Camillo Sbarbaro
Pianissimo




CAMILLO SBARBARO SU WIKIPEDIA


VITA E OPERE


TUTTO È QUELLO CHE È: LA POESIA
DELL’ESSERE DI CAMILLO SBARBARO



RODOLFO VETTORELLO: A CAMILLO SBARBARO

COMMENTO A SBARBARO



PIANISSIMO
(1914)

PRIMA PARTE


Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all’uno e all’altro vai
rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d’ira o di speranza,
e neppure di tedio.
Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d’una rassegnazione disperata.

Non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse
il fiato...
Invece camminiamo, camminiamo
io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne che passano son donne,
e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.

La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduto ha la voce
la sirena del mondo, e il mondo è un grande
deserto.
Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso.
*


Talor, mentre cammino solo al sole
e guardo coi miei occhi chiari il mondo
ove tutto m’appar come fraterno,
l’aria la luce il fu d’erba l’insetto,
un improvviso gelo al cor mi coglie.

Un cieco mi par d’essere, seduto
sopra la sponda d’un immenso fiume.
Scorrono sotto l’acque vorticose,
ma non le vede lui: il poco sole
ei si prende beato. E se gli giunge
talora mormorio d’acque, lo crede
ronzio d’orecchi illusi.
Perché a me par, vivendo questa mia
povera vita, un’altra rasentarne
come nel sonno, e che quel sonno sia
la mia vita presente.

Come uno smarrimento allor mi coglie,
uno sgomento pueril.
Mi seggo tutto solo sul ciglio della strada,
guardo il misero mio angusto mondo
e carezzo con man che trema l’erba.


*
Mi desto dal leggero sonno solo
nel cuore della notte.
Tace intornola casa come vuota e laggiù brilla
silenzioso coi suoi lumi un porto.
Ma sì freddi e remoti son quei lumi
e sì grande è il silenzio nella casa
che mi levo sui gomiti in ascolto.
Improvviso terrore mi sospende
il fato e allarga nella notte gli occhi:
separata dal resto della casa
separata dal resto della terra
è la mia vita ed io son solo al mondo.

Poi il ricordo delle vie consuete
e dei nomi e dei volti quotidiani
riemerge dal sonno,
e di me sorridendo mi riadagio.

Ma, svanita col sonno la paura,
un gelo in fondo all’anima mi resta.
Ch’io cammino fra gli uomini guardando
attentamente coi miei occhi ognuno,
curioso di br ma come estraneo.
Ed alcuno non ho nelle cui mani
metter le mani con fiducia piena
e col quale di me dimenticarmi.

Tal che se l’acque e gli alberi non fossero
e tutto il mondo muto delle cose
che accompagna il mio viver sulla terra,
io penso che morrei di solitudine.

Or questo camminare fra gli estranei
questo vuoto d’intorno m’impaura
e la certezza che sarà per sempre.

Ma restan gli occhi crudelmente asciutti.


*

Esco dalla lussuria.
M’incammino
per lastrici sonori nella notte.
Non ho rimorso o turbamento. Sono
solo tranquillo immensamente.
Pure
qualche cosa è cambiato in me, qualcosa
fuori di me.Ché la città mi pare
sia fatta immensamente vasta e vuota,
una città di pietra che nessunoabiti,
dove la Necessità
sola conduca i carri e suoni l’ore.

A queste vie simmetriche e deserte
a queste case mute sono simile.
Partecipo alla loro indifferenza,
alla loro immobilità.
Mi pare
d’esser sordo ed opaco come loro,
d’esser fatto di pietra come loro.
Ché il mio padre e la mia sorella sono
lontani, come morti da tanti anni,
come sepolti già nella memoria.
Il nome dell’amico è un nome vano.
Tra me ed essi s’è interposto il mio
peccato come immobile macigno.
E se sapessi che il mio padre è morto,
al qual pensando mi piangeva il cuore
di essere lontano ora che i giorni
della vita comune son contati,
se mi dicesser che mio padre è morto,
sento bene che adesso non potrei piangere.

Son come posto fuori della vita,
una macchina io stesso che obbedisce,
come il carro e la strada necessario.

Ma non riesco a dolermene.

Cammino
per lastrici sonori nella notte.


*



Non, Vita, perché tu sei nella notte
la rapida fiammata, e non per questi
aspetti della terra e il cielo in cui
la mia tristezza orribile si placa:
ma, Vita, per le tue rose le quali
o non sono sbocciate ancora o già
disfannosi, pel tuo Desiderio
che lascia come al bimbo della favola
nella man ratta solo delle mosche,
per l’odio che portiamo ognuno al noi
del giorno prima, per l’indifferenza
di tutto ai nostri sogni più divini,
per non potere vivere che l’attimo
al modo della pecora che bruca
pel mondo questo o quello cespo d’erba
e ad esso s’interessa unicamente,
pel rimorso che sta in fondo ad ogni
vita, d’averla inutilmente spesa,
come la feccia in fondo del bicchiere,
per la felicità grande di piangere,
per la tristezza eterna dell’Amore,
per non sapere e l’infinito buio...

per tutto questo amaro t’amo, Vita.


*

Sonno, dolce fratello della Morte,
che dalla Vita per un po’ ci affranchi
ma ci rilasci tosto in sua balia
come gatto che gioca col gomitolo;
dite, finché la mia vita giustifichi
la vita della mia sorella e un segno
che son vissuto anch’io finché non lasci,
io mi contenterò e del tuo inganno.

Vieni, consolatore degli afflitti.
Abolisci per me lo spazio e il tempo
e nel nulla dissolvi questo io.
Nessun bambino mai così fidente
s’abbandonò sul seno della madre
com’io nelle tue mani m’abbandono.
Quando si dorme non si sa più nulla.


*

Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso egualmente t’amerei.
Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno
che la prima viola sull’opposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
di casa uscisti e l’appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.

E di quell’altra volta mi ricordo
che la sorella mia piccola ancora
per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia avea fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura ti mancava il cuore:
ché avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l’attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
l’avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo ch’era il tu di prima.

Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t’amerei.


*

Ora che non mi dici niente, ora
che non mi fai godere né soffrire,
tu sei la consueta dei miei giorni.
Assomigli ad un lago tutto uguale
sotto un cielo di latta tutto uguale.
Assonnato mi muovo sulla riva.
Non voglio non desidero, neppure
penso.
Mi tocco per sentir se sono.
E l’essere e il non esser, come l’acqua
e il cielo di quel lago si confondono.
Diventa il mio dolore quel d’un altro
e la vita non è lieta né triste.

T’odio, compagna assidua dei miei giorni,
che alla vita non mi sottrai, facendomi
come il sonno una cosa inanimata,
ma me la lasci solo rasentare.
Poiché son rassegnato a viver, voglio
che ogni ora del dì mi pesi sopra,
mi tocchi nella mia carne vitale.
Voglio il Dolore che m’abbranchi forte
e collochi nel centro della Vita.

Ora che non mi dici niente, ora
che non mi fai godere né soffrire,
io rassegnato aspetto che tu passi.


*

Io ti vedo con gioia e con paura
ogni giorno scemare, mio Dolore.
Come l’amante che al risveglio spia
il volto dell’amante addormentata
e sente il freddo dell’irreparabile
ché i due corpi così vicini vede
farsi ogni giorno più tra loro estranei,
ogni mattino che mi sveglio scopro
il tuo volto più pallido, Dolore,
finché un mattino al posto tuo m’appaia
il volto scialbo della Consuetudine.

Tu che illudesti per un po’ la mia
aridità ed ai miei chiari occhi,
di pianto intorbidandoli, lasciasti
vedere meno bene, e mi facesti
tutta la vita vivere nell’attimo,
adesso che ho imparato a amarti solo,
o Dolore tu anche passeggero,
irreparabilmente te ne vai.
E se mi fosse dato, non avrei
forse il coraggio di chiamarti indietro.

Ma la mia vera vita con te viene
perché quando non soffro neppur vivo.


*

Talor, mentre cammino per le strade
della città tumultuosa solo,
mi dimentico il mio destino d’essere
uomo tra gli altri, e, come smemorato,
anzi tratto fuor di me stesso, guardo
la gente con aperti estranei occhi.

M’occupa allora un puerile, un vago
senso di sofferenza e d’ansietà
come per mano che mi opprima il cuore.
Fronti calve di vecchi, inconsapevoli
occhi di bimbi, facce consuete
di nati a faticare e a riprodursi,
facce volpine stupide beate,
facce ambigue di preti, pitturate
facce di meretrici, entro il cervello
mi s’imprimono dolorosamente.
E conosco l’inganno pel qual vivono,
il dolore che mise quella piega
sul loro labbro, le speranze sempre
deluse,e l’inutilità della loro vita
amara e il lor destino ultimo, il buio.
Ché ciascuno di loro porta seco
la condanna d’esistere: ma vanno
dimentichi di ciò e di tutto, ognuno
occupato dall’attimo che passa,
distratto dal suo vizio prediletto.

Provo un disagio simile a chi veda
inseguire farfalle lungo l’orlo
d’un precipizio, od una compagnia
di strani condannati sorridenti.
E se poco ciò dura, io veramente
in quell’attimo dentro m’impauro
a vedere che gli uomini son tanti.


*

Lacrime, sotto sguardi curiosi
non mi scoppiate a un tratto mentre parlo
di vane cose (mi sovviene a un tratto
del mio cammino sotto cieli bui,
non avendo una mano che m’incuori;
e l’inutilità di ciò che dico
di ciò che faccio mi fa grave il cuore).

M’irrita la carezza nei capelli.
Io troppe volte in giovinezza risi
per ricacciare dentro le mie lacrime,
ché la pietà degli uomini mi umilia.
E quell’altro mio io il quale sempre
m’accompagna, vorrebbe quando piango
alzar la faccia e ridere frenetico.

Mentre guardo mio padre ginocchioni
non mi colate giù rapide e calde.
Mi guarda il padre coi suoi poveri occhi
senza battere ciglio e scopre nuovo
l’irrequieto che tenea per mano
e che gli crebbe presso sconosciuto.

Ma nell’angolo buio d’una stanza
o nella solitudine d’un bosco
oh dolcezza di pianger tutto solo!
Al sostegno più prossimo m’appoggio
nell’improvvisa piena
abbandonatamente come fossi
per morire e tra mezzo grosse lacrime
mi brilla il viso di riconoscenza.
Allora sotto la bontà dei cieli
io sono nudo come quando nacqui;
dietro il sottile velo delle lacrime
allora sono solamente io.


*

I miei occhi implacabili che sono
sempre limpidi pure quando piangono
Amicizia non vale ad ingannare.
Quando parliamo troppo forte o quando
d’improvviso taciamo tutti e due,
vedono essi il male che ci rode.
Col rumor della voce noi vogliamo
creare fra di noi quel che non è;
quando taciamo non sappiam che dirci
ed apre degli abissi quel silenzio.
Allacciarci non giova con le braccia
se distinti restiamo ai nostri occhi.

A ingannarli non vali neppur tu,
Dolore. Quando allenti la tua stretta,
il mio padre e la mia sorella anch’essi
s’allontanano paurosamente.

Certe volte vedendo una bestiola
che lecca una bestiola e gioca seco,
mi morde il cuore una crudele invidia.

Con gli occhi vedo che mi sei negata,
gioia di voler bene a qualcheduno.


*

A volte, quando penso alla mia vita
la qual ritorna sempre sui suoi passi
e come il dì e la notte si ripete
nei suoi disgusti e nei suoi desideri,
o quando la mia triste sazietà
incontra il desiderio che vocifera
al canto della strada, e mi si affaccia
l’immagine alla mente d’una scala
che saliamo e scendiamo senza tregua
come ragazzi in qualche gioco sciocco;
una chiaroveggenza nuova allarga
sulla Vita i miei occhi, tal che parmi
di vederla com’è la prima volta.
Vedo allora che nulla nella vita
è buono e nulla è triste, ma che tutto
è da accettare nello stesso modo;
e penso che convenga rassegnarsi
ché tutto eguaglia la necessità.
Ma poiché in quel momento è così chiara
la mia vista, che di varcare il cerchio
nel quale la Necessità ci chiude
più non m’illudo, e poiché anche sento
che accettar così tutto non potrei,
la tenerezza per la mia sorella
e l’ingordo possesso della femmina,
su dal cuore mi sboccia un improvviso
sincero desiderio di morire.


*

Adesso che placata è la lussuria
sono rimasto con i sensi vuoti,
neppur desideroso di morire.
Ignoro se ci sia nel mondo ancora
chi pensi a me e se mio padre viva.
Evito di pensarci solamente.
Ché ogni pensiero di dolore adesso
mi sembrerebbe suscitato ad arte.
Sento d’esser passato oltre quel limite
nel qual si è tanto umani per soffrire,
e che quel bene non m’è più dovuto,
perché soffrire della colpa è un bene.

Mi lascio accarezzare dalla brezza,
illuminare dai fanali, spingere
dalla gente che passa, incurioso
come nave senz’ancora né vela
che abbandona la sua carcassa all’onda.
Ed aspetto così, senza pensiero
e senza desiderio, che di nuovo
per la vicenda eterna delle cose
la volontà di vivere ritorni.


*

Svegliandomi il mattino, a volte provo
sì acuta ripugnanza a ritornare
in vita, che di cuore farei patto
in quell’istante stesso di morire.
Il risveglio m’è allora un altro nascere;
che la mente lavata dall’oblio
e ritornata vergine nel sonno
s’affaccia all’esistenza curiosa.
Ma tosto a lei l’esperienza emerge
come terra scemando la marea.
E così chiara allora le si scopre
l’irragionevolezza della vita,
che si rifiuta a vivere, vorrebbe
ributtarsi nel limbo dal quale esce.

Io sono in quel momento come chi
si risvegli sull’orlo d’un burrone,
e con le mani disperatamente
d’arretrare si forzi ma non possa.

Come il burrone m’empie di terrore
la disperata luce del mattino.


*

Sempre assorto in me stesso e nel mio mondo
come in sonno tra gli uomini mi muovo.
Di chi m’urta col braccio non m’accorgo,
e se ogni cosa guardo acutamente
quasi sempre non vedo ciò che guardo.
Stizza mi prende contro chi mi toglie
a me stesso. Ogni voce m’importuna.
Amo solo la voce delle cose.
M’irrita tutto ciò che è necessario
e consueto, tutto ciò che è vita,
com’irrita il fuscello la lumaca
e com’essa in me stesso mi ritiro.

Che la vita che basta agli altri uomini
non basterebbe a me.

E veramente
se un altro mondo non avessi, mio,
nel quale dalla vita rifugiarmi,
se oltre le miserie e le tristezze
e le necessità e le consuetudini
a me stesso non rimanessi io stesso,
oh come non esistere vorrei!
Ma un’impressione strana m’accompagna
sempre in ogni mio passo e mi conforta:
mi pare di passar come per caso
da questo mondo


*

Padre che muori tutti i giorni un poco,
e ti scema la mente e più non vedi
con allargati occhi che i tuoi figli
e dite non t’accorgi e non rimpiangi,
se penso la fortezza con la quale
hai vissuto, il disprezzo c’hai portato
a tutto ciò che è piccolo e meschino,
sotto la rude scorza
l’istintiva poesia della tua anima,
il bene c’hai voluto alla tua madre,
alla sorella ingrata, a nostra madre
morta,
tutta la vita tua sacrificata,
e poi ti guardo così come sei,
io mi torco in silenzio le mie mani.

Contro l’indifferenza della vita
vedo inutile anch’essa la virtù,
e provo forte come non ho mai
il senso della nostra solitudine.

Io voglio confessarmi a tutti, padre,
che ridi se mi vedi e tremi quando
d’una qualche attenzion ti faccio segno,
di quanto fui vigliacco verso te.
Benché il ricordo mi si alleggerisca,
che più giusto sarebbe mi pesasse
inconfessato sempre sopra il cuore.

Io giovinetto imberbe, t’ho guardato
con ira, padre, per la tua vecchiezza.
Stizza contro te vecchio mi prendeva...

Padre che ci hai tenuto sui ginocchi
nella stanza che s’oscurava, in faccia
alla finestra, e contavamo i lumi
di cui si punteggiava la collina
facendo a gara a chi vedeva primo,
perdono non ti chiedo con le lacrime
che mi sarebbe troppo dolce piangere,
ma con quelle più amare te lo chiedo
che non vogliono uscire dai miei occhi.

Un pensiero soltanto mi consola
di poterti guardar con occhi asciutti:
il ricordo che piccolo pensando
che come gli altri uomini dovevi
morir pure tu, il nostro padre,
solo e zitto nel mio letto la notte
io di sbigottimento lagrimavo.
Di quello che i miei occhi ora non piangono
quell’infantile pianto mi consola,
padre, perché mi par d’aver lasciato
tutta la fanciullezza in quelle lacrime.

Se potessi promettere qualcosa
se potessi fidarmi di me stesso
se di me non avessi anzi paura,
padre, una cosa ti prometterei:
di viver fortemente come te
sacrificato agli altri come te
e negandomi tutto come te,
povero padre, per la fiera gioia
di finir tristemente come te.


*

Forse un giorno, sorella, noi potremo
ritirarci sui monti, in una casa
dove passare il resto della vita.
Sarà il padre con noi se anche morto.
Noi lo vedremo muoversi per casa.
E allora capirà tutto il dolore
che traversammo uniti per la mano,
tu, la vita, sorella, senza amore,
io la vita, sorella, senza inganni.
Ed io lavorerò allora all’altro
scopo pel quale vivo, di lasciare
un segno al mondo che son stato anch’io.
E quando l’illusione non mi basti
di vivere nell’arte molte vite,
il tuo dolore farà muto il mio.
Per sentirci ogni giorno più vicini
ricorderemo a volte ciò che fu;
e andremo a ripassar pei luoghi dove
passammo a man di nostro padre piccoli,
perché il nostro alimento è l’amarezza.
E se vuota ci paia l’esistenza
e se il rimpianto di tutt’altra vita
alla gola ci afferri qualche volta,
alla consolatrice unica andremo.
Delle giornate intere noi staremo
con le due mani aperte sopra l’erba,
quasi lieti d’esistere per quello.
E vivremo così in compagnia
dei maggiori fratelli, i fiumi e i boschi,
pacificati con la nostra sorte.
Perché ciò sia, sorella, io faccio patto
che il mio dolore duri quanto me,
anzi di giorno in giorno mi s’accresca.

Questo il sogno che faccio ad occhi aperti.


*

Il mio cuore si gonfia per te, Terra,
come la zolla a primavera.
Io torno.
I miei occhi son nuovi. Tutto quello
che vedo è come non veduto mai;
e le cose più vili e consuete,
tutto m’intenerisce e mi dà gioia.

In te mi lavo come dentro un’acqua
dove si scordi tutto di se stesso.
La mia miseria lascio dietro a me
come la biscia la sua vecchia pelle.
Io non sono più io, io sono un altro.
Io sono liberato di me stesso.

Terra, tu sei per me piena di grazia.
Finché vicino a te mi sentirò
così bambino, fin che la mia pena
in te si scioglierà come la nuvola
nel sole, io non maledirò d’esser nato.

Io mi sono seduto qui per terra
con le due mani aperte sopra l’erba,
guardandomi amorosamente intorno.
E mentre così guardo, mi si bagna
di calde dolci lacrime la faccia.

inverno 1912


Taci, anima mia. Son questi i tristi
giorni in cui senza volontà si vive,
i giorni dell’attesa disperata.
Come l’albero ignudo a mezzo inverno
che s’attrista nella deserta corte
io non credo di mettere più foglie
e dubito d’averle messe mai.
Andando per la strada così solo
tra la gente che m’urta e non mi vede
mi pare d’esser da me stesso assente.
E m’accalco ad udire dov’è ressa
sosto dalle vetrine abbarbagliato
e mi volto al frusciare d’ogni gonna.
Per la voce d’un cantastorie cieco
per l’improvviso lampo d’una nuca
mi sgocciolan dagli occhi sciocche lacrime
mi s’accendon negli occhi cupidigie.
Che tutta la mia vita è nei miei occhi:
ogni cosa che passa la commuove
come debole vento un’acqua morta.

Io son come uno specchio rassegnato
che riflette ogni cosa per la via.
In me stesso non guardo perché
nulla vi troverei...
E, venuta la sera, nel mio letto
mi stendo lungo come in una bara.


*

Piccolo quando un canto d’ubriachi
giungevami all’orecchio nella notte
d’impeto su dai libri mi levavo.
Dimentico di lor, la chiusa stanza
all’aria della notte spalancavo
e mi sporgevo fuor della finestra
a bere il canto come un vino forte.
Con che occhi voltandomi guardavo
la chiusa stanza e dopo lei la casa
dove già tutti i lumi erano spenti!
Più d’una volta sulla fredda ardesia
al vento che passava nei capelli
alla pioggia che m’inzuppava il viso
io piansi delle lacrime insensate.

Adesso quell’inganno anche è caduto.
Ora so quanto amara sia la bocca
che canta spalancata verso il cielo.
Pur se ancora mi desta dal mio sonno
quel canto d’ubriachi per la via
ad ascoltar mi levo con sospeso
dall’improvvisa commozione il fiato,
e vado ancora a mettere la faccia
nel vento che i capelli mi scompigli.
Rinnovare vorrei l’amara ebrezza
e quel sottile brivido pel corpo,
e il ben perduto cui non credo più
piangere come allora...
Ma non m’escono
che scarse sciocche lacrime dagli occhi.


*

Nel mio povero sangue qualche volta
fermentano gli oscuri desideri.
Vado per la città solo la notte,
e l’odore dei fondaci al ricordo
vince l’odor dell’erba sotto il sole.

Rasento le miriadi degli esseri
sigillati in se stessi come tombe.
E batto a porte sconosciute. Salgo
scale consunte da generazioni.
La femmina che aspetta sulla porta
l’ubriaco che rece contro il muro
guardo con occhi di fraternità.
E certe volte subito trasalgono,
nell’andito malcerto in capo a cui
occhi di sangue paiono i fanali,
le mie nari che fiutano il Delitto.

Mi cresce dentro l’ansia di morire
senza avere il godibile goduto
senza avete il soffribile sofferto.
La volontà mi prende di gettare
come un ingombro inutile il mio nome.
Con per compagna la Perdizione
a cuor leggero andarmene pel mondo.


*

Io che come un sonnambulo cammino
per le mie trite vie quotidiane,
vedendoti dinanzi a me trasalgo.

Tu mi cammini innanzi lenta come
una regina.
Regolo il mio passo
io subito destato dal mio sonno
sul tuo ch’è come una sapiente musica.
E possibilità d’amore e gloria
mi s’affacciano al cuore e me lo gonfiano.
Pei riccioletti folli d’una nuca
per l’ala d’un cappello io posso ancora
alleggerirmi della mia tristezza.
Io sono ancora giovane, inesperto
col cuore pronto a tutte le follie.

Una luce si fa nel dormiveglia.
Tutto è sospeso come in un’attesa.
Non penso più. Sono contento e muto.
Batte il mio cuore al ritmo del tuo passo.


*

A volte quando guardo la mia vita
e, tizzo che di cenere si copre,
ciò che feci ai miei occhi si scolora,
con un brivido freddo mi percorre
l’improvvisa paura di morire.

Se domani morissi, se sapessi
di morire, la casa lascerei
ed uscirei a zonzo per le vie
per rimanere solo con me stesso
con sopra il capo il cielo vasto e vuoto
sotto i piedi la terra fredda e dura,
come solo sarei in faccia al nulla.

Tra gli umidi guanciali non mi spenga
senza rumore qualche malattia,
come debole fiamma poco vento!

Pellegrinando andare per quei luoghi
dove passai da piccolo col padre;
dare
il primo bacio e l’ultimo agli amici;
toccare l’erba
come si tocca un capo di bambino
e saper che quell’è l’ultima volta;
prender congedo dalla dolce terra:
dolce così non mi sarà mai parsa.

Poi mettere alla vita il mio sigillo.


*

Io t’aspetto allo svolto d’ogni via,
Perdizione. Ti cerco dentro gli occhi
d’ogni donna che passa...
Sosto dai baracconi nelle fiere
a vedere la donna del serpente,
la fanciulla che vola.

Oh voluttà di dar tutto per nulla!
di tenere nel conto d’una paglia
questa vita ch’è tutto il nostro bene!

Quella che tutti ebbero, che ride
facile e non capisce, quella che
con un crollar di spalle e un muover d’anca
dentro tutto il mio mondo mi dissolva,
quella più disprezzabile che ignora
la sua potenza,
io prego che la strada m’attraversi.

Io, come un mendicante che venuto
sulla sponda del flume, sghignazzando
l’unico soldo che possiede getta,
per lei la vita getterei ridendo.


*

Quando traverso la città la notte
io vivo la mia vita più profonda.
Persiane silenziose illuminate!

Finestra buia aperta nella notte!
Negli atrii di pietra voce d’acqua!
Tra le bestie squartate lumicino
alla madonna! Ombre umane informi
dietro i vetri nebbiosi dei caffè!

Mi trasformo nel deco del crocicchio
che suona ritto gli occhi vaghi al cielo.
Voluttà d’esser solo ad ascoltarmi!
Udire nella mia notte per ore
avvicinarsi e dileguare i passi!
Essere la puttana che sussurra
la parola al passante che va oltre!
la vecchia della porta
che s’attacca pel soldo della grappa
al militare ch’esce nauseato!
E voluttà di scendere più basso!

Rasentando le case cautamente
io sento dietro le pareti sorde
le generazioni respirare.
E so l’ostilità di certe vie
tozze,
la paura di certe piazze vuote...
E forse ignaro m’incammino verso
- oh mia liberazione! - la Follìa.


*

A volte sulla sponda della via
preso da un infinito scoramento
mi seggo; e dove vado mi domando,
perché cammino. E penso la mia morte
e mi vedo già steso nella bara
troppo stretta fantoccio inanimato...

Quant’albe nasceranno ancora al mondo
dopo di noi!
Di ciò che abbiam sofferto
di tutto ciò che in vita ebbimo a cuore
non rimarrà il più piccolo ricordo.

Le generazioni passan come
onde di fiume...

Una mortale pesantezza il cuore
m’opprime.
Inerte vorrei esser fatto
come qualche antichissima rovina
e guardare succedersi le ore,
e gli uomini mutate i passi, i cieli
all’alba colorirsi, scolorirsi
a sera ...


*

Magra dagli occhi lustri, dai pomelli
accesi,
la mia anima torbida che cerca
chi le somigli
trova te che sull’uscio aspetti gli uomini.

Tu sei la mia sorella di quest’ora.

Accompagnarti in qualche trattoria
di bassoporto
e guardarti mangiare avidamente!
E coricarmi senza desiderio
nel tuo letto!
Cadavere vicino ad un cadavere
bere dalla tua vista l’amarezza
come la spugna secca beve l’acqua!

Toccare le tue mani i tuoi capelli
che pure a te qualcuno avrà raccolto
in un piccolo ciuffo sulla testa!
E sentirmi guardato dai tuoi occhi
ostili, poveretta, e tormentarti
domandandoti il nome di tua madre...

Nessuna gioia vale questo amaro:
poterti fare piangere, potere
pianger con te.


*

Talora nell’arsura della via
un canto di cicale mi sorprende.
E subito ecco m’empie la visione
di campagne prostrate nella luce...
E stupisco che ancora al mondo sian
gli alberi e l’acque,
tutte le cose buone della terra
che bastavano un giorno a smemorarmi...

Con questo stupor sciocco l’ubriaco
riceve in viso l’aria della notte.

Ma poi che sento l’anima aderire
ad ogni pietra della città sorda
com’albero con tutte le radici,
sorrido a me indicibilmente e come
per uno sforzo d’ali i gomiti alzo...

maggio 1913