scena il momento della follia, si contorse in convulsioni sul letto, come un'indemoniata nel medioevo nella sua camicia di zolfo su un letto di fascine.
«Piuttosto la morte, mio caro Hector!... ma la polizia giudiziaria? Oh! mai!» Fece un balzo, passò come una nuvola bianca fra i tre spettatori, e andò a rannicchiarsi sotto il bonheur-du-jour, nascondendosi la testa fra le mani.
«Perduta! morta!» gridò.
«Signore,» disse Marneffe a Hulot, «se la signora Marneffe dovesse impazzire, voi sareste più che un libertino, sareste un assassino...»
Che cosa può fare, cosa può dire un uomo sorpreso in un letto che non gli appartiene, nemmeno a titolo di locazione, con una donna, la quale neanche lei gli appartiene? Ecco:
«Signor giudice di pace, signor commissario di polizia,» disse il barone con dignità, «vogliate prendere cura dell'infelice donna la cui ragione mi sembra in pericolo... Verbalizzerete dopo. Le porte sono senza dubbio chiuse, non avete evasione da temere né da parte sua, né da parte mia, visto lo stato in cui siamo...»
I due funzionari ottemperarono all'ingiunzione del consigliere di Stato.
«Vieni a parlare con me, miserabile lacchè!...» disse Hulot a voce bassissima a Marneffe, prendendolo per un braccio e tirandolo verso di sé. «Non sono io l'assassino, sei tu! Vuoi essere capufficio e ufficiale della Legion d'Onore?»
«Soprattutto, signor direttore,» rispose Marneffe con un cenno d'assenso.
«Sarai tutto questo. Rassicura tua moglie e manda via questi signori.»
«No davvero!» replicò con una punta di ironia Marneffe. «Bisogna che questi signori redigano il verbale di flagrante reato, poiché, senza quest'atto, base della mia denuncia, che cosa ne sarebbe di me? L'alta amministrazione rigurgita di imbroglioni. Voi mi avete rubato mia moglie e non mi avete fatto capufficio, signor barone; vi do due giorni per decidervi. Ecco delle lettere...»
«Delle lettere!...» gridò il barone interrompendo Marneffe.
«Sì, delle lettere che provano che il bambino che mia moglie porta ora in seno è vostro... Capito? Voi dovreste intestare a mio figlio una rendita uguale alla somma che questo bastardo gli porta via. Ma sarò modesto, ciò non mi riguarda affatto, non ho la smania della paternità, io! Cento luigi di rendita basteranno. Domattina sarò successore del signor Coquet, e inserito nella lista di quelli che stanno per essere nominati ufficiali, in occasione dei festeggiamenti di luglio, o il verbale sarà depositato in Tribunale. Sono generoso, non è vero?»
«Dio, che bella donna!» diceva il giudice di pace al commissario di pubblica sicurezza. «Che perdita per il mondo se diventasse pazza!»
«Non è affatto pazza,» rispose sentenziosamente il commissario.
La polizia è sempre il dubbio incarnato.
«Il signor barone Hulot è caduto in una trappola,» aggiunse il commissario a voce alta perché Valérie potesse sentire.
Valérie lanciò al funzionario uno sguardo che l'avrebbe ucciso, se gli sguardi potessero comunicare la rabbia che esprimono. Il commissario sorrise; anch'egli aveva teso la sua trappola, e la donna vi era caduta. Marneffe invitò la moglie a tornare in camera da letto e a vestirsi decentemente, poiché si era inteso su tutti i punti col barone, che prese una veste da camera e ritornò nella prima stanza.
«Signori,» disse ai due funzionari, «non occorre che io vi chieda di mantenere il segreto.»
I due risposero con un impercettibile inchino. Il commissario batté due colpi alla porta, il suo segretario entrò, si sedette davanti al bonheur-du-jour, e si mise a scrivere sotto la dettatura del commissario di pubblica sicurezza, che gli parlava a bassa voce. Valérie continuava a piangere a calde lacrime. Quando ebbe finito la sua toilette, Hulot passò nella camera da letto e si vestì. Nel frattempo, fu redatto il verbale. Marneffe volle allora condurre via sua moglie, ma Hulot, pensando di vederla per l'ultima volta, implorò con un gesto il favore di parlarle.
«Signore, la signora mi costa abbastanza cara, perché voi mi permettiate di dirle addio..., ben inteso in presenza di tutti.»
Valérie si avvicinò, e Hulot le disse all'orecchio:
«Non ci resta che fuggire, ma come comunicare? siamo stati traditi...»
«Da Reine!» rispose lei. «Ma, mio caro amico, dopo questo scandalo non ci dobbiamo più rivedere. Sono disonorata. Del resto ti diranno delle infamie sul mio conto, e tu le crederai...»
Il barone fece un cenno di diniego.
«Le crederai, e io ne ringrazio il cielo, perché forse non mi rimpiangerai.»
«Lui non creperà sottocapo!» disse Marneffe all'orecchio del consigliere di Stato, tornando a prendersi la moglie, alla quale disse brutalmente: «Basta, signora, se sono per voi un debole, non voglio essere uno sciocco per gli altri.»
Valérie lasciò la piccola casa di Crevel gettando al barone un ultimo sguardo così civettuolo, che egli si credette adorato. Il giudice di pace diede galantemente la mano alla signora Marneffe, accompagnandola alla carrozza.


LXXXII • OPERAZIONE CHIRURGICA

Il barone, che doveva firmare il verbale, se ne stava lì inebetito, solo col commissario di pubblica sicurezza. Quando il consigliere di stato ebbe firmato, il commissario lo guardò con aria furbesca, al di sopra degli occhiali.
«Amate molto quella donnina, signor barone?»
«Per mia disgrazia, come vedete...»
«E se lei non vi amasse?» riprese il commissario, «se vi ingannasse?...»
«L'ho già saputo, signore, proprio qui, in questo luogo... Ce lo siamo detto, il signor Crevel e io...»
«Ah! lo sapete che siete nella casetta del signor sindaco.»
«Certo.»
Il commissario sollevò leggermente il cappello per salutare il vecchio.
«Siete davvero innamorato,» disse; «preferisco tacere, allora. Rispetto le passioni inveterate, proprio come i medici rispettano le malattie inve... Ho visto il signor de Nucingen, il banchiere, preso da una passione di questo genere...»
«È amico mio,» replicò il barone. «Ho cenato spesso con la bella Esther, valeva bene i due milioni che gli è costata.»
«Di più,» disse il commissario. «Questo capriccio del vecchio finanziere è costato la vita a quattro persone. Oh! queste passioni sono come il colera.»
«Che cosa avevate da dirmi?» domandò il consigliere di Stato, che prese male quella allusione.
«Perché togliervi le vostre illusioni?» replicò il commissario, «è così raro conservarne alla vostra età.»
«Liberatemene!» esclamò il consigliere di Stato.
«Dopo si maledice il medico,» rispose il commissario sorridendo.
«Che intendete dire, signor commissario?...»
«Bene, la donna era d'accordo col marito.»
«Oh!...»
«Succede, signore: due volte su dieci. Oh! ce ne intendiamo, noi!»
«Che prove avete della sua complicità?»
«Be', anzitutto il marito!...» disse l'astuto funzionario con la calma di un chirurgo abituato a ripulire le piaghe. «La speculazione sta scritta su quel viso piatto e orrendo. Ma non dovevate tenere molto a una lettera scritta da quella donna e dove si parla del bambino?»
«Tengo tanto a quella lettera che la porto sempre con me,» rispose il barone frugando nella tasca interna della giacca per prendere il piccolo portafogli che egli portava sempre con sé.
«Lasciate pure il portafogli dove si trova,» disse il commissario, mentre lo fulminava con lo sguardo come in una requisitoria, «ecco la lettera. Adesso so tutto ciò che volevo sapere. Certo la signora Marneffe non ignorava ciò che conteneva quel portafogli.»
«Era l'unica a saperlo.»
«È quel che pensavo... Ora, ecco la prova che mi chiedete della complicità di quella donnina.»
«Vediamo!» disse il barone ancora incredulo.
«Quando siamo arrivati, signor barone,» riprese il commissario, «quel miserabile di Marneffe è passato per primo, e ha preso questa lettera, che sua moglie aveva senza dubbio posata su quel mobile,» disse mostrando il bonheur-du-jour. «Evidentemente era stato convenuto tra moglie e marito di lasciarla lì nel caso fosse riuscita a prendervi la lettera mentre dormivate; infatti la lettera che quella signora vi ha scritto, con quelle che voi le avete indirizzate, è decisiva per il processo penale.»
Il commissario fece vedere a Hulot la lettera che il barone aveva ricevuto per mano di Reine nel suo ufficio al ministero.
«Fa parte della pratica,» disse il commissario; «rendetemela, signore.»
«Ebbene, signore,» disse Hulot col viso sconvolto, «quella donna rappresenta il libertinaggio sistematico. Sono certo, ora, che ha tre amanti!»
«È evidente,» disse il commissario. «Ah! quelle come lei non sono tutte sul marciapiede. Quando si fa quel mestiere, signor barone, in pompa magna, nei salotti o in casa, non si tratta più di franchi né di centesimi. La signorina Esther, di cui parlate, e che si è avvelenata, ha divorato milioni. Se volete darmi retta, signor barone, dovreste piantarla. Quest'ultima avventura vi costerà cara. Quel mascalzone di marito ha la legge dalla sua... Insomma, senza di me, quella donnina vi pescava un'altra volta.»
«Grazie, signore,» disse il consigliere di Stato, cercando di assumere un contegno dignitoso.
«Signore, ora chiuderemo l'appartamento. La farsa è finita, e voi riconsegnerete la chiave al signor sindaco.»



LXXXIII • RIFLESSIONI MORALI

Hulot ritornò a casa sua in uno stato di abbattimento vicino al collasso, e immerso nei pensieri più cupi. Svegliò la sua nobile, la sua santa e pura moglie, e le riversò nel cuore la storia di quei tre anni, singhiozzando come un bambino al quale sia stato tolto un giocattolo. Questa confessione di un vecchio, giovane di cuore, questa spaventosa e desolante epopea, pur commovendo intimamente Adeline, le destò nell'anima la gioia più viva; ella ringraziò il cielo per quell'ultimo colpo, perché vide il marito riportato per sempre in seno alla famiglia.
«Lisbeth aveva ragione!» disse la signora Hulot con voce dolce e senza fare inutili rimostranze, «ci ha detto tutto in anticipo.»
«Sì! Ah! se l'avessi ascoltata, invece di andare in collera, il giorno in cui volevo che la povera Hortense tornasse a casa sua per non compromettere la reputazione di quella... Oh! Cara Adeline, bisogna salvare Wenceslas! è in quel fango fino al collo!»
«Povero amico mio, con questa piccola borghese non hai avuto miglior fortuna che con le attrici,» disse Adeline sorridendo. La baronessa era spaventata del cambiamento che presentava il suo Hector; vedendolo infelice, sofferente, curvo sotto il peso dei dispiaceri, era tutta cuore, tutta pietà, tutta amore; avrebbe dato la vita per rendere Hulot felice.
«Resta con noi, mio caro Hector. Dimmi come fanno quelle donne a legarti così; proverò... Perché non mi hai plasmata in modo da poter rispondere ai tuoi bisogni? Manco forse d'intelligenza? Mi trovano ancora abbastanza bella per farmi la corte.»
Molte donne sposate, attaccate ai loro doveri e ai loro mariti, potranno domandarsi a questo punto perché quegli uomini così forti e così buoni, così facili alla pietà per delle signore Marneffe, non prendono le loro mogli, soprattutto quando somigliano alla baronessa Adeline Hulot, per oggetto del loro capriccio e delle loro passioni. Ciò ha a che fare coi più profondi misteri della natura umana. L'amore, questa immensa dissolutezza della ragione, questo virile e severo piacere delle grandi anime, e il piacere, questa volgarità messa in vendita sulla piazza, sono due facce differenti dello stesso fenomeno. La donna che soddisfi questi due enormi appetiti, è, in tutto il sesso femminile, tanto rara quanto il grande generale, il grande scrittore, il grande artista, il grande inventore lo sono in una nazione. L'uomo superiore come l'imbecille, un Hulot come un Crevel, sentono ugualmente il bisogno dell'ideale e quello del piacere; tutti vanno alla ricerca di questo misterioso androgino, di questa rarità che, nella maggior parte dei casi, risulta essere un'opera in due volumi! Questa ricerca è una depravazione dovuta alla società. Certo, il matrimonio deve essere accettato come un dovere, è la vita con i suoi tormenti e i suoi duri sacrifici, sostenuti in parti uguali da entrambi. I libertini, questi cercatori di tesori sono altrettanto colpevoli quanto altri malfattori più severamente puniti di loro. Questa riflessione non è un'aggiunta posticcia di morale: essa ci fa capire molte infelicità incomprese. Questa scena porta d'altronde con sé i suoi tratti di morale, che sono di vario genere.



LXXXIV • FRUCTUS BELLI, TUTTO RICADE SUL MINISTERO DELLA GUERRA

Il barone si recò senza perder tempo dal maresciallo principe di Wissembourg, la cui alta protezione era la sua ultima risorsa. Protetto dal vecchio guerriero da trentacinque anni, aveva sempre libero accesso nella sua casa; pertanto poté entrare nell'appartamento all'ora in cui quegli si alzava.
«Ehi! buongiorno, mio caro Hector,» disse il grande e buon condottiero. «Che avete? sembrate preoccupato. Eppure la sessione dei lavori è finita! E ancora un'altra se n'è andata! Parlo di questo adesso, come una volta parlavo delle nostre campagne. Credo, del resto, che i giornali chiamino anche le nostre sessioni campagne parlamentari.»
«In effetti, maresciallo, è stata dura; ma è la miseria dei tempi!» disse Hulot. «Che volete! il mondo è fatto così. Ogni epoca ha i suoi inconvenienti. La più grande sventura dell'anno 1841 è che né il potere reale né i ministeri sono liberi nella loro azione come lo era l'imperatore.»
Il maresciallo fissò su Hulot uno di quegli sguardi d'aquila la cui fierezza, lucidità, e perspicacia dimostravano che, malgrado gli anni, quell'animo grande restava sempre forte e vigoroso.
«Vuoi che faccia qualcosa per te?» disse assumendo un'aria scherzosa.
«Mi trovo nella necessità di chiedervi, come una grazia personale, la promozione di uno dei miei sottocapi al grado di capufficio, e la sua nomina di ufficiale nella Legion...»
«Come si chiama?» disse il maresciallo lanciando al barone uno sguardo vivido come un lampo.
«Marneffe!»
«Ha una bella moglie, l'ho vista al matrimonio di tua figlia... Se Roger..., ma Roger non è più qui. Hector, figlio mio, si tratta del tuo piacere. Come! Te la spassi ancora? Ah! fai onore alla guardia imperiale! Ecco cosa significa essere appartenuto all'intendenza, tu hai delle riserve!... Lascia stare questa faccenda, mio caro ragazzo, è troppo galante per divenire amministrativa.»
«No, maresciallo, è davvero una brutta faccenda, poiché si tratta del Tribunale penale; volete vedermici?»
«Ah! diavolo!» esclamò il maresciallo allarmato. «Continua.»
«Il fatto è che mi vedete come una volpe presa alla tagliola... Siete sempre stato così buono con me, che vi degnerete di tirarmi fuori dalla situazione vergognosa in cui mi trovo.»
Hulot raccontò nel modo più brillante e più vivace possibile la sua disavventura.
«Volete, principe,» disse terminando, «far morire di dolore mio fratello, al quale volete tanto bene, e lasciar disonorare uno dei vostri direttori, un consigliere di stato? Il mio Marneffe è un miserabile, lo manderemo in pensione fra due o tre anni.»
«Come parli di due o tre anni, mio caro amico...!» disse il maresciallo.
«Ma, principe, la guardia imperiale è immortale.»
«Io adesso sono l'ultimo maresciallo della prima promozione,» disse il ministro. «Ascolta, Hector. Tu non sai fino a che punto ti sono affezionato; ora lo vedrai! Il giorno in cui lascerò il Ministero, lo lasceremo insieme. Ah! tu non sei deputato, amico mio. Molta gente vuole il tuo posto; e, senza di me, non ci saresti più. Sì, ho spuntato molte lance in tuo favore... Ebbene, ti accordo le tue due richieste, perché sarebbe veramente grave vederti seduto sul banco degli accusati, alla tua età e nella posizione che occupi. Ma tu comprometti seriamente il tuo prestigio. Se questa nomina dovesse suscitare qualche scalpore se la prenderanno con noi. Io me ne infischio, ma è una spina di più sotto il tuo piede. Alla prossima sessione, salterai. La tua successione è presentata come un'esca a cinque o sei persone influenti, e tu sei rimasto al tuo posto solo grazie alla sottigliezza delle mie argomentazioni. Ho detto che il giorno in cui tu andassi in pensione, e che il tuo posto fosse dato ad altri, noi avremmo cinque scontenti e uno felice, mentre lasciandoti a ciurlare nel manico per due o tre anni, noi avremmo i nostri sei voti. Si son messi a ridere in Consiglio, ed hanno trovato che il vecchio della vecchia guardia, come usa dire, diventava molto abile nella tattica parlamentare. Ti dico queste cose sinceramente. Del resto, tu invecchi, i tuoi capelli stanno diventando grigi... Ti puoi considerare ben fortunato se puoi ancora cacciarti in simili pasticci! Dov'è andato il tempo in cui il sottotenente Cottin aveva delle amanti!»
Il maresciallo suonò.
«Bisogna strappare quel verbale!» aggiunse.
«Voi agite, monsignore, come un padre! non osavo parlarvi della mia angoscia.»
«Come vorrei che Roger fosse qui,» esclamò il maresciallo, vedendo entrare Mitouflet, il suo usciere, «stavo per farlo chiamare. «Andate, Mitouflet. E va' anche tu, mio vecchio compagno, va' a far preparare quella nomina, la firmerò. Ma quell'infame intrigante non godrà per molto del frutto dei suoi crimini; sarà tenuto d'occhio e tolto di mezzo al più piccolo sbaglio. Ora che sei salvo, mio caro Hector, fai attenzione. Non fare pressioni sui tuoi amici. Ti verrà inviata la nomina stamattina, e il tuo uomo sarà ufficiale!... Quanti anni hai adesso?»
«Settanta fra tre mesi.»
«Sei un uomo in gamba!» disse il maresciallo sorridendo. «Sei tu che meriteresti una promozione; ma, corpo di mille bombe, non siamo sotto Luigi XV!»
Tale è l'effetto del cameratismo che lega fra loro i gloriosi resti della falange napoleonica; essi credono sempre di essere al bivacco, costretti a proteggersi da tutti e contro tutti.
«Ancora un favore come questo,» si disse Hulot attraversando il cortile, «e sono perduto.»
Il disgraziato funzionario si recò dal barone de Nucingen, al quale non doveva più che una somma insignificante, riuscì a farsi prestare quarantamila franchi impegnando il suo stipendio per altri due anni; ma il barone pattuì che, nel caso in cui Hulot fosse stato messo a riposo, la quota prelevabile della sua pensione sarebbe stata destinata al rimborso di quella somma fino all'esaurimento degli interessi e del capitale. Questo nuovo affare fu concluso, come il primo, sotto il nome di Vauvinet, al quale il barone firmò cambiali per dodicimila franchi. L'indomani, il fatale verbale, la querela del marito, le lettere, tutto fu distrutto. La scandalosa promozione del signor Marneffe, appena notata nel movimento delle feste di luglio, non dette luogo ad alcun commento sui giornali.



LXXXV • ALTRO DISASTRO

Lisbeth, apparentemente in rotta con la signora Marneffe, s'installò in casa del maresciallo Hulot. Dieci giorni dopo questi avvenimenti vennero fatte le prime pubblicazioni del matrimonio della zitella con l'illustre vegliardo, al quale, per ottenere il consenso, Adeline raccontò la catastrofe finanziaria capitata al suo Hector pregandolo di non parlarne mai al barone, il quale, disse lei, era triste, molto abbattuto, completamente prostrato.
«Ohimè! ha la sua età!» aggiunse poi.
Lisbeth dunque trionfava! Ella stava per raggiungere lo scopo della sua ambizione, stava per vedere compiuto il suo piano, soddisfatto il suo odio. Godeva in anticipo della felicità di regnare sulla famiglia che l'aveva così a lungo disprezzata. Si riprometteva di essere la protettrice dei propri protettori, l'angelo salvatore che avrebbe fatto vivere la famiglia rovinata; si chiamava, salutandosi nello specchio «signora contessa» o «signora marescialla!» Adeline e Hortense avrebbero finito i loro giorni nell'indigenza, combattendo contro la miseria, mentre la cugina Bette, ammessa alle Tuileries, avrebbe troneggiato in società.
Un avvenimento terribile rovesciò la zitella dal vertice della scala sociale dove così orgogliosamente pensava di collocarsi.
Lo stesso giorno in cui furono lette le prime pubblicazioni, il barone ricevette un altro messaggio dall'Africa. Un secondo alsaziano si presentò, consegnò una lettera assicurandosi che la dava al barone Hulot, e, dopo avergli lasciato l'indirizzo del suo alloggio, andò via lasciando l'alto funzionario come fulminato alla lettura della prime righe:

«Mio caro nipote, riceverete questa lettera, secondo i miei calcoli, il 7 di agosto. Supponendo che voi impieghiate tre giorni per inviare l'aiuto che chiediamo, e che occorrano quindici giorni perché ci pervenga, arriviamo al i settembre.
«Se l'esecuzione rispetta queste scadenze, avrete salvato l'onore e la vita del vostro devoto Johann Fischer.
«Ecco quanto chiede l'impiegato che mi avete dato per complice; poiché, a quanto pare, corro il rischio di andare a finire in Corte d'Assise o davanti a un Consiglio di Guerra. Voi capite che mai Johann Fischer si farà trascinare davanti ad alcun tribunale, egli andrà da solo dinanzi a quello di Dio.
«Il vostro impiegato mi sembra un tipo poco raccomandabile, capacissimo di compromettervi; ma è intelligente come un furfante. Pretende che dobbiate gridare più forte degli altri e mandarci un ispettore, un commissario speciale incaricato di scoprire i colpevoli, di cercare gli abusi, insomma di infierire; ma chi, prima, s'interporrà fra noi e il Tribunale sollevando un conflitto di competenze?
«Se il vostro commissario arriva qui il i settembre e se avrà avuto da voi la vostra parola d'ordine, se ci invierete duecentomila franchi per ricostruire in magazzino le scorte che diciamo di avere in località lontane, saremo considerati degli amministratori onesti e senza macchia.
«Potete affidare al soldato che vi consegnerà questa lettera un assegno a mio ordine su un istituto bancario di Algeri. È un uomo serio, un parente, che non cerca certamente di sapere ciò che porta. Ho preso delle misure per assicurare il ritorno di questo ragazzo. Se non potrete far niente, morirò volentieri per colui al quale dobbiamo la felicità della nostra Adeline.»

Le angosce e i piaceri della passione, la catastrofe che aveva appena concluso la sua carriera galante, avevano impedito al barone di pensare al povero Johann Fischer, la cui prima lettera già faceva presagire il pericolo, divenuto ora incombente. Il barone lasciò la sala da pranzo in un tale stato di agitazione, che si lasciò cadere sul canapè del salotto. Era distrutto, smarrito in un intorpidimento simile a quello provocato da una caduta violenta. Guardava fissamente un rosone del tappeto senza avvedersi di tenere in mano la fatale lettera di Johann. Dalla sua camera Adeline udì il marito che si lasciava cadere sul canapè come una massa inerte. Quel rumore fu così insolito, che ella credette a un attacco apoplettico. Guardò dalla porta nello specchio, in preda a quella paura che toglie il respiro, che fa restare immobili, e vide il suo Hector nella condizione di un uomo distrutto. La baronessa entrò in punta di piedi; Hector non sentì nulla ed ella poté avvicinarsi a lui. Scorse la lettera, la prese, la lesse e un tremito le scosse tutte le membra. Fu colta da una di quelle convulsioni nervose così violente, che il corpo ne conserva le tracce per sempre. Fu, qualche giorno dopo, soggetta a un sussultare continuo; poiché, passato quel primo momento, la necessità di agire le fece trovare quella forza che si può attingere solo alle più profonde energie vitali.
«Hector! vieni in camera mia,» disse con una voce che pareva un soffio. «Che tua figlia non ti veda così! Vieni, amico mio, vieni.»
«Dove trovare duecentomila franchi? Posso ottenere l'invio di Claude Vignon in qualità di commissario. È un ragazzo di spirito, è intelligente... È questione di due giorni... Ma duecentomila franchi, mio figlio non li ha, la sua casa è gravata da trecentomila franchi d'ipoteche. Mio fratello ha tutt'al più trecentomila franchi di risparmi. Nucingen si prenderebbe beffa di me!... Vauvinet?... mi ha accordato con malagrazia diecimila franchi per completare la somma che ho dato per il figlio dell'infame Marneffe. No, non c'è scampo; bisogna ch'io vada a gettarmi ai piedi del maresciallo, a confessargli come stanno le cose, a sentirmi dire che sono una canaglia, a ricevere la sua bordata per sprofondare decentemente.»
«Ma, Hector, non si tratta più solamente della rovina, è il disonore!» disse Adeline. «Il mio povero zio si ucciderà. Uccidi pure noi, ne hai il diritto, ma non essere un assassino! Riprendi coraggio; ci saranno pure delle vie d'uscita.»
«Nessuna!» disse il barone. «Nessuno, nel governo, può trovare duecentomila franchi, anche se si trattasse di salvare un ministero!... Oh Napoleone, dove sei?»
«Mio zio! Pover'uomo! Hector, non si può lasciare che si uccida disonorato!»
«Ci sarebbe, sì, un modo per venirne fuori,» disse Hulot; «ma... è molto rischioso... Sì, Crevel è ai ferri corti con sua figlia... Ah! egli ha molto denaro, lui solo potrebbe...»
«Senti, Hector, è preferibile che perisca tua moglie anziché lasciar perire nostro zio, tuo fratello, e l'onore della famiglia!» disse la baronessa illuminata da una luce improvvisa. «Sì, posso salvarvi tutti... Oh, mio Dio! che ignobile pensiero! come ha potuto venirmi?»
Giunse le mani, cadde in ginocchio e disse una preghiera. Alzandosi, vide una così folle espressione di gioia sul viso di suo marito, che il pensiero diabolico ritornò, e allora Adeline rimase inebetita.
«Va', amico mio, corri al ministero,» esclamò svegliandosi da quel torpore, «cerca di inviare un commissario, è necessario. Circuisci il maresciallo! E, al tuo ritorno, alle cinque, troverai forse... sì! troverai duecentomila franchi. La tua famiglia, il tuo onore di uomo, di consigliere di Stato, di amministratore, la tua probità, tuo figlio, tutto sarà salvato, ma la tua Adeline sarà perduta, e non la rivedrai più. Hector, amico mio,» disse inginocchiandosi, stringendogli la mano e baciandogliela, «benedicimi, dimmi addio!»
Fu una cosa così straziante, che prendendo sua moglie, sollevandola e abbracciandola, Hulot le disse:
«Non ti capisco!»
«Se tu capisti,» riprese lei, «morirei di vergogna, o non avrei più la forza di compiere quest'ultimo sacrificio.»
«La signora è servita,» annunciò Mariette.
Hortense venne ad augurare il buongiorno al padre e alla madre. Bisognò andare a colazione e mostrare volti mendaci.
«Andate a colazione senza di me, vi raggiungerò!» disse la baronessa. Si mise al suo scrittoio e scrisse:

«Mio caro signor Crevel, ho un favore da chiedervi. Vi aspetto questa mattina, e conto sulla vostra galanteria, che mi è nota, perché non mi facciate attendere troppo a lungo. La vostra devota serva,
Adeline.»

«Louise,» disse alla cameriera di sua figlia che serviva a tavola, «scendete dal portiere e consegnategli questa lettera; ditegli di portarla subito all'indirizzo indicato e di aspettare una risposta.»
Il barone, che leggeva i giornali, porse un giornale repubblicano a sua moglie indicandole un articolo e dicendole:
«Si farà in tempo?»
Ecco l'articolo, uno di quei terribili trafiletti con i quali i giornali sfumano le loro critiche politiche:

«Uno dei nostri corrispondenti ci scrive da Algeri che si sono scoperti tali abusi nel servizio di approvvigionamento della provincia d'Orano, che l'autorità giudiziaria ha ordinato un'inchiesta. Le malversazioni sono evidenti, i colpevoli sono noti. Se la repressione non sarà severa, continueremo a perdere più uomini per le concussioni che colpiscono i loro approvvigionamenti che non per il ferro degli arabi e il fuoco del clima. Aspetteremo nuove informazioni, prima di dar seguito a questo deplorevole argomento. Non ci meravigliamo più della paura che suscita l'istituzione ad Algeri di una stampa come è stata intesa dalla Carta del 1830.»

«Vado a vestirmi per andare al ministero,» disse il barone lasciando la tavola; «il tempo è troppo prezioso, c'è di mezzo la vita di un uomo a ogni minuto.»
«Oh, mamma, non ho più speranza!» disse Hortense.
E, senza poter trattenere le lacrime, tese a sua madre una copia della «Revue des beaux-Arts». La signora Hulot vide un'incisione del gruppo di Dalila del conte Steinbock, sotto la quale era scritto: Proprietà della signora Marneffe. Fin dalle prime righe, l'articolo, firmato con una V, rivelava il talento e la compiacenza di Claude Vignon.
«Povera piccola!...» disse la baronessa.
Spaventata dall'accento quasi indifferente della madre, Hortense la guardò, riconobbe l'espressione di un dolore in confronto al quale il suo doveva impallidire, e andò ad abbracciarla dicendo:
«Che cos'hai, mamma? che succede? possiamo essere più infelici di quanto siamo ora?»
«Bimba mia, mi sembra, in confronto a quello che sto soffrendo oggi, che le mie terribili sofferenze passate non siano niente. Quando non soffrirò più?»
«In cielo, mamma,» disse gravemente Hortense.
«Vieni, angelo mio, mi aiuterai a vestirmi... Ma no... non voglio che tu ti occupi di questa mia toilette. Mandami Louise.»



LXXXVI • UNA TOILETTE DIFFERENTE

Adeline, tornata in camera sua, andò a esaminarsi allo specchio. Si contemplò tristemente, con curiosità, chiedendosi:
«Sono ancora bella?... Ancora desiderabile?... Ho delle rughe?...»
Sollevò i bei capelli biondi e si scoprì le tempie... lì, tutto era fresco come in una fanciulla. Adeline andò oltre, si scoprì le spalle e fu soddisfatta; ebbe un moto d'orgoglio. La bellezza delle spalle, quando sono belle, è quella che se ne va per ultima nella donna, soprattutto quando la sua vita è stata pura. Adeline scelse con cura gli elementi della sua toilette, ma la donna pia e casta rimase castamente vestita, malgrado i suoi piccoli espedienti di civetteria. A che pro mettersi delle calze di seta grigie nuove nuove, degli scarpini di raso a forma di coturni, se ignorava totalmente l'arte di portare avanti, al momento decisivo, un grazioso piedino, facendolo sporgere di sotto al vestito sollevato quel tanto che bastava per schiudere qualche orizzonte al desiderio! Sì, indossò il suo più bell'abito di mussola a fiori dipinti, scollato e a maniche corte, ma, spaventata delle proprie nudità, coprì le sue belle braccia con delle maniche in organza leggera, velò il petto e le spalle con un fisciù ricamato. La sua pettinatura all'inglese le parve troppo vistosa, ne spense la vivacità con una graziosissima cuffietta; ma, con o senza cuffietta, avrebbe saputo trastullarsi con i suoi riccioli dorati per mettere in mostra, per far ammirare le sue mani delicatamente affusolate?... Ecco quale fu il suo belletto. La certezza del suo peccato, i preparativi di una colpa deliberata causarono a quella santa donna una febbre violenta che per un momento le rese il fulgore della giovinezza. Gli occhi brillarono, l'incarnato risplendette. Invece di assumere un'aria seducente, si scoprì in qualche modo un'aria impudica che le fece orrore. Lisbeth, insistentemente pregata da Adeline, le aveva raccontato le circostanze dell'infedeltà di Wenceslas, e la baronessa aveva allora appreso, con suo grande stupore, che in una sera, in un momento, la signora Marneffe era riuscita ad avere in suo potere l'artista ammaliato.
«Come fanno queste donne?» aveva chiesto la baronessa a Lisbeth.
Nulla eguaglia la curiosità delle donne virtuose a questo riguardo; esse vorrebbero possedere le seduzioni del vizio e rimanere pure.
«Ma esse seducono, è il loro mestiere,» aveva risposto la cugina Bette. «Quella sera Valérie era, mia cara, bella da far dannare un angelo.»
«Raccontami un po' come ha fatto.»
«Non c'è una teoria, c'è solo la pratica in quel mestiere,» aveva detto beffardamente Lisbeth.
La baronessa, ricordando quella conversazione, avrebbe voluto consultare la cugina Bette; ma il tempo mancava. La povera Adeline, incapace di inventarsi un finto neo, di mettersi un bocciolo di rosa nel bel mezzo del corsetto, di escogitare gli stratagemmi da toilette destinati a risvegliare negli uomini certi desideri sopiti, si limitò a vestirsi con molta cura. Non si può diventare cortigiana solo volendolo! «La donna è il cibo degli uomini,» ha detto scherzosamente Molière per bocca del giudizioso Gros-René. Questo paragone presuppone, in amore, una sorta di scienza culinaria! La donna virtuosa e degna sarebbe allora il pasto omerico, la carne buttata sui carboni ardenti. La cortigiana, al contrario, sarebbe l'opera di Carême con i suoi condimenti, le sue spezie e le sue ricercatezze. La baronessa non poteva, non sapeva servire il suo bianco seno in un magnifico piatto di merletto, alla maniera della signora Marneffe. Ignorava il segreto di certi atteggiamenti, l'effetto di certi sguardi. Insomma, non aveva la sua arma segreta.
Anche se si fosse girata e rigirata cento volte, la nobile donna non avrebbe saputo offrire nulla all'occhio esperto del libertino.
Essere una donna onesta, e affettatamente pudica per la gente, e farsi cortigiana per il proprio marito, vuol dire essere una donna di genio, e ve ne sono poche. Qui sta il segreto di lunghi legami, inspiegabili per le donne che siano prive di quelle duplici e magnifiche facoltà. Immaginate la signora Marneffe virtuosa!... Avrete la marchesa di Pescara! Quelle grandi e illustri donne, quelle belle Diane de Poitiers virtuose, si contano sulle dita di una mano.
La scena con la quale inizia questo serio e terribile studio di costumi parigini stava dunque per riprodursi con la singolare differenza che le miserie profetizzate dal capitano della milizia borghese ne scambiavano i ruoli. La signora Hulot aspettava Crevel con le intenzioni che questi aveva quando, sorridendo ai parigini dall'alto del suo «milord», era venuto da lei tre anni prima. Infine, cosa strana! la baronessa era fedele a se stessa, al suo amore, mentre si preparava ad abbandonarsi alla più volgare delle infedeltà, quella che neanche il turbine di una passione giustifica agli occhi di certi giudici.
«Come fare per essere una signora Marneffe?» si disse sentendo suonare alla porta.
Trattenne le lacrime, la febbre animò i suoi tratti; si ripromise, la povera e nobile creatura, di essere proprio una cortigiana!
«Che diavolo vorrà da me quella brava baronessa Hulot?» diceva fra sé Crevel salendo lo scalone. «Ah! Be', mi parlerà del mio dissidio con Célestine e Victorin; ma non mi piegherò!...»
E, mentre Louise lo introduceva nel salotto, si disse guardando la nudità del locale (come diceva Crevel):
«Povera donna!... È proprio come quei bei quadri messi in soffitta da un uomo che non si intende di pittura.»
Crevel, che vedeva il conte Popinot, ministro del Commercio, comprare dei quadri e delle statue, voleva rendersi celebre fra i mecenati parigini, il cui amore per le arti consiste nel comprare per venti soldi delle opere da venti franchi.



LXXXVII • UNA CORTIGIANA SUBLIME

Adeline sorrise graziosamente a Crevel indicandogli una sedia davanti a sé.
«Eccomi ai vostri ordini, bella signora,» disse Crevel.
Il signor sindaco, diventato uomo politico, aveva adottato il panno nero. La sua faccia appariva su quel vestito come una luna piena dominante una cortina di nubi scure. La camicia, costellata di tre grosse perle da cinquecento franchi ciascuna, dava un alto concetto delle sue capacità... toraciche, ed egli diceva: «Si vede in me il futuro atleta della tribuna!»
Le sue larghe mani plebee portavano guanti gialli fin dal mattino. Gli stivali di vernice dimostravano che egli era arrivato là in un piccolo coupé scuro tirato da un cavallo. Da tre anni, l'ambizione aveva modificato la posa di Crevel. Come i grandi pittori, era giunto alla sua seconda maniera. Nel gran mondo, quando andava dal principe di Wissembourg, alla prefettura, dal conte Popinot ecc., teneva il cappello in mano in una certa maniera disinvolta che gli aveva insegnato Valérie, e infilava il pollice dell'altra mano nel giro della manica del gilè con un'aria civettuola, facendo smorfie con la testa e con gli occhi. Quest'altra messa in posa era dovuta alla beffarda Valérie, che col pretesto di ringiovanire il suo sindaco, l'aveva arricchito di un atteggiamento ridicolo in più.
«Vi ho pregato di venire, mio buono e caro signor Crevel,» disse la baronessa con voce turbata, «per un affare della più grande importanza...»
«Lo posso indovinare, signora,» disse Crevel con aria furbesca; «ma voi chiedete l'impossibile... Oh! io non sono un padre barbaro, un uomo, secondo l'espressione di Napoleone, tutto di un pezzo nella propria avarizia. Ascoltatemi, bella signora. Se i miei ragazzi si rovinassero per colpa loro, andrei in loro soccorso; ma garantire per vostro marito, signora?... è come voler riempire la botte delle Danaidi! Una casa ipotecata per trecentomila franchi per un padre incorreggibile! Non hanno più niente, miserabili! e non si sono divertiti! avranno ora per vivere quello che Victorin riuscirà a guadagnare al Tribunale. Che ‹chiacchieri› pure il vostro signor figlio!... Ah! doveva essere ministro, quel dottorino! la speranza di tutti noi. Bel rimorchiatore che s'insabbia stupidamente, perché, se chiedesse dei prestiti per arrivare, se si indebitasse per aver fatto festa insieme con i deputati, per ottenere dei voti e aumentare la sua influenza, io gli direi: ‹Ecco la mia borsa, pesca pure, amico mio!› Ma pagare le follie del padre, le follie che vi avevo predetto! Ah! suo padre l'ha respinto lontano dal potere... Sono io che sarò ministro...»
«Ohimè! Caro Crevel, non si tratta dei nostri figlioli, poveri, generosi ragazzi!... Se il vostro cuore si chiude per Victorin e Célestine, io li amerò tanto che forse potrò addolcire l'amarezza di cui la vostra collera empie le loro belle anime. Voi punite i vostri figli per una buona azione.»
«Sì, per una buona azione mal fatta! è un mezzo delitto!» disse Crevel, tutto soddisfatto di quella frase.
«Fare il bene, mio caro Crevel,» riprese la baronessa, «non è prendere il denaro da una borsa che ne trabocca! è patire delle privazioni a causa della propria generosità, è soffrire per il proprio beneficio, aspettarsi l'ingratitudine! La carità che non costa nulla, il cielo l'ignora...»
«È permesso, signora, ai santi andare all'ospizio; sanno che per loro è la porta del cielo. Io sono un uomo di mondo; temo Dio, ma temo ancora più l'inferno della miseria. Essere senza quattrini è il massimo della sciagura nel nostro attuale ordine sociale. Io sono un uomo del mio tempo, onoro il denaro!...»
«Avete ragione,» disse Adeline, «dal punto di vista del mondo.»
Si trovava lontana mille miglia dall'argomento e si sentiva, come san Lorenzo, su una graticola di carboni ardenti, pensando a suo zio; perché lo vedeva spararsi un colpo di pistola. Abbassò gli occhi, poi li levò su Crevel, pieni d'angelica dolcezza, e non di quella provocante lussuria, così eccitante in Valérie. Tre anni prima avrebbe affascinato Crevel, con quell'adorabile sguardo.
«Vi ho conosciuto,» disse, «più generoso... parlavate di trecentomila franchi come ne parlano i gran signori...»
Crevel guardò la signora Hulot, la vide come un giglio sul finire della fioritura, ebbe qualche vaga idea; ma onorava tanto quella santa creatura, che respinse quei sospetti nella parte libertina del suo cuore.
«Signora, io sono sempre lo stesso, ma un ex negoziante è e deve essere gran signore con metodo, con economia; egli porta in ogni cosa le sue idee d'ordine. Si apre un conto alle scappatelle, si accreditano, si consacrano a quel capitolo certi profitti; ma intaccare il proprio capitale!... sarebbe una follia. I miei figlioli avranno tutti i loro beni: quelli della loro madre e i miei; ma certamente non vogliono che il loro padre si annoi, si faccia monaco e si mummifichi!... La mia vita è gaia! io discendo allegramente il fiume. Adempio a tutti i doveri che mi impongono le leggi, gli affetti e la famiglia, nello stesso modo in cui saldavo scrupolosamente le mie cambiali al momento della scadenza. Che i miei figlioli si comportino come me nella mia famiglia; ne sarò felice; e, quanto al presente, purché le mie follie - poiché ne faccio - non costino niente a nessuno se non ai ‹gonzi›... (scusate! voi non conoscete questa parola del gergo della Borsa), essi non avranno nulla da rimproverarmi, e troveranno ancora un bel patrimonio alla mia morte. I vostri figli non potranno dire altrettanto del loro padre che fa carambola portando alla rovina suo figlio e mia figlia...»
Più andava avanti, e più la baronessa si allontanava dalla sua meta...
«Voi ce l'avete molto con mio marito, mio caro Crevel, eppure sono certa che sareste il suo migliore amico, se aveste trovato debole sua moglie...»
Lanciò su Crevel un'occhiata bruciante. Ma fece allora come Dubois, che dava troppi calci sotto la tavola al Reggente; si scoprì troppo e le idee libertine tornarono così bene in mente al profumiere-stile Reggenza, che egli si disse:
«Che voglia vendicarsi di Hulot?... che mi trovi meglio da sindaco che da guardia nazionale?... Le donne sono così bizzarre!»
E si mise in posa nella seconda maniera, guardando la baronessa con la sua aria Reggenza.
«Si direbbe,» continuò lei, «che vi prendiate la rivincita su di lui per una virtù che vi ha resistito, la virtù di una donna che amavate abbastanza... per... comprarla,» aggiunse a voce bassa.
«Di una donna divina,» riprese Crevel sorridendo significativamente alla baronessa, che abbassò gli occhi, le cui ciglia si bagnarono di lacrime; «perché ne avete ingoiati dei rospi... da tre anni... eh, bella mia?»
«Non parliamo delle mie sofferenze, caro Crevel! sono al di sopra delle forze di una creatura umana. Ah! se mi amaste ancora, potreste tirarmi fuori dall'abisso in cui mi trovo! Sì, sono nell'inferno! I regicidi che venivano attanagliati, che venivano tirati da quattro cavalli, erano su delle rose in confronto a me, poiché era il loro corpo, che veniva smembrato, e io, invece, ho il cuore tirato da quattro cavalli!...»
La mano di Crevel abbandonò il giro della manica del gilè; egli posò il cappello sul tavolino da lavoro e abbandonò la sua posa. Sorrideva! Quel sorriso fu così vacuo che la baronessa lo fraintese e credette a una espressione di bontà.
«Voi vedete una donna, non alla disperazione, ma all'agonia dell'onore, e determinata a tutto, amico mio, pur di impedire dei crimini...»
Temendo che Hortense potesse entrare, mise il paletto alla porta; poi, con lo stesso slancio, si gettò ai piedi di Crevel, gli prese la mano e la baciò.
«Siate,» disse, «il mio salvatore!»
Ella immaginò delle fibre generose in quel cuore di negoziante, e fu colta dalla speranza, che brillò improvvisa, di ottenere i duecentomila franchi senza disonorarsi.
«Comprate un'anima, voi che volevate comprare una virtù!...» riprese lanciandogli uno sguardo folle. «Abbiate fiducia nella mia probità di donna, nel mio onore, la cui saldezza vi è nota! Siatemi amico! Salvate una famiglia intera dalla rovina, dalla vergogna, dalla disperazione, impeditele di affondare in un pantano dove la melma sarà fatta di sangue! Oh! non chiedetemi spiegazioni!...» fece a un gesto di Crevel, che voleva parlare. «Soprattutto non ditemi: ‹Ve l'avevo predetto!› come gli amici felici di una sventura. Ecco!... Obbedite a quella che voi amavate, il cui abbassarsi ai vostri piedi è forse il colmo della nobiltà; non domandatele niente, aspettate tutto dalla sua riconoscenza!... No, non date niente; ma prestatemi, prestate a quella che voi chiamavate Adeline!...»
A questo punto le lacrime arrivarono con tale abbondanza, Adeline singhiozzò talmente, che bagnò i guanti di Crevel. Le parole: «Mi occorrono duecentomila franchi!...» furono appena distinguibili nel torrente di lacrime, così come le pietre, per quanto grosse siano, si distinguono appena nelle cascate alpestri allo sciogliersi delle nevi.
Tale è l'inesperienza della virtù! Il vizio non chiede nulla, come si è visto con la signora Marneffe, si fa offrire tutto. Le donne di quella specie diventano esigenti solo quando si sono rese indispensabili, o quando si tratta di sfruttare un uomo allo stesso modo che si sfrutta una cava in cui il gesso diventa raro, una cava in rovina, dicono i cavapietre. Udendo quelle parole: «duecentomila franchi!» Crevel capì tutto. Con gesto galante risollevò la baronessa, dicendole questa frase insolente: «Su, stiamo calmi, cara la mia donna», una frase che nel suo smarrimento Adeline non sentì. Dopo quel cambiamento di scena, Crevel diventava, secondo il suo modo di dire, padrone della situazione.



LXXXVIII • CREVEL PREDICA

L'enormità della somma fece un tale effetto su Crevel, che la sua viva emozione, nel vedere ai suoi piedi quella bella donna in lacrime, svanì. Poi, per quanto angelica e santa sia una donna, quando piange a calde lacrime, la sua bellezza scompare. Le signore Marneffe, come s'è visto, piagnucolano a volte, lasciano che una lacrima scivoli lungo le loro gote; ma struggersi in lacrime, arrossarsi gli occhi e il naso, questo no!... non commettono mai questo errore.
«Su, figliola mia, un po' di calma, perdinci!» riprese Crevel prendendo le mani della bella signora Hulot fra le sue e dandovi qualche colpetto. «Perché mi chiedete duecentomila franchi? Che volete farne? Per chi sono?»
«Non esigete da me nessuna spiegazione,» gli rispose, «datemeli!... Avrete salvato la vita di tre persone e l'onore dei nostri figli.»
«E voi credete, cara la mia donna,» disse Crevel, «che troverete in Parigi un uomo che, sulla parola di una donna più o meno matta», vada a prendere hic et nunc in un cassetto, o in qualsiasi altro posto, duecentomila franchi che se ne stanno là buoni, in attesa che lei si degni di portarli via?... Non conoscete davvero la vita, gli affari, bella mia!... Quei vostri parenti sono malati gravi, mandategli i sacramenti, poiché nessuno a Parigi, a eccezione di sua altezza divina la signora Banca, l'illustre Nucingen o qualche avaro insensato innamorato dell'oro, come noi altri lo siamo di una donna, può compiere un simile miracolo! La lista civile, per quanto civile essa sia, la lista civile stessa vi pregherebbe di ripassare domani. Tutti fanno fruttare il loro denaro e lo maneggiano come meglio credono. Voi vi illudete, caro angelo, se credete che sia il re Luigi Filippo a regnare. Quanto a lui, non si fa illusioni a questo riguardo: sa, come tutti noi, che al di sopra della Carta c'è la santa, la venerata, la solida, l'amabile, la graziosa, la bella, la giovane, l'onnipotente moneta da cinque franchi! Ora, angelo mio bello, il denaro esige degli interessi e cerca sempre di riscuoterli. ‹Dio degli ebrei, tu trionferai,› ha detto il grande Racine. Insomma, è l'eterna allegoria del Vitello d'oro!... Al tempo di Mosè, si praticava l'aggiotaggio nel deserto! Siamo ritornati ai tempi biblici! Il Vitello d'oro è stato il primo libro mastro che si sia conosciuto,» riprese. «Voi, mia cara Adeline, vivete un po' troppo in rue Plumet! Gli egiziani dovevano dei prestiti enormi agli ebrei e non correvano dietro al popolo di Dio, bensì a dei capitali.» Guardò la baronessa con un'aria che voleva dire: «Ho dello spirito, vero!»
«Voi ignorate l'amore di tutti i cittadini per il loro gruzzolo!» riprese dopo quella pausa. «Scusate. Ascoltatemi bene! Afferrate questo ragionamento. Volete duecentomila franchi?... Nessuno può darli senza cambiare degli investimenti che sono stati fatti. Calcolate!... Per avere duecentomila franchi di denaro sonante bisogna vendere circa settemila franchi di titoli al tre per cento. Ebbene, non avrete il vostro danaro che in capo a due giorni. Questa è la via più rapida. Per decidere qualcuno a disfarsi di un capitale, poiché rappresentano tutti i beni di molta gente duecentomila franchi! bisogna pur dirgli dove tutto quel denaro va a finire, qual è il motivo...»
«Si tratta, mio caro e buon Crevel, della vita di due uomini, di cui uno morirà di dolore e l'altro si ucciderà! Infine si tratta di me che diventerò pazza! Non lo sono già un po'?»
«Non tanto pazza!» disse egli prendendo la signora Hulot per le ginocchia; «papà Crevel vale pur qualcosa, poiché ti sei degnata di pensare a lui, angelo mio.»
«Sembra che bisogni lasciarsi prendere le ginocchia!» pensò la santa e nobile donna nascondendosi il viso fra le mani. «Un tempo mi offrivate un capitale!» disse arrossendo.
«Ah! cara la mia donna, tre anni fa!...» riprese Crevel. «Oh! siete più bella di quanto non vi abbia mai vista!» esclamò poi afferrando il braccio della baronessa e stringendoselo al cuore. Avete una buona memoria, cara figliola, perdinci se l'avete! Be', vedete quanto avete avuto torto a fare la santarellina! perché i trecentomila franchi che avete nobilmente rifiutati sono nella scarsella di un'altra. Vi amavo e vi amo ancora; ma riportiamoci a tre anni fa. Quando vi dicevo: ‹Vi avrò!›, qual era il mio disegno? Volevo vendicarmi di quello scellerato di Hulot. Ora, vostro marito, bella mia, ha preso per amante un gioiello di donna, una perla, una piccola furbacchiona che aveva allora ventitré anni, poiché ne ha ventisei oggi. Ho trovato più divertente, più completo, più Luigi xv, più maresciallo di Richelieu, più piccante soffiargli questa creatura affascinante, che, del resto, non ha mai amato Hulot e che da tre anni va pazza per il vostro umile servitore...»
Nel dire queste cose, Crevel, dalle cui mani la baronessa aveva ritirate le proprie, si era rimesso in posa. Si teneva gli scalfi delle maniche e si batteva il petto con le mani, come con due ali, credendo di rendersi così desiderabile e affascinante. Sembrava dire: «Questo è l'uomo che avete messo alla porta!»
«Ecco, mia cara figliola, mi sono vendicato, vostro marito l'ha saputo! Gli ho categoricamente dimostrato che era stato ‹turlupinato› o, come diciamo nel nostro ambiente, ‹ricambiato alla pari›... La signora Marneffe è la ‹mia› amante, e, se il signor Marneffe creperà, sarà mia moglie...»
La signora Hulot guardava Crevel con occhi fissi e quasi smarriti.
«Hector ha saputo questo!» disse.
«Ed è tornato da lei!» rispose Crevel, «e io l'ho tollerato, perché Valérie voleva essere la moglie di un capufficio; ma mi ha giurato di sistemare le cose in modo che il nostro barone sia così ben messo nel sacco, che non si rifarà più vivo. E la mia piccola duchessa (perché è nata duchessa quella donna lì, parola d'onore!) ha mantenuto la parola. Vi ha restituito, signora, come dice lei in modo così spiritoso, il vostro Hector virtuoso per l'eternità!... La lezione è stata buona, bisogna convenirne! il barone ne ha vedute delle belle; non manterrà più né ballerine né donne per bene; è guarito completamente, poiché ha avuto una risciacquata come un bicchiere di birra. Se voi aveste ascoltato Crevel invece di umiliarlo, di metterlo alla porta, avreste quattrocentomila franchi, poiché la mia vendetta mi costa proprio quella somma lì. Ma ritroverò i miei soldi, spero, alla morte di Marneffe... Ho investito sulla mia futura sposa. È il segreto delle mie prodigalità. Ho risolto il problema di essere gran signore a buon mercato.»
«E darete una simile matrigna a vostra figlia?...» esclamò la signora Hulot.



LXXXIX • DOVE LA FALSA CORTIGIANA SI RIVELA UNA SANTA

«Voi non conoscete Valérie, signora,» rispose gravemente Crevel, che si mise in posa nella sua prima maniera. «È insieme una donna bennata, una donna come si deve e una donna che gode della più alta considerazione. Guardate, ieri, il vicario della parrocchia era a pranzo da lei. Abbiamo regalato, poiché lei è devota, un superbo ostensorio per la chiesa. Oh! è abile, intelligente, deliziosa, istruita, ha tutte le virtù. Quanto a me, cara Adeline, debbo tutto a questa donna affascinante: ha ingentilito il mio animo, epurato, come vedete, il mio linguaggio; corregge le mie battute di spirito, mi arricchisce di parole e di idee. Non dico più nulla di sconveniente. Si vedono dei grandi cambiamenti in me, dovete averlo notato. Infine ha risvegliato la mia ambizione. Se sarò deputato, non farò spropositi, perché consulterò la mia Egeria nelle più piccole cose. I grandi uomini politici, Numa, lo stesso nostro illustre ministro, hanno tutti la loro sibilla d'icuma. Valérie riceve una ventina di deputati, sta diventando molto influente, e, ora che si troverà in una deliziosa palazzina con carrozza, sarà una delle sovrane occulte di Parigi. È una formidabile locomotiva una donna così! Ah! Quante volte vi ho ringraziata del vostro rigore!...»
«Questo farebbe dubitare della virtù di Dio,» disse Adeline, alla quale l'indignazione aveva fatto asciugare le lacrime. «Ma no, la giustizia divina deve scendere su quella testa!...»
«Voi ignorate il mondo, bella signora,» riprese il grande politico Crevel, profondamente offeso. «La gente, cara Adeline, ama il successo! Ecco, viene forse a cercare la vostra sublime virtù, la cui tariffa è di duecentomila franchi?»
Quelle parole fecero rabbrividire la signora Hulot, che fu ripresa dal suo tremito nervoso. Comprese che l'ex profumiere si vendicava di lei ignobilmente, come si era vendicato di Hulot; tale fu il suo disgusto che il cuore le si contrasse, serrandole la gola e impedendole di parlare.
«Il denaro!... sempre il denaro!» disse infine.
«Mi avete molto commosso,» riprese Crevel richiamato da quelle parole all'umiliazione della donna, «quando vi ho vista lì, piangente ai miei piedi!... Ecco, voi forse non mi crederete... Be', se avessi avuto il mio portafogli, sarebbe stato vostro. Vediamo, vi occorre quella somma?...»
Udendo quella frase che faceva intravedere duecentomila franchi, Adeline dimenticò le abominevoli ingiurie di quel gran signore da poco, di fronte alla lusinga di successo così machiavellicamente presentata da Crevel, che voleva soltanto penetrare nei segreti di Adeline per riderne con Valérie.
«Ah! farò tutto!» esclamò l'infelice donna. «Signore, mi venderò... diventerò, se è necessario, una Valérie.»
«Questo vi sarebbe difficile,» rispose Crevel. «Valérie tocca il sublime in questo genere. Cara la mia donna, venticinque anni di virtù lasciano sempre una traccia, come una malattia mal curata. E la vostra virtù ha fatto la muffa qui, cara figliola. Ma vi accorgerete fino a che punto vi amo. Vi farò avere i vostri duecentomila franchi.»
Adeline prese la mano di Crevel, se la mise sul cuore, senza poter articolare una parola, e lacrime di gioia bagnarono le sue palpebre.
«Oh! aspettate! ci saranno delle difficoltà da superare! Io sono un buontempone, un bonaccione, senza pregiudizi, e ora vi dirò le cose come stanno, in tutta semplicità. Volete fare come Valérie, bene. Questo però non basta, ci vuole un merlo, un azionista, un Hulot. Conosco un grosso droghiere che si è ritirato da questa attività: anzi è anche un negoziante in maglieria. È goffo, ottuso, senza idee; sto formandolo, ma non so quando potrà farmi onore. Il mio uomo è deputato, stupido e vanitoso; conservato, dalla tirannia di una specie di moglie che porta il turbante, nel profondo della provincia, nella più completa verginità per quanto riguarda il lusso e i piaceri della vita parigina; ma Beauvisage (si chiama Beauvisage) è milionario, e darebbe, proprio come li avrei dati io tre anni fa, cara bambina, centomila scudi per essere amato da una donna come si deve... Sì,» aggiunse, credendo di aver bene interpretato il gesto che fece Adeline, «è geloso di me, vedete!... geloso della mia felicità con la signora Marneffe, ed è capace, il nostro uomo, di vendere una proprietà per essere proprietario di una...»
«Basta, signor Crevel!» disse la signora Hulot non riuscendo più a mascherare il suo disgusto e lasciando apparire sul volto tutta la sua vergogna. «Ora sono punita al di là del mio peccato. La mia coscienza, così violentemente contenuta dalla mano di ferro della necessità, mi grida a quest'ultimo insulto, che tali sacrifici sono impossibili. Non ho più fierezza, non mi corruccio più come una volta, non vi dirò: ‹Uscite!› dopo aver ricevuto questo colpo mortale. Ne ho perduto il diritto: mi sono offerta a voi come una prostituta... Sì,» riprese rispondendo a un gesto di diniego, «ho insozzato la mia vita, finora pura, con un'intenzione ignobile; e... sono senza scuse, lo sapevo!... merito tutte le ingiurie con cui mi schiacciate! Che la volontà di Dio sia fatta! Se vuole la morte di due esseri degni di andare da lui, che muoiano; io li piangerò e pregherò per loro! Se vuole l'umiliazione della nostra famiglia, pieghiamoci sotto la spada vendicatrice, e baciamola, da cristiani che siamo! So come espiare questa vergogna di un attimo che sarà il tormento di tutti i miei ultimi giorni. Non è più la signora Hulot, signore, che vi parla; è la povera, l'umile peccatrice, la cristiana il cui cuore non avrà più che un sentimento, il pentimento, e che dedicherà tutta la sua vita alla preghiera e alla carità. Non posso essere che l'ultima delle donne e la prima delle pentite: tale è la gravità della mia colpa. Voi siete stato lo strumento del mio ritorno alla ragione, alla voce di Dio che ora parla in me. Vi ringrazio!»
Tremava di quel tremito che, da quel momento, non doveva abbandonarla più. La sua voce piena di dolcezza contrastava con il parlare febbrile della donna decisa al disonore per salvare una famiglia. Il sangue abbandonò le sue gote, divenne bianca e gli occhi le si asciugarono.
«Del resto, recitavo molto male la mia parte, non è vero?» riprese mentre guardava Crevel con la dolcezza che i martiri dovevano mettere nei loro occhi quando li posavano sul proconsole. «L'amore vero, l'amore santo e devoto di una donna conosce altri piaceri da dare, piaceri diversi da quelli che si comprano al mercato della prostituzione!... Perché queste parole?» disse tornando a se stessa e facendo un passo di più sulla via della perfezione; «sanno d'ironia e io non ne ho punta! Perdonatemele. Del resto, signore, forse non ho voluto ferire che me stessa...»
La maestà della virtù, la sua luce celeste, avevano spazzato via l'impurità passeggera della donna, che, risplendente della bellezza che le era propria, apparve nobilitata davanti agli occhi di Crevel. Adeline fu in quel momento sublime come quelle figure della religione, sorrette da una croce, dipinte dagli antichi maestri veneziani; ella esprimeva tutta la grandezza della sua sventura e quella della chiesa cattolica, nella quale si rifugiava con un volo di colomba ferita. Crevel fu abbagliato, stordito.
«Signora, sono ai vostri ordini senza condizioni!» disse in uno slancio di generosità. «Ora esamineremo l'affare, e... cosa volete?... Ecco! l'impossibile?... lo farò. Depositerò dei titoli alla banca e, fra due ore, avrete il vostro denaro!...»
«Mio Dio, che miracolo!» disse la povera Adeline gettandosi in ginocchio.
Recitò una preghiera con una umiltà che commosse così profondamente Crevel, che la signora Hulot gli vide le lacrime agli occhi, quando, finita la preghiera, si rialzò.
«Siatemi amico, signore!...» gli disse. «Voi avete l'anima migliore della condotta e della parola. Dio vi ha dato l'anima, il mondo le idee e le passioni! Oh! vi vorrò tanto bene!» esclamò con un ardore angelico la cui espressione contrastava in modo singolare con le sue piccole insignificanti civetterie.
«Non tremate più così,» disse Crevel.
«Tremo?» domandò la baronessa, che non si accorgeva di quella infermità sopraggiunta così improvvisamente.
«Sì, ecco, vedete,» disse Crevel prendendo il braccio di Adeline e dimostrandole che aveva un tremito nervoso. «Su, signora,» riprese con rispetto, «calmatevi, vado alla banca...»
«Ritornate presto! Pensate, amico mio,» disse lei rivelando i suoi segreti, «che si tratta di impedire il suicidio del mio povero zio Fischer, compromesso da mio marito. Ora ho fiducia in voi: per questo vi dico tutto! Ah! se non arriveremo in tempo, posso immaginare quello che succederà; conosco il maresciallo; ha l'animo così sensibile, che in pochi giorni ne morirebbe.»
«Vado, allora,» disse Crevel baciando la mano alla baronessa. «Ma che ha dunque fatto quel povero Hulot?»
«Ha rubato allo Stato!»
«Ah! Dio mio... Corro, signora, vi capisco, vi ammiro...»
Crevel piegò un ginocchio, baciò la veste della signora Hulot e scomparve dicendo:
«A presto.»



XC • UN'ALTRA CAMPANA

Disgraziatamente, da rue Plumet per andare a casa sua a prendere dei titoli, Crevel passò per rue Vanneau, e non poté resistere al piacere di andare a far visita alla sua piccola duchessa. Arrivò col viso ancora sconvolto. Entrò in camera di Valérie e la trovò che si faceva pettinare. Ella esaminò Crevel nello specchio e, come tutte le donne di quel genere, fu contrariata, prima ancora di saper qualcosa, nel vederlo tutto preso da una forte emozione della quale ella non era la causa.
«Che avete, mio caro?» disse a Crevel. «È così che entrate in casa della vostra piccola duchessa? Se anche non fossi più una duchessa per voi, signore, sono sempre la vostra gattina, vecchio mostro!»
Crevel rispose con un sorriso triste e indicò Reine.
«Reine, ragazza mia, basta per oggi, finirò di pettinarmi da me. Dammi la veste da camera in tessuto cinese, poiché il mio signore mi sembra strano come un cinese.» Reine, una ragazza dal viso bucherellato come un colabrodo, e che sembrava fatta apposta per Valérie, scambiò un sorriso con la sua padrona, e portò la veste da camera. Valérie si tolse la mantellina: era in camicia. Si infilò nella veste da camera come una biscia nel suo cespuglio d'erba.
«La signora non è in casa per nessuno?»
«Che domanda!» disse Valérie. «Su, di', gattone mio, la ‹Riva sinistra› è scesa?»
«No.»
«La palazzina è rincarata?»
«No.»
«Non ti credi il padre del tuo piccolo Crevel?»
«Che sciocchezza!» replicò l'uomo sicuro di essere amato.
«In fede mia, non ci capisco più niente!» disse la signora Marneffe. «Quando devo tirar fuori i dispiaceri dal cuore di un amico come si tirano i tappi dalle bottiglie di Champagne, lascio perdere tutto... vattene, mi fai...»
«Non è nulla,» disse Crevel. «Mi occorrono duecentomila franchi fra due ore.»
«Oh, li troverai! Guarda, non ho adoperato i cinquantamila franchi del verbale di Hulot; e poi posso chiedere cinquantamila franchi a Henri!»
«Henri! sempre Henri!...» esclamò Crevel.
«E tu credi, grosso Machiavelli in erba, che congederei Henri? Forse che la Francia disarma la sua flotta?... Henri, ma è il pugnale appeso dentro la sua guaina a un chiodo. Quel ragazzo,» disse lei, «mi serve per sapere se tu mi ami... E tu non mi ami, questa mattina.»
«Non ti amo, Valérie?» disse Crevel, «ti amo come un milione!»
«Non è abbastanza!...» riprese lei saltando sulle ginocchia di Crevel e passandogli le due braccia al collo come intorno a un piolo per attaccarvisi. «Voglio essere amata come dieci milioni, come tutto l'oro della terra, e ancora di più. Mai Henri resterebbe cinque minuti senza dirmi quello che ha sul cuore! Su, che cos'hai, scioccone? Facciamo la nostra piccola confessione... Diciamo tutto e subito alla vostra piccola gattina!»
E sfiorò il viso di Crevel con i suoi capelli, torcendogli il naso con le dita.
«Chi può avere un naso come questo e tenere un segreto per la sua Vava... lélé... ririe!...»
Vava, e il naso andava a destra; lélé, era a sinistra; ririe, lo rimise a posto.
«Ebbene, ho visto poco fa...»
Crevel s'interruppe e guardò la signora Marneffe.
«Valérie, gioia mia, mi prometti sul tuo onore..., sai, il nostro, di non ripetere una sola parola di ciò che sto per dirti?...»
«Intesi, sindaco! Si alza la mano, ecco!... e il piede!»
E si atteggiò in modo da rendere Crevel, come ha detto Rabelais, scalzato dal cervello fino ai talloni, tanto fu buffa e sublime di nudità visibile attraverso le nebbie della batista.
«Ho appena veduto la disperazione della virtù!...»
«Ha della virtù, la disperazione?» disse lei scuotendo la testa e incrociando le braccia alla Napoleone.
«Si tratta della povera signora Hulot: le occorrono duecentomila franchi! se no, il maresciallo e il vecchio Fischer si fanno saltare le cervella; e, poiché tu sei un po' la causa di tutto ciò, mia piccola duchessa, riparerò al male. Oh! è una santa donna, la conosco, mi restituirà tutto.»
Alla parola Hulot, e ai duecentomila franchi, Valérie ebbe uno sguardo che balenò, come il lampo del cannone attraverso il suo stesso fumo, fra le sue lunghe palpebre.
«Che ha fatto la vecchia per impietosirti? Ti ha mostrato, che cosa? la sua... la sua... religione?...»
«Non burlarti di lei, amor mio, è una santa, nobile e pia donna, degna di rispetto!...»
«Non sono dunque degna di rispetto, io?» disse Valérie guardando Crevel con aria truce.
«Non dico questo,» rispose Crevel comprendendo quanto l'elogio della virtù dovesse ferire la signora Marneffe.
«Anch'io sono pia,» disse Valérie andando a sedere su una poltrona; «ma non ostento la mia religione, vado in chiesa senza farmi vedere.»
Rimase in silenzio e non badò più a Crevel. Crevel, straordinariamente inquieto, venne a mettersi davanti alla poltrona, dove Valérie si era lasciata sprofondare e la trovò perduta dietro i pensieri che egli aveva così scioccamente risvegliati.
«Valérie, mio piccolo angelo!...»
Silenzio profondo. Una lagrima alquanto sospetta fu asciugata furtivamente.
«Una parola, tesoro mio...»
«Signore!»
«A che pensi, amore?»
«Ah! signor Crevel, penso al giorno della mia prima comunione! Se ero bella, se ero pura! se ero santa!... immacolata!... Ah! se qualcuno fosse venuto a dire a mia madre: ‹Vostra figlia sarà una mantenuta, ingannerà suo marito. Un giorno, un commissario di polizia la troverà in una casetta, si venderà a un Crevel per tradire un Hulot, due orribili vecchi...› Puah! Che schifo!... Sarebbe morta prima della fine della frase, tanto mi amava, povera donna!...»
«Calmati!»
«Non sai quanto bisogna amare un uomo per imporre il silenzio a quei rimorsi che attanagliano il cuore di una donna adultera. Mi dispiace che Reine sia andata via; ti avrebbe detto che, questa mattina, mi ha trovato con le lacrime agli occhi mentre pregavo Dio. Io, vedete, signor Crevel, non mi burlo affatto della religione. Mi avete mai sentito dire una parola cattiva a questo riguardo?...»
Crevel fece un gesto di diniego.
«Proibisco che se ne parli davanti a me... Scherzo su tutto quel che si vuole: i re, la politica, la finanza, tutto quel che c'è di sacro per la gente, i giudici, il matrimonio, l'amore, le ragazze, i vecchi! Ma la chiesa... ma Dio!... Oh! qui io mi fermo! So bene che faccio male, che vi sacrifico il mio avvenire... E voi non sospettate nemmeno l'immensità del mio amore!»
Crevel giunse le mani.
«Ah! bisognerebbe penetrare nel mio cuore, misurarvi l'ampiezza delle mie convinzioni, per sapere tutto ciò che vi sacrifico!... sento in me la stoffa di una Maddalena. Perciò, vedete di quale rispetto circondo i preti! Contate i doni che faccio alla Chiesa! Mia madre mi ha cresciuta nella fede cattolica, e io comprendo Dio! È a noi pervertite ch'Egli parla più terribilmente.»
Valérie asciugò due lagrime che le scendevano sulle gote. Crevel ne fu spaventato; la signora Marneffe si alzò, esaltata.
«Calmati, piccioncino mio!... tu mi spaventi!»
La signora Marneffe cadde in ginocchio.
«Mio Dio! non sono cattiva!» disse giungendo le mani. «Degnatevi di raccogliere la vostra pecorella smarrita, colpitela, straziatela per riprenderla dalle mani che la rendono infame e adultera, ella si rannicchierà con gioia sulla vostra spalla! tornerà tutta felice all'ovile!»
Si alzò, guardò Crevel, e Crevel ebbe paura degli occhi spenti di Valérie.
«E poi, Crevel, sai? io ho paura, in certi momenti... La giustizia di Dio si esercita tanto in questo basso mondo che nell'altro. Cosa mi posso aspettare di buono da Dio? La sua vendetta si abbatte sul colpevole in tutti i modi; assume tutti i caratteri della sciagura. Tutte le disgrazie che gli imbecilli non sanno spiegarsi sono delle espiazioni. Ecco quel che mi diceva mia madre sul suo letto di morte, parlandomi della sua vecchiaia. E se dovessi perderti!...» aggiunse stringendo Crevel in un abbraccio di selvaggia energia,... «ah! ne morirei!»
La signora Marneffe lasciò andare Crevel, si inginocchiò di nuovo davanti alla sua poltrona, giunse le mani (e in che posa affascinante!) e recitò con un'incredibile umiltà la seguente preghiera:
«E voi, santa Valérie, mia buona patrona, perché non visitate più spesso il capezzale di colei che vi è stata affidata? Oh! venite questa sera, così come siete venuta questa mattina, a ispirarmi dei buoni pensieri, e io abbandonerò la cattiva strada; rinuncerò, come Maddalena, alle gioie fallaci, al mendace splendore del mondo, anche a quello che amo tanto!»
«Tesoruccio mio!» disse Crevel.
«Non c'è più nessun tesoruccio, signore!»
Si volse fiera come una donna virtuosa e, gli occhi umidi di lacrime, gli si mostrò dignitosa, fredda, indifferente.
«Lasciatemi,» disse respingendo Crevel. «Qual è il mio dovere?... essere di mio marito. Quell'uomo sta per morire, e che cosa faccio io? Lo inganno sull'orlo della tomba! Crede che tuo figlio sia suo... Gli dirò la verità, comincerò coll'ottenere il suo perdono prima di domandare quello di Dio. Lasciamoci!... Addio, signor Crevel!...» riprese stando in piedi e tendendo a Crevel una mano gelida. «Addio, amico mio, ci rivedremo solo in un mondo migliore... Voi mi siete debitore di certi piaceri assai colpevoli. Ora voglio... sì, avrò la vostra stima...»
Crevel piangeva a calde lacrime.
«Pezzo di citrullo!» esclamò lei con un infernale scoppio di risa; «ecco come fanno le donne pie per scroccarti duecentomila franchi! e tu che parli del maresciallo Richelieu, questo prototipo di Lovelace, ti lasci commuovere da questi trucchi del mestiere! come dice Steinbock. Te ne saprei tirar fuori io di duecentomila franchi, se volessi, grosso imbecille!... Conserva il tuo denaro! se ne hai di troppo, quel troppo mi appartiene! Se dai solo due soldi a quella rispettabile donna che si mostra così devota solo perché ha cinquantasette anni, noi non ci rivedremo mai più, e tu te la prenderai come amante: ritornerai da me l'indomani tutto indolenzito per le sue carezze angolose, e saturo delle sue lacrime, delle sue cuffiette da quattro soldi, dei suoi piagnucolii, che devono tramutare i suoi favori in acquazzoni.»
«Il fatto è,» disse Crevel, «che duecentomila franchi son soldi!...»
«Hanno buon appetito le donne pie!... Ah! perdinci! Vendono meglio i loro sermoni di quanto noi non vendiamo ciò che vi è di più raro e di più certo sulla terra, il piacere... E fanno dei romanzi! No... Ah! le conosco, ne ho viste da mia madre. Si credono tutto permesso per la Chiesa, per... Ecco, dovresti vergognarti, mio cerbiatto! Tu che sei così tirato... poiché a me non hai dato in tutto più di duecentomila franchi!»
«Ah! sì,» riprese Crevel; «solo la palazzina costerà tanto!...»
«Allora quattrocentomila franchi?» disse lei con aria distratta.
«No.»
«Bene! E così, signore, volevate prestare a quell'orrore di vecchia i duecentomila franchi della palazzina? Ecco un crimine contro il tuo tesoruccio!...»
«Ma ascoltami dunque!»
«Se tu dessi questo denaro a qualche stupida trovata filantropica, passeresti per essere un uomo famoso,» disse lei animandosi, «e sarei io la prima a consigliartelo, perché sei troppo ingenuo, tu, per scrivere di quei libroni di politica che vi procurano una reputazione; non hai abbastanza stile per metter giù degli ospuscoli ben fatti: potresti sistemarti come tutti quelli che si trovano nel tuo caso e che indorano di gloria il loro nome mettendosi a capo di qualche iniziativa sociale, morale, nazionale o universale. Ti hanno rubato la beneficenza, adesso è una cosa troppo volgare... I piccoli pregiudicati, ai quali si riserva una sorte migliore che ai poveri diavoli onesti, è una cosa sfruttata. Vorrei vederti inventare, per duecentomila franchi, qualche cosa di più difficile, qualche cosa di veramente utile. Si parlerebbe di te come di «un piccolo mantello blu», di Montyon, e sarei fiera di te! Ma buttare duecentomila franchi in un'acquasantiera, prestarli a una pinzochera abbandonata dal marito per una ragione qualunque, via! c'è sempre una ragione (m'abbandoneranno forse, me?), è una stupidaggine che, nella nostra epoca, può germinare solo nel cranio di un ex profumiere! Ci si sente tutto l'odore del suo banco di vendita. Non oseresti più, due giorni dopo, guardarti allo specchio! Va' a depositare il tuo denaro alla cassa d'ammortamento; va', corri, perché non ti ricevo più senza la ricevuta della somma. Va' e subito!»
Ella spinse Crevel per le spalle fuori dalla sua camera, vedendo sul suo volto rifiorire l'avarizia. Quando la porta dell'appartamento si chiuse, disse:
«Ecco, Lisbeth ultravendicata!... Che peccato che sia dal suo vecchio maresciallo; ce ne saremmo fatte di risate! Ah! la vecchia vuol togliermi il pane di bocca!... ora vedi come te l'aggiusto!»



XCI • UN ASPETTO DEL MARESCIALLO HULOT

Costretto a prendere un appartamento in armonia con la sua carica di altissimo prestigio, il maresciallo Hulot si era stabilito in un magnifico palazzo, situato in rue de Mont-Parnasse, nella quale si trovano due o tre case principesche. Benché avesse affittato l'intero palazzo, non ne occupava che il pianterreno.
Quando Lisbeth andò a dirigere la casa, volle subito subaffittare il primo piano, che, diceva, avrebbe reso tanto da pagare tutta la pigione, sicché il conte avrebbe potuto abitare nel suo appartamento quasi per niente; ma il vecchio soldato si rifiutò. Da qualche mese il maresciallo era tormentato da tristi pensieri. Aveva intuito le difficoltà finanziarie della cognata, ne avvertiva le pene, senza poterne cogliere la causa.
Il vecchio, che nella sua sordità manteneva un umore gaio e vivace, divenne taciturno; pensava che un giorno la sua casa sarebbe servita per accogliere la baronessa Hulot e sua figlia, e riservava loro il primo piano. La modesta fortuna del conte di Forzheim era così nota, che il ministro della Guerra, principe di Wissembourg, aveva costretto il suo vecchio compagno ad accettare un'indennità per la sistemazione della casa.
Hulot impiegò l'indennità per ammobiliare il pianterreno, dove tutto era decoroso, poiché non voleva, secondo la sua espressione, un bastone del maresciallo per poi portarlo a piedi. Essendo il palazzo appartenuto sotto l'Impero a un senatore, i salotti del pianterreno erano stati costruiti con grande magnificenza, tutti bianchi e oro, scolpiti, e si trovavano ben conservati. Il maresciallo vi aveva collocato dei bei vecchi mobili in tono con l'ambiente. Teneva sotto la rimessa una carrozza sui cui pannelli erano stati dipinti i due bastoni incrociati, e noleggiava dei cavalli quando doveva andare in fiocchi sia al ministero, sia al castello, per una cerimonia o qualche festa.
Poiché aveva come domestico, da trent'anni, un ex soldato sessantenne, la cui sorella fungeva da cuoca, poteva economizzare circa diecimila franchi che aggiungeva a una piccola somma destinata a Hortense. Tutti i giorni il vecchio andava a piedi dalla rue du Mont-Parnasse alla rue Plumet, per il boulevard; qualsiasi invalido di guerra, vedendolo giungere, non mancava mai di mettersi sull'attenti per salutarlo, e il maresciallo lo ringraziava con un sorriso.
«Chi è quel tizio per mettervi sull'attenti?» disse un giorno un giovane operaio a un vecchio capitano degli Invalides.
«Te lo dirò subito, ragazzo,» rispose l'ufficiale.
Il giovane prese l'atteggiamento di chi si rassegni a stare a sentire un chiacchierone.
«Nel 1809,» disse l'invalido, «stavamo proteggendo il fianco della Grande Armata, comandata dall'imperatore, che marciava su Vienna. Arriviamo a un ponte difeso da una triplice batteria di cannoni scaglionati su una specie di roccione, tre ridotte l'una sopra l'altra, che prendevano d'infilata il ponte. Noi eravamo agli ordini del maresciallo Massena. Quello che tu vedi, era allora colonnello dei granatieri della guardia, e io marciavo con lui... Le nostre colonne occupavano un lato del fiume, le ridotte erano dall'altra parte. Tre volte abbiamo attaccato il ponte e tre volte siamo stati respinti. ‹Che si vada a cercare Hulot!› disse il maresciallo, ‹ci sono solo lui e i suoi uomini che possano ingoiare quel boccone lì.› Noi arriviamo. L'ultimo generale che si stava ritirando dal ponte ferma Hulot sotto il fuoco nemico per dirgli come deve agire, e intanto igombra la strada. ‹Non ho bisogno di consigli, ma di spazio per passare,› disse tranquillamente il colonnello, varcando il ponte alla testa della sua colonna. E poi rrrran..., una scarica di trenta cannoni su di noi.»
«Ah! perbacco,» esclamò l'operaio, «ne han dovuto produrre di queste stampelle!»
«Se tu avessi sentito come l'ho sentito io il tono calmo e pacato di quelle parole, ragazzo mio, saluteresti quest'uomo piegandoti fino a terra. Questo fatto non è così famoso come quello del ponte di Arcole, ma è forse più bello. E noi siamo arrivati con Hulot di corsa fino alle batterie. Onore a coloro che vi sono rimasti!» fece l'ufficiale togliendosi il cappello. «I Kaiserlicks sono restati storditi dal colpo. Così l'imperatore ha nominato conte il vecchio che vedi; ci ha onorati tutti onorando il nostro capo, e questi d'ora hanno fatto benissimo a nominarlo maresciallo.»
«Viva il maresciallo!» disse l'operaio.
«Oh! puoi ben gridare! Il maresciallo è sordo a forza d'avere sentito il cannone.»
Questo aneddoto può dare la misura del rispetto col quale gli invalidi trattavano il maresciallo Hulot; le sue immutate opinioni repubblicane gli conciliavano le simpatie popolari in tutto il quartiere.
L'afflizione che pervadeva quell'anima così calma, così pura, così nobile, era uno spettacolo desolante. La baronessa poteva solo mentire e nascondere al cognato, con l'abilità delle donne, tutta la spaventosa verità.
Durante quella terribile mattinata, il maresciallo, che dormiva poco, come tutti i vecchi, aveva ottenuto da Lisbeth delle confessioni sulla situazione del fratello, promettendole di sposarla per premiare la sua indiscrezione. Ognuno comprenderà il piacere che provò la zitella nel lasciarsi strappare delle confidenze che, fin dal suo ingresso in quella casa, voleva fare al suo futuro sposo; in tal modo infatti pensava di rendere più sicuro il suo matrimonio.
«Vostro fratello è inguaribile!» gridava Lisbeth nell'orecchio buono del maresciallo.
La voce forte e chiara della lorenese le permetteva di conversare con il vecchio. Si spolmonava, tanto ci teneva a dimostrare al suo futuro marito che, con lei, egli non sarebbe mai stato sordo.
«Ha avuto tre amanti,» disse il vecchio, «e aveva una Adeline!... Povera Adeline!»
«Se volete darmi retta,» gridò Lisbeth, «potrete approfittare della vostra influenza presso il principe di Wissembourg, per fare ottenere a mia cugina un posto onorevole; ne avrà bisogno, perché lo stipendio del barone è impegnato per tre anni.»
«Andrò al Ministero a trovare il maresciallo,» rispose lui, «per sapere cosa pensa di mio fratello, e domandargli la sua attiva protezione per mia sorella. Trovate un posto che sia degno di lei!...»
«Le dame di carità di Parigi hanno costituito delle associazioni di beneficenza, d'accordo con l'arcivescovo; hanno bisogno di ispettrici, decorosamente retribuite, che vadano alla ricerca dei veri bisognosi. Tali funzioni si adatterebbero alla mia cara Adeline, e sarebbero di suo gradimento.»
«Fate chiamare i cavalli,» disse il maresciallo, «io intanto vado a vestirmi. Andrò, se è necessario, a Neuilly!»
«Come l'ama! La troverò dunque sempre dappertutto!» disse la lorenese.
Lisbeth comandava già in casa, ma lontano dagli sguardi del maresciallo. Incuteva timore nei tre domestici. Si era concessa una cameriera e svolgeva la sua attività di zitella facendosi rendere conto di tutto, esaminando tutto e cercando, in ogni cosa, il benessere del suo caro maresciallo. Repubblicana quanto il futuro marito, Lisbeth gli piaceva molto per i suoi lati democratici; ella, del resto, lo adulava con prodigiosa abilità; e da due settimane, il maresciallo, che viveva meglio, che si vedeva curato come un bambino dalla madre, aveva finito per scorgere in Lisbeth la realizzazione di una parte del suo sogno.
«Mio caro maresciallo!» gridò accompagnandolo alla scalinata esterna, «alzate i finestrini, non vi esponete alle correnti d'aria, fatelo per me!...»
Il maresciallo, quel vecchio scapolo che non era mai stato coccolato, partì sorridendo a Lisbeth, per quanto avesse il cuore straziato.



XCII • IL SOLENNE RIMPROVERO DEL PRINCIPE

In quello stesso momento, il barone Hulot lasciava gli uffici del Ministero della Guerra e si recava all'ufficio del maresciallo principe di Wissembourg, che l'aveva fatto chiamare. Benché non vi fosse nulla di straordinario nel fatto che il ministro convocasse uno dei suoi direttori generali, la coscienza di Hulot era così turbata, che egli trovò un non so che di ostile e di freddo nel viso di Mitouflet.
«Mitouflet, come sta il principe?» domandò Hulot chiudendo il suo ufficio e raggiungendo l'usciere che lo precedeva.
«Deve avere il dente avvelenato contro di voi, signor barone,» rispose l'usciere, «perché la sua voce, il suo sguardo, il suo viso minacciano temporale...»
Hulot divenne livido e restò in silenzio, attraversò l'anticamera, i saloni, e arrivò, col cuore che gli batteva furiosamente, alla porta del gabinetto. Il maresciallo, che aveva allora settant'anni, i capelli completamente bianchi, il viso rugoso come quello dei vecchi di quell'età, si distingueva per la sua fronte di una tale ampiezza, che l'immaginazione vi vedeva un campo di battaglia. Sotto quella cupola grigia, carica di neve, brillavano, adombrati dalla sporgenza assai pronunciata delle due arcate sopracciliari, degli occhi d'un azzurro napoleonico, di solito tristi, pieni di pensieri amari e di rimpianti. Quel rivale di Bernadotte aveva sperato di riposarsi su un trono. Ma quegli occhi mandavano formidabili lampi quando si accendevano di passione. La voce, quasi sempre cavernosa, aveva scoppi stridenti. Quando andava in collera, il principe ridiventava soldato, parlava il linguaggio del sottotenente Cottin, non aveva riguardo per niente e per nessuno. Hulot d'Ervy scorse quel vecchio leone, in piedi accanto al caminetto, i capelli sparsi e arruffati come una criniera, le sopracciglia contratte, le spalle appoggiate allo stipite della porta e gli occhi in apparenza distratti.
«Eccomi agli ordini, principe!» disse Hulot con tono ossequioso e insieme disinvolto.
Il maresciallo guardò fissamente il direttore senza dire una parola durante tutto il tempo che quegli impiegò a venire dalla soglia a qualche passo da lui. Quello sguardo di piombo fu come lo sguardo di Dio, Hulot non poté sopportarlo e abbassò gli occhi con aria confusa.
«Sa tutto,» pensò.
«La vostra coscienza non vi dice niente?» domandò il maresciallo con voce cupa e grave.
«Mi dice, principe, che ho avuto probabilmente torto di fare, senza parlarvene, delle razzie in Algeria. Alla mia età e con i miei gusti, dopo quarantacinque anni di servizio, sono senza beni di fortuna. Voi conoscete i principi dei quattrocento rappresentanti eletti della Francia. Questi signori invidiano tutte le posizioni, hanno decurtato lo stipendio dei ministri, è tutto dire!... Andate a chieder loro del denaro per un vecchio servitore!... Che cosa ci si può aspettare da gente che paga male come è pagata la magistratura?... Che dà un franco e dieci al giorno agli operai del porto di Tolone, quando è materialmente impossibile viverci con meno di due franchi per una famiglia? Che non riflette sull'atrocità degli stipendi di certi impiegati che vivono a Parigi a seicento, mille o milleduecento franchi, mentre pretende per sé i nostri posti quando gli stipendi sono di quarantamila franchi?... Infine, che rifiuta un bene confiscato alla Corona nel 1830, e un profitto tratto dai denari ancora di Luigi xvi! quando era stato loro richiesto per un principe povero... Se voi non aveste beni di fortuna, principe, vi lascerebbero tranquillamente, come mio fratello, col vostro stipendio secco secco, senza ricordarsi che voi avete salvato la Grande Armata, con me, nelle pianure paludose della Polonia.»
«Voi avete derubato lo Stato! Vi siete messo in condizione di finire in Corte d'Assise,» disse il maresciallo, «come un certo cassiere del Tesoro! e prendete la cosa, signore, con simile leggerezza?...»
«Che grande differenza, signore!» esclamò il barone Hulot. «Ho forse affondato le mani in una cassa che mi era stata affidata?...»
«Quando si commettono simili infamie,» disse il maresciallo, «si è doppiamente colpevoli, nella vostra posizione, se si fanno le cose in modo maldestro. Avete compromesso ignobilmente la nostra alta amministrazione, che finora è la più onesta d'Europa!... E tutto ciò, signore, per duecentomila franchi e per una sgualdrina!...» disse il maresciallo con voce terribile. Voi siete consigliere di Stato, e vien punito con la morte il soldato semplice che vende gli effetti del reggimento. Ecco quello che mi ha detto un giorno il colonnello Pourin, del secondo lancieri. A Saverne, uno dei suoi uomini amava una piccola alsaziana che desiderava uno scialle; quella sfrontata tanto fece, che quel povero diavolo di lanciere, che doveva essere promosso maresciallo capo d'alloggio, dopo venti anni di servizio, l'onore del reggimento, ha venduto, per dare quello scialle, degli effetti della sua compagnia. Sapete, barone d'Ervy, cosa ha fatto il lanciere? Ha mangiato, dopo averli triturati, i vetri di una finestra ed è morto, dopo undici ore, all'ospedale... Cercate, voi, di morire di un colpo apoplettico, perché possiamo salvarvi l'onore...»
Il barone guardò il vecchio guerriero con gli occhi smarriti, e il maresciallo, vedendo quell'espressione che rivelava un vile, si fece rosso in viso, mentre gli occhi gli si accendevano di rabbia.
«Mi abbandonereste?...» disse Hulot balbettando.



XCIII • BREVE DUELLO TRA IL MARESCIALLO HULOT, CONTE DI FORZHEIM,
E SUA ECCELLENZA MONSIGNORE MARESCIALLO COTTIN, PRINCIPE
DI WISSEMBOURG, DUCA D'ORFANO, MINISTRO DELLA GUERRA

In quel momento, il maresciallo Hulot, avendo appreso che suo fratello e il ministro erano soli, si permise di entrare, e andò, come fanno i sordi, difilato verso il principe.
«Oh!» gridò l'eroe della campagna di Polonia, «so quello che vieni a fare, vecchio camerata!... Ma tutto è inutile...»
«Inutile?...» ripeté il maresciallo Hulot, che udì solo quella parola.
«Sì, tu vieni a parlarmi per tuo fratello; ma sai cos'è tuo fratello?»
«Mio fratello?» chiese il sordo.
«Ebbene,» gridò il maresciallo, «è un fottuto... indegno di te!...»
E la collera del maresciallo si manifestò con uno di quegli sguardi folgoranti che, simili a quelli di Napoleone, spezzavano la volontà e il cervello.
«Tu hai mentito, Cottin!» ribatté il maresciallo Hulot, livido in volto. «Getta il tuo bastone come io getto il mio!... Sono ai tuoi ordini.»
Il principe andò diritto verso il suo camerata, lo guardò e gli disse nell'orecchio, stringendogli la mano: «Sei un uomo?»
«Lo vedrai...»
«Be', tienti forte! Si tratta di sopportare la più grande sventura che ti potesse accadere.»
Il principe si girò, prese dal tavolo un incartamento, lo mise nelle mani del maresciallo Hulot gridandogli: «Leggi!»
Il conte di Forzheim lesse la seguente lettera, che si trovava sopra l'incartamento:

A sua eccellenza il Presidente del Consiglio. (Confidenziale.)
«Algeri, il...
«Mio caro principe, ci capita fra capo e collo una bruttissima faccenda, come potrete vedere dagli atti che vi invio.
«In breve, il barone Hulot d'Ervy ha mandato nella provincia di Orano uno dei suoi zii per speculare sulle granaglie e i foraggi, dandogli per complice un magazziniere. Quest'ultimo ha fatto delle confessioni per mettersi in vista e ha finito poi col fuggire. Il procuratore del re ha condotto la faccenda senza andare per il sottile vedendo solo due subalterni in causa; ma Johann Fischer, zio del vostro direttore generale, sul punto di essere tradotto in Corte d'Assise, si è ucciso in prigione trafiggendosi con un chiodo.
«Tutto sarebbe finito qui, se questo degno e onest'uomo, verosimilmente ingannato e dal suo complice e da suo nipote, non avesse pensato di scrivere al barone Hulot. Questa lettera, arrivata in mano ai magistrati, ha fatto una tale impressione sul procuratore del re, che questi è venuto a trovarmi. Sarebbe un colpo terribile. L'arresto e la messa sotto accusa di un consigliere di Stato, di un direttore generale che conta tanti buoni e leali servizi - poiché ci ha salvati tutti dopo la Beresina riorganizzando l'amministrazione - sarebbe un colpo così terribile che mi son fatto comunicare gli atti.
«Occorre che la faccenda segua il suo corso? O, essendo morto il principale colpevole apparente, bisogna insabbiare questo processo facendo condannare il magazziniere in contumacia?
«Il procuratore generale acconsente a che gli atti vi siano trasmessi; ed essendo il barone d'Ervy domiciliato a Parigi, il processo sarà di competenza della vostra Corte reale. Abbiamo escogitato questo mezzo, piuttosto ambiguo, per sbarazzarci momentaneamente di questo difficile caso.
«Solo, caro maresciallo, prendete al più presto una decisione. Si parla già troppo di questo deplorevole affare, che ci danneggerebbe ancora di più, se la complicità del maggiore colpevole, per ora nota solo al procuratore del re, al giudice istruttore, al procuratore generale e a me, venisse divulgata.»

A questo punto il foglio cadde dalle mani del maresciallo Hulot; egli guardò suo fratello e si accorse che era inutile esaminare l'incartamento; ma cercò la lettera di Johann Fischer, e gliela tese dopo averle gettato un'occhiata.

«Dalla prigione di Orano
«Nipote mio, quando leggerete questa lettera, io non ci sarò più.
«State tranquillo, non saranno trovate prove contro di voi. Morto io, fuggito quel vostro gesuita, Chardin, il processo si chiuderà. Il viso della nostra Adeline, così felice grazie a voi, mi ha reso la morte assai dolce. Non avete più bisogno di inviare i duecentomila franchi. Addio.
«Questa lettera vi sarà recapitata da un detenuto sul quale credo di poter contare.
Johann Fischer.»

«Vi chiedo perdono,» disse con una commovente fierezza il maresciallo Hulot al principe di Wissembourg.
«Andiamo, dammi ancora del tu, Hulot,» replicò il ministro stringendo la mano del suo vecchio amico. «Il povero lanciere ha ucciso soltanto se stesso,» disse fulminando Hulot d'Ervy con uno sguardo.
«Quanto avete preso?» disse severamente il conte di Forzheim a suo fratello.
«Duecentomila franchi.»
«Mio caro amico,» disse il conte rivolgendosi al ministro, «avrete i duecentomila franchi entro quarantott'ore. Non si potrà mai dire che un uomo che porta il nome di Hulot abbia sottratto un soldo alla cosa pubblica...»
«Che puerilità,» disse il maresciallo. «So dove sono i duecentomila franchi e li farò restituire. Date le dimissioni e lasciate il servizio!» disse poi facendo volare un doppio foglio di carta protocollo fino al punto dove il consigliere di Stato, con le gambe che gli tremavano, si era seduto al tavolo. «Il vostro processo sarebbe una vergogna per tutti noi: così ho ottenuto dal Consiglio dei ministri la libertà di agire come sto facendo. Poiché accettate la vita senza l'onore, senza la mia stima, una vita priva di dignità, avrete la pensione che vi è dovuta. Soltanto, fatevi completamente dimenticare.»
Il maresciallo suonò.
«L'impiegato Marneffe è qui?»
«Sì, monsignore,» disse l'usciere.
«Che entri.»
«Voi,» esclamò il ministro nel vedere Marneffe, «voi e vostra moglie, avete scientemente rovinato il barone d'Ervy qui presente.»
«Signor ministro, vi domando perdono, noi siamo molto poveri, non ho che il mio impiego per vivere, e ho due bambini, l'ultimo dei quali sarà stato immesso nella mia famiglia dal signor barone.»
«Che faccia da furfante!» disse il principe indicando Marneffe al maresciallo Hulot. «Bando ai discorsi alla Sganarelle,» riprese; «voi restituirete i duecentomila franchi o andrete in Algeria.»
«Ma, signor ministro, voi non conoscete mia moglie, s'è mangiata tutto. Il signor barone invitava ogni giorno sei persone a cena.... In casa mia si spendevano cinquantamila franchi all'anno.»
«Ritiratevi,» disse il ministro con quella voce formidabile con cui ordinava la carica nel pieno delle battaglie, «riceverete l'avviso del vostro trasferimento fra due ore... Andate.»
«Preferisco dare le dimissioni,» disse con insolenza Marneffe, «perché è già troppo essere quel che sono, e bastonato; non sarei contento, io!»
E uscì.
«Che impudente furfante!» disse il principe.
Il maresciallo Hulot, che durante quella scena era rimasto in piedi, immobile, pallido come un cadavere, esaminando suo fratello di sfuggita, andò a prendere la mano del principe e gli ripeté:
«Fra quarantotto ore, il danno materiale sarà riparato, ma l'onore!... Addio, maresciallo!... È l'ultimo colpo quello che uccide... Sì, ne morirò,» gli disse all'orecchio.
«Perché diamine sei venuto stamattina!» rispose il principe commosso.
«Venivo per sua moglie,» replicò il conte, indicando Hector; «le manca il pane..., soprattutto ora.»
«Ma lui ha la sua pensione!»
«È impegnata!»
«Bisogna avere il diavolo in corpo!» disse il principe alzando le spalle. «Che filtro vi fanno dunque ingoiare quelle donne per togliervi la ragione?» domandò a Hulot d'Ervy. «Come potevate, voi che conoscete la minuziosa precisione con la quale l'amministrazione francese scrive tutto, verbalizza su tutto, consuma risme di carta per registrare l'entrata e l'uscita di qualche centesimo, voi che deploravate che occorrevano centinaia di firme per delle inezie, per liberare un soldato, per comprare delle striglie, come potevate sperare di nascondere a lungo un furto? E i giornali! e gli invidiosi! e la gente che vorrebbe rubare! Quelle donne vi tolgono dunque il buonsenso? vi foderano gli occhi di prosciutto? oppure siete fatto diversamente da noi? Dovevate abbandonare l'amministrazione, dal momento che non eravate più un uomo, ma un essere in balia degli istinti! Se avete aggiunto tante sciocchezze al vostro crimine, finirete..., non voglio dirvi dove...»
«Mi prometti di occuparti di lei, Cottin?...» chiese il conte di Forzheim, che non udiva nulla e che non pensava che a sua cognata.
«Stai tranquillo!» disse il ministro.
«Bene! Grazie, e addio!... Venite, signore,» disse poi al fratello.
Il principe rivolse uno sguardo apparentemente calmo ai due fratelli, così diversi per atteggiamento, conformazione, e carattere - il coraggioso e il vile, il voluttuoso e l'austero, l'onesto e il corrotto - e si disse:
«Quel vigliacco non saprà morire! E il mio povero Hulot, così probo, ha la morte vicina!»
Sedette nella sua poltrona e riprese la lettura dei dispacci dall'Africa con un movimento che rivelava il sangue freddo del condottiero e insieme la profonda pietà che ispira lo spettacolo dei campi di battaglia! Perché in realtà non c'è nulla di più umano dei militari, così rudi in apparenza, e a cui l'abitudine della guerra conferisce quella glaciale imperturbabilità, così necessaria sui campi di battaglia.



XCIV • LA TEORIA DEI CANARDS

L'indomani, alcuni giornali contenevano, sotto rubriche varie, questi diversi articoli:

«Il signor barone Hulot d'Ervy ha chiesto di essere esonerato dal servizio. I disordini nella contabilità dell'amministrazione algerina emersi in seguito alla morte e alla fuga di due impiegati, hanno influito sulla decisione presa dall'alto funzionario. Apprendendo le colpe commesse da impiegati nei quali disgraziatamente aveva riposto la sua fiducia, il barone Hulot è stato colpito, nell'ufficio stesso del ministro, da un attacco di paralisi.
«Il signor Hulot d'Ervy, fratello del maresciallo, conta quarantacinque anni di servizio. La sua risoluzione, invano contrastata, è stata accolta con rimpianto da tutti coloro che conoscono il signor Hulot, le cui qualità personali eguagliano le capacità amministrative. Nessuno ha dimenticato l'abnegazione dell'ordinatore in capo della guardia imperiale a Varsavia, né la mirabile abilità con la quale egli ha saputo organizzare i vari servizi dell'esercito improvvisato nel 1815 da Napoleone.
«È ancora una delle glorie dell'epoca imperiale, che lascia la scena. Dal 1830, il barone Hulot non ha mai cessato di essere una delle geniali personalità necessarie al Consiglio di Stato e al Ministero della Guerra».

«ALGERI. - L'affare detto dei foraggi, al quale certi giornali hanno dato proporzioni ridicole, è terminato con la morte del principale colpevole. Johann Wisch si è ucciso in prigione, e il suo complice è in fuga, ma sarà giudicato in contumacia.
«Wisch, ex fornitore degli eserciti, era un uomo onesto, assai stimato, che non ha sopportato l'idea di essere stato la vittima e lo zimbello di Chardin, il magazziniere datosi alla fuga.»

E nella cronaca di Parigi si leggeva quanto segue:

«Il maresciallo ministro della Guerra, per evitare in futuro ogni disfunzione amministrativa, ha deciso di creare un ufficio degli approvvigionamenti in Africa. Capufficio designato sarebbe il signor Marneffe, incaricato di questa organizzazione.
«La successione del barone Hulot eccita tutte le ambizioni. Corre voce che la sua direzione sia stata promessa al conte Martial de la Roche-Hugon, deputato, cognato del conte di Rastignac. Il signor Massol, referendario, sarebbe stato nominato consigliere di Stato, e il signor Claude Vignon referendario.»

Di tutte le specie di canard, la più pericolosa per i giornali dell'opposizione è il canard ufficiale. Per quanto astuti siano i giornalisti, essi sono a volte gli zimbelli, volontari o involontari, dell'abilità di quelli fra loro che, dalla stampa, sono passati, come Claude Vignon, alle alte sfere del potere. Il giornale non può essere vinto che dal giornalista. Perciò si può ben dire, travisando Voltaire:
Le fait-Paris n'est pas ce qu'un vain peuple pense.



XCV • IL SOLENNE RIMPROVERO DEL FRATELLO

Il maresciallo Hulot ricondusse via con sé suo fratello, il quale si mise sul davanti della carrozza, lasciando rispettosamente il fratello maggiore nell'interno. I due non scambiarono una parola. Hector era distrutto. Il maresciallo restò chiuso in sé, come un uomo che raccolga le proprie forze e che le tenda per sostenere un peso schiacciante. Entrato nel suo palazzo, condusse, senza dire una parola e con gesti imperativi, il fratello nel suo ufficio. Il conte aveva ricevuto dall'imperatore Napoleone due magnifiche pistole della manifattura di Versailles; estrasse dal secrétaire, dove la teneva, la scatola sulla quale era incisa l'iscrizione: «Donata dall'Imperatore Napoleone al generale Hulot» e, mostrandola al fratello, gli disse:
«Ecco il tuo medico.»
Lisbeth, che guardava dall'uscio socchiuso, corse alla carrozza e diede l'ordine di andare in gran fretta in rue Plumet. Tornò dopo circa venti minuti, conducendo con sé la baronessa, che ella aveva informato della minaccia del maresciallo al fratello.
Il conte, senza guardare suo fratello, suonò per chiamare il suo factotum, il vecchio soldato che lo serviva da trent'anni.
«Beau-Pied,» gli disse, «conduci qui il mio notaio, il conte Steinbock, mia nipote Hortense e l'agente di cambio del Ministero del Tesoro. Sono le dieci e mezzo, mi occorre tutta questa gente per mezzogiorno. Prendi delle carrozze... e va' più che in fretta!...» disse, ritrovando un modo di dire repubblicano che una volta aveva spesso in bocca.
E fece quella smorfia terribile che rendeva i suoi soldati attenti quando egli scrutava le ginestre della Bretagna nel 1799 (vedere Les Chouans).
«Sarete obbedito, maresciallo,» disse Beau-Pied portando alla fronte il dorso della mano.
Senza occuparsi del fratello, il vecchio ritornò nel suo studio, prese una chiave nascosta in un secrétaire e aprì un cofanetto in malachite montato su acciaio, dono dell'imperatore Alessandro. Per ordine dell'imperatore Napoleone, egli era andato a restituire all'imperatore russo degli effetti personali presi nella battaglia di Dresda, e in cambio dei quali Napoleone sperava di ottenere il generale Vandamme. Lo zar ricompensò munificamente il generale Hulot dandogli quel cofanetto e gli disse che sperava un giorno di potere usare la stessa cortesia all'imperatore dei francesi, ma si tenne Vandamme. Lo stemma imperiale di Russia era in oro sul coperchio di quel cofanetto tutto rifinito in oro. Il maresciallo contò i biglietti di banca e l'oro che vi si trovavano; possedeva centocinquantaduemila franchi! Si lasciò sfuggire un moto di soddisfazione. In quel momento, entrò la signora Hulot in uno stato tale da intenerire dei giudici politici. Si gettò su Hector, guardando alternativamente la scatola contenente le pistole e il maresciallo, con un'aria folle.
«Che avete contro vostro fratello? Cosa vi ha fatto mio marito?» disse con voce così vibrante, che il maresciallo la intese.
«Ci ha disonorati tutti!» rispose il vecchio soldato della Repubblica, che riaprì con quello sforzo una delle sue ferite. «Ha rubato allo Stato! Mi ha reso odioso il mio nome; mi fa desiderare la morte, mi ha ucciso.... Ho solo abbastanza forza per compiere la restituzione!... Sono stato umiliato davanti al Condè della Repubblica, davanti all'uomo che stimo di più, e al quale ho dato ingiustamente una smentita, il principe di Wissembourg!... Non è nulla questo? Ecco il suo conto verso la patria!»
Si asciugò una lagrima.
«E guardiamo ora alla sua famiglia!» riprese il maresciallo. «Vi toglie il pane che conservavo per voi, il frutto di trent'anni di economie, il tesoro delle privazioni del vecchio soldato! Ecco quanto vi destinavo!» disse indicando i biglietti di banca. «Ha ucciso suo zio Fischer, nobile e degno figlio d'Alsazia, che non ha, come lui, potuto sopportare l'idea di una macchia sul suo nome di contadino. Infine, Dio, nella sua grande clemenza adorabile, gli aveva permesso di scegliere un angelo fra tutte le donne! Ha avuto la fortuna inaudita di prendere per sposa una Adeline! E l'ha tradita, l'ha colmata di dolori, l'ha abbandonata per delle sgualdrine, delle donnacce, delle prostitute, delle attrici, delle Cadine, delle Josépha, delle Marneffe!... Ecco, l'uomo del quale mi ero fatto un figlio, il mio orgoglio!... Va'! miserabile, se accetti la vita infame che ti sei scelta, esci di qua! Io non ho la forza di maledire un fratello che ho tanto amato: sono debole per lui quanto lo siete voi, Adeline; ma che non ricompaia mai più dinanzi a me. Gli proibisco di assistere al mio funerale, di seguire la mia bara. Che abbia il pudore del crimine, se non ne ha il rimorso...»
Pallido in volto, il maresciallo si lasciò cadere sul divano del suo studio, distrutto da quelle parole solenni. E, forse per la prima volta in vita sua, due lagrime gli scesero dagli occhi e gli solcarono le guance.
«Il mio povero zio Fischer!» esclamò Lisbeth, portandosi agli occhi il fazzoletto.
«Fratello mio!» disse Adeline venendo a inginocchiarsi davanti al maresciallo, «vivete per me! Aiutatemi nell'opera che intraprenderò al fine di riconciliare Hector con la vita, di fargli riscattare i suoi errori...»
«Lui!» disse il maresciallo, «se vive, non è alla fine dei suoi crimini! Un uomo che ha misconosciuto una Adeline, e che ha spento in sé i sentimenti del vero repubblicano, quell'amore per il proprio paese, per la famiglia e per il povero che mi sforzavo di inculcargli, quell'uomo è un mostro, un porco. Portatelo via, se l'amate ancora, poiché sento in me una voce che mi grida di caricare le mie pistole e di fargli saltare le cervella! Uccidendolo, vi salverei tutti, e lo salverei da se stesso.»
Il vecchio maresciallo si alzò con un movimento così minaccioso, che la povera Adeline esclamò:
«Vieni, Hector!»
Afferrò suo marito, lo portò via con sé, e abbandonò la casa, trascinando il barone, così disfatto, che fu costretta a metterlo in carrozza per trasportarlo in rue Plumet, dove si mise a letto malato. Vi restò, quasi distrutto, parecchi giorni, rifiutando ogni cibo, senza dire una parola. Adeline otteneva a forza di lacrime che inghiottisse un po' di brodo; lo assisteva, seduta al suo capezzale, non provando più, di tutti i sentimenti che ancor poco tempo prima le riempivano il cuore, se non una profonda pietà.


XCVI • UN BEL FUNERALE

A mezzogiorno e mezzo, Lisbeth introdusse nello studio del suo caro maresciallo, che non lasciava mai solo, tanto era spaventata dei cambiamenti che apparivano sul suo volto, il notaio e il conte Steinbock.
«Signor conte,» disse il maresciallo, «vi prego di firmare l'autorizzazione necessaria a mia nipote, vostra moglie, perché ella possa vendere i titoli di rendita di cui per ora possiede solo la nuda proprietà. Signorina Fischer, voi acconsentirete a questa vendita rinunciando al vostro usufrutto.»
«Sì, caro conte,» disse Lisbeth, senza esitare.
«Bene, mia cara,» rispose il vecchio soldato. «Spero di vivere abbastanza per ricompensarvi. Non dubitavo di voi; siete una vera repubblicana, una figlia del popolo.»
Prese la mano della zitella e vi posò un bacio.
«Signor Hannequin,» disse al notaio, «fate l'atto necessario sotto forma di procura; che io l'abbia fra due ore, per poter vendere la rendita alla Borsa di oggi. Mia nipote, la contessa, ha il titolo; sta per venire e firmerà l'atto, quando lo porterete, così come la signorina. Il conte vi accompagnerà a casa per darvi la sua firma.»
L'artista, a un cenno di Lisbeth, salutò rispettosamente il maresciallo e uscì.
L'indomani, alle dieci del mattino, il conte di Forzheim si fece annunciare al principe di Wissembourg e fu subito ammesso.
«Ebbene, mio caro Hulot,» disse il maresciallo Cottin, porgendo i giornali al suo vecchio amico; «abbiamo, come vedete, salvato le apparenze... Leggete.»
Il maresciallo Hulot posò i giornali sulla scrivania del suo vecchio compagno d'armi e gli porse duecentomila franchi.
«Ecco quanto mio fratello ha preso allo Stato,» disse.
«Che pazzia!» esclamò il ministro. «Ci è impossibile,» aggiunse prendendo il cornetto acustico che il maresciallo gli porse e parlandogli nell'orecchio, «operare questa restituzione. Saremmo obbligati a confessare i reati di concussione di vostro fratello, e abbiamo fatto di tutto per nasconderli...»
«Fatene quel che vorrete; ma io non voglio che ci sia nel patrimonio della famiglia Hulot un solo soldo rubato allo Stato,» disse il conte.
«In proposito prenderò gli ordini dal re su questa faccenda. Non ne parliamo più,» rispose il ministro riconoscendo l'impossibilità di vincere la sublime testardaggine del vecchio.
«Addio, Cottin,» disse il maresciallo prendendo la mano del principe di Wissembourg, «mi sento un gelo nell'anima...»
Poi, dopo aver fatto un passo, si volse, guardò il principe che vide fortemente commosso, aprì le braccia per stringervelo, e il principe abbracciò il maresciallo.
«Mi sembra, abbracciando te, di dire addio a tutta la Grande Armata,» gli disse.
«Addio dunque, mio buono e vecchio compagno,» disse il ministro.
«Sì, addio, poiché vado là dove sono tutti quelli dei nostri soldati che abbiamo pianto...»
In quel momento Claude Vignon entrò. Le due vecchie glorie delle falangi napoleoniche si salutarono gravemente facendo scomparire ogni traccia di emozione.
«Sarete stato contento dei giornali, principe,» disse il futuro referendario. «Ho manovrato in modo da far credere ai giornali di opposizione che essi pubblicassero i nostri segreti...»
«Purtroppo, tutto è inutile,» replicò il ministro guardando il maresciallo che se ne andava per il salone. «Ho appena dato un ultimo addio che mi ha fatto veramente male. Il maresciallo Hulot non ha più di tre giorni di vita; l'ho ben visto, del resto, fin da ieri. Quest'uomo, di divina probità, questo soldato risparmiato dalle palle dei cannoni malgrado il suo coraggio... guardate... là, su quella poltrona!... ha ricevuto il colpo mortale e dalla mia mano, per mezzo di un foglio di carta!... Suonate e fate venire la mia carrozza. Vado a Neuilly,» disse riponendo i duecentomila franchi nel suo portafogli ministeriale.
Nonostante le cure di Lisbeth, tre giorni dopo, il maresciallo Hulot era morto. Uomini come lui sono l'onore dei partiti che hanno abbracciato. Per i repubblicani, il maresciallo era l'ideale del patriottismo: perciò si trovarono tutti al suo funerale, che fu seguito da una folla immensa. L'esercito, l'amministrazione, la corte, il popolo, tutti vennero a rendere omaggio a quell'alta virtù, a quell'intatta probità, a quella gloria tanto pura. Non ha, chi vuole, il popolo al suo funerale. Quelle esequie furono caratterizzate da una di quelle testimonianze piene di riguardo, di buon gusto e di affetto, che, di tanto in tanto, ricordano i meriti e la gloria della nobiltà francese. Dietro il feretro del maresciallo, fu visto il vecchio marchese di Montauran, fratello di colui che nel 1799, durante la rivolta degli insorti della Vandea, era stato l'avversario e lo sfortunato avversario di Hulot. Il marchese, morendo sotto i colpi di cannone dei Bleus, aveva affidato gli interessi del suo giovane fratello al soldato della Repubblica (vedere Les Chouans). Hulot aveva tanto ben accettato il testamento verbale del nobile, che riuscì a salvare i beni del giovane fratello, allora emigrato. Così, l'omaggio della vecchia nobiltà francese non mancò al soldato che, nove anni prima, aveva sconfitto Madame.
Quella morte, avvenuta quattro giorni prima dell'ultima pubblicazione del suo matrimonio, fu per Lisbeth come il colpo di fulmine che brucia insieme il raccolto e il granaio dove esso era stato riposto. La lorenese, come capita spesso, era riuscita anche troppo bene nel suo intento. Il maresciallo era morto per i colpi inferti a quella famiglia da lei e dalla signora Marneffe. L'odio della zitella, che sembrava fosse stato appagato dal successo, si accrebbe di tutte le sue speranze deluse. Lisbeth andò a piangere di rabbia dalla signora Marneffe; si trovava senza domicilio, poiché il maresciallo aveva subordinato la durata del suo contratto d'affitto a quella della sua vita. Crevel, per consolare l'amica della sua Valérie, ne prese i risparmi, li moltiplicò generosamente, e investì il capitale al cinque per cento, dandole l'usufrutto e mettendo la proprietà al nome di Célestine. Grazie a questa operazione, Lisbeth possedette duemila franchi di rendita vitalizia. Fu trovato, al momento dell'inventario, un biglietto del maresciallo a sua cognata, a sua nipote Hortense e a suo nipote Victorin, col quale dava loro l'incarico di pagare una rendita vitalizia di milleduecento franchi a colei che avrebbe dovuto essere sua moglie, la signorina Lisbeth Fischer.



XCVII • PARTENZA DEL PADRE PRODIGO

Adeline, vedendo il marito fra la vita e la morte, riuscì a nascondergli per qualche giorno il decesso del maresciallo; ma Lisbeth arrivò vestita a lutto, e la fatale verità gli fu rivelata undici giorni dopo i funerali. Quel terribile colpo rese un po' d'energia al malato; si alzò e trovò tutta la famiglia riunita nel salotto, vestita di nero; alla sua vista essa si chiuse nel più assoluto silenzio. In quindici giorni Hulot, divenuto magro come uno spettro, apparve alla sua famiglia l'ombra di se stesso.
«Bisogna prendere una decisione,» disse con voce spenta, sedendosi su una poltrona e guardando quella riunione alla quale mancavano Crevel e Steinbock.
«Noi non possiamo più rimanere qui,» faceva osservare Hortense nel momento in cui suo padre comparve, «il fitto è troppo caro...»
«Quanto alla questione dell'alloggio,» disse Victorin, rompendo quel penoso silenzio, «offro a mia madre...»
Nell'udire quelle parole, che sembravano escluderlo, il barone alzò il capo chinato verso il tappeto, di cui contemplava i fiori senza vederli, e posò sull'avvocato uno sguardo tale da suscitare pietà. I diritti di un padre sono sempre talmente sacri, anche quando egli sia infame e privo di onore, che Victorin s'interruppe.
«A vostra madre...,» riprese il barone. «Avete ragione, figlio mio!»
«L'appartamento sopra il nostro, nel nostro padiglione,» disse Célestine completando la frase del marito.
«Vi do fastidio, figlioli miei?...» disse il barone con la dolcezza di coloro che si sono condannati da soli. «Oh! non vi preoccupate per l'avvenire, non avrete più da rammaricarvi per vostro padre, e lo rivedrete solo nel momento in cui non avrete più da arrossire di lui.»
Andò a prendere Hortense e la baciò sulla fronte. Aprì le braccia a suo figlio, che vi si gettò disperatamente indovinando le intenzioni di suo padre. Il barone fece un cenno a Lisbeth, che si avvicinò, e la baciò sulla fronte. Poi si ritirò in camera sua, dove Adeline, in preda a un'angoscia straziante, lo seguì.
«Mio fratello aveva ragione, Adeline,» le disse prendendola per la mano. «Io sono indegno della vita di famiglia. Non ho osato benedire altrimenti che nel mio cuore i miei figli, la cui condotta è stata sublime; di' loro che ho potuto soltanto abbracciarli, poiché, venendo da un uomo scellerato, da un padre che diventa l'assassino, il flagello della famiglia, invece di esserne il protettore e la gloria, una benedizione potrebbe essere funesta; ma li benedirò di lontano, tutti i giorni. Quanto a te, Dio solo, poiché egli può tutto, può darti la ricompensa proporzionata ai tuoi meriti!... Ti chiedo perdono,» disse inginocchiandosi davanti alla moglie, prendendole le mani e bagnandole di lacrime.
«Hector! Hector! Le tue colpe sono grandi, ma la misericordia divina è infinita, e tu puoi riparare a tutto restando con me... Risollevati con sentimenti cristiani, amico mio... Sono tua moglie e non il tuo giudice. Sono una cosa tua, fai di me quello che vuoi, conducimi dove vorrai, mi sento la forza di consolarti, di renderti la vita sopportabile, a forza di amore, di cure e di rispetto!... I nostri figli sono sistemati, non hanno più bisogno di me. Lascia ch'io cerchi di essere il tuo svago, la tua distrazione. Permettimi di dividere con te le pene del tuo esilio, della tua miseria, per addolcirle. Ti potrò sempre essere utile a qualcosa, non fosse che a risparmiarti la spesa di una serva...»
«Mi perdoni, mia cara e amata Adeline?»
«Sì, ma, amico mio, alzati!»
«Ebbene, con questo perdono, io potrò vivere!» riprese lui levandosi. Mi sono ritirato in camera nostra perché i nostri figli non fossero testimoni dell'umiliazione del loro padre. Ah! vedersi ogni giorno davanti un padre delinquente come lo sono io è qualche cosa di spaventoso che distrugge l'autorità paterna, la famiglia. Non posso più restare in mezzo a voi, vi lascio per risparmiarvi l'odioso spettacolo di un padre senza dignità. Non opporti alla mia fuga, Adeline. Sarebbe come se tu stessa armassi la pistola con la quale mi farei saltare le cervella... Insomma, non seguirmi nel mio rifugio: mi priveresti della sola forza che mi resta, quella del rimorso.»
L'energia di Hector impose il silenzio alla morente Adeline. Questa donna, così grande in mezzo a tante sventure, attingeva il suo coraggio nella sua intima unione con suo marito; poiché lo vedeva suo, sentiva la missione sublime di consolarlo, di restituirlo alla vita di famiglia, di riconciliarlo con se stesso.
«Hector, vuoi dunque lasciarmi morire di disperazione, d'ansia, d'inquietudine!...» disse nel vedersi portar via il principio della sua forza.
«Tornerò a te, angelo disceso dal cielo, credo, espressamente per me; tornerò da voi, se non ricco, almeno nell'agiatezza. Ascolta, mia cara Adeline, non posso restare qui per un'infinità di ragioni. Per prima cosa la mia pensione, che sarà di seimila franchi, è impegnata per quattro anni, quindi non posseggo nulla. E non è tutto! fra qualche giorno, sarò imprigionato per debiti a causa delle cambiali rilasciate a Vauvinet... Così, debbo assentarmi fin quando mio figlio, al quale lascerò delle precise istruzioni, non abbia riscattato quei titoli. La mia scomparsa faciliterà, e molto, questa operazione. Quando la mia pensione sarà disimpegnata, quando Vauvinet sarà pagato, io tornerò a voi... tu riveleresti il segreto del mio esilio. Stai tranquilla, non piangere, Adeline... Non si tratta che di un mese...»
«Dove andrai? Cosa farai? Che ne sarà di te? Chi ti curerà, tu che non sei più giovane? Lasciami scomparire con te, ce ne andremo all'estero,» disse lei.
«Bene, vedremo,» le rispose.
Il barone suonò, diede ordine a Mariette di prendere tutti i suoi effetti personali, di metterli segretamente e rapidamente nei bauli. Poi pregò sua moglie, dopo averla baciata con un'effusione di tenerezza alla quale ella non era abituata, di lasciarlo un momento solo per scrivere le istruzioni di cui aveva bisogno Victorin, promettendole di lasciare la casa solo a notte e con lei. Appena la baronessa fu rientrata nel salotto, l'astuto vecchio passò per lo spogliatoio, raggiunse l'anticamera e uscì consegnando a Mariette un biglietto sul quale aveva scritto: «Indirizzate i miei bauli a mezzo della ferrovia di Corbeil al signor Hector, fermo posta a Corbeil.» Il barone, salito su una vettura di piazza, correva già attraverso Parigi quando Mariette andò a mostrare il messaggio alla baronessa, dicendole che il signore era appena uscito. Adeline si precipitò nella camera, tremando più forte che mai; i suoi figli, spaventati, ve la seguirono udendo un grido straziante. La baronessa svenuta venne sollevata, e fu necessario metterla a letto, poiché fu colta da una febbre nervosa che la tenne fra la vita e la morte per un mese.
«Dov'è andato?» erano le sole parole che si ottenessero da lei. Le ricerche di Victorin furono infruttuose. Ed ecco perché.



XCVIII • DOVE JOSÊPHA RIAPPARE

Il barone si era fatto condurre in place du Palis-Royal. Lì, ritrovando tutto il suo spirito per mettere in atto un disegno che aveva preparato durante i giorni in cui era rimasto a letto, distrutto dal dolore e dalla pena, attraversò il Palais-Royal e andò a prendere una magnifica carrozza da noleggio, in rue Joquelet. Secondo l'ordine ricevuto, il cocchiere entrò in rue de la Ville-l'Evêque sul retro del palazzo di Josépha, le cui porte si aprirono, al grido del cocchiere, per lasciar passare quella splendida carrozza. Josépha giunse, spinta dalla curiosità; il suo cameriere le aveva detto che un vecchio invalido, incapace di lasciare la sua carrozza, la pregava di scendere per un istante. «Josépha! sono io!...»
L'illustre cantante non riconobbe il suo Hulot se non dalla voce.
«Come, sei tu, mio povero vecchio!... Parola mia, somigli alle monete da venti franchi che gli ebrei di Germania hanno lavato e che i cambiavalute rifiutano.»
«Ahimè! sì,» rispose Hulot, «esco dalle braccia della morte! Ma tu sei sempre bella, tu! Sarai anche buona?»
«Secondo, tutto è relativo!» disse lei.
«Ascoltami,» riprese Hulot. «Puoi alloggiarmi in una camera per i domestici, sotto i tetti, per qualche giorno? Sono senza un soldo, senza speranza, senza pane, senza pensione, senza moglie, senza figli, senza asilo, senza onore, senza coraggio, senza amici, e, quel che è peggio, sotto la minaccia delle cambiali...»
«Povero vecchio! Quanti senza! Sei anche senza mutande?»
«Tu ridi e io sono perduto!» esclamò il barone. «Eppure contavo su di te come Gourville su Ninon.»
«Mi hanno detto che è stata una donna della buona società a ridurti in questo stato. Queste istrione sanno spennare i tacchini meglio di noi!»
«Il tempo stringe, Josépha!»
«Entra, vecchio mio! sono sola, e i miei domestici non ti conoscono. Manda via la carrozza. È stata pagata?»
«Sì,» disse il barone mentre scendeva appoggiandosi al braccio di Josépha.
«Passerai, se vuoi, per mio padre,» disse la cantante mossa a pietà.
Fece sedere Hulot nel magnifico salotto dove l'aveva vista l'ultima volta.
«È vero, vecchio,» riprese lei, «che hai ucciso tuo fratello e tuo zio, rovinato la tua famiglia, sovraipotecato la casa dei tuoi figli e che ti sei mangiato il denaro della cassa del governo in Africa insieme con la principessa?»
Il barone chinò tristemente il capo.
«Be'!, mi piace!» esclamò Josépha, che si alzò piena di entusiasmo. «È un incendio che brucia tutto; è come Sardanapalo! è grandioso! totale! Si è delle canaglie, ma si ha un cuore. Ebbene, io preferisco uno che scialacqua tutto, appassionato come te per le donne a quei freddi banchieri senz'anima che passano per virtuosi e che rovinano migliaia di famiglie con le loro ferrovie che sono oro per loro e ferro per i babbei!
«Tu! tu hai rovinato solo i tuoi, hai disposto solo di te stesso! e poi hai una scusa, e fisica e morale...»
Si atteggiò a grande attrice tragica, e disse:

«C'est Vénus toute entière à sa proie attachée.»

«Ecco!» aggiunse, facendo una piroetta.
Hulot si trovava assolto dal vizio, il vizio gli sorrideva in mezzo al suo lusso sfrenato. L'enormità dei delitti era lì, come per i giurati, una circostanza attenuante.
«È bella, almeno, la tua donna della buona società?» chiese la cantante cercando, come prima elemosina, di distrarre Hulot, il cui dolore l'affliggeva profondamente.
«Quasi quanto te, direi!» rispose finemente il barone.
«È molto divertente? me l'hanno detto. Che ti faceva dunque? È più divertente di me?»
«Non ne parliamo più,» disse Hulot.
«Si dice che abbia agganciato il mio Crevel, il piccolo Steinbock e un magnifico brasiliano.»
«È molto probabile...»
«Sta in una palazzina bella come questa, che le è stata regalata da Crevel. Quella prostituta è il mio scudiero che finisce gli uomini ai quali io ho già dato un buon colpo. Ecco, vecchio mio, perché sono così curiosa di sapere com'è; l'ho intravista in calesse al Bois, ma da lontano.... «È,» m'ha detto Carabine, «una ladra matricolata. Sta cercando di papparsi Crevel! ma potrà soltanto rosicchiarlo. Crevel è un osso duro, un bonaccione che dice sempre sì, ma che finisce sempre per fare di testa sua. È vanitoso e passionale, ma il suo denaro è freddo. Da gente come lui non si cavano che mille-tremila franchi al mese, e si fermano davanti alla spesa grossa, come gli asini davanti a un fiume. Non è come te, vecchio mio, tu sei un uomo dalle grandi passioni, ti si farebbe vendere il tuo paese! Perciò, vedi, sono pronta a fare tutto per te! Tu sei mio padre, tu mi hai lanciata! E per me questo è una cosa sacra. Che cosa ti occorre? Vuoi centomila franchi? Ci si farà in quattro per trovarteli. Quanto a darti il vitto e l'alloggio, è cosa da niente. Avrai tutti i giorni un coperto qui da me, e potrai prendere una camera al secondo piano; inoltre, avrai cento scudi al mese per le tue piccole spese.»
Il barone, commosso da questa accoglienza, ebbe un ultimo guizzo di nobiltà.
«No, bambina, no, non sono venuto per farmi mantenere,» disse.
«Alla tua età, è un bel trionfo!» disse lei.
«Ecco quel che desidero, piccola mia. Il tuo duca d'Hérouville ha delle immense proprietà in Normandia, e vorrei essere il suo intendente sotto il nome di Thoul. Ho la capacità, l'onestà, perché si può portar via al proprio governo, ma non per questo si ruberà da una cassetta...»
«Eh, eh!» fece Josépha, «il lupo perde il pelo...»
«Insomma, domando soltanto di vivere in incognito per tre anni...»
«È questione di un istante; questa sera, dopo cena, non ho che da parlarne. Il duca mi sposerebbe, se io volessi; ma ho il suo patrimonio, voglio di più!... la sua stima. È un duca di alta classe. È nobile, è distinto, è grande come Luigi xiv e come Napoleone messi uno sopra l'altro, benché sia nano. E poi ho fatto come la Schontz con Rochefide: grazie ai miei consigli, poco tempo fa ha guadagnato due milioni. Ma ascoltami, vecchio originale... Io ti conosco, ti piacciono le donne, e laggiù correrai dietro alle piccole normanne, che sono delle ragazze splendide; ti farai rompere le ossa dai loro ragazzi o dai loro padri, e il duca sarà costretto a licenziarti. Non vedo forse, dal modo in cui mi guardi, che il ‹giovanotto› non è ancora stato ucciso in te, come ha detto Fénelon! Quell'intendenza non è roba per te. Vedi, vecchio mio, non si può rompere come e quando si vuole, con Parigi, con noialtre! Creperesti di noia a Hérouville!»
«Che fare, allora?» domandò il barone; «non voglio restare a casa tua che il tempo necessario per prendere una decisione.»
«Vediamo, vuoi che ti sistemi a modo mio? Ascolta, vecchio brigante!...»



XCIX • UN GIOIELLO

«Ti ci vogliono delle donne. Consolano di tutto. Ascoltami bene. In fondo alla Courtille, rue Saint-Maur-du Temple, conosco una povera famiglia che possiede un tesoro: una ragazzina più graziosa di quanto non lo fossi io a sedici anni!... Ah! I tuoi occhi si infiammano di già! Lavora sedici ore al giorno a ricamare delle stoffe preziose per i mercanti di seterie e guadagna sedici soldi al giorno, un soldo all'ora, una miseria!... E mangia, come gli irlandesi, patate, ma fritte nel grasso di topo, e pane cinque giorni alla settimana, beve l'acqua dell'Ourcq alle cannelle della città, perché l'acqua della Senna è troppo cara; e non può mettere su un negozio per conto suo per mancanza di sette o ottomila franchi. Farebbe qualunque cosa pur di avere quei sette o ottomila franchi. La tua famiglia e tua moglie ti danno fastidio, non è vero?... Del resto non ci si può vedere ridotti a una nullità, là dove prima si era un dio. Un padre senza denaro e senza onore lo si impaglia e lo si mette dietro un vetro...»
Il barone non poté fare a meno di sorridere a quelle atroci facezie.
«Ebbene, la piccola di Bijou viene domani a portarmi una veste da camera ricamata, un amore; ci hanno impiegato sei mesi a farla; nessuno potrà mai averne una simile! Bijou mi vuol bene, perché le do dei dolci e dei vecchi vestiti. Poi mando dei buoni per il pane, dei buoni per la legna e per la carne alla famiglia, che per me sarebbe capace di rompere le tibie al primo che capita a tiro, se solo lo volessi. Mi sforzo di fare un po' di bene! Ah! so quanto ho sofferto quando avevo fame! Bijou mi ha confidato i suoi piccoli segreti. C'è in quella ragazzina la stoffa di una comparsa dell'Ambigu-Comique. Bijou sogna di portare dei bei vestiti come i miei, e soprattutto di andare in carrozza. Le dirò: ‹Piccola mia, vuoi un signore di...?›
«Quanti ne hai di anni?» domandò interrompendosi, «settantadue?...»
«Non ho più età!»
«Vuoi,» le dirò, «un signore di settantadue anni, ben pulitino, che non fiuta tabacco, sano come un pesce, che vale quanto un giovanotto? Ti sposerai con lui nel tredicesimo; vivrà a modo con voi, vi darà settemila franchi perché lo manteniate, ti ammobilierà un appartamento tutto in mogano; poi, se sarai buona, ti porterà qualche volta a teatro. Ti darà cento franchi al mese per te, e cinquanta franchi per le spese! Conosco Bijou, è come me a quattordici anni! Ho fatto salti di gioia quando quell'orribile Crevel mi ha fatto queste stesse atroci proposte! Be', vecchio mio, tu te ne andrai a stare con lei per tre anni. È prudente, è onesto e del resto avrai ancora delle illusioni per tre o quattro anni, non di più.»
Hulot non esitò, la sua decisione di rifiutare era presa; ma per ringraziare la buona ed eccellente cantante che faceva il bene a modo suo ebbe l'aria di non saper scegliere fra il vizio e la virtù.
«Ah! Be'! Rimani freddo come un selciato in dicembre!» riprese lei, stupita. «Guarda! tu fai la felicità di una famiglia composta di un nonno costretto a correre continuamente, di una madre che si consuma a lavorare, e di due sorelle, di cui una bruttissima, che guadagnano in due trentadue soldi, rovinandosi gli occhi. Questo compensa l'infelicità che hai causato alla tua famiglia, e tu riscatti le tue colpe divertendoti come una donnina allegra a Mabille.»
Hulot, per porre fine a quella seduzione, fece il gesto di contare del denaro.
«Stai tranquillo per le entrate,» riprese Josépha. «Il mio duca ti presterà diecimila franchi: settemila per un laboratorio di ricami intestato a Bijou, tremila per metter su casa, e, ogni tre mesi, qui, troverai un assegno di seicentocinquanta franchi. Quando recupererai la tua pensione, restituirai al duca questi diciassettemila franchi. Intanto te ne starai, felice come un pascià, nascosto in un buco dove nemmeno la polizia riuscirà a trovarti. Ti metterai una pesante finanziera di castorino e avrai l'aria di essere un agiato proprietario del quartiere. Chiamati Thoul, se questo è il tuo capriccio. Con Bijou ti farò passare per uno dei miei zii venuto dalla Germania in seguito a fallimento, e sarai coccolato come un dio. Ecco, vecchio mio!... Chissà? Forse non rimpiangerai niente... Se per caso ti annoiassi, conserva uno dei tuoi begli abiti, e verrai qui a cena e a passare la serata.»
«E io che volevo diventare virtuoso, condurre una vita regolata!... Guarda, fammi prestare ventimila franchi, e me ne vado a far fortuna in America, come il mio amico d'Aiglemont quando Nucingen l'ha rovinato.»
«Tu!» esclamò Josépha, «lascia pure i buoni costumi ai droghieri, ai semplici marmittoni, ai cittadini frrrrancesi, che possiedono solo la virtù per farsi valere! Tu! Tu sei nato per essere diverso dai semplicioni, tu sei come uomo quello che io sono come donna: un genio della sregolatezza!»
«La notte porta consiglio, parleremo di tutto ciò domani.»
«Pranzerai con il duca. Il mio d'Hérouville ti riceverà gentilmente, come se tu avessi salvato lo stato! E domani prenderai una decisione. Su, allegro, vecchio mio! La vita è un abito: quando è sporco, lo si spazzola; quando è bucato, lo si rammenda; ma si rimane vestiti finché si può.»
Quella filosofia del vizio e il suo brio alleviarono le cocenti pene di Hulot. L'indomani, a mezzogiorno, dopo un pranzo succulento, Hulot vide entrare uno di quei capolavori viventi che Parigi, unica al mondo, può creare grazie all'incessante concubinaggio del lusso e della miseria, del vizio e dell'onestà, del desiderio represso e della tentazione sempre rinascente, che fa di questa città l'erede delle Ninive, delle Babilonie, della Roma imperiale. La signorina Olympe Bijou, una ragazzina di sedici anni, mostrò quel viso sublime che Raffaello ha trovato per le sue Vergini, degli occhi di una innocenza immalinconita dal lavoro eccessivo, occhi neri, sognanti, ornati di lunghe ciglia, il cui velo umido si asciugava alla luce della notte laboriosa, occhi incupiti dalla fatica; un colorito di porcellana soffuso di pallore; ma una bocca come una melagrana appena aperta, un seno prorompente, delle forme sode, mani graziose, denti di uno smalto di raro splendore, capelli neri fluenti; il tutto, vestito di cotone da settantacinque centesimi al metro, ornato di una collaretta ricamata, montato su delle scarpe di pelle senza chiodi e decorato di guanti da ventinove soldi. La fanciulla, che ignorava il proprio valore, aveva scelto la più bella toilette per recarsi dalla gran signora. Il barone, riafferrato dagli artigli della voluttà, sentì che la vita gli sfuggiva dagli occhi. Dimenticò tutto davanti a quella creatura sublime. Fu come il cacciatore che scorge la selvaggina: ci fosse anche un imperatore, punterebbe lo stesso il fucile!
«E,» gli disse Josépha in un orecchio, «è nuova garantita, è onesta! e non ha pane. Questa è Parigi! Io ero così!»
«D'accordo,» replicò il vecchio, alzandosi e fregandosi le mani.
Quando Olympe Bijou se ne fu andata, Josépha guardò il barone con aria maliziosa.
«Se non vuoi avere dispiaceri, vecchio mio, sii severo come un procuratore generale sul suo seggio. Tieni la piccina a freno, sii un Bartholo! Attenzione agli Auguste, agli Hippolite, ai Nestor, ai Victor, a tutti gli or!... Una volta che sarà vestita, nutrita, se alzerà la testa, tu sarai menato per il naso come un russo... Vedrò di sistemarti. Il duca fa le cose per bene; ti presta, cioè ti regala, diecimila franchi, e ne mette otto dal suo notaio, che sarà incaricato di versarti seicento franchi al trimestre, poiché non mi fido di te... Sono generosa, no?»
«Adorabile!»
Dieci giorni dopo aver abbandonato la sua famiglia, mentre, tutta in lacrime, questa era riunita intorno al letto di Adeline moribonda, che diceva con voce fievole: «Che cosa starà facendo?», Hector, sotto il nome di Thoul, in rue Saint-Maur, si trovava con Olympe a capo di un laboratorio di ricami, dall'assurda ragione sociale Thoul e Bijou.



C • IL LEGATO DEL MARESCIALLO

Victorin Hulot ricevette, dalla disgrazia accanitasi sulla sua famiglia, quell'ultimo colpo che rende perfetto o degrada un uomo. Egli divenne perfetto. Nelle grandi tempeste della vita, si imitano i comandanti che, durante gli uragani, alleggeriscono la nave delle mercanzie più pesanti. L'avvocato perdette l'intimo orgoglio, l'ostentata baldanza, la boria dell'oratore e le ambizioni politiche. Insomma, fu come uomo ciò che sua madre era come donna. Egli si decise ad accettare la sua Célestine, che certamente non realizzava il suo sogno; e giudicò con buon senso la vita, rendendosi conto che la convivenza costringe ad accontentarsi, in tutte le cose, del pressappoco. Giurò dunque a se stesso di compiere i suoi doveri, tanto la condotta del padre gli fece orrore. Quei sentimenti si rafforzarono al capezzale di sua madre, il giorno in cui ella fu fuori pericolo. Fu la prima felicità, non la sola. Claude Vignon, che, ogni giorno, veniva da parte del principe di Wissembourg a informarsi sullo stato di salute della signora Hulot, pregò il deputato rieletto di accompagnarlo dal ministro.
«Sua eccellenza,» gli disse, «desidera avere un colloquio con voi sui vostri affari di famiglia.»
Victorin Hulot e il ministro si conoscevano da molto tempo, per cui il maresciallo lo ricevette con una affabilità tutta speciale e che faceva sperar bene.
«Amico mio,» disse il vecchio guerriero, «ho giurato, in quest'ufficio, al maresciallo vostro zio, di aver cura di vostra madre. Mi hanno detto che quella santa donna sta riacquistando la salute; è venuto il momento di curare le vostre ferite. Ho duecentomila franchi per voi, e ve li consegno.»
L'avvocato fece un gesto degno del maresciallo suo zio.
«Rassicuratevi,» disse il principe sorridendo. «È un fidecommesso. I miei giorni sono contati, io non ci sarò sempre; prendete dunque questa somma, e sostituitemi in seno alla vostra famiglia. Potete servirvi di questo denaro per pagare le ipoteche che gravano sulla vostra casa. Questi duecentomila franchi appartengono a vostra madre e a vostra sorella. Se io dessi questa somma alla signora Hulot, la sua devozione verso suo marito mi farebbe temere di vederla dissipare; e l'intenzione di coloro che la restituiscono è che questo sia il pane della signora Hulot e di sua figlia, la contessa Steinbock. Voi siete un uomo assennato, il degno figlio della vostra nobile madre, il vero nipote del mio amico maresciallo; siete molto apprezzato qui al ministero, come altrove, mio caro amico. Siate dunque l'angelo tutelare della vostra famiglia, accettate il legato di vostro zio e il mio.»
«Monsignore,» disse Hulot prendendo la mano del ministro e stringendogliela, «gli uomini come voi sanno che i ringraziamenti a parole non significano nulla, la riconoscenza deve essere provata.»
«Provatemi la vostra!» disse il vecchio soldato.
«Che bisogna fare?»
«Accettare le mie proposte,» disse il ministro. «Vogliono nominarvi avvocato del contenzioso del Ministero della Guerra, che, per quanto riguarda il genio, si trova sovraccarico di processi a causa delle fortificazioni di Parigi; e ancora avvocato consulente della prefettura di polizia e consigliere della lista civile. Queste tre funzioni vi renderanno diciottomila franchi di stipendio e non vi toglieranno la vostra indipendenza. Voterete alla Camera secondo le vostre opinioni politiche e la vostra coscienza... Agite in tutta libertà! Del resto, saremmo molto imbarazzati se non avessimo un'opposizione nazionale! Infine, un biglietto di vostro zio, scritto qualche ora prima che egli rendesse l'ultimo respiro, mi ha suggerito come provvedere a vostra madre, che il maresciallo amava tanto!... Le signore Popinot, de Rastignac, de Navarreine, d'Espard, de Grandlieu, de Carigliano, de Lenancourt e de la Bâtie hanno istituito per la vostra mamma un posto di ispettrice di beneficenza. Queste dame, che presiedono alcune associazioni benefiche, non possono fare tutto e hanno bisogno di una signora proba che possa sostituirle attivamente, andare a visitare gli infelici, sapere se la carità non è stata ingannata, verificare se i soccorsi vengono consegnati a coloro che li hanno richiesti, andare nelle case dei poveri che si vergognano di chiedere un aiuto ecc. Vostra madre assolverà la missione di un angelo, e non avrà rapporti che con i signori curati e le dame di carità; le verranno dati seimila franchi all'anno, e le vetture saranno pagate. Voi vedete, giovanotto, che, dal fondo della sua tomba, l'uomo puro, l'uomo nobilmente virtuoso protegge ancora la sua famiglia. Nomi come quelli di vostro zio sono e devono essere un'egida contro la sventura nelle società ben organizzate. Seguite quindi le orme di vostro zio, persistete sulla via che avete intrapreso, perché già ci siete, lo so!»
«Tanta delicatezza, principe, non mi sorprende nell'amico di mio zio,» disse Victorin.
«Cercherò di non deludere le vostre speranze.»
«Andate subito a consolare la vostra famiglia! Ah!... ditemi,» riprese il principe scambiando una stretta di mano con Victorin, «vostro padre è sparito?»
«Ahimè! sì.»
«Tanto meglio. Quello sciagurato ha avuto, cosa che del resto non gli manca, dello spirito.»
«Teme per delle cambiali che deve pagare.»
«Ah! riceverete,» disse il maresciallo, «sei mesi d'onorario per i vostri tre posti. Questo pagamento anticipato vi aiuterà senza dubbio a ritirare quegli effetti dalle mani dell'usuraio. Vedrò del resto Nucingen, e forse potrò disimpegnare la pensione di vostro padre, senza che ciò venga a costare un soldo né a voi né al mio ministero. Il pari di Francia non ha ucciso il banchiere, Nucingen è insaziabile, e chiede una concessione per non so che cosa...»
Al suo ritorno in rue Plumet, Victorin poté dunque realizzare il progetto di prendere in casa propria la madre e la sorella.



CI • GRANDI CAMBIAMENTI

Il giovane e celebre avvocato possedeva, per tutto capitale, uno dei più begli stabili di Parigi, una casa acquistata nel 1834, in vista del suo matrimonio, e situata sul boulevard, fra la rue de la Paix e la rue Louis-le-Grand. Uno speculatore aveva costruito sulla strada e sul boulevard due case, in mezzo alle quali si trovava, fra due giardinetti e dei cortili, una magnifica palazzina, resto degli splendori del grande palazzo di Verneuil. Hulot figlio, sicuro della dote della signorina Crevel, acquistò per un milione, all'asta, questa superba proprietà per la quale pagò subito cinquecentomila franchi. Prese alloggio al pianterreno, credendo di poter completare il pagamento affittando il resto; ma, se le speculazioni sulle case a Parigi sono sicure, sono lente o capricciose, poiché dipendono da circostanze imprevedibili. Come i perdigiorno parigini hanno potuto notare, il boulevard fra la rue Louis-le-Grand e la rue de la Paix tardò a valorizzarsi; tanto tempo ci volle perché fosse ripulito e abbellito, che solo nel 1840 il commercio vi arrivò a fare sfoggio delle sue splendide vetrine, dell'oro dei cambiavalute, delle meraviglie della moda e del lusso sfrenato dei suoi negozi. Nonostante duecentomila franchi donati da Crevel alla figlia al tempo in cui il suo amor proprio era ancora lusingato da quel matrimonio e prima che il barone gli portasse via Josépha; nonostante duecentomila franchi pagati da Victorin in sette anni, il debito che gravava sull'immobile s'elevava ancora a cinquecentomila franchi, a causa della devozione del figlio per il padre. Fortunatamente l'aumento continuo dei fitti, la bellezza della posizione, davano in quel momento tutto il loro valore alle due case. La speculazione realizzava i suoi frutti a otto anni di scadenza, durante i quali l'avvocato si era sfiancato a pagare somme rilevanti per gli interessi anche se insignificanti rispetto al capitale da rendere. I negozianti stessi proponevano dei fitti vantaggiosi per le botteghe a condizione che i contratti avessero una durata di diciotto anni. Gli appartamenti aumentavano di prezzo a causa del trasferimento del centro degli affari, che si stabiliva allora fra la Borsa e la Madeleine, ormai sede del potere politico e della finanza a Parigi. La somma consegnata dal ministro, aggiunta all'anno pagato in anticipo, e agli aumenti di sottomano accordati dai locatari, avrebbero ridotto il debito di Victorin a duecentomila franchi. I due stabili interamente affittati dovevano fruttare centomila franchi all'anno. Ancora due anni, durante i quali Hulot figlio avrebbe vissuto con i suoi onorari raddoppiati grazie agli impieghi assegnatigli dal maresciallo, ed egli si sarebbe trovato in una splendida posizione. Era la manna caduta dal cielo. Victorin poteva dare a sua madre tutto il primo piano del padiglione, e a sua sorella il secondo, dove Lisbeth avrebbe avuto due camere. Infine, dirette dalla cugina Bette, tutte e tre le case avrebbero potuto far fronte a tutte le spese e presentare un aspetto decoroso, come si addiceva al celebre avvocato. Gli astri del tribunale si eclissavano rapidamente; e Hulot figlio, dotato di una parola pacata, di una severa probità, era ascoltato dai giudici e dai consiglieri; studiava con scrupolo le sue cause, non diceva niente che non potesse provare, non perorava indiscriminatamente tutte le cause, faceva insomma onore alla sua professione.
La sua abitazione, in rue Plumet, le era diventata talmente odiosa che la baronessa si lasciò trasportare in rue Louis-le-Grand. Grazie alla sollecitudine del figlio, Adeline occupò quindi un magnifico appartamento; fu sollevata da tutte le cure materiali dell'esistenza, poiché Lisbeth accettò l'incarico di ricominciare i prodigi economici realizzati in casa della signora Marneffe, vedendo in ciò un modo di far pesare la sua sorda vendetta su quelle tre così nobili esistenze, oggetto di un odio esasperato dal crollo di tutte le sue speranze. Una volta al mese andava a trovare Valérie, mandata da Hortense, che voleva avere notizie di Wenceslas, e da Célestine, terribilmente preoccupata per la relazione confessata e ostentata del padre con una donna alla quale sua suocera e sua cognata dovevano la loro rovina e la loro disgrazia. Come si può immaginare, Lisbeth approfittò di quella curiosità per vedere Valérie tutte le volte che lo desiderava.
Passarono circa venti mesi, durante i quali la salute della baronessa si ristabilì, senza tuttavia che il suo tremito nervoso cessasse. Si mise al corrente delle sue funzioni, che offrivano delle nobili distrazioni ai suoi dolori e un alimento alle divine facoltà del suo animo. Vi vide del resto un mezzo per ritrovare suo marito, sfruttando tutte le occasioni che la conducevano in tutti i quartieri di Parigi. Durante questo tempo, le cambiali di Vauvinet furono pagate, e la pensione di seimila franchi, liquidata a beneficio del barone Hulot, fu quasi liberata. Victorin pagava tutte le spese di sua madre, come pure quelle di Hortense, con i diecimila franchi di interessi del capitale datogli dal maresciallo in fidecommesso.
Ora, essendo lo stipendio di Adeline di seimila franchi, quella somma, unita ai seimila franchi della pensione del barone, doveva ben presto produrre un reddito di dodicimila franchi l'anno, libero da ogni onere, per la madre e per la figlia. La povera donna si sarebbe considerata quasi felice, senza le sue perpetue inquietudini sulla sorte del barone, che ella avrebbe voluto far godere della fortuna che cominciava a sorridere alla sua famiglia, senza lo spettacolo della figlia abbandonata, e senza i terribili colpi che le infliggeva innocentemente Lisbeth, la quale dava libero sfogo al suo carattere infernale.
Una scena svoltasi all'inizio del mese di marzo 1843 svelerà del resto gli effetti dell'odio persistente e latente di Lisbeth, sempre aiutata dalla signora Marneffe. Due grandi avvenimenti avevano avuto luogo in casa di quest'ultima. Anzitutto, Valérie aveva messo al mondo un bambino non vitale, il cui feretro le fruttava duemila franchi di rendita. Quanto poi al signor Marneffe, ecco la notizia che, undici mesi prima, Lisbeth, di ritorno da una esplorazione alla palazzina Marneffe, aveva dato alla famiglia:
«Stamattina,» aveva detto, «quell'orribile Valérie ha fatto chiamare il dottor Bianchon, per sapere se i medici che, il giorno prima avevano dato per spacciato suo marito, non si fossero sbagliati. Il dottore ha detto che, la notte stessa, quell'uomo immondo sarebbe finito all'inferno che lo aspetta. Il vecchio Crevel e la signora Marneffe hanno accompagnato alla porta il medico, al quale vostro padre, mia cara Célestine, ha regalato cinque monete d'oro per quella buona notizia. Rientrato in salotto, Crevel ha fatto uno scambietto come un vero ballerino; ha abbracciato quella donna, e gridava: ‹Sarai finalmente la signora Crevel!...› E a me, quando lei ci ha lasciati soli per andare a riprendere il suo posto al capezzale del marito che rantolava, il vostro onorevole padre m'ha detto: ‹Con Valérie per moglie, diventerò pari di Francia! Comprerò una tenuta che tengo d'occhio da tempo, la tenuta di Presles, che la signora de Sérizy vuol vendere. Sarò Crevel di Presles, diventerò membro del Consiglio generale del dipartimento di Seine-et-Oise e deputato. Avrò un figlio! Sarò tutto quello che vorrò essere.› ‹Ebbene,› gli ho detto, ‹e vostra figlia?› ‹Bah! è una figlia,› ha risposto, ‹ed è diventata un po' troppo una Hulot... Valérie ha in odio quella gente... Mio genero non ha mai voluto venire qui; perché fa il mentore, lo spartano, il puritano, il filantropo? Del resto, mi sono sdebitato con mia figlia; ha ricevuto tutta la fortuna di sua madre e duecentomila franchi in più! Perciò sono padrone di agire come voglio. Giudicherò mio genero e mia figlia al momento del mio matrimonio; come faranno loro, farò io. Se si comporteranno bene con la matrigna, vedrò! Sono un uomo, io!› Insomma, tutte le sue solite sciocchezze, e si metteva in posa come Napoleone sulla colonna!»
I dieci mesi di vedovanza ufficiale, ordinati dal codice napoleonico, erano spirati da alcuni giorni. La tenuta di Presles era stata comprata. Victorin e Célestine avevano inviato la mattina stessa Lisbeth a casa della signora Marneffe a prendere notizie sul matrimonio di quell'affascinante vedova con il sindaco di Parigi, divenuto membro del consiglio generale del dipartimento di Seine-et-Oise.



CII • LA SPADA DI DAMOCLE

Célestine e Hortense, i cui legami affettivi si erano fatti più intensi da quando abitavano sotto lo stesso tetto, vivevano quasi sempre insieme. La baronessa, spinta da un senso di rettitudine che le faceva esagerare i doveri del suo incarico, si dedicava interamente alle opere di beneficenza delle quali era intermediaria e usciva quasi tutti i giorni dalle undici alle cinque. Le due cognate, riunite dalle cure che dovevano prestare ai loro bambini, che sorvegliavano in comune, restavano dunque a casa e lavoravano insieme. Erano arrivate a dirsi apertamente i loro pensieri, vivendo in tenero accordo come due sorelle, l'una felice, l'altra malinconica. Bella, piena di una vitalità straripante, allegra e spiritosa, la sorella sfortunata sembrava smentire la sua situazione reale col suo comportamento esteriore; allo stesso modo che l'altra, la malinconica, dolce e calma, posata come la ragione, abitualmente pensosa e riflessiva, poteva far credere a delle pene segrete. Forse quel contrasto contribuiva alla loro viva amicizia. Le due donne si prestavano l'una all'altra ciò che mancava loro. Sedute in un piccolo chiosco, in mezzo al giardinetto che la cazzuola della speculazione aveva rispettato per un capriccio del costruttore, il quale contava di conservare quei cento piedi quadrati per sé, esse vedevano con gioia spuntare i primi germogli di lillà, festa primaverile che può essere assaporata in tutta la sua bellezza solamente a Parigi, dove, durante sei mesi, i parigini hanno vissuto nell'oblio della vegetazione, fra le scogliere di pietra dove si agita il loro oceano umano.
«Célestine,» diceva Hortense rispondendo a una osservazione di sua cognata, che si rammaricava perché suo marito, con un così bel tempo, dovesse restarsene alla Camera, «trovo che non apprezzi abbastanza la tua felicità. Victorin è un angelo, e tu a volte lo tormenti.»
«Mia cara, agli uomini piace essere tormentati! Certe molestie sono per loro, a volte, una prova di affetto. Se la tua povera mamma fosse stata non dico esigente, ma sempre sul punto di esserlo, non avreste probabilmente avuto tante sventure di cui lamentarvi.»
«Lisbeth non torna! Canterò la canzone di Malbrouck!» disse Hortense. «Non vedo l'ora di avere notizie di Wenceslas!... Di che cosa vive? Sono due anni che non fa nulla.»
«Victorin mi ha detto di averlo intravisto l'altro giorno con quell'odiosa donna, e suppone che sia lei a mantenerlo nella pigrizia... Ah! se tu volessi, cara sorella, potresti ancora far tornare a casa tuo marito.»
Hortense fece un cenno di diniego col capo.
«Credimi, la tua situazione diventerà ben presto intollerabile,» continuò Célestine. «In un primo momento la collera, la disperazione, l'indignazione, ti hanno dato forza. Le sventure inaudite che poi si sono abbattute sulla nostra famiglia - due morti, la rovina, la catastrofe del barone Hulot - hanno tenuto occupata la tua mente e il tuo cuore; ma ora che vivi nella calma e nel silenzio, non sopporterai facilmente il vuoto della tua vita; e poiché non puoi e non vuoi uscire dal sentiero dell'onore, dovrai pure riconciliarti con Wenceslas. Victorin, che ti vuole tanto bene, è di questo avviso. C'è qualcosa di più forte dei nostri sentimenti, è la natura.»
«Un uomo così vile!» esclamò l'orgogliosa Hortense. «Ama quella donna perché lo mantiene... Gli ha dunque pagato i suoi debiti? Lei! Mio Dio! penso giorno e notte alla situazione di quell'uomo! Egli è il padre del mio bambino e si disonora...»
«Guarda tua madre, mia cara...» riprese Célestine.
Célestine apparteneva a quel genere di donne che, quando vengono date loro delle ragioni talmente forti da convincere dei contadini bretoni, ricominciano per la centesima volta a sostenere il ragionamento iniziale. La sua faccia un po' piatta, fredda e comune, i suoi capelli castano chiari acconciati in rigide bande, il colore della carnagione, tutto indicava in lei la donna ragionevole, senza fascino, ma anche senza debolezza.
«La baronessa accetterebbe volentieri di essere vicina al suo disonorato consorte, di consolarlo, di nasconderlo nel suo cuore a tutti gli sguardi,» continuò Célestine. «Ha fatto mettere in ordine, di sopra, la camera del signor Hulot, come se, da un giorno all'altro, dovesse ricondurvelo.»
«Oh! mia madre, è sublime!» rispose Hortense, «è sublime a ogni istante, tutti i giorni da ventisei anni; ma io non ho quel temperamento... Che vuoi! A volte mi arrabbio con me stessa. Ah! tu non sai cosa significhi, Célestine, venire a compromessi con l'infamia!...»
«E mio padre!...» riprese tranquillamente Célestine. «È certamente sulla stessa via dove il tuo si è perduto! Mio padre ha dieci anni di meno del barone, è stato commerciante, è vero; ma come andrà a finire? Quella signora Marneffe ha fatto di mio padre il suo cane, dispone del suo patrimonio, delle sue idee, e niente potrà riaprirgli gli occhi! Insomma, tremo all'idea di apprendere che le pubblicazioni del suo matrimonio sono state affisse! Mio marito sta facendo ogni sforzo, lui considera un dovere vendicare la società, la famiglia, e chieder conto a quella donna di tutti i suoi crimini. Ah! cara Hortense, degli spiriti nobili come quello di Victorin, dei cuori come i nostri comprendono troppo tardi il mondo e i suoi inganni. Ciò che sto per dirti, cara sorella, è un segreto; te lo confido perché ti interessa, ma non una parola, non un gesto lo rivelino né a Lisbeth, né a tua madre, né ad alcuno, perché...»
«Ecco Lisbeth!» disse Hortense. «Ebbene, cugina, come va l'inferno di rue Barbet?»
«Male per voi, figliole. Tuo marito, mia buona Hortense, è più pazzo che mai di quella donna, che, ne convengo, prova per lui una passione folle. Vostro padre, cara Célestine, ha completamente perduto la ragione per lei. Questo non è niente, è ciò che vedo in quella casa ogni quindici giorni, quando mi ci reco, e veramente mi reputo fortunata per non avere mai avuto a che fare con un uomo... Sono delle vere bestie! Da qui a cinque giorni, Victorin e voi, piccola cara, avrete perduto la fortuna di vostro padre!»
«Le pubblicazioni sono state fatte?...» disse Célestine.
«Sì,» rispose Lisbeth. «Poco fa ho difeso la vostra causa. Ho detto a quel mostro, che segue le orme dell'altro, che, se avesse voluto tirarvi fuori dalle difficoltà in cui vi trovate, pagando la vostra casa, gliene sareste stati riconoscenti, che avreste ricevuto la vostra matrigna.»
Hortense fece un gesto di spavento.
«Deciderà Victorin,» rispose Célestine freddamente.
«Sapete cosa mi ha risposto il signor sindaco?» riprese Lisbeth: «‹Voglio lasciarli nelle peste! I cavalli si domano solo con la fame, la mancanza di sonno e lo zucchero!› Il barone Hulot era meglio del signor Crevel... E così, miei poveri ragazzi, rassegnatevi alla perdita dell'eredità. E che fortuna perdete! Vostro padre ha pagato i tre milioni della tenuta di Presles, e gli restano trentamila franchi di rendita! Oh! egli non ha segreti per me! Parla di comprare il palazzo di Navarreins, in rue du Bac. La signora Marneffe possiede, lei, quarantamila franchi di rendita. Ah! ecco il nostro angelo custode, ecco tua madre!...» esclamò udendo il rumore di una vettura.
Di lì a poco, infatti, la baronessa discese la scalinata esterna e venne a unirsi al gruppo dei familiari. A cinquantacinque anni, provata da tanti dolori, con un tremito continuo, che la scuoteva come se avesse brividi di febbre, Adeline, col viso più pallido e più segnato, conservava una bella figura, un profilo magnifico e la naturale nobiltà del portamento. Vedendola, veniva fatto di dire: «Doveva essere molto bella ai suoi tempi!» Divorata dall'ansia dolorosa di conoscere la sorte di suo marito, di non poter condividere con lui, in quell'oasi parigina, in quel luogo appartato e silenzioso, il benessere di cui la famiglia godeva, ella presentava la soave maestà delle rovine. A ogni luce di speranza svanita, a ogni ricerca inutile, Adeline cadeva in uno stato di cupa malinconia che prostrava i suoi figli. La baronessa, partita la mattina con una speranza, era attesa impazientemente. Un intendente generale, beneficiato da Hulot, al quale quel funzionario doveva la sua fortuna amministrativa, diceva di aver visto il barone in un palco, al teatro de l'Ambigu-Comique, con una donna di splendida bellezza. Adeline era andata dal barone Vernier. L'alto funzionario, pur affermando di aver visto il suo vecchio protettore, e sostenendo che la sua maniera di comportarsi con quella donna durante la rappresentazione faceva pensare a un matrimonio clandestino, aveva detto alla signora Hulot che suo marito, per evitare di incontrarlo, era uscito molto prima della fine dello spettacolo.
«Con lei aveva modi confidenziali, familiari. Quanto all'abbigliamento,» concluse, «denunciava una mancanza di mezzi che cercava di nascondere.»
«Ebbene?» dissero le tre donne alla baronessa.
«Ebbene,» rispose Adeline, «il signor Hulot è a Parigi, e questo - saperlo vicino a noi - è già per me un raggio di felicità.»
«Non sembra che si sia ravveduto!» disse Lisbeth quando Adeline ebbe finito di riferire il suo colloquio col barone Vernier, «si sarà messo con una piccola operaia... Ma dove può prendere il denaro? Scommetto che ne chiede alle sue ex amanti, alla signorina Jenny Cadine o a Josépha.»
La baronessa fu colta da un tremito nervoso ancor più violento; si asciugò le lacrime che le empivano gli occhi, e li alzò dolorosamente al cielo.
«Non credo che un grande ufficiale delle Legion d'Onore sia sceso così in basso,» disse.
«Che cosa non farebbe per soddisfare i suoi piaceri!» riprese Lisbeth; «ha rubato allo Stato, ruberà ai privati, assassinerà, forse...»
«Oh! Lisbeth!» esclamò la baronessa, «tienti questi pensieri per te.»



CIII • L'AMICO DEL BARONE HULOT

In quel momento Louise raggiunse il gruppo familiare, al quale si erano uniti i due piccoli Hulot e il piccolo Wenceslas per vedere se le tasche della loro nonna non contenessero qualche dolcetto.
«Che c'è, Louise?...» le fu chiesto.
«C'è un uomo che chiede della signorina Fischer.»
«Che uomo è?» disse Lisbeth.
«Signorina, è vestito di stracci, ha addosso della penna come un materassaio, ha il naso rosso e puzza di vino e di acquavite... È uno di quegli operai che lavorano sì e no la metà della settimana.»
Questa descrizione poco allettante ebbe per effetto di far correre Lisbeth nella corte della casa di rue Louis-le-Grand, dove trovò l'uomo intento a fumar la pipa: una pipa così ingrommata, che faceva pensare a un vero artista del fumo.
«Perché venite qui, papà Chardin?» gli disse. «Eravamo d'accordo che vi sareste trovato il primo sabato di ogni mese alla porta della palazzina Marneffe in rue Barbet-de-Jouy; arrivo proprio ora di là, dopo esserci rimasta per cinque ore, e voi non ci siete venuto.»
«Ci sono stato, rispettabile e caritatevole signorina!» rispose il materassaio, «ma c'era una poule al bar des Savants, in rue du Coeur Volant, e ognuno ha la sua passione. Per me è il biliardo. Senza il biliardo, mangerei in piatti d'argento; perché capite bene questo!» disse cercando un pezzo di carta nel taschino dei suoi pantaloni strappati, «il biliardo comporta il bicchierino e la prugna all'acquavite... È disastroso, come tutte le belle cose, a causa degli accessori. So bene la consegna, ma il vecchio si trova in un così grosso impiccio, che sono venuto sul terreno proibito. Se il nostro crine fosse tutto crine, ci si potrebbe dormire sopra; ma è talmente mischiato! Dio non è per tutti, come si usa dire, ha delle preferenze; è il suo diritto. Ecco lo scritto del vostro esimio parente e molto amico del materasso... In ciò sta la sua opinione politica.»
Il vecchio Chardin cercò di tracciare nell'aria degli zig-zag con l'indice della mano destra. Lisbeth, senza badargli, leggeva quelle due righe:

«Cara cugina, siate la mia provvidenza! Datemi trecento franchi oggi.Hector»

«Perché vuole tanto denaro?»
«Il proprietario!» disse il vecchio Chardin, che cercava sempre di disegnare arabeschi nell'aria. «E poi mio figlio è tornato dall'Algeria, attraverso la Spagna, Bayonne, e... egli non ha rubato niente contrariamente alle sue abitudini, perché, con rispetto parlando, è un vero malandrino, mio figlio. Che volete! ha fame; ma vi restituirà quello che gli presteremo, poiché vuole fare una comme on dite; ha certe idee che possono portar lontano...»
«Sì in tribunale!» ribatté Lisbeth. «È l'assassino di mio zio! E non lo dimenticherò mai.»
«Lui! non sarebbe nemmeno capace di ammazzare un pollo, rispettabile signorina!»
«Tenete, ecco trecento franchi,» disse Lisbeth, cavando quindici monete d'oro dalla borsa. «Andatevene e non ritornate mai più qui...»
Accompagnò il padre del magazziniere dei viveri di Orano fino alla porta, e di lì indicò il vecchio ubriaco al portiere.
«Tutte le volte che quell'uomo verrà, se per caso dovesse venire, non lo lascerete entrare, e gli direte che non ci sono. Se cercasse di sapere se il signor Hulot figlio, se la baronessa Hulot abitano qui, gli risponderete che non conoscete quelle persone...»
«Bene, signorina.»
«Ne va del vostro posto, nel caso faceste qualche sciocchezza, anche involontaria,» disse la zitella all'orecchio della portiera: «Cugino mio,» disse poi all'avvocato che rientrava, «siete minacciato da una grande sventura!»
«Quale?»
«Vostra moglie avrà, fra qualche giorno, la signora Marneffe per matrigna.»
«È quel che vedremo!» rispose Victorin.
Da sei mesi Lisbeth pagava regolarmente una piccola pensione al suo protettore, il barone Hulot, del quale era diventata la protettrice; conosceva il segreto della sua dimora, e assaporava le lacrime di Adeline, alla quale, quando la vedeva serena e piena di speranza, diceva, come abbiamo appena veduto: «Aspettatevi di leggere un giorno o l'altro il nome del mio povero cugino sulla cronaca giudiziaria dei giornali.» In questo, come già in precedenza, andava troppo oltre con la sua vendetta. Aveva perciò reso circospetto Victorin, il quale aveva deciso di farla finita con la spada di Damocle che Lisbeth faceva continuamente incombere su di loro e con quel demonio di donna alla quale sua madre e la famiglia dovevano tante sventure. Il principe di Wissembourg, che conosceva la condotta della signora Marneffe, appoggiava l'impresa segreta dell'avvocato, gli aveva promesso, come promette un presidente del Consiglio, l'intervento segreto della polizia per aprire gli occhi a Crevel e per salvare tutto un patrimonio dalle grinfie della diabolica cortigiana, alla quale egli non perdonava né la morte del maresciallo Hulot né la totale rovina del consigliere di Stato.



CIV • IL VIZIO E LA VIRTÙ

Quelle parole: «Ne chiede alle sue ex amanti!» dette da Lisbeth, assillarono la baronessa per tutta la notte. Simile ai malati incurabili che si affidano ai ciarlatani, simile alle anime arrivate nell'ultimo girone dantesco della disperazione, o ai naufraghi sul punto di affogare, i quali scambiano dei legni galleggianti per cime di salvataggio, ella finì per dar credito alla bassezza il cui solo sospetto l'aveva indignata, ed ebbe l'idea di ricorrere all'aiuto di una di quelle odiose donne. L'indomani mattina, senza consultare i suoi figli, senza dire una parola a nessuno, andò a casa della signorina Josépha Mirah, «prima donna» dell'accademia reale di musica, per dare corpo alla speranza che come un fuoco fatuo era balenata nel suo animo o per perderla definitivamente. A mezzogiorno la cameriera della celebre cantante consegnava alla sua padrona il biglietto da visita della baronessa Hulot, dicendole che quella persona aspettava alla porta dopo aver fatto chiedere se la signorina poteva riceverla.
«L'appartamento è in ordine?»
«Sì, signorina.»
«I fiori sono stati rinnovati?»
«Sì, signorina.»
«Di' a Jean di dare un'occhiata in giro, che tutto sia perfetto, prima di fare entrare quella signora e che si abbia per lei il più grande rispetto; vai, e torna a vestirmi, perché voglio essere sfacciatamente bella!» E andò a guardarsi allo specchio.
«E ora facciamoci belle!» si disse. «Bisogna che il vizio sia armato di fronte alla virtù. Povera donna! Che cosa vorrà mai? mi turba vedere ‹Dell'infelicità l'augusta vittima!...›»
Stava finendo di cantare quell'aria famosa quando la sua cameriera entrò.
«Signorina,» disse la cameriera, «quella signora è presa da un tremito nervoso...»
«Offritele dell'acqua di fior d'arancio, del rhum, un brodo!»
«Già fatto, signorina, ma ha rifiutato tutto, dicendo che si tratta di un piccolo malanno, di nervi irritati...»
«Dove l'avete fatta entrare?»
«Nel salotto grande.»
«Spicciati, ragazza mia! Presto, le mie pantolole più belle, la veste da camera a fiori che mi ha ricamato Bijou, e merletti, tanti merletti. Fammi una pettinatura da sbalordire una donna... Quella donna è la mia antagonista! E che si dica a quella signora... (poiché è una grande signora, ragazza mia! È, anzi, quello che tu non sarai mai: una donna le cui preghiere liberano le anime del vostro purgatorio!). Che le si dica che sono a letto, che ho recitato ieri, che mi alzo subito...»
La baronessa, introdotta nel grande salotto dell'appartamento di Josépha, non si accorse di quanto tempo passò, benché vi rimanesse ad attendere una buona mezz'ora. Il salotto, già rinnovato interamente dopo l'insediamento di Josépha nella palazzina, era in seta color massaca e oro. Il lusso che un tempo i grandi signori profondevano nelle loro piccole case, e di cui tanti magnifici resti attestano quelle «follie» che così bene giustificano il loro nome, splendeva in tutta la perfezione dovuta ai moderni ritrovati, nelle quattro stanze, aperte, dove un calorifero dalle bocche invisibili manteneva un dolce tepore. La baronessa, stordita, esaminava con profondo stupore, uno per uno, tutti quegli oggetti d'arte. Vi trovava la spiegazione di tante fortune fuse nel crogiuolo sotto il quale il piacere e la vanità attizzano un fuoco divorante. La donna che, da ventisei anni, viveva in mezzo alle fredde reliquie del lusso imperiale, i cui occhi contemplavano tappeti dai fiori scoloriti, bronzi senza più doratura, tappezzerie di seta avvizzite come il suo cuore, scoprì la potenza delle seduzioni del vizio vedendone gli effetti. Non si poteva non invidiare quelle belle cose, quelle mirabili creazioni alle quali i grandi artisti sconosciuti, che fanno la Parigi odierna e la sua produzione artistica europea, avevano contribuito. Lì, tutto sorprendeva per la perfezione del pezzo unico. Poiché gli stampi erano stati distrutti, le forme, le statuine, le sculture, erano tutte originali. È questo, oggi, il massimo del lusso. Possedere cose che non siano state volgarizzate da duemila borghesi opulenti, che credono molto elegante circondarsi di oggetti costosi di cui sono pieni i negozi, è l'impronta del vero lusso, il lusso dei grandi signori di oggi, stelle effimere del firmamento parigino. Esaminando delle giardiniere piene dei fiori esotici più rari, decorate di bronzi cesellati e fatti nel genere detto di Boule, la baronessa rimase sbigottita dalla profusione di ricchezze contenute in quell'appartamento. Necessariamente, quel sentimento influì sulla sua considerazione di colei che si circondava di così meravigliose ed esuberanti ricchezze. Adeline pensò che Josépha Mirah, il cui ritratto, dovuto al pennello di Joseph Bridap, risplendeva nel salottino vicino, era una cantante di genio, una Malibran, e si aspettava di vedere una vera lionne. Si pentì di essere venuta. Ma, nello stesso tempo, era spinta da un sentimento così potente, così naturale, da una dedizione così spontanea, che raccolse tutto il suo coraggio per affrontare il colloquio. E poi, stava per soddisfare quella curiosità, che la pungeva, di studiare il fascino posseduto da quella specie di donne, il fascino che permetteva loro di estrarre tanto oro dagli avari giacimenti del suolo parigino. La baronessa si guardò per vedere se non stonasse fra quel lusso, ma portava bene il suo abito di velluto a pettorina, su cui spiccava una collaretta di finissime trine; anche il cappello di velluto, dello stesso colore, le donava. Vedendosi ancora imponente come una regina, che resta sempre regina anche quando è stata destituita, pensò che la nobiltà della sventura valesse la nobiltà del talento. Sentì aprire e chiudere delle porte, e vide finalmente Josépha. La cantante somigliava alla Giuditta dell'Allori, scolpita nel ricordo di tutti coloro che l'hanno veduta a palazzo Pitti, vicino alla porta del grande salone: stessa fierezza di posa, stesso viso sublime, capelli neri intrecciati senza ricercatezza, e una veste da camera gialla dai mille fiori ricamati, assolutamente simile al broccato di cui è vestita l'immortale omicida creata dal nipote del Bronzino.
«Signora baronessa, voi mi vedete confusa dell'onore che mi fate venendo qui,» disse la cantante, che si era ripromessa di recitare bene la sua parte di gran dama.
Spinse lei stessa una poltrona imbottita alla baronessa, e prese per sé un seggiolino pieghevole. Riconobbe la bellezza scomparsa di quella donna, e fu presa da una pietà profonda vedendola agitata da quel tremito nervoso che la minima emozione rendeva convulso. Al primo sguardo le si rivelò quella vita santa che un tempo Hulot e Crevel le descrivevano, e allora non solo abbandonò l'idea di lottare con quella donna, ma si umiliò davanti a quella grandezza che aveva compreso. La sublime artista ammirò ciò che la cortigiana irrideva.
«Signorina, mi conduce qui la disperazione, che fa ricorrere a tutti i mezzi...»
Un gesto di Josépha fece comprendere alla baronessa di aver ferito quella donna, dalla quale si aspettava tanto, e guardò l'artista. Quello sguardo supplice spense la fiamma degli occhi di Josépha, che finì per sorridere. Fra le due donne ci fu uno scambio di sguardi silenziosi di una terribile eloquenza.
«Sono già trascorsi due anni e mezzo da quando il signor Hulot ha lasciato la sua famiglia, e ignoro dove sia, benché sappia che abita a Parigi,» riprese la baronessa con voce commossa. «Un sogno mi ha dato l'idea, forse assurda, che voi avete dovuto interessarvi al signor Hulot. Se poteste mettermi in grado di rivedere il signor Hulot, ah! signorina, pregherei Dio per voi, tutti i giorni, per tutto il tempo che resterò su questa terra...»
Due grosse lacrime apparvero sugli occhi della cantante e ne annunciarono la risposta.
«Signora,» disse con accento di profonda umiltà, «vi ho fatto del male senza conoscervi, ma ora che ho la fortuna, vedendovi, di avere scoperto la più grande immagine della virtù su questa terra, credetemi che sento tutta la portata della mia colpa, ne provo un sincero pentimento; perciò siate certa che farò di tutto per ripararla!...»
Prese la mano della baronessa, senza che questa avesse potuto opporsi al suo gesto, la baciò nel modo più rispettoso, si umiliò piegando il ginocchio. Poi si alzò, fiera come quando entrava sulla scena nella parte di Mathilde, e suonò.
«Andate,» disse al cameriere, «andate a cavallo, e sfiancatelo se necessario, trovatemi la piccola Bijou, in rue Saint-Maur-du Temple, conducetemela, fatela salire in vettura e pagate il cocchiere perché vada al galoppo. Non perdete un minuto... o vi licenzio.»
«Signora,» disse poi rivolgendosi alla baronessa e parlando con voce piena di rispetto, «dovete perdonarmi. Appena ho avuto il duca d'Hérouville per protettore, vi ho restituito il barone, sapendo che rovinava per me la sua famiglia. Che potevo fare di più? Nella carriera teatrale, una protezione è necessaria a noi tutte nel momento in cui debuttiamo. I nostri stipendi non saldano la metà delle nostre spese, per cui ci prendiamo dei mariti temporanei... Non ero affezionata al signor Hulot, che mi ha fatto lasciare un uomo ricco, una bestia vanitosa. Il vecchio Crevel mi avrebbe certamente sposato...»
«Me l'ha detto,» fece la baronessa interrompendo la cantante.
«Ebbene, vedete signora! io oggi sarei una donna onesta, non avendo avuto che un marito legittimo.»
«Avete delle scusanti, signorina,» disse la baronessa, «Dio le apprezzerà. Ma io, lungi dal farvi dei rimproveri, sono venuta a pagare un debito di riconoscenza.»
«Signora, ho provveduto, saranno presto tre anni, ai bisogni del signor barone...»
«Voi!» esclamò la baronessa, con le lagrime agli occhi. «Ah! che posso fare per voi? Solo pregare...»
«Io e il signor d'Hérouville,» riprese la cantante, «un cuore nobile, un vero gentiluomo...»
E Josépha raccontò la storia della sistemazione e del «matrimonio» del vecchio Thoul.
«Così, signorina,» disse la baronessa, «grazie a voi, a mio marito non è mancato nulla.»
«Abbiamo fatto quanto ci è stato possibile, signora.»
«E dove si trova, ora?»
«Il signor duca mi ha detto, circa sei mesi fa, che il barone, conosciuto dal suo notaio col nome di Thoul, aveva dato fondo agli ottomila franchi che gli dovevano essere consegnati in rate uguali ogni tre mesi,» rispose Josépha. «Né io né il signor d'Hérouville abbiamo sentito più parlare del barone. La nostra vita è così occupata, così piena, che non ho potuto correre dietro al vecchio Thoul. Purtroppo, da sei mesi, Bijou, la mia ricamatrice, la sua... come potrei dire?»
«La sua amante,» disse la signora Hulot.
«La sua amante,» ripeté Josépha, «non è venuta qui. La signorina Olympe Bijou potrebbe benissimo aver rotto con lui. Nel nostro arrondissement questi divorzi sono frequenti.»



CV • LIQUIDAZIONE DELLA DITTA THOUL E BIJOU

Josépha si alzò, scelse i fiori più rari delle sue giardiniere, e ne fece un incantevole, delizioso mazzo per la baronessa, la cui attesa, possiamo ben dirlo, era stata completamente delusa. Simile a quei buoni borghesi che prendono le persone di genio per delle specie di mostri che mangiano, bevono, camminano, parlano in modo del tutto diverso dagli altri uomini, la baronessa aveva sperato di vedere Josépha l'affascinante, Josépha la cantatrice, la cortigiana spiritosa, l'amante raffinata; ella trovò invece una donna calma e posata, che aveva la nobiltà del suo talento, la semplicità di un'attrice che sa di essere regina la sera, e, soprattutto, una giovane che con i suoi sguardi, col suo contegno e i suoi modi, rendeva completo e totale omaggio alla donna virtuosa, alla Mater dolorosa dell'inno religioso, e che adornava di fiori le piaghe, come in Italia si adorna di fiori la Madonna.
«Signora,» venne a dire il domestico di ritorno in capo a mezz'ora, «la madre di Bijou è per la strada; ma non è possibile contare sulla piccola Olympe. La ricamatrice della signora è diventata una borghese, si è sposata...»
«Si è messa con qualcuno?» chiese Josépha.
«No, signora, si tratta di un vero matrimonio. Dirige un magnifico laboratorio, ha sposato il proprietario di un grande negozio di mode dove sono stati spesi milioni, sul boulevard des Italiens, e ha lasciato il suo vecchio laboratorio di ricamo a sua sorella e a sua madre. È diventata la signora Grenouville. Quel grasso negoziante...!»
«Un Crevel!»
«Sì, signora, ha dato trentamila franchi di rendita alla signorina Bijou all'atto del contratto di matrimonio. Sua sorella maggiore sta per sposarsi anche lei, con un ricco macellaio, dicono.»
«Mi sembra che la vostra faccenda si metta assai male,» disse la cantante alla baronessa. «Il signor barone non è più dove l'avevo sistemato.»
Dieci minuti dopo, fu annunciata la signora Bijou. Josépha, per prudenza, fece passare la baronessa nel suo salottino, tirandone un pannello.
«L'intimidireste,» disse alla baronessa, «e non si lascerebbe sfuggire niente intuendo che siete interessata alle sue confidenze; lasciate che sia io a farla parlare! Nascondetevi qui, da dove potete sentire tutto. Questa scena si recita tanto spesso nella vita che a teatro.»
«Be', mamma Bijou,» disse la cantante a una vecchia avvolta in una stoffa scozzese, e che somigliava a una portinaia vestita a festa, «e così siete tutti felici! Vostra figlia ha avuto fortuna!»
«Oh! felici!... mia figlia ci dà cento franchi al mese, e lei va in carrozza, e mangia in piatti d'argento; è una milionaria! Olympe avrebbe ben potuto cavarmi dai guai. Lavorare alla mia età!... Vi par giusto?»
«Ha torto di essere ingrata, perché vi deve la sua bellezza,» rispose Josépha; «ma perché non è venuta a trovarmi? Sono io che l'ho tirata fuori dalla miseria facendole sposare mio zio...»
«Sì, signora, papà Thoul!... Ma è ben vecchio e malandato.»
«Che ne avete fatto? Abita ancora con voi? Vostra figlia ha fatto davvero male a separarsi da lui; adesso è ricco a milioni!»
«Ah! Dio del cielo,» disse la vecchia Bijou, «...è quello che le si diceva quando si comportava male con lui che era la dolcezza in persona, povero vecchio! Ah! se lo faceva sgobbare! Olympe l'hanno fatta diventare cattiva, signora!»
«E come?»
«Ha conosciuto, con rispetto parlando, signora, un claqueur, pronipote di un vecchio materassaio del faubourg Saint-Marceau. Quel perdigiorno, come tutti i bei ragazzi, un bazzicatore di teatro, è il galletto del boulevard du Temple, dove lavora alle commedie e cura le entrate in scena delle attrici, come dice lui. La mattina, pranza; prima della spettacolo, cena per montarsi la testa; e poi gli piacciono i liquori e il biliardo da sempre. ‹Non è un mestiere questo,› dicevo a Olympe.»
«Disgraziatamente è un mestiere,» disse Josépha.
«Insomma, Olympe aveva perso la testa per quel tipo lì che, signora, non frequentava buone compagnie, tanto che ha rischiato di essere arrestato nell'osteria dove vanno i ladri; ma, quella volta, il signor Braulard, il capo della claque, l'ha tirato fuori. Porta degli orecchini d'oro, e vive senza far niente, alle spalle delle donne che vanno pazze per quei begli uomini lì! S'è mangiato tutti i soldi che il signor Thoul dava alla piccola. Il laboratorio andava malissimo. Quel che veniva dal ricamo andava a finire al biliardo. Allora, quel ragazzo, signora, aveva una sorella bellina, che faceva lo stesso mestiere del fratello; una poco di buono, nel quartiere degli studenti.»
«Una donnina della Chaumière,» disse Josépha.
«Sì, signora,» disse la vecchia Bijou. «Dunque, Idamore - si chiama Idamore, è il suo nome di battaglia, perché si chiama Chardin - Idamore ha pensato che vostro zio doveva avere molto più denaro di quel che diceva, e ha trovato modo di mandare, senza che mia figlia lo sospettasse, Élodie, sua sorella (le ha dato un nome di teatro), come operaia da noi; Dio del cielo!... Quella ha messo tutto sottosopra, ha traviato tutte quelle povere ragazze, che sono diventate incorreggibili, con rispetto parlando... E tanto ha fatto, finché non s'è presa per sé il vecchio Thoul; se l'è portato dio sa dove e ci ha messi tutti nei guai, riguardo alle cambiali. Ancora oggi stiamo senza poterle pagare, ma mia figlia, che è lì dentro, sta attenta alle scadenze... Quando Idamore ha avuto il vecchio per sé, riguardo a sua sorella, ha piantato la mia povera figlia, e adesso è con una giovane prima donna dei Funambules... E da lì il matrimonio di mia figlia, come vedrete...»
«Ma sapete dove abita il materassaio?...» domandò Josépha.
«Il vecchio Chardin? Ah, uno così non ‹abita›... È ubriaco dalle sei del mattino, fa un materasso al mese, e passa tutta la giornata nei caffè di malaffare, fa le ‹poules›».
«Come, si fa i polli?... Allora è un bel gallo!»
«Non capite, signora; fa la ‹poule› al biliardo e ne vince tre o quattro al giorno e se le beve...»
«Del latte di gallina!» disse Josépha. «Ma Idamore lavora al boulevard, e, rivolgendoci al mio amico Braulard, lo si troverà.»
«Non so, signora, visto che queste cose sono successe sei mesi fa. Idamore è uno di quei tipi che devono finire in tribunale, da là a Melun, e poi..., chissà dove!...»
«Ai lavori forzati,» disse Josépha.
«Ah! la signora sa tutto,» disse sorridendo comare Bijou. «Se mia figlia non avesse conosciuto quello lì, sarebbe... ‹Ma ha avuto una bella fortuna anche così,› mi direte; perché il signor Grenouville se n'è innamorato al punto che l'ha sposata.»
«E come si è arrivati a questo matrimonio?»
«Per la disperazione di Olympe, signora. Quando si è vista abbandonata per la giovane prima attrice, alla quale ha dato una lezione... Ah! se gliene ha dati di ceffoni!... e poiché ha perduto il vecchio Thoul che l'adorava, ha voluto rinunciare agli uomini. Allora il signor Grenouville, che veniva a comprare molto da noi, duecento sciarpe di Cina ricamate per trimestre, ha voluto consolarla; ma, né con le buone né con le cattive, lei ha voluto dargli retta se non con il sindaco e con la chiesa. ‹Voglio essere onesta!› diceva sempre, ‹o mi ammazzo!› E ha tenuto duro. Il signor Grenouville ha consentito a sposarla a condizione che rinunciasse a noi, e noi abbiamo consentito...»
«Denaro alla mano?» disse la perspicace Josépha.
«Sì, signora, diecimila franchi, e una rendita a mio padre che non può più lavorare...»
«Avevo pregato vostra figlia di rendere felice papà Thoul, e lei me l'ha gettato nel fango. Non si fa così. Non mi prenderò più cura di nessuno. Ecco cosa si ricava a darsi alla beneficenza!... Decisamente la beneficenza è buona solo se la si fa per speculazione. Olympe doveva almeno avvertirmi di questo imbroglio! Se ritroverete il vecchio Thoul, entro quindici giorni, vi darò mille franchi...»
«È molto difficile, mia buona signora, ma ci sono tante monete da cento soldi in mille franchi, e io cercherò di guadagnarmi il vostro denaro...»
«Addio, signora Bijou.»



CVI • L'ANGELO E IL DEMONIO CACCIANO IN COMPAGNIA

Entrando nel salottino, la cantante vi trovò la signora Hulot svenuta; ma, nonostante avesse perduto i sensi, il tremito nervoso la faceva sempre trasalire così come i due tronconi di una serpe, tagliata in due, continuano ad agitarsi. Dei sali molto forti, dell'acqua fresca, tutti i mezzi che si adoperano di solito in questi casi, fecero ritornare la baronessa alla vita, o, se si vuole, alla coscienza dei suoi dolori.
«Ah! signorina! come è caduto in basso!...» disse riconoscendo la cantante e vedendosi sola con lei.
«Coraggio, signora,» rispose Josépha, che si era messa su un cuscino ai piedi della baronessa e le baciava le mani; «noi lo ritroveremo; e, se è nel fango, ebbene, si laverà. Credetemi, per le persone beneducate, è tutta questione di abiti... Lasciate che io ripari i miei torti verso di voi, perché vedo quanto siete attaccata a vostro marito, nonostante la sua condotta: siete venuta fin qui, per lui!... Quel pover'uomo! Certo, gli piacciono le donne... Ecco, vedete, se aveste avuto un po' del nostro chic, gli avreste impedito di correre la cavallina, perché sareste stata quello che noi sappiamo essere; tutte le donne per un uomo. Il governo dovrebbe creare una scuola di ginnastica per le donne oneste. Ma i governi sono così bigotti!... sono guidati dagli uomini che noi guidiamo! Per davvero, compiango i popoli!... Ma si tratta di lavorare per voi, non di ridere... Ebbene, state tranquilla, signora, ritornate a casa e non tormentatevi più. Vi condurrò il vostro Hector com'era trent'anni fa.»
«Oh! signorina, andiamo da questa signora Grenouville!» disse la baronessa; «lei deve sapere qualcosa; forse vedrò il signor Hulot oggi stesso e potrò strapparlo immediatamente alla miseria, alla vergogna.»
«Signora, vi proverò in anticipo la riconoscenza profonda che conserverò dell'onore che mi avete fatto, non esibendo la cantante Josépha, l'amante del duca d'Hérouville, accanto alla più bella, alla più santa immagine della virtù. Vi rispetto troppo per farmi vedere vicino a voi. Non è l'umiltà di un'attrice, è un omaggio che vi rendo. Mi fate rimpiangere, signora, di non aver seguito la vostra strada, malgrado le spine che vi hanno insanguinato i piedi e le mani! Ma, che volete! Io appartengo all'arte come voi appartenete alla virtù...»
«Povera figliola!» disse la baronessa che, pur nel suo dolore, provava per lei un singolare sentimento di simpatia e di commiserazione, «pregherò Dio per voi, poiché siete la vittima della società, che ha bisogno di spettacoli. Quando verrà la vecchiaia, fate penitenza... sarete esaudita, se Dio si degnerà di ascoltare le preghiere di una...»
«Di una martire, signora,» disse Josépha, e baciò rispettosamente l'abito della baronessa.
Ma Adeline, prendendole la mano, l'attirò a sé e la baciò sulla fronte. Rossa di gioia, la cantante accompagnò Adeline fino alla carrozza, con le dimostrazioni della più grande riconoscenza.
«È qualche dama di carità,» disse il cameriere alla cameriera, «perché lei non è così con nessuno, nemmeno con la sua grande amica, la signora Jenny Cadine!»
«Aspettate qualche giorno, signora,» disse Josépha, «e ‹lo› vedrete, o rinnegherò il Dio dei miei padri, e, per un'ebrea, siatene certa, ciò vuol dire garantire il buon esito della cosa.»



CVII • UN ALTRO DEMONIO

Nel momento in cui la baronessa entrava in casa di Josépha, Victorin riceveva nel suo studio una vecchia donna di circa settantacinque anni, che, per arrivare fino al celebre avvocato, si fece annunciare facendo il nome terribile del capo della polizia. Il cameriere annunciò:
«La signora de Saint-Estève!»
«Ho preso uno dei miei nomi di battaglia,» disse la donna sedendosi.
Victorin fu preso da un brivido interno, per così dire, alla vista di quell'orribile vecchia. Benché riccamente abbigliata, spaventava per i segni di fredda cattiveria dipinti sul suo viso volgare, orribilmente rugoso e pallido. Marat, come donna e a quell'età, sarebbe stato, come quella Saint-Estève, un'immagine vivente del terrore. Quella vecchia sinistra mostrava nei suoi piccoli occhi chiari, il desiderio famelico di sangue delle tigri. Il suo naso camuso, le cui narici, allargate a forma di buchi ovali, soffiavano il fuoco dell'inferno, ricordava il becco dei più terribili uccelli da preda. Il genio dell'intrigo aleggiava sulla sua fronte bassa e crudele. I suoi ciuffi di peli, cresciuti qua e là in tutte le cavità del suo viso, erano il segno della virilità dei suoi intenti. Chiunque avesse visto quella donna avrebbe pensato che nessun pittore era ancora riuscito a rendere le sembianze di Mefistofele...
«Mio caro signore,» disse con un tono di protezione, «io non mi occupo più di nulla da molto tempo. Quello che farò per voi è per la considerazione verso il mio caro nipote, che amo di più di quanto non amerei un figlio... Ora, il prefetto di polizia, al quale il presidente del Consiglio ha detto due paroline in un orecchio, riguardo a voi, d'accordo con il signor Chapuzot, ha pensato che la polizia non dovesse apparire per niente in un affare di questo genere. Hanno dato carta bianca a mio nipote; ma mio nipote non sarà in quest'affare che come consigliere, egli non deve compromettersi...»
«Voi siete la zia di...»
«Esattamente, e ne sono un po'` orgogliosa,» rispose togliendo di bocca la parola all'avvocato, «poiché è il mio allievo, un allievo divenuto ben presto il maestro... Abbiamo studiato il vostro affare e abbiamo valutato cosa fare! Siete in grado di dare trentamila franchi se vi si libera da quest'imbroglio? Io vi liquido la cosa! e non pagherete che ad affare concluso...»
«Conoscete la persona?»
«No, mio caro signore, aspetto le vostre informazioni. Ci hanno detto: ‹C'è un vecchio allocco che è nelle mani di una vedova. Questa vedova di ventinove anni ha così ben fatto il suo mestiere di ladra che possiede quarantamila franchi di rendita presi a due padri di famiglia. È sul punto di inghiottire ottantamila franchi di rendita sposando un buonuomo di sessantuno anni; rovinerà così un'intera onesta famiglia, e darà quell'immensa fortuna al bambino di qualche amante, liberandosi ben presto del suo vecchio marito...› Ecco il problema.»
«È esatto,» disse Victorin. «Mio suocero, il signor Crevel...»
«Ex profumiere, un sindaco; sto nel suo arrondissement sotto il nome di ‹mamma› Nourrisson,» rispose lei.
«L'altra persona è la signora Marneffe.»
«Non la conosco,» disse la signora de Saint-Estève; «ma in tre giorni sarò in grado di contare le sue camicie.»
«Potreste impedire il matrimonio?» domandò l'avvocato.
«A che punto siamo?»
«Alla seconda pubblicazione.»
«Bisognerebbe rapire la donna. Oggi è domenica, non ci sono che tre giorni, poiché si sposeranno mercoledì; è impossibile! ma si può ucciderla!...»
Victorin Hulot, da onesto uomo quale era, fece un sobbalzo a sentire quelle parole dette con tanto sangue freddo.
«Assassinare!...» disse. «E come farete?»
«Sono già quarant'anni, signore, che noi ci sostituiamo al destino,» rispose lei con un orgoglio terribile, «e che facciamo tutto ciò che vogliamo a Parigi. Più di una famiglia, e perfino del faubourg Saint-Germain, mi ha detto i suoi segreti, via! Ho concluso e rotto matrimoni, ho strappato molti testamenti, ho salvato l'onore di molta gente. Tengo qua dentro,» disse mostrando la sua testa, «un branco di segreti che mi valgono trentamila franchi di rendita; e voi, voi sarete uno dei miei agnelli. Una donna come me sarebbe quella che sono, se dicesse come fa? Io agisco! Tutto ciò che verrà fatto, signore, sarà l'opera del caso, e voi non avrete il benché minimo rimorso. Sarete come le persone guarite dagli ipnotizzatori; credono, dopo un mese, che sia stata la natura a fare tutto.»
Victorin sudò freddo. L'aspetto del carnefice l'avrebbe agitato meno di quella donna da galera, sentenziosa e proterva; vedendo il suo vestito del colore del vino, la credette vestita di sangue!
«Signora, non accetto l'aiuto della vostra esperienza e della vostra attività, se il successo deve costare la vita a qualcuno, e se ne deriverà la più piccola conseguenza criminosa.»
«Siete un gran bravo ragazzo, signore,» rispose la signora de Saint-Estève. «Volete rimanere onesto ai vostri occhi, pur augurandovi che il vostro nemico soccomba.»
Victorin fece un cenno per smentire quanto quella donna diceva.
«Sì,» rispose lei, «voi volete che questa signora Marneffe abbandoni la preda che ha in bocca! E come farete a far mollare a una tigre il suo pezzo di carne? Forse posandole una mano sul dorso e dicendole micio!... micio!... Non siete logico. Voi ordinate un combattimento, e non volete che ci si siano feriti! Be', vi regalo quell'innocenza alla quale tenete tanto. Ho sempre visto che l'onestà è la fodera dell'ipocrisia! Un giorno, fra tre mesi, un povero prete verrà a chiedervi quarantamila franchi per un'opera pia, un convento in rovina nei paesi del Levante, nel deserto! Se siete contento della vostra sorte, date i quarantamila franchi al buonuomo! Ne verserete molti altri al fisco! Ma sarà ben poca cosa in confronto a quello che guadagnerete.» Si alzò sui suoi larghi piedi a stento contenuti nelle sue scarpe di raso da cui la carne straripava, sorrise e, salutando, se ne andò.
«Il diavolo ha una sorella,» disse Victorin, alzandosi.
Accompagnò l'orrenda sconosciuta, evocata dagli antri dello spionaggio, come dal soppalco dell'Opéra appare un mostro al colpo della bacchetta di qualche fata in un balletto fantastico. Dopo aver finito il suo lavoro al tribunale, Victorin andò dal signor Chapuzot, capo di uno dei più importanti servizi alla prefettura di polizia, per prendervi delle informazioni su quella sconosciuta.



CVIII • LA POLIZIA

Vedendo il signor Chapuzot solo nel suo ufficio, Victorin Hulot lo ringraziò della sua assistenza.
«Mi avete mandato una vecchia,» gli disse, «che sembra riassumere nella sua figura tutti i crimini di Parigi.»
Il signor Chapuzot pose gli occhiali sulle carte e guardò l'avvocato con un'aria stupita.
«Non mi sarei mai permesso di mandarvi chicchessia senza avervi avvertito, senza una parola di presentazione,» rispose.
«Sarà, allora, il signor prefetto...»
«Non credo,» disse Chapuzot. «L'ultima volta che il principe di Wissembourg ha cenato dal ministro degli Interni, ha visto il prefetto e gli ha parlato della situazione in cui eravate, una situazione incresciosa, domandandogli se si poteva amichevolmente venire in vostro aiuto. Il signor prefetto, vivamente interessato dalla premura che sua Eccellenza aveva mostrato riguardo a questa faccenda di famiglia, ha avuto la compiacenza di consultarmi a questo proposito. Da quando il signor prefetto ha preso le redini di questa amministrazione, così diffamata e così utile, si è prima di tutto imposto di non entrare nelle questioni di famiglia. Ha avuto ragione e in via di principio e dal punto di vista morale, ma ha avuto torto nei fatti. La polizia, da quarantacinque anni che sono qui, ha reso immensi servizi alle famiglie, dal 1799 al 1815. Dal 1820, la stampa e il governo costituzionale hanno totalmente cambiato le condizioni della nostra esistenza. Perciò, il mio parere è stato di non occuparsi di una simile faccenda, e il signor prefetto ha avuto la bontà di arrendersi alle mie osservazioni. Il capo della pubblica sicurezza ha ricevuto davanti a me l'ordine di non intervenire; e se, per caso, voi avete ricevuto qualcuno da parte sua, io lo rimprovererò. Sarebbe un caso di destituzione. Si ha un bel dire: ‹La polizia farà questo!› La polizia! la polizia! ma, mio caro avvocato, il maresciallo, il Consiglio dei ministri non sanno che cosa sia la polizia. Non c'è che la polizia che conosca se stessa. I re, Napoleone, Luigi xviii conoscevano gli affari della loro; ma per quanto riguarda la nostra non c'è stato che Fouché, il signor Lenoir, il signor de Sartine e alcuni prefetti, uomini d'ingegno, che hanno capito come stanno le cose. Oggi, tutto è cambiato. Noi siamo indeboliti, disarmati! Ho visto nascere molti abusi negli affari privati che avrei impedito se avessi avuto appena un po' la mano libera. Saremo rimpianti anche da quelli che ci hanno demolito quando si troveranno come voi, davanti a certe aberrazioni morali, di cui bisognerebbe far piazza pulita, come ci si pulisce del fango. In politica, la polizia è tenuta a prevenire tutto, quando si tratta di ordine pubblico, ma la famiglia non si tocca. Farei di tutto per scoprire e impedire un attentato contro la vita del re! Renderei i muri di una casa trasparenti, ma andare a mettere le nostre grinfie in famiglia, negli interessi privati!... Mai, fino a che io sarò in quest'ufficio, poiché ho paura...»
«Di che cosa?»
«Della stampa, signor deputato del centro sinistra!»
«Che devo fare?» disse Hulot figlio dopo una pausa.
«Eh! siete voi la famiglia!» riprese il capo di divisione: «È presto detto, agite come credete; ma venire in vostro aiuto, fare della polizia uno strumento delle passioni e degli interessi privati è mai possibile?... È proprio qui, vedete, il segreto della persecuzione che si era resa necessaria, che i magistrati hanno trovato illegale, diretta contro il predecessore del nostro attuale capo della pubblica sicurezza. Bibi-Lupin impiegava la polizia per conto dei privati. Ciò nascondeva un gravissimo pericolo per la società! Con i mezzi di cui disponeva, quell'uomo poteva diventare potentissimo; si sarebbe potuto sostituire al destino.»
«Ma al mio posto?» disse Hulot.
«Oh! voi chiedete dei pareri a me, proprio voi che ne vendete!» replicò il signor Chapuzot. «Via, mio caro avvocato, vi prendete gioco di me.»
Hulot salutò il capo di divisione e se ne andò senza vedere l'impercettibile movimento di spalle che sfuggì al funzionario quando si alzò per accompagnarlo alla porta.
«E questo vuole diventare un uomo di Stato!» si disse il signor Chapuzot riprendendo l'esame dei suoi rapporti.



CIX • TRASFORMAZIONE DI PAPÀ THOUL IN PAPÀ THOREC

Victorin ritornò a casa, tenendo dentro di sé le sue perplessità, senza poterne parlare ad alcuno. A cena, la baronessa annunciò con gioia ai suoi figli che, di lì a un mese, il loro padre sarebbe potuto tornare a godere assieme a loro il benessere familiare e finire serenamente i suoi giorni in famiglia.
«Ah! darei volentieri i miei tremilaseicento franchi di rendita per vedere il barone qui!» esclamò Lisbeth. «Ma, mia cara Adeline, non pregustare simili gioie prima del tempo, te ne prego!»
«Lisbeth ha ragione,» disse Célestine. «Mia cara mamma, attendete che la cosa si realizzi.»
La baronessa, tutta piena d'amore e di speranza, raccontò la sua visita a Josépha, disse che quelle povere ragazze erano infelici, pur nel lusso della loro vita, e parlò di Chardin, il materassaio, il padre del magazziniere di Orano, dimostrando così che non era falsa quella speranza che la sosteneva.
Lisbeth, l'indomani mattina, alle sette, era in un fiacre, sul quai de la Tournelle, dove fece fermare la carrozza all'angolo di rue Poissy.
«Andate,» disse al cocchiere, «in rue des Bernardins, al numero 7; è una casa con un andito senza portiere. Salite al quarto piano e suonate alla porta di sinistra, sulla quale del resto potete leggere: ‹Signorina Chardin, rammendatrice di merletti e cachemires.› Verranno ad aprire, e voi domanderete del cavaliere. Vi risponderanno che è uscito; allora voi direte: ‹Lo so, ma trovatelo, perché la sua domestica è sulla strada, in un fiacre, e vuole vederlo...›»
Venti minuti dopo, un vegliardo che sembrava avere ottantacinque anni, con i capelli completamente bianchi, il naso rosso per il freddo, un viso pallido e rugoso come quello di una vecchia, le spalle curve, veniva verso la carrozza camminando a fatica. Aveva ai piedi delle pantofole di cimosa, indossava una finanziera di alpaca tutta consumata, senza decorazioni, un gilè fatto a maglia, e una camicia giallastra per il sudicio. Si avvicinò timidamente, guardò la carrozza, riconobbe Lisbeth, e venne allo sportello.
«Ah! caro cugino,» disse lei, «in che stato siete ridotto!»
«Élodie prende tutto per sé,» disse il barone Hulot. «Questi Chardin sono delle canaglie spudorate...»
«Volete ritornare con noi?»
«Oh! No, no,» disse il vecchio, «vorrei andarmene in America...»
«Adeline è sulle vostre tracce...»
«Ah! se si potessero pagare i miei debiti,» domandò il barone con un'aria diffidente, «poiché Samanon sta per procedere contro di me.»
«Non abbiamo ancora pagato i vostri debiti arretrati, vostro figlio deve ancora dare mille franchi...»
«Povero ragazzo!»
«E la vostra pensione non sarà disponibile che fra sette o otto mesi... Se volete aspettare, ho con me duemila franchi!»
Il barone tese la mano con un gesto avido, che faceva spavento.
«Dammeli, Lisbeth! Che Dio ti ricompensi! Dammeli! so dove andare.»
«Ma me lo direte, vecchio mostro?»
«Sì. Posso aspettare questi otto mesi, perché ho scoperto un piccolo angelo, una buona creatura, un'innocente, ancora troppo giovane per essere depravata.»
«Pensate alla Corte d'Assise,» disse Lisbeth, che sperava di vedervi un giorno Hulot.
«Eh! È in rue Charonne!» disse il barone Hulot, «un quartiere dove tutto avviene senza scandalo. Là, non mi troveranno mai. Ho cambiato nome in Thorec, mi prenderanno per un ex ebanista; la piccola mi ama e non mi lascerò mangiare tutto questa volta.»
«D'accordo!» disse Lisbeth, guardando la finanziera. «E se vi ci conducessi io, cugino?...»
Il barone Hulot salì in carrozza, abbandonando la signorina Élodie senza nemmeno salutarla, come si fa con un romanzo già letto.
Dopo una mezz'ora, durante la quale il barone Hulot non parlò a Lisbeth che della piccola Atala Judici, poiché era ormai arrivato a discendere gli ultimi gradini di quelle orribili passioni che portano alla rovina i vecchi, la cugina lo lasciò con duemila franchi in rue Charonne, nel faubourg Saint-Antoine, alla porta di una casa equivoca e sinistra.
«Addio, cugino, ora sarai papà Thorec, non è vero? Mandami soltanto dei fattorini, e prendendoli sempre da posti diversi.»
«D'accordo! Sono felice,» disse il barone il cui viso fu illuminato dalla gioia di una futura e nuova felicità.
«Là non lo troveranno certo,» si disse Lisbeth, e fatta fermare la carrozza al boulevard Beaumarchais, tornò di lì, in omnibus, in rue Louis-le-Grand.



CX • UNA SCENA DI FAMIGLIA

L'indomani, Crevel fu annunciato in casa dei suoi figli, proprio nel momento in cui tutta la famiglia era riunita nel salotto dopo il pranzo. Célestine corse a gettarsi al collo di suo padre e si comportò come se l'avesse visto il giorno prima, benché quella fosse la sua prima visita, da due anni.
«Buongiorno, babbo!» disse Victorin tendendogli la mano.
«Buongiorno, figli miei!» disse l'importante Crevel.
«Signora baronessa, vi porgo i miei omaggi più rispettosi. Dio! come crescono questi bambini! È come se volessero toglierci di mezzo! Come se dicessero: ‹Nonno, voglio il mio posto al sole!› Signora contessa, siete sempre stupendamente bella!» aggiunse guardando Hortense. «Ed ecco l'ultimo dei nostri blasoni! mia cugina Bette, la vergine saggia. Ma state molto bene, qui...» disse dopo aver distribuito quelle frasi a ognuno, accompagnandole con grosse risate che smuovevano a stento le grosse masse rubiconde della sua larga faccia. E guardò il salotto di sua figlia quasi con disprezzo.
«Mia cara Célestine, ti do tutta la mia mobilia di rue des Saussayes, starà molto bene qui. Il tuo salotto ha bisogno di essere cambiato... Ah! ecco quel birbantello di Wenceslas! E allora, siamo buoni, bambini? bisogna comportarsi bene.»
«Per quelli che non lo fanno,» disse Lisbeth.
«Questo sarcasmo, cara Lisbeth, non mi tocca più. Sto per mettere fine, miei cari, alla situazione equivoca in cui mi trovavo da molto tempo; e, come un buon padre di famiglia, vengo ad annunciarvi il mio matrimonio, così alla buona.»
«Avete il diritto di sposarvi,» disse Victorin, «e, per conto mio, vi libero dalla promessa che mi avete fatto quando mi avete accordato la mano della mia Célestine.»
«Quale promessa?» domandò Crevel.
«Quella di non sposarvi,» rispose l'avvocato. «Vorrete riconoscere, spero, che io non vi chiesi quest'impegno, che l'avete preso volontariamente, mio malgrado, poiché a quel tempo vi feci osservare che non dovevate impegnarvi in questo modo.»
«Sì, me ne ricordo, mio caro,» disse Crevel confuso. «E, in fede mia, sentite!... miei cari figli, se voleste andare d'accordo con la signora Crevel, non avreste a pentirvene... La vostra delicatezza, Victorin, mi commuove... non si è impunemente generosi con me... Via, perdinci! accogliete bene la vostra matrigna, venite al mio matrimonio!»
«Non ci dite, papà, chi è la vostra fidanzata?» disse Célestine.
«Ma è il segreto di Pulcinella,» riprese Crevel. «Non giochiamo a nascondino! Lisbeth ha dovuto pur dirvelo...»
«Mio caro Crevel,» replicò la lorenese, «ci sono dei nomi che non si pronunciano in questa casa...»
«Ebbene, è la signora Marneffe!»
«Signor Crevel,» riprese severamente l'avvocato, «né io né mia moglie assisteremo a questo matrimonio, e non per motivi di interesse, poiché ho avuto modo di parlarvi poco fa con tutta franchezza. Sì, sarei molto contento di vedervi trovare la vostra felicità in questo matrimonio; ma sono mosso da considerazioni di onore e di rispetto che dovete capire, e che non posso esprimere qui, perché riaprirebbero delle ferite che non sono ancora rimarginate...»
La baronessa fece un cenno alla contessa, che, prendendo il suo bambino fra le braccia, gli disse:
«Su, vieni a fare il bagno, Wenceslas! Addio, signor Crevel.»
La baronessa salutò Crevel in silenzio, e Crevel non poté fare a meno di sorridere vedendo lo stupore del bambino quando si vide minacciato da quel bagno improvviso.
«Voi sposate, signore,» esclamò l'avvocato, quando si trovò solo con Lisbeth, sua moglie e il suocero, «una donna che ha sulla coscienza la rovina di mio padre, e che l'ha freddamente condotto al punto in cui si trova; una donna che vive col genero, dopo aver rovinato suo suocero; che è causa delle terribili sofferenze di mia sorella... E voi potete credere che noi verremo là per approvare con la nostra presenza la vostra follia? Vi compiango sinceramente, mio caro signor Crevel! voi non avete il senso della famiglia, non comprendete quella solidarietà d'onore che ne lega fra loro i vari membri. Le passioni non si possono valutare con la ragione (l'ho imparato a mie spese, purtroppo!). Le persone in preda alle passioni sono sorde così come sono cieche. Vostra figlia Célestine ha troppo il sentimento dei suoi doveri per dirvi una sola parola di biasimo.»
«Sarebbe proprio bello!» disse Crevel, tentando di farla finita con quella paternale.
«Célestine non sarebbe mia moglie, se vi facesse una sola osservazione,» riprese l'avvocato; «ma io posso tentare di fermarvi prima che mettiate il piede nel baratro, soprattutto dopo avervi dato la prova del mio disinteresse. Non è certo per il vostro patrimonio che mi preoccupo di voi, è per voi stesso... E, per illuminarvi sui miei sentimenti, posso aggiungere, non fosse altro che per tranquillizzarvi a proposito del vostro futuro contratto di matrimonio, che la mia situazione finanziaria è tale, che non abbiamo nulla da desiderare...»
«Grazie a me!» esclamò Crevel il cui viso era diventato paonazzo.
«Grazie alla fortuna di Célestine,» riprese l'avvocato; «e, se rimpiangete di aver dato a vostra figlia, come dote elargita da voi, delle somme che non rappresentano nemmeno la metà di quello che le ha lasciato sua madre, siamo del tutto pronti a rendervele...»
«Sapete, signor genero,» disse Crevel, mettendosi in posa, «che proteggendo col mio nome la signora Marneffe, ella non dovrà più rispondere alla gente della sua condotta se non in qualità di signora Crevel?»
«Forse fa molto gentiluomo,» disse l'avvocato, «è molto generoso comportarsi così riguardo alle questioni di cuore, agli errori delle passioni; ma io non conosco né nome né legge né titolo che possano coprire il furto dei trecentomila franchi ignobilmente strappati a mio padre!... Vi dico apertamente, mio caro suocero, che la vostra futura moglie è indegna di voi, che vi inganna e che è innamorata pazza di mio cognato Steinbock, di cui ha pagato i debiti...»
«Sono io che li ho pagati!»
«Bene,» riprese l'avvocato, «ne sono molto lieto per il conte Steinbock, che potrà sdebitarsi un giorno; ma egli è amato, molto amato, spesso amato...»
«È amato!...» disse Crevel, la cui faccia mostrava i segni di uno sconvolgimento generale. «È vile, sporco, meschino calunniare una donna!... Quando si dicono cose del genere, signore, bisogna provarle...»
«Vi darò delle prove.»
«Le aspetto!»
«Dopodomani, mio caro signor Crevel, vi dirò il giorno e l'ora, il momento in cui sarò in grado di svelarvi la spaventosa depravazione della vostra futura sposa...»
«Benissimo, con piacere,» disse Crevel, che riprese il suo sangue freddo. «Addio, figli miei, arrivederci.»
«Addio, Lisbeth...»
«Seguilo, Lisbeth,» disse Célestine all'orecchio della cugina Bette.
«Ebbene, andate via così?...» gridò Lisbeth a Crevel.
«Ah,» le disse Crevel, «è diventato molto bravo, mio genero, si è formato. Il Tribunale, la Camera, la scaltrezza giudiziaria e la scaltrezza politica ne fanno un volpone. Ah! Ah! sa che mi sposo mercoledì prossimo, e oggi, domenica, quel signore si propone di dirmi, fra tre giorni, il momento in cui mi darà le prove che mia moglie è indegna di me... Non è pensata male... È meglio andare a firmare il contratto. Su, vieni con me, Lisbeth, vieni!... Non ne sapranno niente! volevo lasciare quarantamila franchi di rendita a Célestine, ma Hulot si comporta in modo da alienarsi il mio cuore per sempre.»
«Datemi dieci minuti, papà Crevel, aspettatemi nella vostra carrozza, troverò un pretesto per uscire.»
«D'accordo.»
«Miei cari,» disse Lisbeth, che ritrovò la famiglia nel salotto, «vado con Crevel; il contratto sarà firmato stasera, e potrò dirvi tutte le clausole che vi sono contenute. Sarà forse l'ultima visita che farò a quella donna. Vostro padre è furioso. Vi toglierà l'eredità.»
«La sua vanità glielo impedirà,» rispose l'avvocato. «Ha voluto comprare la tenuta Presles e la terrà, lo conosco bene. Se avesse dei figli, Célestine riceverà sempre la metà di quello che lascerà, la legge gli impedisce di dare tutto il suo patrimonio... Ma tutte queste questioni non mi interessano, non penso che al nostro onore... Andate, cugina,» disse poi stringendo la mano di Lisbeth, «ascoltate bene i termini del contratto.»



CXI • UN'ALTRA SCENA DI FAMIGLIA

Venti minuti dopo, insieme a Lisbeth, Crevel entrava nel palazzo di rue Barbet, dove la signora Marneffe aspettava con dolce impazienza il risultato del tentativo che ella stessa gli aveva imposto di fare. Valérie era stata presa, alla lunga, per Wenceslas da quell'amore straordinario che, una volta sola nella vita, prende il cuore di una donna. Quest'artista mancato divenne, fra le mani della signora Marneffe, un amante così perfetto, che era per lei ciò che ella era stata per il barone Hulot. Valérie teneva delle pantofole con una mano, e con l'altra stringeva la mano di Steinbock, appoggiandosi dolcemente con la testa sulla sua spalla. Capita alla conversazione piena di pause e sottintesi, come quella in cui essi si erano abbandonati sin dalla partenza di Crevel, quello che capita alle lunghe opere letterarie del nostro tempo, sul cui frontespizio si può leggere: Vietata la riproduzione. Quel capolavoro di poesia intima fece affiorare alle labbra dell'artista un rimpianto che egli espresse non senza amarezza:
«Ah! che sfortuna che mi sia sposato,» disse Wenceslas; «infatti, se avessi aspettato, come diceva Lisbeth, oggi potrei sposare te».
«Bisogna essere polacchi per desiderare di fare di un'amante devota la propria moglie!» esclamò Valérie. «Scambiare l'amore col dovere! il piacere con la noia!»
«So che sei tanto capricciosa!» rispose Steinbock. «Non ti ho forse sentito parlare con Lisbeth del barone Montès, quel brasiliano?...»
«Vuoi sbarazzarmene?» disse Valérie.
«Sarebbe,» rispose lo scultore, «il solo modo di impedirti di vederlo.»
«Sappi, mio caro,» rispose Valérie, «che me lo tenevo buono per farne un marito: a te dico tutto!... Le promesse che ho fatto a quel brasiliano... Oh! molto prima di conoscerti,» disse rispondendo a un gesto di Wenceslas. «Ebbene, quelle promesse, di cui si fa forte per tormentarmi, mi obbligano a sposarmi quasi segretamente; infatti, se sa che sposo Crevel, quello è un uomo capace... di uccidermi!...»
«Oh! quanto a questo timore!...» disse Steinbock facendo un gesto sprezzante che significava come quel pericolo dovesse essere insignificante per una donna amata da un polacco.
Notate che in fatto di coraggio, non c'è la minima vanteria nei polacchi, tanto sono veramente e seriamente coraggiosi.
«E quell'imbecille di Crevel, che vuol dare una festa e che si abbandona ai suoi gusti di fasto a prezzo fisso per il mio matrimonio, mi mette in una situazione dalla quale non so come uscire!»
Valérie poteva forse confessare a colui che adorava che il barone Henri Montès, dopo il licenziamento del barone Hulot, aveva ereditato il privilegio di venire da lei a ogni ora della notte, e che, malgrado la sua abilità, essa non era stata ancora capace di trovare un pretesto di rottura in cui il brasiliano avrebbe dovuto credere di avere tutti i torti? Conosceva troppo bene il carattere quasi selvaggio del barone, che si avvicinava molto a quello di Lisbeth, per non tremare al pensiero di quel Moro di Rio de Janeiro. Appena sentì il rumore della carrozza, Steinbock lasciò Valérie che teneva per la vita, e prese un giornale nella lettura del quale si fece trovare tutto assorto. Valérie ricamava, con attenzione scrupolosa, delle pantofole per il suo futuro sposo.
«Come la si calunnia!» disse Lisbeth all'orecchio di Crevel, sulla soglia, mostrandogli quella scena... «guardate la sua capigliatura! È forse in disordine? A sentir Victorin, avreste potuto sorprendere due tortorelle nel nido.»
«Mia cara Lisbeth,» rispose Crevel mettendosi in posa, «come vedi, per fare di un'Aspasia una Lucrezia, basta ispirarle una passione!...»
«Non vi ho forse sempre detto,» riprese Lisbeth, «che le donne amano i grossi libertini come voi?»
«Sarebbe del resto davvero ingrata,» riprese Crevel, «dopo tutto il denaro che ho impiegato qui! Solo io e Grindot lo sappiamo!»
E indicava la scala. Nella sistemazione di quel palazzetto, che Crevel considerava come suo, Grindot aveva tentato di competere con Cleretti, l'architetto alla moda, al quale il duca d'Hérouville aveva affidato l'arredamento della casa di Josépha. Ma Crevel, incapace di comprendere le arti, aveva voluto, come tutti i borghesi, spendere una somma fissa, concordata in anticipo. Legato a un preventivo, fu impossibile a Grindot realizzare il suo sogno d'architetto. La differenza che distingueva il palazzo di Josépha da quello di rue Barbet era quella che c'è fra l'originalità delle cose e la loro volgarità. Ciò che si poteva ammirare in casa di Josépha non si vedeva da nessuna parte; ciò che riluceva in casa Crevel si poteva comprare dappertutto. Questi due lussi sono separati l'uno dall'altro dal fiume dei milioni. Uno specchio unico nel suo genere vale seimila franchi, uno specchio simile creato da un fabbricante per trarne profitto costa cinquecento franchi. Un lampadario autentico di Boulle sale in un'asta pubblica a tremila franchi; lo stesso lampadario riprodotto su stampi potrà essere fabbricato per mille o milleduecento franchi; l'uno è nel campo delle antichità ciò che un quadro di Raffaello è in pittura, l'altro è una copia. Quanto valutate una copia di Raffaello? Il palazzo di Crevel era dunque un magnifico esemplare del lusso degli sciocchi, come la palazzina di Josépha era il più bel modello di un'abitazione d'artista.
«Abbiamo la guerra,» disse Crevel andando verso la sua futura sposa.
La signora Marneffe suonò.
«Andate a chiamare il signor Berthier,» disse al cameriere, «e non tornate senza di lui. Se tu fossi riuscito, vecchio mio,» disse poi abbracciando Crevel, «avremmo rinviato il matrimonio, e avremmo dato una festa da sbalordire; ma quando tutta una famiglia si oppone a un matrimonio, amico mio, il decoro vuole che questo si faccia senza rumore, soprattutto quando la sposa è una vedova.»
«Io, al contrario, voglio ostentare un lusso alla Luigi xiv,» disse Crevel, che da qualche tempo trovava il xviii secolo troppo piccolo. «Ho ordinato delle carrozze nuove: ci sarà la carrozza del signore e quella della signora, due graziosi coupé, un calesse, una berlina di gala, con un sedile superbo che vibra come fa la signora Hulot.»
«Ah! io voglio?... Non saresti dunque più il mio agnellino? No, no, caro mio, tu farai quello che vorrò io. Firmeremo il nostro contratto fra noi, questa sera. Poi, mercoledì, ci sposeremo ufficialmente, come ci si deve sposare, alla chetichella, secondo l'espressione della mia povera mamma; andremo a piedi in chiesa, vestiti semplicemente, e lì avremo una messa semplice. I nostri testimoni saranno Stidmann, Steinbock, Vignon e Massol, tutte persone di spirito, che faranno finta di trovarsi in Comune come per caso, e che ci faranno il sacrificio di ascoltare una messa. Il tuo collega ci sposerà, eccezionalmente, alle nove di mattina. La messa è alle dieci, e saremo qui, per il pranzo, alle undici e mezzo. Ho promesso agli invitati che non ci si alzerà da tavola che la sera... Avremo Bixiou, il tuo ex compagno di ‹birotteria› du Tillet, Lousteau, Vernisset, Léon de Lora, Vernou, il fior fiore della gente d'ingegno, che non sapranno del nostro matrimonio; li inganneremo e alzeremo appena un po' il gomito; Lisbeth sarà con noi; voglio che si prepari al matrimonio, Bixiou deve farle delle proposte e... dirozzarla un po'.»
Per due ore, la signora Marneffe parlò in tono leggero e spiritoso, sicché Crevel fu indotto a fare questa giudiziosa riflessione:
«Come potrebbe essere depravata una donna così gaia? vivace, sì, ma perversa,... questo no!»
«Cos'hanno detto di me i tuoi figlioli?» domandò Valérie a Crevel in un momento in cui lo tenne vicino a sé su un piccolo divano, «chissà quante cose terribili!»
«Pretendono,» rispose Crevel, «che tu ami Wenceslas in modo perverso; tu, la virtù in persona!...»
«Certo che l'amo, il mio piccolo Wenceslas!» esclamò Valérie chiamando l'artista, prendendolo per la testa e baciandolo sulla fronte. «Povero ragazzo senza aiuto e senza denaro! respinto da una spilungona color carota! Che vuoi, Crevel! Wenceslas è un poeta, e io l'amo alla luce del sole come se fosse il mio bambino! Quelle donne virtuose vedono il male in tutto e dappertutto. Ma come! Non saprebbero dunque starsene vicino a un uomo senza far del male? Io sono come i bambini viziati ai quali non è stato mai rifiutato nulla: le chicche non mi provocano più nessuna emozione! Povere donne, le compiango!... E chi mi umiliava così?»
«Victorin,» disse Crevel.
«Ebbene, perché non gli hai chiuso il becco, a quel pappagallo sputasentenze con i duecentomila franchi della mammina?»
«Ah! la baronessa era scappata,» disse Lisbeth.
«Che stiano attente, Lisbeth!» disse la signora Marneffe aggrottando le sopracciglia; «o mi riceveranno a casa loro, e con tutti i riguardi, e verranno tutti dalla loro matrigna, oppure li caccerò (diglielo da parte mia) più in basso di quanto non si trovi il barone... Voglio diventare cattiva, alla fine! Parola d'onore, credo che il male sia la falce con la quale si taglia il bene.»



CXII • EFFETTI DEL RICATTO

Alle tre, dopo un breve abboccamento con Crevel, il notaio Berthier, successore di Cardot, lesse il contratto di matrimonio, poiché alcuni articoli dipendevano dalla decisione che avrebbero preso il signore e la signora Hulot figli. Crevel riconosceva alla sua futura sposa una fortuna composta di: 1 quarantamila franchi di rendita i cui titoli erano indicati; 2 la palazzina e tutto l'arredamento che conteneva; 3 tre milioni in contanti. Inoltre, faceva alla sua futura sposa tutte le donazioni permesse dalla legge e la dispensava da ogni inventario; e, nel caso in cui, al momento del loro decesso, i coniugi si fossero trovati senza figli, essi si sarebbero ceduti rispettivamente la totalità dei loro beni, mobili e immobili. Questo contratto riduceva la fortuna di Crevel a due milioni di capitale. Se avesse avuto figli dalla nuova moglie, avrebbe ridotto la parte di Célestine a cinquecentomila franchi, a causa dell'usufrutto accordato a Valérie. Era la nona parte circa della sua fortuna attuale.
Lisbeth ritornò a cena in rue Louis-le-Grand, con i segni della disperazione dipinta in volto. Ella spiegò, commentò il contratto di matrimonio, e trovò sia Célestine che Victorin insensibili a quella disastrosa notizia.
«Avete irritato vostro padre, miei cari! La signora Marneffe ha giurato che riceverete a casa vostra la moglie del signor Crevel, e che voi andrete da lei,» disse.
«Mai,» disse Célestine.
«Mai,» disse Hulot.
«Mai,» esclamò Hortense.
Lisbeth fu presa dal desiderio di averla vinta sull'atteggiamento superbo di tutti gli Hulot.
«Sembra che abbia delle armi contro di voi!...» rispose. «Non so ancora di che cosa si tratti, ma lo saprò... Ha parlato vagamente di una storia di duecentomila franchi che riguarda Adeline.»
La baronessa Hulot si lasciò lentamente scivolare all'indietro sul divano dove si trovava, e fu colta da orribili convulsioni.
«Andateci, miei cari!...» gridò la baronessa. «Ricevete quella donna! Il signor Crevel è un uomo infame! merita il più terribile dei supplizi... Obbedite a quella donna... Ah! è un mostro! sa tutto!»
Dopo queste parole accompagnate da lacrime e singhiozzi, la signora Hulot trovò la forza di salire in camera sua, appoggiata al braccio della figlia e a quello di Célestine.
«Che cosa vuol dire tutto questo?» disse Lisbeth quando fu sola con Victorin.
L'avvocato, che era rimasto lì impalato, in uno stato di stupefazione perfettamente concepibile, non udì Lisbeth.
«Che hai, caro Victorin?»
«Sono atterrito!» disse l'avvocato, il cui viso divenne minaccioso. «Guai a chi tocca mia madre, allora non ho più scrupoli! Se potessi, schiaccerei quella donna come si schiaccia una vipera... Ah! attenta alla vita e all'onore di mia madre!...»
«Ha detto, ma non ripetere a nessuno queste cose, mio caro Victorin, ha detto che vi caccerà ancora più in basso di vostro padre... Ha rimproverato aspramente a Crevel di non avervi chiuso la bocca con quel segreto che sembra spaventare tanto Adeline.»
Fu chiamato un medico, poiché lo stato della baronessa peggiorava. Il medico ordinò una pozione con dell'oppio, e Adeline, dopo averla presa, cadde in un sonno profondo; ma tutta la famiglia era in preda al più vivo terrore.
L'indomani, l'avvocato partì molto presto per il Tribunale, e passò dalla questura, dove supplicò Vautrin, il capo della pubblica sicurezza, di mandargli la signora de Saint-Estève.
«Ci hanno proibito, signore, di occuparci di voi, ma la signora di Saint-Estève è una che vende la sua merce ed è ai vostri ordini; basta chiamarla,» rispose il celebre capo.
Di ritorno a casa, il povero avvocato apprese che si temeva per la ragione di sua madre. Il dottor Bianchon, il dottor Larabit, il professor Angard, riuniti a consulto, avevano deciso l'impiego di mezzi drastici per deviare il sangue che affluiva alla testa. Mentre Victorin stava ascoltando il dottor Bianchon, il quale gli spiegava dettagliatamente le ragioni per le quali sperava in un superamento della crisi, contrariamente a quello che pensavano i suoi colleghi, il cameriere venne ad annunciare all'avvocato la sua cliente, la signora de Saint-Estève. Victorin lasciò Bianchon nel mezzo del discorso e, come un pazzo, corse giù dalle scale.
«Ma che c'è in questa casa? un principio di follia contagiosa?» disse Bianchon rivolgendosi a Larabit.
I medici se ne andarono, lasciando un loro assistente a sorvegliare la signora Hulot.
«Tutta una vita di virtù!...» era la sola frase che la malata pronunciasse dal momento della catastrofe.
Lisbeth non lasciava il capezzale di Adeline; l'aveva vegliata, era stata ammirata dalle due giovani donne.
«Ebbene, mia cara signora de Saint-Estève!» disse l'avvocato introducendo l'orribile vecchia nel suo ufficio e chiudendo accuratamente le porte, «a che punto siamo?»
«Ebbene, mio caro amico,» disse lei guardando Victorin con occhi freddamente ironici, «avete fatto le vostre piccole riflessioni?»
«Avete agito?»
«Date cinquantamila franchi?...»
«Sì,» rispose Hulot figlio, «perché bisogna agire. Sapete che con una sola frase quella donna ha messo in pericolo la vita e la ragione di mia madre? Perciò andate avanti.»
«Siamo andati avanti!» replicò la vecchia.
«Ebbene?...» disse Victorin in maniera convulsa.
«Ebbene, non sospendete le spese?»
«Al contrario.»
«È che ci sono già ventitremila franchi di spese.»
Hulot figlio guardò la Saint-Estève con aria inebetita.
«Ehi dico! sareste forse un grullo, voi, uno dei lumi del palazzo?» disse la vecchia. «Abbiamo avuto per questa somma la coscienza di una cameriera e un quadro di Raffaello, non è caro...»
Hulot, sempre istupidito, sgranò gli occhi.
«Be',» riprese la Saint-Estève, «abbiamo comprato la signorina Reine Tousard, quella per la quale la signora Marneffe non ha segreti...»
«Capisco...»
«Ma se lesinate, ditelo!»
«Pagherò a occhi chiusi,» rispose, «continuate! Mia madre mi ha detto che quella gente meriterebbe il peggiore dei supplizi...»
«Non si fa più il supplizio della ruota,» disse la vecchia.
«Mi assicurate il successo?»
«Lasciatemi fare,» rispose la Saint-Estève. «La vostra vendetta matura lentamente.»
Guardò la pendola: segnava le sei.
«La vostra vendetta si sta vestendo a festa, i fornelli del Rocher de Cancale sono accesi, i cavalli delle carrozze scalpitano, i miei ferri si stanno arroventando. Ah! conosco la vostra signora Marneffe a memoria. Tutto è pronto! Ci sono delle polpette nella trappola, vi dirò domani se il sorcio si avvelenerà. Credo di sì. Addio, figliolo.»
«Addio, signora.»
«Sapete l'inglese?»
«Sì.»
«Avete visto recitare Macbeth in inglese?»
«Sì.»
«Ebbene, figliolo, tu sarai re! cioè a dire erediterai!» disse quell'orrenda strega, uscita dalla fantasia di Shakespeare e che sembrava conoscere Shakespeare. Lasciò Hulot inebetito sulla soglia del suo studio.
«Non dimenticate che il giudizio provvisorio per direttissima è per domani!» disse lei col tono ossequioso di una consumata parte in causa.
Vedeva venire due persone e voleva passare ai loro occhi per una contessa smorfiosa.
«Che sfrontatezza!» si disse Hulot salutando la sua pseudocliente.



CXIII • COMBABUS

Il barone Montès de Montejanos era notissimo nell'alta società: eppure misterioso. La Parigi alla moda, quella delle corse e delle lorettes, le donnine eleganti e di facili costumi, ammirava i gilè straordinari di questo gentiluomo straniero, i suoi stivali verniciati in modo irreprensibile, i suoi bastoni impareggiabili, i suoi cavalli invidiati, la sua carrozza guidata da negri che erano davvero schiavi e frustati come tali. Si conosceva la sua fortuna: aveva un credito di settecentomila franchi presso il celebre banchiere du Tillet; ma lo si vedeva sempre solo. Se andava alle serate di gala, prendeva una poltrona di prima fila. Non frequentava nessun salotto. Non aveva mai dato il braccio a una lorette! Il suo nome non poteva essere accostato a quello di nessuna bella signora del gran mondo. Passava spesso il suo tempo a giocare a whist al Jockey-Club. Alla fine ci si era ridotti a inventare malignità sui suoi costumi, o, ciò che sembrava infinitamente più divertente, sulla sua persona: lo chiamavano Combabus!... Bixiou, Léon de Lora, Lousteau, Florine, la signorina Louise Brisetout e Nathan, cenando una sera in casa dell'illustre Carabine con molti uomini e donne del gran mondo, avevano tirato fuori una storia molto buffa per giustificare questo soprannome. Massol, nella sua qualità di consigliere di Stato, e Claude Vignon, nella sua qualità di ex professore di greco, avevano raccontato alle loro ignoranti amiche il famoso aneddoto, riportato nell'Histoire ancienne di Rollin, che riguardava Combabus, questo Abélard volontario incaricato di badare alla moglie di un re di Assiria, Persia, Battriana, Mesopotamia e altre regioni della geografia in cui era maestro il vecchio professore del Bacage, erede di d'Anville, creatore della storia dell'antico Oriente. Questo soprannome, che fece ridere per un quarto d'ora i convitati di Carabine, fu l'argomento di un'infinità di battute di spirito troppo volgari per entrare in un'opera alla quale l'Académie potrebbe non attribuire il premio Montyon, ma fra le quali si notò che rimase appiccicata alla folta criniera del bel barone che Josépha chiamava un magnifico brasiliano allo stesso modo che si dice un magnifico catoxanta! Carabine, la più illustre delle lorettes, che con la sua furba bellezza e i suoi frizzi aveva strappato lo scettro della licenziosità e del dileggio dalle mani della signorina Turquet, più conosciuta sotto il nome di Malaga, la signorina Séraphine Sinet (questo era il suo vero nome), era per il banchiere du Tillet quello che Josépha Mirah era per il duca d'Hérouville.
Ora, il giorno stesso in cui la Saint-Estève profetizzava il successo a Victorin, Carabine aveva detto a du Tillet, verso le sette del mattino: «Se tu fossi gentile, mi offriresti una cena al Rocher de Cancale e ci condurresti Combabus; vogliamo sapere, insomma, se ha un'amante... Ho scommesso di sì... voglio vincere.»
«È sempre all'hôtel des Princes, ci passerò,» rispose du Tillet, «ci divertiremo. Che ci siano tutti i nostri ragazzi: Bixiou, Lora, insomma tutto il nostro gruppo!»
Alle sette e mezzo, nel più bel salone del locale dove l'Europa intera ha pranzato, brillava sulla tavola un magnifico servizio d'argento fatto espressamente per quelle cene in cui la vanità saldava il conto in biglietti di banca. Torrenti di luce facevano sgorgare una cascata di riflessi dai bassorilievi cesellati. Dei camerieri, che un provinciale avrebbe scambiato per diplomatici, non fosse per l'età, se ne stavano seri come gente che sa di essere strapagata.
Cinque persone arrivate ne attendevano altre nove. C'era prima di tutto Bixiou, il sale di ogni ritrovo intellettuale, ancora all'inizio del 1843, con una riserva di battute sempre nuove, cosa altrettanto rara a Parigi quanto la virtù. Poi Léon de Lora, il più grande pittore vivente di paesaggi e di marine, che conservava su tutti i suoi rivali il vantaggio di non essere mai sceso al di sotto del livello decoroso dei suoi esordi. Quelle signore non potevano fare a meno di questi due re delle battute di spirito. Non c'era nessun pranzo, nessuna cena, nessuna festa senza di loro. Séraphine Sinet, detta Carabine, nella sua qualità di anfitrione, era venuta fra le prime, e faceva risplendere sotto i getti di luce le sue spalle che a Parigi non avevano rivali, un collo perfetto come se fosse stato tornito da un tornitore, senza una piega! il suo viso sbarazzino e il suo vestito di broccato, azzurro su azzurro, tutto adorno di merletti d'Inghilterra, il cui valore sarebbe bastato a sfamare un villaggio per un mese. La graziosa Jenny Cadine, che quella sera non recitava a teatro, e la cui fisionomia è troppo conosciuta per dirne qualcosa, arrivò con una toeletta di una ricchezza favolosa. Un trattenimento è sempre per queste signore una specie di Longchamp, una grande sfilata di toilettes, in cui ciascuna di loro vuol fare ottenere il premio al suo milionario, dicendo alle sue rivali:
«Ecco il prezzo che valgo!»
Una terza donna, senza dubbio all'inizio della carriera, guardava, quasi imbarazzata, il lusso delle due amiche sicure e ricche. Vestita semplicemente in cachemire bianco ornato di passamanerie azzurre, aveva in capo un'acconciatura di fiori, opera di un parrucchiere del genere detto Merlan, la cui mano maldestra aveva dato, senza saperlo, un'ingenua grazia a dei capelli biondi adorabili. Ancora impacciata nel suo vestito, ella aveva, secondo la frase consacrata, «la timidezza della debuttante». Arrivava da Valognes per mettere in mostra a Parigi una bellezza da lasciar stupiti, un candore da rianimare il desiderio in un moribondo, e una bellezza degna di tutte quelle che la Normandia ha già fornito ai vari teatri della capitale. Le linee di quel viso intatto avevano la purezza ideale degli angeli. La sua pelle bianca come il latte rifletteva così bene la luce, che l'avreste detta uno specchio. I suoi colori delicati erano stati posti sulle sue guance come da un pennello. Si chiamava Cydalise. Era, come si vedrà, una pedina necessaria nella partita che giocava mamma Nourrisson contro la signora Marneffe.
«Non hai le braccia che si accordano al tuo nome, piccola mia,» aveva detto Jenny Cadine, alla quale Carabine aveva presentato quel capolavoro di sedici anni condotto lì da lei.
Cydalise esibiva, infatti, alla pubblica ammirazione delle belle braccia di un tessuto compatto, fine, ma colorito da un sangue meraviglioso.
«Quanto vale?» domandò Jenny Cadine a voce bassa a Carabine.
«Un'eredità.»
«Cosa ne vuoi fare?»
«To', la signora Combabus!»
«E per fare questo lavoro che cosa ti danno?»
«Indovina!»
«Un bel servizio di posate d'argento?»
«Ne ho tre.»
«Dei diamanti?»
«Ne ho da vendere.»
«Una scimmia verde?»
«No, un quadro di Raffaello!»
«Ma che ti passa per la testa?»
«Josépha mi scoccia con i suoi quadri,» rispose Carabine, «voglio averne di più belli dei suoi...»
Du Tillet condusse l'eroe della serata, il brasiliano; il duca d'Hérouville lo seguiva con Josépha. La cantante aveva indossato un semplice abito di velluto; ma intorno al suo collo brillava una collana da centoventimila franchi, delle perle che si distinguevano appena sulla pelle dal bianco di camelia. Si era infilata nelle trecce nere una sola camelia rossa (un «neo») di un effetto stupefacente, e si era divertita a infilare undici braccialetti di perle su ogni braccio. Venne a stringere la mano a Jenny Cadine, che le disse:
«Prestami un po' i tuoi mezziguanti!»
Josépha si tolse i braccialetti e li offrì, su un piatto, all'amica.
«Che stile!» disse Carabine; «bisogna essere una duchessa! Più perle di così! Avete svaligiato il mare, signor duca, per ornare la ragazza?» aggiunse girandosi verso il piccolo duca d'Hérouville.
L'attrice prese un solo braccialetto, infilò di nuovo gli altri venti alle belle braccia della cantante e vi posò un bacio.
Lousteau, lo scroccone letterario, La Palférine e Malaga, Massol e Vauvinet, Théodore Gaillard, uno dei proprietari di uno dei più importanti giornali politici, completavano il numero degli invitati. Il duca d'Hérouville, gentile come un gran signore con tutti, salutò il conte di La Palférine in un certo modo che, senza denotare stima o intimità, dice a tutti: «Noi siamo della stessa famiglia, della stessa razza, noi ci uguagliamo.» Questo saluto, il segno caratteristico dell'élite aristocratica, è stato creato per la disperazione delle persone d'ingegno dell'alta borghesia.
Carabine fece sedere Combabus alla sua sinistra e il duca d'Herouville alla sua destra. Cydalise si mise a fianco del brasiliano, e Bixiou fu messo al fianco della normanna, Malaga prese posto a fianco del duca.



CXIV • UNA CENA DI CORTIGIANE

Alle sette, si attaccarono le ostriche. Alle otto, fra la prima e la seconda portata, degustarono il ponce ghiacciato. Tutti conoscono il menu di questi banchetti. Alle nove chiacchieravano, come si chiacchiera dopo quarantadue bottiglie di vini diversi, bevute fra quattordici persone. La frutta, l'orribile frutta del mese d'aprile, era servita. Quell'atmosfera inebriante aveva dato alla testa solo alla normanna che canticchiava un canto di Natale. Eccettuata quella ragazza, gli altri non avevano perso il controllo; quei bevitori, quelle donne erano l'élite della Parigi dei banchetti. Le menti ridevano; gli occhi, per quanto lustri, restavano colmi d'intelligenza, ma le labbra si volgevano alla satira, all'aneddoto, all'indiscrezione. La conversazione, che fino ad allora aveva ruotato in un circolo vizioso intorno alle corse e ai cavalli, alle operazioni di Borsa, al confronto dei differenti pregi dei bellimbusti, e alle rivelazioni di storie scandalose, minacciava di diventare intima, di frantumarsi in tanti colloqui tête-à-tête. Fu a questo punto che, dopo qualche occhiata distribuita da Carabine a Léon de Lora, Bixiou, La Palférine e du Tillet, s'incominciò a parlare d'amore.
«I medici come si deve non parlano mai di medicina, i veri nobili non parlano mai dei loro antenati, le persone di genio non parlano delle loro opere,» disse Josépha; «perché parlare allora del nostro mestiere?... Ho fatto fare riposo all'Opéra per venire qui e non certamente per lavorare. Perciò non mettiamoci a posare, che fa, mie care amiche.»
«Ma ti si parla dell'amore vero, piccola mia!» disse Malaga, «di quell'amore che fa perdere la testa, che fa dimenticare il padre e la madre, vendere moglie e figlioli, e che fa andare a Clichy.»
«Parlatene pure, allora!» riprese la cantante. «Non lo conosco: non conosco...» Questa espressione, passata dal gergo dei monelli di Parigi nel vocabolario delle cortigiane, diventa, con l'aiuto degli occhi e dell'espressione di quelle donne, tutto un poema sulle loro labbra.
«Non vi amo dunque per niente, Josépha?» disse sottovoce il duca.
«Voi potete anche amarmi realmente,» disse sorridendo la cantante all'orecchio del duca; ma io non vi amo di quell'amore di cui stanno parlando, di quell'amore che fa sì che l'universo sia tutto nero senza l'uomo amato. Voi mi piacete, mi siete utile, ma non mi siete indispensabile; e, se domani mi lasciaste, avrei tre duchi per un...»
«Ma esiste l'amore a Parigi?» disse Léon de Lora. «Nessuno ha il tempo di fare fortuna qui, figuratevi se ci si può abbandonare all'amore vero che si impossessa di un uomo come l'acqua impregna lo zucchero! Bisogna essere immensamente ricchi per amare, poiché l'amore distrugge un uomo, quasi come il nostro caro barone brasiliano qui presente. È da molto tempo che ho detto, ‹gli estremi si tappano!› Un vero innamorato somiglia a un eunuco, poiché non esiste più nessun'altra donna per lui sulla terra! È misterioso, è come il vero cristiano, solitario nella sua Tebaide. Guardate quel bravo brasiliano!...»
Tutti i presenti guardarono attentamente Henri Montès de Montejanos, che si vergognò di trovarsi al centro di tutti gli sguardi.
«Se ne sta lì a mangiare da un'ora, senza accorgersi, proprio come un bue, che ha accanto a sé la donna più... non direi più bella, ma più fresca di Parigi.»
«Tutto è fresco qui, perfino il pesce, è il vanto della ditta,» disse Carabine.
Il barone Montès de Montejanos guardò il paesaggista con un'aria amabile e disse: «Benissimo! bevo alla vostra salute!»
E salutato Léon de Lora con un cenno della testa, portò alle labbra il bicchiere pieno di vino Porto e bevve di gusto.
«Siete dunque innamorato?» disse Carabine al suo vicino, interpretando così il brindisi.
Il barone brasiliano fece ancora riempire il suo bicchiere, salutò Carabine e ripeté il brindisi.
«Alla salute della signora!» disse allora la lorette con un tono così spassoso, che il paesaggista, du Tillet e Bixiou scoppiarono a ridere.
Il brasiliano rimase grave come un uomo di bronzo. Quel sangue freddo irritò Carabine. Sapeva perfettamente che Montès amava la signora Marneffe; ma non si aspettava quella fede brutale, quel silenzio così ostinato, proprio dell'uomo convinto. Si giudica spesso una donna dall'atteggiamento del suo amante, come si giudica un uomo dal contegno della sua amante. Fiero di amare Valérie e di essere amato da lei, il sorriso del barone presentava agli occhi di quei grandi intenditori una sfumatura d'ironia, del resto aveva un aspetto superbo: il vino non aveva alterato il suo colorito, e gli occhi, che brillavano di quello splendore caratteristico dell'oro brunito, celavano i segreti della sua anima. E vedendolo così, Carabine disse fra sé e sé:
«Che donna! Come ha saputo sigillare quel cuore!»
«È un macigno!» disse a mezza voce Bixiou, che vedeva nella cosa solo un attacco scherzoso e non immaginava l'importanza che Carabine attribuiva alla demolizione di quella fortezza.
Mentre quei discorsi, in apparenza così frivoli, si facevano alla destra di Carabine, la discussione sull'amore continuava alla sua sinistra fra il duca d'Hérouville, Lousteau, Josépha, Jenny Cadine e Massol. Si cercava di capire se quei fenomeni così rari fossero prodotti dalla passione, dalla testardaggine o dall'amore. Josépha, stufa di quelle teorie, volle cambiare argomento.
«Parlate di cose che ignorate completamente. C'è fra voi uno che abbia amato tanto una donna, e una donna indegna di lui, da mangiarsi la sua fortuna e quella dei suoi figli, da distruggere il suo avvenire, da offuscare il suo passato, da esporsi al rischio della galera rubando allo Stato, da uccidere uno zio e un fratello, da lasciarsi così bene bendare gli occhi da non accorgersi che glieli chiudevano per impedirgli di vedere l'abisso in cui, come estrema beffa, l'hanno precipitato? Du Tillet ha dalla parte sinistra del petto una cassaforte, Léon de Lora vi tiene la sua arguzia, Bixiou riderebbe di se stesso se amasse una persona diversa da lui, Massol ha un portafogli ministeriale al posto del cuore! Lousteau ci ha solo un viscere, se ha potuto lasciarsi abbandonare dalla signora de la Baudraye; il duca è troppo ricco per poter provare il suo amore con la sua rovina; Vauvinet non conta, io escludo lo strozzino del genere umano. In questo modo non avete amato né me, né Jenny, né Carabine... Quanto a me, non ho visto che una sola volta il fenomeno che ho appena descritto. È,» disse a Jenny Cadine, «il nostro povero barone Hulot, che debbo fare ricercare come un cane sperduto, perché voglio ritrovarlo.»
«Ma come!» si disse Carabine guardando Josépha in una certa maniera, «la signora Nourrisson ha dunque due quadri di Raffaello, che Josépha fa il mio gioco?»
«Pover'uomo!» disse Vauvinet, «era davvero grande, magnifico. Che stile! che aspetto! aveva l'aria di Francesco i. Che vulcano! e che abilità, che genio, quando si trattava di trovar del denaro! Là, dov'è adesso lo starà cercando e dovrà tirarlo fuori da quei muri fatti di ossa che si vedono alla periferia di Parigi, vicino alle barriere del dazio... perché è lì che senz'altro si è nascosto...»
«E tutto,» disse Bixiou, «per quella piccola signora Marneffe! quella sì è una dritta!»
«Sposa il mio amico Crevel!» osservò du Tillet.
«Ed è pazza del mio amico Steinbock!» disse Léon de Lora.
Queste tre frasi furono tre colpi di pistola che Montès ricevette in pieno petto. Divenne livido e soffrì tanto, che si alzò a fatica.
«Siete delle canaglie!» disse. «Non dovreste mischiare il nome di una donna onesta a quello di tutte le vostre donne perdute! né soprattutto farne un bersaglio per i vostri lazzi.»
Montès fu interrotto da grida di bravo e da applausi unanimi. Bixiou, Léon de Lora, Vauvinet, du Tillet, Massol diedero il segnale. Fu un coro.
«Viva l'imperatore!» disse Bixiou.
«Incoroniamolo!» esclamò Vauvinet.
«Un ringhio per Médor! hurrà per il Brasile!» gridò Lousteau.
«Ah! barone color del rame, tu ami la nostra Valérie?» disse Léon de Lora, «non sei schifiltoso!»
«Non è molto parlamentare quello che ha detto; ma è magnifico!...» fece osservare Massol.
«Ma, mio caro cliente, tu mi sei stato raccomandato, io sono il tuo banchiere, la tua ingenuità mi può nuocere.»
«Ah! ditemi, voi che siete un uomo serio...» domandò il brasiliano a du Tillet.
«Grazie per tutti noi,» fece Bixiou, che salutò.
«Ditemi qualcosa di positivo!...» aggiunse Montès senza fare attenzione alle parole di Bixiou.
«E allora,» riprese du Tillet, «ho l'onore di dirti che sono stato invitato al matrimonio di Crevel.»
«Ah! Combabus prende la difesa della signora Marneffe!» disse Josépha che si alzò con aria solenne.
Andò tutta compresa fino a Montès, gli diede una piccola pacca amichevole sulla testa, lo guardò per un istante lasciando apparire sul suo viso un'espressione divertita, e scosse il capo.
«Hulot è il primo esempio dell'amore totale ‹malgrado tutto›; ecco il secondo,» disse, «ma non dovrebbe contare, perché viene dai tropici.»
Nel momento in cui Josépha colpì delicatamente la fronte del brasiliano, Montès ricadde a sedere sulla sedia e, guardando du Tillet, gli disse:
«Se sono lo zimbello di uno dei vostri scherzi parigini, se avete voluto strapparmi il mio segreto...»
E avvolse la tavola intera con un cerchio di fuoco, abbracciando tutti i convitati con uno sguardo in cui fiammeggiò il sole del Brasile.
«Di grazia, ditemelo,» riprese con aria supplichevole e quasi infantile, «non calunniate una donna che amo...»
«Suvvia!» gli rispose Carabine in un orecchio, «ma se foste indegnamente tradito, ingannato, giocato da Valérie, e io ve ne dessi le prove, fra un'ora, a casa mia, che fareste?»
«Non posso dirvelo qui, davanti a tutti questi Jago...» disse il barone brasiliano.
Carabine capì magots.
«E va bene, tacete!» gli rispose sorridendo, «non date motivo agli uomini più spiritosi di Parigi di ridere di voi, e venite a casa mia; avremo modo di parlare...»
Montès era annientato.
«Delle prove!...» disse balbettando; «pensate...»
«Ne avrai anche troppe,» rispose Carabine, «e poiché il sospetto ti da tanto alla testa, ho paura per la tua ragione...»
«È ben testardo, quel tipo, peggio del defunto re d'Olanda.»
«Sentite, Lousteau, Bixiou, Massol, e tutti gli altri! non siete tutti invitati a pranzo dalla signora Marneffe, dopodomani?» domandò Léon de Lora.
«Ya!» rispose du Tillet. «Ho l'onore di ripetervi, barone, che, se voi aveste, per caso, intenzione di sposare la signora Marneffe, sareste respinto come un progetto di legge da una palla di nome Crevel. Il mio amico, il mio ex compagno Crevel, ha ottantamila franchi di rendita, e voi probabilmente non ne avrete fatto vedere altrettanti, poiché allora sareste stato preferito, credo.»
Montès ascoltò con un'aria mezzo trasognata mezzo sorridente che a tutti parve terribile a questo punto. Il primo cameriere venne a dire all'orecchio di Carabine che una delle sue parenti era nel salotto e desiderava parlarle. La cortigiana si alzò, uscì, e trovò la signora Nourrisson con il capo coperto da un velo di merletto nero.
«Be', devo andare a casa tua, mia cara? Ha abboccato?»
«Sì, mammetta, la pistola è così carica, che ho paura che esploda,» rispose Carabine.



CXV • DOVE SI VEDE LA SIGNORA NOURRISSON ALL'OPERA

Un'ora dopo, Montès, Cydalise e Carabine, ritornati dal Rocher de Cancale, entravano in rue Saint-Georges, nel piccolo salotto di Carabine. La lorette vide la signora Nourrisson seduta in una poltrona Luigi xv, accanto al fuoco.
«To', ecco la mia rispettabile zia!» disse.
«Sì, carina, io e sono venuta a prendere la mia pensioncina. Tu mi dimenticheresti, per quanto tu abbia buon cuore, e domani ho delle cambiali da pagare. Una rigattiera, è sempre in difficoltà finanziarie. Che cosa ti tiri dietro?... Quel signore ha l'aria di avere un gran dispiacere...»
La terribile signora Nourrisson, la cui metamorfosi era completa e che sembrava essere diventata una buona vecchia, si alzò per abbracciare Carabine, una delle cento e più lorette che aveva lanciato nell'orribile carriera del vizio.
«È un Otello che non si sbaglia, e che ho l'onore di presentarti: il signor barone Montés de Montejanos...»
«Oh! conosco il signore per averne molto sentito parlare; vi chiamano Combabus, perché non amate che una sola donna; a Parigi, è come non averne nessuna. Si tratterebbe per caso dell'oggetto del vostro amore? della signora Marneffe, la donna di Crevel...? Sentite, mio caro signore, benedite la vostra sorte invece di accusarla... Non vale nulla, quella donnina là. Conosco il suo modo di comportarsi!»
«Ah, be'!» disse Carabine, alla quale la signora Nourrisson aveva fatto scivolare in mano una lettera mentre l'abbracciava, «tu non conosci i brasiliani. Sono dei testoni che amano trafiggersi il cuore!... Tanto più sono gelosi, tanto più vogliono esserlo. Il signore parla di fare una strage, ma non farà nulla perché è innamorato. Insomma, ho condotto qui il signor barone per dargli le prove della sua infelicità, prove che ho avuto da quel piccolo Steinbock.»
Montès era come ebbro d'ira, ascoltava come se non si trattasse di se stesso. Carabine andò a togliersi il suo mantello di velluto, e lesse il fac-simile del seguente biglietto:

«Micio mio, lui va stasera a cena da Popinot, e verrà a prendermi all'Opéra verso le undici. Uscirò verso le cinque e mezzo, e conto di trovarti nel nostro paradiso, dove farai mandare il pranzo dalla Maison d'or. Vestiti in modo da potermi accompagnare all'Opéra. Avremo quattro ore completamente per noi. Mi restituirai questo biglietto, non perché la tua Valérie diffidi di te, ti darei la mia vita, la mia ricchezza e il mio onore, ma temo gli scherzi del caso.»

«To', barone, ecco il messaggio d'amore inviato stamani al conte Steinbock, leggi l'indirizzo! L'originale è stato appena bruciato.»
Montès girò, rigirò il foglio, riconobbe la scrittura, e fu colpito da un'idea giusta, il che prova quanto la sua testa fosse sconvolta.
«Dite un po'! per quale ragione mi straziate il cuore, poiché avete dovuto pagare molto caro il diritto di aver fra le mani questo biglietto per qualche tempo per farlo litografare?» disse guardando Carabine.
«Pezzo d'imbecille!» disse Carabine a un cenno della signora Nourrisson, non vedi questa povera Cydalise... una bambina di sedici anni che ti ama da tre mesi da perderne la testa e che si addolora per non avere ancora ottenuto il più distratto dei tuoi sguardi?»
Cydalise si portò un fazzoletto sugli occhi ed ebbe l'aria di piangere.
«È furibonda, malgrado la sua aria da santarellina, di vedere che l'uomo di cui è pazza è la vittima di una scellerata,» proseguì Carabine, «e ucciderebbe Valérie...»
«Oh! questo,» disse il brasiliano, «questo riguarda me!»
«Uccidere!... tu, piccolo mio?» disse la Nourrisson. «Non si fa più qui.»
«Oh!» riprese Montès, «io non sono di questo paese, vivo in una capitaneria, dove me ne infischio delle vostre leggi; e, se mi date delle prove...»
«Prove? questo biglietto non è dunque niente?...»
«No,» disse il brasiliano. «Non credo alla scrittura, voglio vedere...»
«Oh! vedere!» disse Carabine, che capì a volo un nuovo cenno della sua finta zia; ma ti faremo vedere tutto, mio caro tigre, a una condizione...»
«Quale?»
«Guardate, Cydalise.»
A un cenno della signora Nourrisson, Cydalise guardò con tenerezza il brasiliano.
«L'amerai? la renderai felice?» domandò Carabine. «Una donna di quella bellezza vale un palazzo e un equipaggio! Sarebbe una vera mostruosità lasciarla a piedi. E ha... dei debiti... Quanto devi?» fece Carabine dando un pizzicotto alle braccia di Cydalise.
«Vale quello che vale,» disse la Nourrisson. «Basta che ci sia un acquirente.»
«Ascoltate!» esclamò Montès accorgendosi finalmente di quel mirabile capolavoro femminile, «mi farete vedere Valérie?...»
«E il conte Steinbock, perdinci!» disse la signora Nourrisson.
Da dieci minuti, la vecchia stava osservando il brasiliano; vedeva in lui lo strumento atto al delitto, e di cui lei aveva bisogno; lo vide soprattutto abbastanza accecato dalla passione da non fare più attenzione a quelli che lo manovravano, e intervenne.
«Cydalise, tesoro mio del Brasile, è mia nipote, e la cosa mi riguarda un po'. Tutta questa storia, è roba di dieci minuti, poiché è una mia amica che affitta al conte Steinbock la camera ammobiliata dove Valérie prende in questo momento il suo caffè, un ben strano caffè, ma essa lo chiama il suo caffè. Dunque, intendiamoci, Brasile! Io amo il Brasile, è un paese caldo. Quale sarà la sorte di mia nipote?»
«Vecchio struzzo!» disse Montès, colpito dalle piume che la Nourrisson aveva sul cappello, «mi hai interrotto. Se mi fai vedere..., vedere Valérie e quell'artista insieme...»
«Proprio come vorresti essere tu con lei,» disse Carabine, «è inteso.»
«Ebbene, io prendo questa normanna e la porto via con me...»
«Dove?...» domandò Carabine.
«In Brasile!» rispose il barone; «ne farò mia moglie. Mio zio mi ha lasciato dieci leghe quadrate di terra invendibile, ecco perché possiedo ancora quell'abitazione; vi tengo cento negri, niente altro che negri, negre e negretti comprati da mio zio...»
«Il nipote di un negriero!...» disse Carabine facendo una smorfia, «è una cosa da considerare. Cydalise, bambina mia, sei per caso una negrofila?»
«Su! siamo seri, Carabine,» disse la Nourrisson. «Che diavolo! stiamo parlando di affari, il signore e io.»
«Se mi riprendo una francese, la voglio tutta per me,» riprese il brasiliano. «Vi avverto, signorina, sono un re, ma non un re costituzionale; sono uno zar, ho comprato tutti i miei sudditi, e nessuno esce dal mio regno, che si trova a cento leghe da ogni luogo abitato; verso l'interno è contornato da selvaggi, e lo separa dalla costa un deserto grande come la vostra Francia...»
«Preferisco una mansarda qui!» disse Carabine.
«È quel che pensavo,» replicò il brasiliano, «tanto che ho venduto tutte le mie terre e tutto ciò che possedevo a Rio de Janeiro per venire a trovare la signora Marneffe.»
«Non si fanno quei viaggi per niente,» disse la signora Nourrisson. «Avete il diritto di essere amato per quello che siete, dal momento che siete soprattutto molto bello... Oh! è bello,» disse rivolgendosi a Carabine.
«Molto bello! più bello del postiglione di Longjumeau,» rispose la lorette.
Cydalise prese la mano del brasiliano, che si liberò di lei il più garbatamente possibile.
«Ero venuto per portar via la signora Marneffe!» continuò il brasiliano riprendendo il suo discorso, e sapete perché ho impiegato tre anni a ritornare?»
«No, selvaggio,» disse Carabine.
«Ebbene, mi aveva detto che voleva vivere con me, sola in un deserto!...»
«Non è più un selvaggio,» disse Carabine scoppiando a ridere, «è della tribù dei grulli civilizzati.»
«Me l'aveva ripetuto tante volte,» riprese il barone, insensibile alle battute della cortigiana, «che ho fatto sistemare una deliziosa abitazione al centro di quella immensa proprietà. Ritorno in Francia a cercare Valérie e, la notte in cui l'ho riveduta...» «Riveduta è decoroso,» disse Carabine, «ricorderò questa parola!»
«Mi ha detto di aspettare la morte di quel miserabile Marneffe, e io ho acconsentito, perdonandole di avere accettato gli omaggi di Hulot. Non so se il diavolo ha preso le sottane, ma quella donna, da quel momento, ha soddisfatto tutti i miei capricci, tutte le mie esigenze; insomma, non mi ha dato motivo di sospettarla nemmeno per un minuto!»
«Questa è grossa,» disse Carabine alla signora Nourrisson.
La signora Nourrisson scosse la testa in segno di assenso.
«La mia fiducia verso quella donna,» disse Montès lasciando scorrere le lacrime, «eguaglia il mio amore. A tavola, poco fa, sono stato sul punto di prendere a schiaffi tutta quella gente...»
«Me ne sono accorta!» disse Carabine.
«Se sono stato ingannato, se si sposa, e se si trova in questo momento nelle braccia di Steinbock, quella donna avrà meritato di morire mille volte, e l'ucciderò come si schiaccia una mosca...»
«E i gendarmi, mio caro?...» disse la signora Nourrisson con un sorriso di vecchia strega che faceva accapponare la pelle.
«E il commissario di polizia e i giudici, e la Corte d'Assise, e tutto il resto?...» disse Carabine.
«Siete un vanesio! mio caro,» riprese la signora Nourrisson, che voleva conoscere i progetti di vendetta del brasiliano.
«La ucciderò!» ripeté freddamente il brasiliano. «Già! mi avete chiamato selvaggio... Credete forse che imiterò la balordaggine dei vostri compatrioti che vanno a comprare il veleno dai farmacisti?... Ho pensato, durante il tempo che avete impiegato a venire qui, alla mia vendetta, nel caso che aveste ragione nei confronti di Valérie. Uno dei miei negri porta con sé il più sicuro dei veleni animali, una terribile malattia che vale di più di un veleno vegetale e che si può guarire solo in Brasile: la faccio prendere a Cydalise, che me la attaccherà; poi, quando la morte sarà nelle vene di Crevel e di sua moglie, io sarò al di là delle Azzorre con vostra cugina che farò guarire e che prenderò per moglie. Noialtri selvaggi abbiamo i nostri metodi!... Cydalise,» disse guardando la normanna, «è la bestia che mi ci vuole. Quanto deve?...»
«Centomila franchi,» disse Cydalise.
«Parla poco, ma parla bene,» disse a voce bassa Carabine alla signora Nourrisson.
«Io divento pazzo!» esclamò con voce cupa il brasiliano lasciandosi cadere su un divano. «Ne morirò, ma voglio vedere, perché mi sembra impossibile! Un biglietto litografato!... Chi mi dice che non sia l'opera di un falsario?... Il barone Hulot amare Valérie!...» disse ricordandosi delle parole di Josépha; «ma la prova che egli non l'amava è il fatto che lei esiste!... Io non la lascerò viva a nessuno, se non è tutta mia!...»
Montès faceva paura a vederlo, e più terribile ancora a sentirlo! Ruggiva, si contorceva; spezzava tutto ciò che toccava, il legno di palissandro sembrava essere vetro.
«Ma rompe tutto!» disse Carabine guardando la Nourrisson. «Piccolo mio,» riprese dando una pacca al brasiliano, «Orlando Furioso sta bene in un poema; ma, in un appartamento, è prosaico e caro.»
«Figliolo,» disse la Nourrisson alzandosi e andando a mettersi di fronte al brasiliano accasciato, «io la penso come te! Quando si ama in una certa maniera, come se si fosse agganciati l'un l'altro nelle carni, la vita risponde dell'amore. Quello che se ne va, strappa tutto; è una distruzione totale. Hai la mia stima, la mia ammirazione, il mio consenso, soprattutto per il tuo metodo che mi farà diventare negrofila. Ma tu ami! ti tirerai indietro?...»
«Io!... Se è un'infamia, io...»
«Senti, alla fin fine, tu parli troppo!» riprese la Nourrisson, ritornando a essere se stessa. «Un uomo che vuole vendicarsi e che dice di essere selvaggio, quanto a metodi si comporta diversamente. Perché tu possa vedere l'oggetto del tuo amore nel suo paradiso, occorre prendere con sé Cydalise e aver l'aria di entrare in quella stanza, come per un errore della domestica; ma niente scenate! Se vuoi vendicarti, è necessario abbattersi, farsi vedere disperato e farsi raggirare dalla propria amante... Non è così?» disse la signora Nourrisson vedendo il brasiliano sorpreso da una macchinazione così sottile.
«Andiamo, struzzo,» rispose lui, «andiamo!... ho capito.»
«Addio, mia cara,» disse la signora Nourrisson a Carabine.
Ella fece cenno a Cydalise di scendere con Montès, e restò sola con Carabine.
«Ora, piccola mia, non ho paura che di una cosa, e cioè che la strangoli! Sarei in cattive acque; bisogna agire con precauzione. Oh! credo che tu abbia vinto il tuo quadro di Raffaello, ma si dice che sia un Mignard. Stai tranquilla, è molto più bello; mi hanno detto che i quadri di Raffaello sono scuri, mentre quello è grazioso come un Girodet.»
«Ci tengo a spuntarla su Josépha!» esclamò Carabine, «e per me è indifferente che sia un Mignard o un Raffaello... No, quella ladra aveva stasera delle perle..., si farebbe qualsiasi cosa per... averle!»



CXVI • CHE COS'È UN APPARTAMENTINO NEL 1840

Cydalise, Montès e la signora Nourrisson salirono in una carrozza che era ferma alla porta di Carabine. La signora Nourrisson indicò, parlando sottovoce, al cocchiere una casa dell'isolato degli Italiens dove sarebbero arrivati da lì a qualche istante, poiché da rue Saint-Georges si impiegano sette o otto minuti; ma la signora Nourrisson ordinò di prendere per rue Peletier, e di procedere lentamente, in modo da guardare attentamente tutte le carrozze signorili che erano in sosta lungo la strada.
«Brasiliano,» disse la Nourrisson, «vedi se riconosci i domestici e la carrozza del tuo angelo.»
Il barone indicò la carrozza nel momento in cui il loro fiacre vi passò davanti.
«Ha detto ai suoi domestici di venire alle dieci, e lei si è fatta condurre in fiacre alla casa dove si trova col conte Steinbock; vi ha cenato, e fra una mezz'ora andrà all'Opéra. Proprio un bel lavoro!» disse la signora Nourrisson. «Questo ti spiega come può averti ingannato per tanto tempo.»
Il brasiliano non rispose. Trasformato in tigre, aveva ripreso il sangue freddo imperturbabile tanto ammirato durante la cena. Insomma, era calmo come uno che sia fallito, il giorno dopo aver depositato il bilancio. Alla porta della casa fatale era in sosta una carrozza da noleggio a due cavalli, di quelle che si chiamano della Compagnie Générale dal nome della ditta.
«Resta nella carrozza,» disse la signora Nourrisson a Montès. «Qui non si entra come in una bettola; verremo a chiamarti.»
Il paradiso della signora Marneffe e di Wenceslas non somigliava per niente alla piccola casa Crevel, che egli aveva venduto al conte Maxime de Trailles, perché, a suo parere, era diventata inutile. Questo paradiso, che era il paradiso di molta altra gente, consisteva in una camera situata al quarto piano che dava sulla scala, e si trovava in una casa dell'isolato degli Italiens. Al ogni piano, si trovava in quella casa, su ogni pianerottolo, una camera un tempo adibita a cucina. Ma essendo divenuta la casa una specie di albergo, affittata agli amori clandestini a prezzi esorbitanti, la principale locataria, la vera signora Nourrisson, rigattiera in rue Neuve-Saint-Marc, aveva previsto il valore immenso che potevano avere quelle cucine, e ne aveva fatto delle specie di sale da pranzo. Ognuno di quei locali, delimitato da due grossi muri divisori, prendeva luce dalla strada e si trovava totalmente isolato per mezzo di porte a doppio battente molto spesse che formavano una doppia chiusura sul pianerottolo. Si poteva quindi parlare di segreti importanti, mentre si pranzava, senza correre il rischio di essere uditi. Per maggior sicurezza, le due finestre erano provviste di persiane di fuori e di imposte all'interno. Quelle camere, grazie a questa loro particolarità, costavano trecento franchi al mese. La casa, piena di paradisi e di misteri, era affittata per ventiquattromila franchi alla signora Nourrisson 1ª, che ne guadagnava ventimila in media ogni anno, dopo aver pagato la gerente (signora Nourrisson 2ª), perché non l'amministrava direttamente.
Il paradiso affittato al conte Steinbock era tappezzato di cretonne a colori. Grazie a un soffice tappeto, i piedi non sentivano il freddo e la durezza di un ignobile ammattonato tinto in rosso con l'encausto. Il mobilio consisteva di due graziose sedie e di un letto in un'alcova, in quel momento seminascosto da una tavola carica degli avanzi di una cena squisita, sulla quale due bottiglie dal lungo tappo e una bottiglia di Champagne immersa nel ghiaccio costellavano i campi di Bacco coltivati da Venere. Si vedevano inoltre, mandati senza dubbio da Valérie, una comoda poltrona accanto a una sedia bassa da caminetto, e un cassettone di legno di rosa con uno specchio incorniciato in stile Pompadour. Una lampada al soffitto dava una penombra rischiarata dalle candele della tavola e da quelle che ornavano il caminetto.
Questa breve descrizione mostra, urbi et orbi, le meschine proporzioni che la Parigi del 1840 imprimeva all'amore clandestino. A quale distanza siamo, ohimè! dall'amore adultero simbolizzato dalle reti di Vulcano tremila anni fa.
Nel momento in cui Cydalise e il barone salivano, Valérie, in piedi davanti al caminetto, dove bruciava un fastello di legna, si faceva allacciare il busto da Wenceslas. È il momento in cui la donna, che non è né troppo grassa né troppo magra, così com'era la snella ed elegante Valérie, offre delle bellezze soprannaturali. La carne rosa, dalle sfumature leggermente umide, attira lo sguardo degli occhi più insonnoliti. Le linee del corpo, allora così poco velato, sono così nettamente poste in risalto dalle pieghe splendenti della sottogonna e dalla parte intrecciata del busto, che la donna è irresistibile, come tutto ciò che si sia costretti a lasciare. Il viso felice e sorridente nello specchio, il piede impaziente, la mano che si adopera a ricomporre i riccioli dell'acconciatura in disordine; gli occhi dai quali trabocca la riconoscenza, poi il fuoco dell'appagamento che, simile al tramonto del sole, infiamma i minimi dettagli della fisionomia, tutto di quell'ora crea una miniera di ricordi!... Certo, chiunque, volgendosi a guardare i primi errori della propria vita, vi ritroverà alcuni di questi deliziosi particolari, comprenderà forse, senza scusarle, le follie degli Hulot e dei Crevel. Le donne conoscono così bene il loro potere in quel momento, che lo sfruttano sempre per quello che si può chiamare un ritorno di fiamma della passione.



CXVII • ULTIMA SCENA DI ALTA COMMEDIA FEMMINILE

«Suvvia! dopo due anni, non sai ancora allacciare il corsetto a una donna! sei rimasto veramente troppo polacco! Sono le dieci, caro Wences... las!» disse Valérie ridendo.
In quel momento, una squallida domestica fece abilmente saltare con la lama di un coltello il paletto della porta che costituiva tutta la sicurezza di Adamo ed Eva. Aprì bruscamente la porta, perché i locatari di quegli Eden hanno tutti poco tempo da perdere, e scoprì uno di quegli stupendi quadri di genere, così spesso esposti al Salon, a imitazione di Gavarni.
«Qui, signora!» disse la ragazza.
E Cydalise entrò seguita dal barone Montès.
«Ma c'è gente!... Scusate, signora,» disse la normanna spaventata.
«Come! ma è Valérie!» esclamò Montès, che chiuse violentemente la porta.
La signora Marneffe, in preda a un'emozione troppo viva per essere dissimulata, si lasciò cadere su una seggiola accanto al caminetto. Due lacrime comparvero nei suoi occhi e si asciugarono subito. Guardò Montès, scorse la normanna e scoppiò a ridere in modo forzato. La dignità della donna offesa fu più forte della vergogna di farsi trovare in quella toilette incompiuta: andò verso il brasiliano e lo guardò in modo così sferzante, che i suoi occhi scintillarono come spade.
«È di questo, dunque,» disse ponendosi davanti al brasiliano e mostrandogli Cydalise, «che è fatta la vostra fedeltà? Voi, che mi avete fatto promesse tali da convincere un ateo in amore! Voi, per il quale io arrivavo a commettere tante cose e perfino dei crimini!... Avete ragione, signore, io non sono nulla in confronto a una ragazza di quell'età e di quella bellezza!... So che cosa volete dirmi,» riprese poi indicando Wenceslas, il cui disordine rappresentava una prova troppo evidente per essere negata. «Questo mi riguarda. Se potessi amarvi, dopo questo tradimento infame, poiché voi mi avete spiata, avete comprato ogni gradino di questa scala, e la padrona della casa, e la serva, e forse anche Reine... Oh! com'è bello tutto questo! Se avessi un resto di affetto per un uomo così vile gli offrirei delle ragioni tali da raddoppiare il suo amore!... Ma io vi lascio, signore, con tutti i vostri dubbi che diventeranno rimorsi... Wenceslas, il mio vestito!»
Prese il suo vestito, lo infilò, si esaminò allo specchio, e finì tranquillamente di abbigliarsi senza guardare il brasiliano, assolutamente come se fosse stata sola.
«Wenceslas, siete pronto? Andate avanti.»
Aveva osservato, con la coda dell'occhio e nello specchio, il volto di Montès, e credette di scorgere nel suo pallore i segni di quella debolezza che mette gli uomini così forti alla mercè di una donna; lo prese per la mano, avvicinandosi abbastanza a lui perché egli potesse respirare i terribili amati profumi di cui si inebriano gli innamorati; e, sentendolo palpitare, lo guardò con un'aria di rimprovero:
«Vi permetto di andare a raccontare la vostra spedizione al signor Crevel, non vi crederà mai, perciò ho il diritto di sposarlo; sarà mio marito dopodomani... e lo renderò felice!... Addio! cercate di dimenticarmi...»
«Ah! Valérie,» esclamò Henri Montès stringendola fra le braccia, «è impossibile!... Vieni in Brasile!»
Valérie guardò il barone e ritrovò il suo schiavo.
«Ah! se tu mi amassi sempre, Henri! fra due anni sarei tua moglie; ma in questo momento il tuo viso non mi ispira fiducia.»
«Ti giuro che mi hanno fatto ubriacare, che dei falsi amici mi hanno gettato questa donna fra le braccia, e che tutto quello che è successo è opera del caso!» disse Montès.
«Potrei dunque ancora perdonarti?» disse lei sorridendo.
«E ti sposeresti lo stesso?» domandò il barone in preda a un'ansia dolorosa.
«Ottantamila franchi di rendita!» disse lei con un entusiasmo quasi comico. «E Crevel mi ama tanto che ne morrà!»
«Ah! ti capisco,» disse il brasiliano.
«Ebbene, fra qualche giorno ci metteremo d'accordo,» disse lei.
E scese le scale trionfante.
«Non ho più scrupoli!» pensò il barone, che rimase lì impalato per un momento. «Come! Quella donna pensa a servirsi del suo amore per liberarsi di quell'imbecille come contava sulla distruzione di Marneffe!... Io sarò lo strumento della collera divina!»



CXVIII • LA VENDETTA CADE SU VALÊRIE

Due giorni dopo, quelli dei convitati di du Tillet, che avevano fatto a pezzi la signora Marneffe, si trovavano seduti a tavola a casa sua, un'ora dopo che lei aveva cambiato pelle rinunciando al suo nome per prendere quello glorioso di un sindaco di Parigi. Questa slealtà nel parlare di una persona è una delle leggerezze più innocenti della vita parigina. Valérie aveva avuto il piacere di vedere in chiesa il barone brasiliano, che Crevel, divenuto marito a tutti gli effetti, aveva invitato per spavalderia. La presenza di Montès al pranzo non meravigliò nessuno. Tutta quella gente di spirito si era da tempo familiarizzata con le debolezze della passione, con i compromessi del piacere. La profonda malinconia di Steinbock, che cominciava a disprezzare colei di cui aveva fatto un angelo, parve essere una trovata di gran gusto. Era come se in tal modo il polacco dicesse che tutto era finito fra lui e Valérie. Lisbeth andò ad abbracciare la sua cara signora Crevel, scusandosi di non poter assistere al pranzo, a causa del doloroso stato di salute di Adeline.
«Stai tranquilla,» disse a Valérie al momento di lasciarla, «ti riceveranno a casa loro e tu li riceverai a casa tua. Per aver solamente udito quelle due parole: duecentomila franchi, la baronessa è in punto di morte! Oh! tu li tieni tutti in pugno con questa storia; ma me la racconterai?...»
Un mese dopo il suo matrimonio, Valérie era al suo decimo bisticcio con Steinbock, che voleva delle spiegazioni su Henri Montès, che le ricordava le sue frasi durante la scena del paradiso, e che non contento di condannare il comportamento di Valérie con termini sprezzanti, la sorvegliava talmente, che lei non trovava un istante di libertà, tanto era stretta fra la gelosia di Wenceslas e le premure di Crevel. Non avendo più vicino a sé Lisbeth, che la consigliava sempre con grande prudenza e abilità, ella si infuriò al punto di rinfacciare a Wenceslas il denaro che gli prestava. L'orgoglio di Steinbock si risvegliò tanto che non ritornò più a casa Crevel. Valérie aveva raggiunto il suo scopo: infatti voleva allontanare Wenceslas per qualche tempo al fine di riacquistare la sua libertà. Crevel doveva fare un viaggio in campagna presso il conte Popinot per concordare una visita di presentazione della signora Crevel. Valérie approfittò di questa occasione per dare un appuntamento al barone, che desiderava avere una giornata intera tutto per lei al fine di dargli quelle spiegazioni, che, secondo lei, dovevano raddoppiare l'amore del brasiliano. La mattina di quel giorno, Reine, valutando la gravità del suo crimine dall'entità della somma ricevuta, cercò di avvertire la padrona, alla quale naturalmente si interessava più che a degli sconosciuti; ma poiché l'avevano minacciata, in caso di indiscrezione, di farla passare per pazza e di rinchiuderla alla Salpêtrière, esitò.
«La signora è così felice ora,» le disse; «perché vedere quel brasiliano?... Io starei in guardia!»
«È vero, Reine,» rispose Valérie; «per questo ho intenzione di congedarlo.»
«Ah! signora, ne sono felice; quel moro mi fa paura! Lo credo capace di tutto...»
«Sei una sciocca! È per lui che bisogna temere quando è con me.»
In quel momento entrò Lisbeth.
«Cara la mia graziosa capretta! È tanto che non ci vediamo!» disse Valérie. «Sono veramente sfortunata... Crevel mi annoia e non ho più Wenceslas; ci siamo bisticciati.»
«Lo so,» rispose Lisbeth, «ed è proprio per lui che sono venuta: Victorin l'ha incontrato verso le cinque di sera, nel momento in cui entrava in un ristorante di infimo ordine, in rue de Valois; l'ha preso a digiuno toccando la corda del sentimento ed è riuscito a ricondurlo in rue Louis-le-Grand... Hortense, vedendo Wenceslas magro, sofferente, mal vestito, gli è andata incontro e gli ha teso le braccia... Ecco come mi tradisci!»
«Il signor Henri, signora!» venne a dire il cameriere all'orecchio di Valérie.
«Lasciami, Lisbeth; ti spiegherò domani!...»
Ma, come si vedrà, Valérie si trovò ben presto nelle condizioni di non poter spiegare più niente a nessuno.



CXIX • IL FRATE QUESTUANTE

Verso la fine del mese di maggio, la pensione del barone fu completamente liberata dai pagamenti che Victorin aveva di volta in volta effettuati al barone di Nucingen. Tutti sanno che i semestri delle pensioni vengono saldati solo dietro presentazione di un certificato che attesti l'esistenza in vita dell'interessato, e, poiché si ignorava la residenza del barone Hulot, le quote semestrali che dovevano essere versate a Vauvinet restavano invece depositate al Tesoro. Avendo Vauvinet scontato la sua revoca, era ormai indispensabile trovare il titolare per ottenere gli arretrati. La baronessa, grazie alle cure del dottor Bianchon, aveva riacquistato la salute. La buona Josépha aveva contribuito con una lettera, la cui ortografia tradiva la collaborazione del duca d'Hérouville, al completo ristabilimento di Adeline. Ecco quanto scrisse la cantante alla baronessa, dopo quaranta giorni di attive ricerche:

«Signora baronessa,
«il signor Hulot viveva, due mesi fa, in rue des Bernardins con Élodie Chardin, la rammendatrice di merletti, che l'aveva portato via alla signorina Bijou; ma è partito lasciando tutto quello che possedeva, senza dire una parola, senza che si sia potuto sapere dove è andato. Io non mi sono scoraggiata ed ho messo alla sua ricerca un uomo che crede già di averlo incontrato sul boulevard Bourdon.
«La povera ebrea manterrà la promessa fatta alla cristiana. Che l'angelo preghi per il demonio! È quello che deve avvenire a volte in cielo.
«Sono, con profondo rispetto e per sempre, la vostra umile serva,
Josépha Mirah»

L'avvocato Hulot d'Ervy non sentendo più parlare della terribile signora Nourrisson, vedendo suo suocero già sposato e suo cognato tornato sotto il tetto familiare, non provando nessuna avversione nei confronti di sua suocera, e trovando che sua madre migliorava sempre più di giorno in giorno, si dedicava ai suoi impegni politici e giudiziari, spinto dal vortice della vita parigina, in cui le ore contano per giorni. Incaricato di redigere un rapporto per la Camera dei Deputati, fu costretto, verso la fine della sessione, a passare tutta una notte a lavorare. Rientrato nel suo studio verso le nove, aspettava che il cameriere portasse i candelabri muniti di abat-jour e intanto pensava a suo padre. Si rimproverava di lasciare che la cantante si occupasse di quella ricerca, e si proponeva a quel proposito di vedere l'indomani il signor Chapuzot, quando scorse alla finestra, nella luce del crepuscolo, una sublime testa di vecchio, dal cranio giallastro circondato di capelli bianchi.
«Dite, caro signore, che si lasci giungere fino a voi un povero eremita venuto dal deserto, e incaricato di fare la questua per la ricostruzione del santo asilo.» Quella visione, che aveva preso voce e che ricordò all'avvocato una profezia dell'orribile signora Nourrisson, lo fece trasalire.
«Fate entrare quel vecchio,» disse al cameriere.
«Appesterà lo studio del signore,» rispose il domestico, «porta una veste scura che non ha mai cambiato da quando è partito dalla Siria, e non ha camicia...»
«Fate entrare quel vecchio,» ripeté l'avvocato.
Il vecchio entrò. Victorin esaminò con occhio diffidente quel sedicente eremita in pellegrinaggio e vide uno splendido modello di quei monaci napoletani, le cui vesti sono sorelle degli stracci dei lazzeroni, i cui sandali sono stracci di cuoio, così come il monaco stesso è uno straccio d'umanità. Era così reale e così vero che, pur conservando la sua diffidenza, l'avvocato si rimproverò di aver creduto alle predizioni della signora Nourrisson.
«Che desiderate?»
«Ciò che voi credete di dovermi dare.»
Victorin prese cento soldi da una pila di scudi e li porse allo straniero.
«In acconto di cinquantamila franchi, è poco,» disse il mendicante del deserto.
Questa frase dissipò tutte le incertezze di Victorin.
«E il cielo ha mantenuto le sue promesse?» disse l'avvocato aggrottando le sopracciglia.
«Il dubbio è un'offesa, figlio mio!» replicò il solitario. «Se volete pagare dopo i funerali, siete nel vostro diritto; ritornerò fra otto giorni.»
«I funerali!» esclamò l'avvocato alzandosi.
«Siamo andati avanti,» disse il vecchio ritirandosi, e i morti vanno in fretta a Parigi.
Quando Hulot, che abbassò la testa, volle rispondere, l'agile vecchio era sparito.
«Non ci capisco niente,» si disse Hulot figlio. «Ma fra otto giorni, gli chiederò notizie di mio padre, se non l'abbiamo ancora trovato. Dove prende la signora Nourrisson (sì, si chiama così) dei simili attori?»



CXX • DISCORSI DI UN MEDICO

L'indomani il dottor Bianchon permise alla baronessa di scendere in giardino, dopo aver visitato Lisbeth, che da un mese era costretta da una leggera malattia ai bronchi a restare in camera. Il valente dottore, che non osò esprimere tutto il suo pensiero su Lisbeth prima di aver osservato dei sintomi decisivi, accompagnò la baronessa in giardino per osservare, dopo due mesi durante i quali era rimasta chiusa in casa, l'effetto dell'aria aperta sul tremito nervoso di cui egli si occupava. Il processo di guarigione di quella nevrosi sollecitava l'interesse di Bianchon. Vedendo quel grande e celebre medico che accordava loro gentilmente parte del suo tempo prezioso, la baronessa e i suoi figli si intrattennero cortesemente in conversazione con lui.
«Avete una vita veramente piena di lavoro e vi trovate sempre in mezzo a tristi situazioni!» disse la baronessa. «So che cosa vuol dire passare delle giornate a vedere delle miserie o dei dolori fisici.»
«Signora,» rispose il medico, «non ignoro gli spettacoli di miseria che la carità vi costringe a contemplare ogni giorno; ma alla fine, come noi, ci farete l'abitudine. È la legge della nostra società. Il confessore, il magistrato, il procuratore, non potrebbero esistere se ‹l'autorevole legge dello stato› non dominasse gli ‹affetti dell'uomo›. Si potrebbe vivere se non si attuasse questo principio? Il militare, in tempi di guerra, non è costretto a vedere degli spettacoli ancora più crudeli di quanto non lo siano i nostri? E tutti i militari che hanno visto il fuoco sono buoni. Noi, almeno, proviamo piacere quando possiamo constatare che una cura ha dato buoni risultati, come voi provate gioia quando potete salvare una famiglia dagli orrori della fame, della depravazione, della miseria, restituendola al lavoro, alla vita sociale; ma come si consolano il magistrato, il commissario di polizia e il procuratore, che passano la loro vita a frugare nelle più scellerate trame dell'interesse, questo mostro sociale che conosce il rimpianto di non avere avuto successo nelle sue imprese, ma che mai sentirà il pentimento di averle fatte? Una metà della società passa la vita a osservare l'altra metà. Ho come amico da molto tempo un procuratore, ora a riposo, il quale mi diceva che, da quindici anni, i notai, gli avvocati, diffidano dei loro clienti quanto degli avversari dei loro clienti. Vostro figlio è avvocato: non è mai stato compromesso da qualcuno che doveva difendere?»
«Oh! spesso,» disse sorridendo Victorin.
«Da dove viene questo male profondo?» domandò la baronessa.
«Dalla mancanza di religione,» rispose il medico, «e dal fatto che in questa società tutto è dominato dal capitale, che non è altro che egoismo materializzato. Il denaro, un tempo, non era tutto per l'uomo; altri valori avevano la preminenza nella sua vita. Vi erano la nobiltà d'animo, il talento, i servizi resi allo Stato; ma oggi la legge fa del denaro una misura valida per ogni cosa e lo considera come base del merito politico! Certi magistrati non sono eleggibili, Jean-Jacques Rousseau stesso non sarebbe eleggibile! Le eredità continuamente suddivise obbligano ognuno a pensare al proprio interesse fin dall'età di venti anni. Ebbene, fra la necessità di fare fortuna e il ricorso alle losche manovre per assicurarsela, non ci sono più freni morali, poiché il sentimento religioso manca in Francia, malgrado i lodevoli sforzi di quanti tentano una restaurazione cattolica. Ecco ciò che dicono tutti quelli che osservano, come faccio io, la società nelle sue miserie.
«Avete pochi divertimenti,» disse Hortense.
«Il vero medico,» rispose Bianchon, «si appassiona alla scienza. Egli trae da questa passione tanta forza quanta ne trae dalla certezza di essere socialmente utile. Ecco, in questo momento, la scienza mi permette di provare una grande gioia, e, agli occhi della gente, potrei sembrare un uomo senza cuore. Domani annuncerò all'Accademia di medicina una scoperta. Sto osservando attualmente una malattia che credevamo scomparsa: una malattia mortale, purtroppo, e contro la quale siamo disarmati, nei climi temperati, poiché può essere guarita solo nelle Indie. Una malattia che esisteva nel medioevo. È una bella lotta quella che conduce il medico contro simile soggetto. Da dieci giorni a questa parte, io penso in ogni momento ai miei malati, che sono due: la moglie e il marito! «Non sono per caso vostri parenti? Non siete, signora, la figlia del signor Crevel?» disse rivolgendosi a Célestine.
«Che dite mai! Il vostro malato sarebbe mio padre?...» disse Célestine. «Abita forse in rue Barbet-de Jouy?»
«Proprio là,» rispose Bianchon.
«E la malattia è mortale?» ripeté Victorin spaventato.
«Vado da mio padre!» esclamò Célestine, alzandosi.
«Ve lo proibisco nel modo più assoluto,» obiettò tranquillamente Bianchon. «La malattia è contagiosa.»
«Ma voi ci andate, signore,» replicò la giovane donna. «Credete che i doveri di una figlia siano inferiori a quelli del medico?»
«Signora, un medico sa come preservarsi dal contagio, e l'ansia dovuta all'affetto che provate per vostro padre non vi farà essere prudente come lo sono io.»
Célestine si alzò, andò in camera sua e si preparò per uscire.



CXXI • LA MANO DI DIO E QUELLA DEL BRASILIANO

«Signore,» disse Victorin a Bianchon, «sperate di salvare il signore e la signora Crevel?»
«Lo spero senza crederlo,» rispose Bianchon. «Il fatto è inesplicabile per me... Questa malattia è propria dei negri e delle popolazioni americane, il cui sistema cutaneo differisce da quello delle razze bianche. Ora, non posso stabilire alcuna relazione fra i neri, quelli dalla pelle rossastra, i meticci e il signore e la signora Crevel. Se per noi è del resto una malattia molto interessante dal punto di vista medico, essa è terribile per tutti. La povera donna, che, dicevano, era graziosa, è stata ben punita in ciò per cui ha peccato, poiché oggi è di una bruttezza ripugnante, se è possibile dire che ha ancora un aspetto umano!... I denti e i capelli le cadono via via, e ha assunto l'aspetto dei lebbrosi; ha perfino orrore di se stessa. Le mani, spaventose a vedersi, sono gonfie e coperte di pustole verdastre; le unghie, non più trattenute dalla pelle, restano nelle piaghe che essa si gratta; infine, tutte le estremità sono distrutte dal pus che le consuma.»
«Ma qual è la causa di queste alterazioni?» domandò l'avvocato.
«Oh!» disse Bianchon, «la causa è in un'alterazione rapida del sangue, che si deteriora con una spaventosa celerità. Spero di poter intervenire sul sangue; l'ho fatto analizzare; vado a casa per vedere il risultato delle analisi fatte dal mio amico professor Duval, il famoso chimico; tenterò una di quelle cure che siamo soliti sperimentare nei casi più disperati.»
«C'è la mano di Dio in tutto questo!» disse la baronessa con voce profondamente commossa. «Benché questa donna mi abbia causato dei mali che, in momenti di follia, mi hanno fatto invocare la giustizia divina sulla sua testa, mi auguro, mio Dio! che possiate riuscire, signor dottore.»
Hulot figlio era sconvolto; guardava alternativamente la madre, la sorella e il dottore, tremando all'idea che potessero indovinare i suoi pensieri. Si considerava un assassino. Hortense, da parte sua, trovava Dio molto giusto. Célestine ritornò e pregò il marito di accompagnarla.
«Se andate là,» disse il dottore ai coniugi Hulot, «rimanete a una certa distanza dal letto dei malati: è la precauzione che dovete osservare. Né voi né vostra moglie dovete abbracciare il moribondo! Per cui è bene che accompagnate vostra moglie, signor Hulot, per impedirle di trasgredire a quest'ordine.»
Adeline e Hortense, rimaste sole, andarono a tener compagnia a Lisbeth. L'odio di Hortense contro Valérie era così violento, che non poté contenerne l'esplosione.
«Cugina! mia madre e io siamo state vendicate!...» esclamò Hortense. «Quella creatura velenosa si sarà morsa: è tutta in stato di decomposizione!»
«Hortense,» disse la baronessa, «non sei cristiana in questo momento. Dovresti pregare Dio perché si degni di ispirare il pentimento nell'anima di quell'infelice.»
«Che cosa dite!» esclamò Bette alzandosi sulla sedia, «parlate di Valérie?»
«Sì,» rispose Adeline; «essa è condannata a morire di un'orribile malattia, la cui sola descrizione fa venire i brividi.»
I denti della cugina Bette cominciarono a battere, un sudore freddo le bagnò il corpo, un tremito terribile, che rivelò la profonda e appassionata amicizia per Valérie, la scosse tutta.
«Ci vado,» disse.
«Ma il dottore ti ha proibito di uscire!»
«Non importa! ci vado!... Quel povero Crevel, in che stato deve essere: ama tanto sua moglie!»
«Anch'egli sta per morire,» replicò la contessa Steinbock. «Ah! tutti i nostri nemici sono nelle mani del diavolo...»
«Di Dio, figlia mia...»
Lisbeth si vestì, prese il suo famoso cachemire giallo, il mantello di velluto nero, si mise gli stivaletti, e, noncurante dei rimproveri di Adeline e di Hortense, uscì come spinta da una forza dispotica.



CXXII • LE ULTIME PAROLE DI VALÊRIE

Arrivata in rue Barbet pochi istanti dopo il signore e la signora Hulot, Lisbeth trovò sette medici che Bianchon aveva fatto venire per osservare quel caso unico, e ai quali egli si era unito. Quei dottori, in piedi nel salotto, discutevano sulla malattia: ora l'uno, ora l'altro andava sia nella camera di Valérie, sia in quella di Crevel, per osservare, e ritornava con un argomento basato su quella rapida osservazione.
Due importanti opinioni dividevano quei principi della scienza. Uno solo fra loro era convinto che si trattasse di avvelenamento e parlava di vendetta privata, negando così che fosse riapparsa la malattia descritta nel medioevo. Altri tre vi vedevano la decomposizione della linfa e degli umori. Il secondo partito, quello di Bianchon, sosteneva che la malattia era causata dal guastarsi del sangue che si corrompeva per un processo morboso sconosciuto. Bianchon portava il risultato delle analisi del sangue fatte dal professor Duval. I metodi di cura, benché disperati e del tutto empirici, dipendevano dalla soluzione di quel problema medico.
Lisbeth restò pietrificata a tre passi dal letto dove stava morendo Valérie, alla vista di un vicario di San Tommaso d'Aquino al capezzale della sua amica, e di una suora di carità che l'assisteva. La religione trovava un'anima da salvare in un ammasso di putredine che, dei cinque sensi dell'uomo, non aveva conservato che la vista. La suora di carità, la sola che avesse accettato il compito di curare Valérie, l'assisteva tenendosi a distanza. Così la chiesa cattolica, questo corpo divino, sempre animato dall'ispirazione del sacrificio in ogni cosa, assisteva, sotto la doppia forma dello spirito e della carne, quell'infame e infetta moribonda prodigandole la sua mansuetudine infinita e i suoi inesauribili tesori di misericordia.
I domestici, spaventati, rifiutavano di entrare nella camera del signore e della signora; non pensavano che a se stessi e trovavano i loro padroni giustamente puniti. Il fetore era così grande, che, malgrado le finestre aperte e i più potenti profumi, nessuno poteva restare a lungo nella camera di Valérie. La religione sola vegliava. Era mai possibile che una donna dalla mente superiore, come quella di Valérie, non si domandasse quale interesse faceva restare là quei due rappresentanti della chiesa? perciò la morente aveva ascoltato la voce del prete. Il pentimento era penetrato in quell'anima perversa in proporzione alle devastazioni che la malattia divorante portava alla bellezza. La delicata Valérie aveva opposto alla malattia molto minore resistenza di Crevel, e doveva perciò morire prima, essendo stata del resto colpita prima.
«Se non fossi stata malata, sarei venuta a curarti,» disse infine Lisbeth, dopo aver scambiato uno sguardo con gli occhi spenti della sua amica. «Sono quindici o venti giorni che sono costretta in camera, ma appena sono venuta a conoscenza della tua grave situazione, sono accorsa.»
«Povera Lisbeth, tu mi vuoi ancora bene, lo vedo,» disse Valérie. «Ascolta, non ho più che un giorno o due da pensare, poiché non posso dire da vivere. Lo vedi, non ho più corpo, sono un ammasso di putredine... Non mi si permette nemmeno di guardarmi allo specchio... Non ho che quello che mi merito. Vorrei, per ottenere il perdono, riparare a tutto il male che ho fatto.»
«Oh,» disse Lisbeth, «se parli così, sei veramente morta!»
«Non impedite a questa donna di pentirsi, lasciatela nei suoi pensieri cristiani,» disse il prete.
«Più niente!» si disse Lisbeth spaventata. «Non riconosco né i suoi occhi né la sua bocca! Non rimane un solo tratto di lei! e la sua mente sragiona! Oh! è spaventoso!...»
«Tu non sai,» riprese Valérie, «che cos'è la morte, che cosa significa dover pensare all'indomani del proprio ultimo giorno, a ciò che si deve trovare nella bara: dei vermi per il corpo, ma che cosa per l'anima?... Ah! Lisbeth, sento che c'è un'altra vita!... e il terrore che mi opprime mi impedisce di sentire i dolori della mia carne in decomposizione. Io che dicevo ridendo a Crevel, prendendomi beffa di una santa donna, che la vendetta di Dio prendeva tutte le forme della sventura... Ebbene, ero profeta! Non giocare con le cose sacre, Lisbeth! Se mi ami, imitami, pentiti!»
«Io!» disse la lorenese. «Ho visto la vendetta dappertutto nella natura, gli insetti periscono per soddisfare il bisogno che hanno di vendicarsi quando vengono attaccati! e questi signori,» disse indicando il prete, « non ci dicono che Dio si vendica, e che la sua vendetta dura per l'eternità!...»
Il prete gettò su Lisbeth uno sguardo pieno di dolcezza e le disse:
«Voi siete atea, signora.»
«Ma guarda in che condizione sono!» le disse Valérie.
«E da dove ti viene questa cancrena?» domandò la zitella, mantenendo la sua incredulità contadina.
«Oh! ho ricevuto da Henri un biglietto che non mi lascia alcun dubbio sulla mia sorte... Lui mi ha uccisa. Morire proprio nel momento in cui volevo vivere onestamente, e morire oggetto d'orrore... Lisbeth, abbandona ogni idea di vendetta! Sii buona verso quella famiglia, alla quale ho già dato, per testamento, tutto ciò di cui la legge mi permette di disporre! Vai pure, figliola mia, benché tu sia il solo essere che non si allontani da me con orrore; te ne supplico, vattene, lasciami;... mi resta solo il tempo di abbandonarmi a Dio!...»
«Vaneggia,» disse fra sé Lisbeth sulla soglia della camera.
Il sentimento più violento che si conosca, l'amicizia di una donna per un'altra donna, non ebbe l'eroica costanza della chiesa. Lisbeth, soffocata dai miasmi che appestavano l'aria, lasciò la camera. Vide i medici che continuavano a discutere. Ma l'opinione di Bianchon prevaleva e non si discuteva più che della maniera di tentare l'esperimento.
«Ci sarà in ogni caso una magnifica autopsia,» diceva uno degli oppositori, «e avremo a nostra disposizione due soggetti per poter fare dei confronti.»
Lisbeth accompagnò Bianchon, che si avvicinò al letto della malata senza dare l'impressione di accorgersi del fetore che ne esalava.
«Signora,» disse, «ora proveremo su di voi una cura potente e che potrà salvarvi...»
«Se mi salverete, sarò bella come prima?»
«Forse!» disse il valente medico.
«Conosco il vostro ‹forse›!» disse Valérie, «assomiglierei a quelle donne cadute nel fuoco! Lasciatemi tutta alla chiesa! ora non posso piacere che a Dio! cercherò di riconciliarmi con Lui, sarà la mia ultima civetteria! sì, bisogna che mi faccia il buon Dio!»
«Ecco le ultime parole della mia povera Valérie, ora la riconosco!» disse Lisbeth piangendo.



CXXIII • LE ULTIME PAROLE DI CREVEL

La lorenese pensò di dover passare nella camera di Crevel, dove trovò Victorin e sua moglie seduti a tre piedi di distanza dal letto dell'appestato.
«Lisbeth,» disse, «mi nascondono lo stato in cui si trova mia moglie; tu che l'hai appena vista, puoi dirmi come sta?»
«Sta meglio, lei dice che si è salvata!» rispose Lisbeth permettendosi questa risposta ambigua per tranquillizzare Crevel.
«Ah! bene,» replicò il sindaco, «perché avevo paura di essere la causa della sua malattia... Non si è stati impunemente commessi viaggiatori di profumeria. Mi faccio dei rimproveri. Figlioli miei, io adoro quella donna.»
Crevel tentò di mettersi in posa mettendosi a sedere.
«Oh! papà,» disse Célestine, «se guarirete, vi prometto che riceverò la mia matrigna; ne faccio voto!»
«Povera piccola Célestine!» riprese Crevel, «vieni a darmi un bacio!»
Victorin trattenne sua moglie, che si era slanciata verso il padre.
«Voi ignorate, signore,» disse con dolcezza l'avvocato, «che la vostra malattia è contagiosa...»
«È vero,» rispose Crevel; «i medici si compiacciono di aver scoperto su di me non so quale peste del medioevo che credevano scomparsa e di cui essi hanno dato notizia con grande clamore nelle loro facoltà... È molto buffo!»
«Papà,» disse Célestine, «abbiate coraggio e tronferete su questa malattia.»
«State calmi, figlioli, la morte ci pensa due volte prima di colpire un sindaco di Parigi!» disse lui con un comico sangue freddo. «E poi, se il mio arrondissement è così sfortunato da vedersi portar via l'uomo che ha onorato due volte con i suoi suffragi... (Eh! vedete come mi esprimo con facilità!), be' sarò pronto a far fagotto. Sono un ex commesso viaggiatore, ho l'abitudine alle partenze. Ah! figlioli, ho un carattere forte, io.»
«Papà, promettimi di lasciar venire il prete al tuo capezzale.»
«Mai,» rispose Crevel. «Che volete! ho succhiato il latte della Rivoluzione; non ho lo spirito del barone d'Holbach, ma ho la sua forza d'animo. Sono più che mai Régence, moschettiere grigio, abate Dubois, e maresciallo Richelieu! Perdinci! La mia povera moglie, che sta perdendo la testa, mi ha mandato un uomo con la sottana, a me, l'ammiratore di Beranger, l'amico di Lisette, il figlio di Voltaire e di Rousseau... Il medico mi ha detto, per sondarmi, per rendersi conto se la malattia mi abbatteva: ‹Avete visto il signor abate?...› Be', ho imitato il grande Montesquieu. Sì, ho guardato il medico, ecco, in questo modo,» fece mettendosi di tre quarti come nel suo ritratto e tendendo la mano con autorità, «e ho detto:

... Questo schiavo è venuto,
Ha mostrato il suo ordine, ma nulla ha ottenuto.

«Il suo ordine è un grazioso gioco di parole, che prova come in agonia il signor presidente Montesquieu conservasse tutta la grazia del suo genio, perché gli avevano mandato un gesuita!... Mi piace questo passaggio... non si può dire della sua vita, ma della sua morte. Ah! il passaggio! ancora un gioco di parole! il passaggio Montesquieu.»
Hulot figlio contemplava tristemente il suocero, domandandosi se la stupidità e la vanità non possedessero una forza uguale a quella della vera grandezza d'animo. Le cause che mettono in moto le risorse dell'animo sembrano essere del tutto estranee ai risultati. La forza che ostenta un grande criminale sarebbe dunque la stessa di quella di cui si inorgoglì un Champcenetz mentre andava al supplizio?
Alla fine della settimana, la signora Crevel era morta, dopo sofferenze inaudite, e Crevel seguì sua moglie a distanza di due giorni. Così gli effetti del contratto di matrimonio furono annullati, e Crevel ereditò da Valérie.
L'indomani stesso del funerale, l'avvocato rivide il vecchio monaco e lo ricevette senza dire una parola. Il monaco tese silenziosamente la mano, e altrettanto silenziosamente l'avvocato Victorin Hulot gli consegnò ottanta biglietti di banca da mille franchi, prelevati dalla somma che fu trovata nel secrétaire di Crevel. La signora Hulot figlia ereditò la tenuta di Presles e trentamila franchi di rendita. La signora Crevel aveva lasciato in eredità trecentomila franchi al barone Hulot. Lo scrofoloso Stanislas doveva avere, alla sua maggiore età, il palazzetto Crevel e ventiquattromila franchi di rendita.



CXXIV • UNO DEGLI ASPETTI DELLA SPECULAZIONE

Tra le numerose e nobili associazioni istituite dalla carità cattolica a Parigi, ce c'è una, fondata dalla signora de La Chanterie, il cui scopo è di far sposare civilmente e religiosamente le persone del popolo che convivono. I legislatori, che tengono molto alle entrate delle tasse di registrazione, la borghesia al potere, che tiene agli onorari del notariato, fingono di ignorare che i tre quarti della gente del popolo non possono pagare quindici franchi per il contratto di matrimonio. Il collegio notarile è al di sotto, in questo, del collegio degli avvocati di Parigi. Questi, la cui associazione è già piuttosto calunniata, si assumono gratuitamente il patrocinio delle cause degli indigenti, mentre i notai non si sono ancora decisi a fare gratis i contratti di matrimonio della povera gente. Quanto al fisco, bisognerebbe dare uno scossone a tutta la macchina amministrativa per ottenere che esso diminuisse il suo rigore al riguardo. Il registro è sordo e muto. La chiesa, da parte sua, percepisce dei diritti sui matrimoni. La chiesa è, in Francia, eccessivamente fiscale; essa si abbandona, nella casa di Dio, a ignobili traffici di panche e sedie che fanno indignare gli stranieri, sebbene non possa aver dimenticato la collera del Salvatore che caccia i mercanti dal tempio. Se la chiesa rinuncia difficilmente ai suoi diritti, è chiaro che questi, anche se si fanno passare per diritti di fabbriceria, costituiscono oggi una delle sue risorse; in tal modo la chiesa userebbe gli stessi metodi dello Stato. Il complesso di queste circostanze, in tempi in cui si dedica troppa attenzione ai negri, ai piccoli imbroglioni condannati dal tribunale correzionale per pensare alla gente che soffre, fa sì che un gran numero di oneste famiglie vivano nel concubinaggio, per mancanza di trenta franchi, il prezzo minimo richiesto dal notariato, dall'ufficio del registro, dal comune e dalla chiesa per unire in matrimonio due parigini. L'istituzione della signora de la Chanterie, fondata per riportare le famiglie povere sulla via della religione e della legalità, è alla ricerca di queste coppie, che non ha difficoltà a trovare, in quanto li soccorre come indigenti prima di verificare il loro stato civile.
Quando la baronessa Hulot si fu completamente ristabilita, riprese la sua attività. Fu allora che la rispettabile signora de la Chanterie venne a pregare Adeline di aggiungere la legalizzazione dei matrimoni naturali alle buone opere di cui era l'intermediaria.
Una delle prime esperienze della baronessa in questo genere di attività ebbe luogo nel quartiere malfamato chiamato un tempo la Petite Pologne, e compreso fra rue du Rocher, rue de la Pépinière e rue de Miroménil. È una specie di succursale del faubourg Saint-Marceau. Per descrivere questo quartiere, basterà dire che i proprietari di certe case abitate da industriali senza industrie, da pericolosi spadaccini, da gente senza un soldo che si dedica a mille mestieri rischiosi, non osano esigere i loro affitti e non trovano ufficiali giudiziari disposti ad andare a sfrattare i locatari che non pagano. In questo momento, la speculazione, che tende a cambiare la faccia di questo angolo di Parigi e a costruire degli edifici nello spazio libero che separa la rue d'Amsterdam da rue du faubourg-du-Roule, ne modificherà senza dubbio la popolazione, poiché la cazzuola è a Parigi più civilizzatrice di quanto non si pensi. Costruendovi belle ed eleganti case con portineria, bordandole di bei marciapiedi e aprendovi dei negozi, la speculazione fa sparire, con il prezzo degli affitti, i vagabondi, le famiglie senza mobilia e i cattivi inquilini. Così i quartieri si liberano di quella gente pericolosa e di quelle case malfamate dove la polizia non mette piede che quando la giustizia lo ordina.
Nel giugno del 1844, l'aspetto della place de Laborde e dei dintorni era ancora poco rassicurante. Il fantaccino, elegantemente vestito, che, risalendo da rue de la Pépinière, veniva a trovarsi in queste strade spaventose, si meravigliava di verdervi l'aristocrazia gomito a gomito con una bohème di infimo ordine. In questi quartieri, dove stanno di casa l'indigenza ignorante e la miseria ridotta agli estremi, fioriscono gli ultimi scrivani pubblici che si vedono a Parigi. Là dove vedete queste due parole: scrivano pubblico, a grossi caratteri, in bella calligrafia inclinata, su un foglio bianco affisso al vetro di qualche ammezzato o di un fangoso pianterreno, potete sicuramente pensare che il quartiere nasconda molta gente ignorante, e pertanto delle sciagure, dei vizi e dei criminali. L'ignoranza è la madre di tutti i crimini. Un crimine è, prima di tutto, mancanza di ragionamento.



CXXV • DOVE NON SI DICE PERCHÉ TUTTI I FUMISTI DI PARIGI SONO ITALIANI

Ora, durante la malattia della baronessa, in questo quartiere, per il quale essa impersonava la provvidenza, si era stabilito uno scrivano pubblico; abitava nel passage du Soleil (nome che, come altri, è uno di quei controsensi familiari ai parigini, poiché il passaggio è molto buio), la gente lo credeva tedesco. Si chiamava Vyder e conviveva con una ragazza, della quale era così geloso, che la lasciava andare soltanto in una casa di certi onesti fumisti di rue Saint-Lazare, italiani come tutti i fumisti, e a Parigi da molti anni. Questi fumisti erano stati salvati da un inevitabile fallimento, che li avrebbe condotti a sicura miseria, dalla baronessa Hulot, che agiva per conto della signora de la Chanterie. In pochi mesi, l'agiatezza si era sostituita alla miseria, e la religione era entrata in quei cuori che un tempo maledicevano la provvidenza, con l'energia tipica dei fumisti italiani. Una delle prime visite della baronessa fu dunque per questa famiglia. Ella fu felice dello spettacolo che si offrì alla sua vista, in fondo alla casa dove abitava quella brava gente, in rue Saint-Lazare, vicino a rue du Rocher. Sopra i magazzini e il laboratorio, ora ben forniti, e dove formicolavano apprendisti e operai, tutti italiani della vallata di Domodossola, la famiglia occupava un piccolo appartamento dove il lavoro aveva portato l'abbondanza. La baronessa fu ricevuta come se fosse apparsa la santa Vergine. Dopo un quarto d'ora di attenta osservazione, costretta ad aspettare il marito per sapere come andavano gli affari, Adeline assolse la sua pia missione prendendo informazioni sugli infelici che quella famiglia conosceva.
«Ah, mia buona signora,» disse l'italiana, «c'è qui vicino una ragazza che bisognerebbe salvare dalla perdizione; voi, che salvereste perfino dei dannati all'inferno, cercate di fare qualcosa per lei.»
«La conoscete bene?» domandò la baronessa.
«È la nipote di un antico padrone di mio marito, venuto in Francia ai tempi della Rivoluzione, nel 1798, che si chiamava Judici. Il vecchio Judici è stato, sotto l'imperatore Napoleone, uno dei primi fumisti di Parigi; è morto nel 1819, lasciando una bella fortuna a suo figlio. Ma questi si è mangiato tutto con delle donnacce, e ha finito per sposarne una più astuta delle altre, quella da cui ha avuto questa povera ragazza, che ha appena finito quindici anni.»
«Che le è successo?» disse la baronessa, vivamente impressionata dalla rassomiglianza del carattere di quel Judici con quello di suo marito.
«Be', signora, la piccola, che si chiama Atala, ha lasciato padre e madre per venire a vivere qui accanto a noi, con un vecchio tedesco di ottant'anni almeno, di nome Vyder, che fa tutti gli affari della gente che non sa né leggere né scrivere. Se almeno questo vecchio libertino, che, si dice, avrebbe comprato la piccola a sua madre per millecinquecento franchi, si decidesse a sposarla, potrebbe sottrarre questo piccolo angelo al male, e soprattutto alla miseria che finirà certamente per pervertirla. Il vecchio infatti ha ormai poco tempo da vivere e, come si dice, gli spetta una rendita di alcune migliaia di franchi.
«Vi ringrazio di avermi indicato questo caso che mi darà l'opportunità di compiere una buona azione,» disse Adeline; «ma bisogna agire con prudenza. Chi è questo vecchio?»
«Oh, signora, è un brav'uomo, fa felice la piccola, e non manca di buon senso; infatti ha lasciato il quartiere dei Judici per salvare, credo, quella fanciulla dalle grinfie della madre. La madre era gelosa della figlia, e forse sognava di sfruttare quella bellezza, di fare della bambina una signorina!... Atala si è ricordata di noi, ha consigliato il suo signore di stabilirsi vicino alla nostra casa, e, poiché il buon uomo ha visto che gente eravamo, la lascia venire qui; ma fateli sposare, signora, e farete un'azione degna di voi... Una volta sposata, la piccola sarà libera, potrà sfuggire dalle grinfie della madre, che aspetta l'occasione favorevole e che vorrebbe, per sfruttarla, farle fare l'attrice o spingerla a proseguire la spaventosa carriera in cui ella l'ha avviata.»
«Perché quel vecchio non l'ha sposata?»
«Non era necessario,» disse l'italiana, «e, benché il vecchio Vyder non sia per niente un uomo cattivo, credo che sia abbastanza furbo per voler essere padrone della piccola, mentre una volta sposato, diamine! teme, il povero vecchio, e non a torto, che gli capiti quello che capita a tutti i vecchi!...»
«Potete mandare a chiamare la ragazza?» disse la baronessa; «la vedrei qui, e saprei se c'è qualcosa da fare...»
La moglie del fumista fece un cenno alla figlia maggiore, che uscì subito. Dieci minuti dopo, tornò tenendo per mano una ragazza di quindici anni e mezzo e di una bellezza tutta italiana.



CXXVI • LA NUOVA ATALA, SELVAGGIA COME QUELLA
FAMOSA MA NON ALTRETTANTO CATTOLICA


La signorina Judici aveva preso dal padre quella pelle che di giorno appare di un bruno pallore, mentre la sera, illuminata dalle luci, diventa di un candore stupendo. Gli occhi erano di una grandezza, di una forma, di uno splendore tutto orientale; le ciglia folte e ricurve rassomigliavano a delle piccole piume nere; aveva una capigliatura nera come l'ebano e quel portamento maestoso tipico delle donne di Lombardia che fa credere a uno straniero, quando passeggia la domenica per le strade di Milano, che le figlie dei portieri sono altrettante regine. Atala, avvertita dalla figlia del fumista della visita di quella grande signora di cui aveva sentito parlare, si era messo in fretta un grazioso vestito di seta, degli stivaletti e una mantellina elegante. Una cuffia ornata di nastri di color ciliegia rendeva la sua testolina ancora più attraente. La piccola serbava un'espressione di curiosità ingenua, mentre con la coda dell'occhio andava esaminando la baronessa, il cui tremito nervoso la stupiva molto. La baronessa tirò un profondo sospiro vedendo quel capolavoro di grazia femminile nel fango della prostituzione, e giurò di ricondurla alla virtù.
«Come ti chiami?»
«Atala, signora.»
«Sai leggere, scrivere?»
«No, signora; ma non importa, dal momento che lo sa fare il signore...»
«I tuoi genitori ti hanno mai portato in chiesa? hai fatto la prima comunione? conosci il catechismo?»
«Signora, papà voleva farmi fare delle cose che somigliano a ciò che mi dite, ma la mamma si è opposta...»
«Tua madre!...» esclamò la baronessa. «Allora è molto cattiva, tua madre?...»
«Mi picchiava sempre! Non so perché, ma ero la causa di continui bisticci fra mio padre e mia madre...»
«Non ti hanno dunque mai parlato di Dio?» esclamò la baronessa.
La fanciulla sgranò gli occhi.
«Ah! la mamma e papà dicevano spesso: ‹P... Dio! Sangue di Dio! Santo Dio!...›» disse con un deliziosa ingenuità.
«Non hai mai visto chiese?... Non hai mai pensato di entrarci?»
«Delle chiese?... Ah! Notre-Dame, il Panthéon, li ho visti da lontano, quando papà mi conduceva a Parigi; ma capitava di rado. Non ci sono chiese come quelle nel faubourg.»
«In che faubourg eravate?»
«Nel faubourg...»
«Quale faubourg?»
«Ma in rue de Charonne, signora...»
La gente del faubourg Saint-Antoine chiama il celebre quartiere con questo solo nome: il faubourg. Per loro è il faubourg per eccellenza, il faubourg sovrano, e con quel nome gli stessi fabbricanti intendono soprattutto il faubourg Saint-Antoine.
«Non ti hanno mai detto quello che era bene e quello che era male?»
«La mamma mi picchiava quando non facevo le cose come voleva lei...»
«Ma non sapevi che commettevi una cattiva azione lasciando tuo padre e tua madre per andare a vivere con un vecchio?»
Atala Judici guardò con un'aria sdegnosa la baronessa e non le rispose.
«È una ragazza davvero selvatica!» si disse Adeline.
«Oh! signora, ce ne sono molte come lei nel faubourg!» disse la moglie del fumista.
«Ma ignora tutto, anche il male, mio Dio!»
«Perché non mi rispondi?» domandò la baronessa tentando di prendere Atala per la mano.
Atala, corrucciata, indietreggiò di un passo.
«Siete una vecchia pazza!» disse. Mio padre e mia madre erano digiuni da una settimana! mia madre voleva fare di me qualcosa di molto cattivo, poiché mio padre l'ha picchiata e l'ha chiamata ladra! Allora, il signor Vyder ha pagato tutti i debiti di mio padre e di mia madre, e ha dato loro del danaro... Oh! una borsa piena!... e mi ha portata via che il mio povero papà piangeva... Ma dovevamo lasciarci!... Be', è male?» domandò.



CXXVII • CONTINUAZIONE DEL PRECEDENTE

«E volete bene a questo signor Vyder?»
«Se gli voglio bene?...» disse. «Certo, signora! Mi racconta delle belle storie tutte le sere!... e mi ha dato dei bei vestiti, della biancheria, uno scialle. Il fatto è che sono vestita come una principessa e non porto più zoccoli! E poi, da due mesi, non so più che cosa voglia dire aver fame. Non mangio più patate! Mi porta delle caramelle, dei cioccolatini! Oh! come sono buoni!... Faccio tutto quello che vuole per un sacchetto di cioccolatini! E poi, il mio grosso papà Vyder è molto buono, mi cura così bene, così gentilmente, che questo mi fa vedere come avrebbe dovuto essere mia madre... Ora prenderà una vecchia domestica, perché non vuole che mi sporchi le mani a fare la cucina. Da un mese, ha cominciato a guadagnare discretamente; tutte le sere mi porta tre franchi, che io metto in un salvadanaio! Soltanto non vuole che io esca, salvo che per venire qui. È un amore di uomo! perciò egli fa di me quello che vuole... mi chiama la sua gattina! e mia madre mi chiamava solo piccola b... oppure f... di p...! ladra canaglia! o che so io!»
«Bene, e perché, bambina mia, non faresti tuo marito di papà Vyder?»
«Ma è già fatto, signora!» disse la ragazza con un'aria piena di fierezza, senza arrossire, la fronte pura, gli occhi calmi. «M'ha detto che ero la sua mogliettina; ma è molto noioso essere la moglie di un uomo!... Via, senza i cioccolatini!...»
«Mio Dio!» si disse sotto voce la baronessa, «chi è quel mostro che ha potuto abusare d'una così completa e santa innocenza? Rimettere questa bambina sulla retta via, non significa riscattare molte colpe? Io sapevo ciò che facevo!» si disse pensando alla sua scena con Crevel. «Lei ignora tutto!»
«Conoscete il signor Samanon?...» chiese la piccola Atala con un'aria carezzevole.
«No, piccola mia, ma perché mi domandi questo?»
«Davvero?» disse l'innocente creatura.
«Non temere niente dalla signora, Atala...» disse la moglie del fumista, «è un angelo!»
«È che il mio gattone ha paura di essere trovato da questo Samanon, si nasconde... e io vorrei che potesse essere libero...»
«E perché?»
«Diamine, mi porterebbe a teatro, al Bobino! forse all'Ambigu!»
«Che meravigliosa creatura!» disse la baronessa baciando la ragazzina.
«Siete ricca?...» domandò Atala, che si divertiva con i polsini della baronessa.
«Sì e no,» rispose la baronessa. «Sono ricca per le buone bambine come te, quando vogliono lasciarsi educare ai doveri cristiani da un prete, e rimettersi sulla retta via.»
«Su quale via?» disse Atala. «Io cammino bene da me.»
«La via della virtù!»
Atala guardò la baronessa con un'aria furba e scherzosa.
«Guarda la signora, è felice da quando è rientrata nel seno della Chiesa,» disse la baronessa indicando la moglie del fumista. «Tu ti sei sposata così come si accoppiano le bestie.»
«Io!» rispose Atala; «ma se voi volete darmi quello che mi dà papà Vyder, sarò ben contenta di non sposarmi. È una tal scocciatura! sapete cosa vuol dire?»
«Una volta che ci si è uniti a un uomo, come hai fatto tu,» riprese la baronessa, «la virtù vuole che gli si resti fedele.»
«Fino a quando muore?...» disse Atala con aria maliziosa. «Non ne avrò per molto tempo. Se sapeste come papà Vyder tossisce e soffia!... Peuh! peuh!» fece imitando il vecchio.
«La virtù, la morale vogliono,» riprese la baronessa, «che la Chiesa che rappresenta Dio, e il comune che rappresenta la legge consacrino il vostro matrimonio. Guarda la signora, si è sposata legittimamente...»
«Sarà più divertente?» domandò la ragazza.
«Sarai più felice,» disse la baronessa, «perché nessuno potrà rimproverarti questo matrimonio. Piacerai a Dio! Domanda alla signora se si è sposata senza aver ricevuto il sacramento del matrimonio.»
Atala guardò la moglie del fumista.
«E che cos'ha lei più di me?» domandò poi. «Io sono più bella di lei.»
«Sì, ma io sono una donna onesta,» obiettò l'italiana, «mentre a te possono dare un cattivo nome...»
«Come vuoi che Dio ti protegga se tu calpesti le leggi divine e umane?» disse la baronessa. «Sai tu che Dio dà in premio un paradiso a quelli che seguono i comandamenti della sua Chiesa?»
«E che cosa c'è nel paradiso? Ci sono degli spettacoli?» disse Atala.
«Oh! Il paradiso è,» disse la baronessa, «tutte le gioie che tu possa immaginare. È pieno di angeli, che hanno le ali bianche. Vi si vede Dio nel trionfo della sua gloria, si è partecipi della sua potenza, si è felici in ogni momento e per l'eternità!...»
Atala Judici ascoltava la baronessa così come avrebbe ascoltato della musica; e, vedendola incapace di capire, Adeline pensò che bisognava prendere un'altra via rivolgendosi al vecchio.
«Ritorna a casa tua, piccola mia; andrò a parlare a questo signor Vyder. È francese?»
«È alsaziano, signora; ma sarà ricco, sapete! Se volete pagare quello che deve a quel cattivo di Samanon, vi restituirebbe il vostro denaro! poiché avrà fra qualche mese, dice, seimila franchi di rendita, e allora noi andremo a vivere in campagna, molto lontano, nei Vosgi...»
La parola «Vosgi» fece sprofondare la baronessa, come in un sogno, nei ricordi del suo passato. Rivide il suo villaggio!



CXXVIII • UN RICONOSCIMENTO

La baronessa fu strappata a quella dolorosa meditazione dai saluti del fumista, che veniva a darle le prove della sua prosperità.
«Fra un anno, signora, potrò rendervi le somme che mi avete prestato, perché è denaro del buon Dio, è quello dei poveri e degli infelici! Se farò fortuna, potrete attingere un giorno nella nostra borsa, e, per mezzo di voi, delle vostre mani, potrò rendere agli altri l'aiuto che voi avete dato a noi.»
«In questo momento,» disse la baronessa, «non vi chiedo denaro, chiedo la vostra collaborazione per compiere un'opera buona. Ho appena visto la piccola Judici che vive con un vecchio; io voglio farli sposare religiosamente e legalmente.»
«Ah! il vecchio Vyder, è una bravissima e degna persona, è di buoni principi. Questo povero vecchio si è già fatto degli amici nel quartiere, da quando ci è venuto due mesi fa. Rimette in bella copia tutti i miei conti. È un bravo colonnello, credo, che ha ben servito l'imperatore... Ah! Come ama Napoleone! È decorato, ma non porta mai decorazioni. Aspetta di rifarsi, perche ha dei debiti, quel povero caro uomo!... Credo persino che si nasconda, è ricercato dagli ufficiali giudiziari...»
«Ditegli che pagherò i suoi debiti, se sposerà la piccola...»
«Ah bene, sarà fatto! Sentite, signora, andiamoci: abita a due passi da qui, nel passage du Soleil.»
La baronessa e il fumista uscirono per andare al passage du Soleil.
«Per di qui, signora,» disse il fumista indicando la rue de la Pépinière.
Il passage du Soleil è, infatti, all'inizio della rue de la Pépinière e sbocca in rue du Rocher. In mezzo a quel passaggio di recente costruzione e le cui botteghe hanno un prezzo assai modico, la baronessa scorse, al di sopra di una invetriata ornata di taffetà verde a un'altezza che non permetteva ai passanti di gettare sguardi indiscreti, la scritta scrivano pubblico, e, sulla porta:

AGENZIA DI AFFARI

Si compilano domande. Si rimettono in bella copia i conti ecc.
Discrezione, celerità.

L'interno assomigliava a quegli uffici di transito dove i viaggiatori degli omnibus di Parigi aspettano le coincidenze. Una scala interna conduceva senza dubbio all'appartamento del mezzanino che prendeva luce dal porticato ed era collegato alla bottega. La baronessa scorse una scrivania di legno grezzo annerito, delle scatole di cartone, e una poltrona d'occasione assai malridotta. Un berretto e un abat-jour in taffetà verde con la base d'ottone tutto sporco rivelavano sia la preoccupazione di non farsi riconoscere, sia una vista debole, cosa naturale in un vecchio.
«È lassù,» disse il fumista, «vado ad avvertirlo e a dirgli di scendere.»
La baronessa abbassò il velo e si sedette. Un passo pesante fece vibrare la piccola scala di legno, e Adeline non poté trattenere un grido vedendo suo marito, il barone Hulot in giacca di maglia grigia, con un paio di pantaloni di vecchio mollettone grigio e con, ai piedi, un paio di pantofole.
«Che desiderate, signora?» disse Hulot garbatamente.
Adeline si alzò, afferrò Hulot, e gli disse con una voce rotta dall'emozione: «Finalmente ti ritrovo!...»
«Adeline!...» esclamò il barone stupefatto; poi chiuse la porta della bottega e disse al fumista: «Joseph, andatevene per il viale!»
«Amico mio,» disse lei, dimenticando tutto nell'esaltazione della gioia, «puoi rientrare in seno alla famiglia; siamo ormai ricchi! tuo figlio ha centosessantamila franchi di rendita! la tua pensione è libera, hai degli arretrati di quindicimila franchi che potrai riscuotere presentando un semplice certificato di vita! Valérie è morta lasciandoti in eredità trecentomila franchi. Stai tranquillo, il tuo nome è stato dimenticato! puoi rientrare nel mondo; troverai subito una fortuna da tuo figlio. Vieni, la nostra felicità sarà completa. Sono già tre anni che ti cerco, e non ho mai perso la speranza di ritrovarti. Troverai un appartamento pronto per riceverti. Oh! esci di qua, esci da questa spaventosa situazione in cui ti vedo!»
«Lo desidero davvero,» disse il barone; «ma potrò portare con me la piccola?»
«Hector, rinuncia a lei! fallo per la tua Adeline, che non ti ha mai chiesto il mimino sacrificio! ti prometto di dare una dote a quella ragazza, di farla sposare, di sistemarla bene, di farla istruire. Che si dica che una di quelle che ti hanno reso felice sia felice a sua volta e non cada più nel vizio, né nel fango!»
«Sei dunque tu,» riprese il barone con un sorriso, «che volevi farmi sposare... Resta un momento qui,» disse poi, «vado a vestirmi lassù, dove tengo in una valigia dei vestiti decenti...»
Quando Adeline fu sola, e guardò di nuovo quella spaventosa bottega, si sciolse in lacrime.
«Lui viveva qui,» si disse, «e noi viviamo nell'opulenza!... Pover'uomo! è stato punito, lui che era l'eleganza in persona.»



CXXIX • LE ULTIME PAROLE DI ATALA

Il fumista venne a salutare la sua benefattrice, che gli disse di far venire una carrozza. Quando il fumista ritornò, la baronessa lo pregò di prendere in casa la piccola Atala Judici, e di portarla via subito.
«Le direte,» aggiunse, «che se vuol mettersi sotto la protezione del signor curato della Madeleine, il giorno in cui farà la prima comunione, le darò trentamila franchi di dote e un buon marito, un bravo giovane!»
«Il mio figlio maggiore, signora! ha ventidue anni e adora quella ragazza!»
Il barone scendeva in quel momento; aveva gli occhi umidi.
«Mi fai lasciare,» disse all'orecchio di sua moglie, «la sola creatura che abbia nutrito per me un amore quasi simile al tuo! Quella piccola si scioglierà in lacrime, e io non posso abbandonarla così...»
«Stai tranquillo, Hector! Essa si troverà a vivere in una famiglia onesta, e rispondo io dei suoi costumi.»
«Ah! posso seguirti allora,» disse il barone accompagnando sua moglie alla carrozza.
Hector, tornato a essere il barone d'Ervy, si era messo un paio di pantaloni e una finanziera di panno blu, un gilè bianco, una cravatta nera e i guanti. Quando la baronessa fu seduta in fondo alla carrozza, Atala vi si infilò con la rapidità di una biscia.
«Ah! signora,» disse, «lasciate che vi accompagni e che venga con voi. Sarò molto gentile, molto obbediente, farò tutto quello che vorrete; ma non separatemi da papà Vyder, dal mio benefattore che mi dà tante cose buone. Mi picchieranno!»
«Su, Atala,» disse il barone, «questa signora è mia moglie, e bisogna separarci...»
«Lei! una vecchia così!» rispose quell'innocente, «e che trema come una foglia! Oh! quella testa!»
E imitò con fare canzonatorio il tremito della baronessa. Il fumista, che correva dietro la piccola Judici, si avvicinò alla portiera della carrozza.
«Portatela via!» disse la baronessa.
Il fumista prese Atala fra le braccia e se la portò a casa sua a viva forza.
«Grazie di questo sacrificio, mio caro!» disse Adeline prendendo la mano del barone e stringendola con una gioia incontenibile. «Come sei cambiato! Come devi aver sofferto! Che sorpresa per tua figlia e per tuo figlio!»
Adeline parlava come parlano gli amanti che si rivedono dopo una lunga separazione, di mille cose tutte insieme.



CXXX • RITORNO DEL PADRE PRODIGO

In dieci minuti, il barone e sua moglie arrivarono in rue Louis-le-Grand, dove Adeline trovò la seguente lettera:

«Signora baronessa, il signor barone d'Ervy è restato un mese in rue de Charonne, sotto il nome di Thorec, anagramma di Hector. Si trova attualmente al passage du Soleil, sotto il nome di Vyder. Dice di essere alsaziano, fa lo scrivano, e vive con una ragazza di nome Atala Judici. Prendete delle precauzioni, signora, perché il barone è attivamente ricercato, non so per quale motivo. L'attrice ha mantenuto la sua parola, e si dice, come sempre, signora baronessa, la vostra umile serva J. M.»

Il ritorno del barone suscitò tali manifestazioni di gioia da convertirlo alla vita di famiglia. Dimenticò la piccola Atala Judici, poiché gli eccessi della passione lo avevano portato a quella mutevolezza dei sentimenti che è propria dell'infanzia. La felicità della famiglia fu turbata dal cambiamento sopravvenuto nel barone. Dopo aver lasciato la famiglia ancora nel pieno delle sue forze, ritornava quasi centenario, curvo, malfermo, con i tratti ormai privi di ogni dignità e bellezza. Una cena splendida, improvvisata da Célestine, ricordò al vecchio le cene della cantante; egli rimase completamente stordito dagli splendori della sua famiglia.
«Festeggiate il ritorno del padre prodigo!» disse all'orecchio di Adeline.
«Zitto!... è tutto dimenticato,» rispose lei.
«E Lisbeth?» chiese il barone non vedendo la zitella.
«Ohimè!» rispose Hortense, «è a letto; ormai non si alza più e avremo presto il dolore di perderla. Conta di vederti dopo cena.»
L'indomani mattina, all'alba, Hulot figlio fu avvertito dal portiere che dei militi della guardia municipale circondavano tutta la sua proprietà. Degli uomini del Tribunale cercavano il barone Hulot. L'ufficiale giudiziario, che seguiva la portiera, presentò all'avvocato una sentenza in tutta regola, chiedendogli se voleva pagare per suo padre. Si trattava di diecimila franchi di cambiali sottoscritte a favore di un usuraio di nome Samanon, e che probabilmente aveva dato due o tremila franchi al barone d'Hervy. Hulot figlio pregò l'ufficiale giudiziario di mandar via le sue guardie, e pagò.
«Sarà tutto qui?» si disse l'avvocato con una certa inquietudine.



CXXXI • ELOGIO DELL'OBLIO

Lisbeth, già profondamente infelice per la felicità che arrideva alla famiglia, non poté sopportare il lieto avvenimento. Peggiorò così rapidamente, che Bianchon le dette una settimana di vita: era stata fiaccata da quella lunga lotta durante la quale aveva avuto pur tante vittorie. Riuscì a tenersi dentro il segreto del suo odio anche durante la spaventosa agonia di una tisi polmonare. Ebbe del resto la soddisfazione suprema di vedere Adeline, Hulot, Hortense, Victorin, Steinbock, Célestine e i loro bambini tutti in lacrime intorno al suo letto, e che la piangevano come l'angelo della famiglia. Il barone Hulot, cui era stato prescritto un regime di alimentazione sostanziosa che ignorava da più di tre anni, riprese forza, e ritornò quasi a essere quello di prima. Questo miglioramento rese Adeline felice a tal punto che l'intensità del suo tremito nervoso diminuì.
«Finirà per essere felice!» si disse Lisbeth il giorno prima della sua morte, vedendo la specie di venerazione che il barone testimoniava a sua moglie, le cui sofferenze gli erano state narrate da Hortense e Victorin.
Questo sentimento affrettò la fine della cugina Bette, il cui corteo funebre fu seguito da tutta la famiglia in lacrime.
Il barone e la baronessa Hulot, vedendosi arrivati all'età del riposo assoluto, diedero al conte e alla contessa Steinbock i magnifici appartamenti del primo piano, e andarono ad abitare al secondo. All'inizio dell'anno 1845, il barone, grazie all'aiuto del figlio, ottenne un posto in una ferrovia con seimila franchi di stipendio, che, uniti ai suoi seimila franchi di pensione e alla fortuna che la signora Crevel gli aveva lasciato in eredità, gli diedero una rendita di ventiquattromila franchi. Poiché durante i tre anni della rottura i beni di Hortense erano stati separati da quelli del marito, Victorin non esitò più a mettere a nome di sua sorella i duecentomila franchi di fidecommesso, per cui ella poté avere una pensione di milleduecento franchi. Wenceslas, marito di una donna ricca, non la tradiva più; ma bighellonava senza potersi risolvere a intraprendere un'opera, per quanto piccola fosse. Diventato di nuovo artista in partibus, aveva molto successo nei salotti ed era consultato da molti amatori; infine diventò critico, come tutti gli incapaci che non riescono a realizzare le promesse iniziali.
Ognuna di quelle famiglie godeva dunque di una fortuna propria, pur vivendo insieme nella stessa casa. Istruita da tante sventure, la baronessa lasciava a suo figlio la cura di dirigere gli affari, e limitava la disponibilità del marito al solo stipendio, sperando che l'esiguità di questo reddito gli avrebbe impedito di ricadere nei vecchi errori. Ma, per un caso strano, e sul quale né la madre né i figli avevano contato, il barone sembrava aver rinunciato al bel sesso. Questa sua tranquillità, che essi attribuivano all'età e alla natura, aveva finito col rassicurare a tal punto la famiglia, che tutti godevano della ritrovata gentilezza e delle amabili qualità del barone d'Ervy. Pieno di attenzioni per la moglie e i figli, li accompagnava a teatro, nella buona società dove aveva fatto di nuovo la sua comparsa, e con grazia squisita faceva gli onori di casa nel salotto di Victorin suo figlio. Insomma, questo padre prodigo recuperato procurava le più grandi soddisfazioni alla sua famiglia. Era un piacevole vecchio, completamente distrutto, ma sempre pieno di spirito, il quale aveva conservato del suo vizio soltanto quelle doti che lo rendevano amabile in società. Si arrivò naturalmente a essere del tutto sicuri di lui. I figli e la baronessa portavano alle stelle il padre di famiglia, dimenticando la morte dei due zii! La vita non continua se non si riesce a dimenticare!



CXXXII • UNA CONCLUSIONE ATROCE, REALE E VERA

La moglie di Victorin, che dirigeva con grande abilità, dovuta del resto alle lezioni di Lisbeth, quella casa enorme, era stata costretta a prendere un cuoco. Il cuoco rese necessaria una aiutante di cucina. Queste ragazze sono oggi delle creature ambiziose, occupate a scoprire i segreti dello chef, e che diventano a loro volta cuoche appena sanno mescolare una salsa. Per questo le aiutanti di cucina si cambiano molto spesso. All'inizio del mese di dicembre del 1845, Célestine prese come ragazza di cucina una grossa normanna d'Isigny, dalla vita corta, dalle buone braccia rosse, con una faccia comune, stupida come la luna, e che si decise solo dopo molte difficoltà ad abbandonare la cuffia di cotone classica che portano le ragazze della bassa Normandia. La ragazza, grassa come una balia, sembrava che fosse sul punto di far scoppiare la cotonina con la quale avvolgeva il busto. Si sarebbe detto che il suo viso rubicondo fosse stato scolpito nel sasso, tanto i suoi gialli contorni erano netti. In casa, nessuno prestò naturalmente nessuna attenzione all'arrivo di questa ragazza chiamata Agathe, la vera ragazza scaltra che la provincia spedisce giornalmente a Parigi. Agathe tentò di sedurre il cuoco, ma era così rozza nel suo linguaggio, poiché aveva servito i carrettieri e veniva da una locanda dei sobborghi che, invece di fare la conquista dello chef e di ottenere da lui che le insegnasse la grande arte della cucina, fu oggetto del suo disprezzo. Il cuoco corteggiava Louise, la cameriera della contessa Steinbock. Perciò la normanna, vedendosi maltrattata, si lamentava della sua sorte; veniva sempre mandata fuori, con un pretesto qualunque, quando lo chef finiva un piatto o completava una salsa. «Decisamente, non ho fortuna,» diceva; «andrò in un'altra casa.» Tuttavia, rimase, benché avesse chiesto due volte di andarsene.
Una notte, Adéline, svegliata da uno strano rumore, non trovò più Hector nel letto che egli occupava accanto al suo, poiché essi dormivano in letti gemelli, come generalmente usano fare i vecchi. Attese un'ora senza veder tornare il barone. Temendo che al marito fosse accaduta qualche disgrazia, salì al piano superiore occupato dalle mansarde dove dormivano i domestici, e qui la sua attenzione fu attirata sia da un vivida luce che usciva dalla porta socchiusa della camera di Agathe, che dal mormorio di due voci che provenivano dal di dentro. Si fermò tutta spaventata riconoscendo la voce del barone, che, sedotto dalle grazie di Agathe, era arrivato, a causa della resistenza calcolata di quella atroce sciattona, a dirle queste odiose parole:
«Mia moglie non ha molto da vivere, e se vuoi potrai essere baronessa.»
Adeline gettò un grido, lasciò cadere il candeliere e fuggì.
Tre giorni dopo, la baronessa, dopo aver ricevuto i sacramenti il giorno prima, era in agonia e si vedeva circondata dalla sua famiglia in lacrime. Un momento prima di spirare, prese la mano del marito, la strinse e gli disse all'orecchio:
«Amico mio, non avevo altro da darti che la mia vita: fra un momento sarai libero e potrai fare una baronessa Hulot.»
E si videro, cosa che deve essere rara, delle lacrime sgorgare dagli occhi di una morta. La ferocia del vizio aveva vinto la pazienza dell'angelo, al quale, alla soglia dell'eternità, era sfuggita la sola parola di rimprovero che avesse fatto udire in tutta la sua vita.
Il barone Hulot lasciò Parigi tre giorni dopo il funerale di sua moglie. Undici mesi dopo, Victorin apprese indirettamente la notizia del matrimonio di suo padre con la signorina Agathe Piquetard, celebrato a Isigny il primo febbraio del 1846.
«I genitori possono opporsi al matrimonio dei loro figli, ma i figli non possono impedire la follia dei genitori che ritornano bambini,» disse l'avvocato Hulot all'avvocato Popinot, secondogenito dell'ex ministro del Commercio, che gli parlava di quel matrimonio.