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MARINO FRESCHI LA VIENNA DI FINE SECOLO L'età d'oro della letteratura austriaca FONTE |
«Eravamo destinati a morire. Eravamo liberi soltanto di scegliere come, e scegliemmo la via più spaventosa» (Taylor, 313). Così commenta il crollo dell'impero il conte Ottokar Czernin, uno degli ultimi ministri degli esteri della monarchia asburgica, interpretando il senso di fine, di cordoglio annunciato e mescolato con una disperata, impaziente voglia di inebriarsi per sfuggire a una responsabilità storica e alla drammatica consapevolezza di un destino irreversibile. Si è discusso a lungo sulla possibilità di sopravvivenza dello Stato danubiano e sulle cause della sua dissoluzione. La sua necessità storica per l'equilibrio geopolitico della Mitteleuropa è stata paradossalmente dimostrata a posteriori e mai come in questo violento scorcio di secolo si comprende come il caos balcanico richiederebbe un'istanza politica superiore alle indistricabili contraddizioni confessionali, nazionali e perfino etniche della regione.
Solo una cultura statale comprensiva delle ambizioni particolaristiche e attenta alle differenze locali e al tempo stesso distinta e svincolata dagli interessi delle realtà singole può pretendere il rispetto e il consenso per uno Stato che trascenda le tentazioni egemoniche legate a un solo soggetto politico. Con tutti i limiti e le antinomie storiche, siffatta azione armonizzatrice è stata esercitata dalla Casa d'Austria, dalla plurisecolare dinastia asburgica che ha ispirato una cultura sostanzialmente estranea al nazionalismo, alla pretesa di dominio particolaristico, spiritualmente distante dalla hybris, dalla sopraffazione etnica. Il preannunciato crollo dell'impero si spiega con lo scarto storico tra l'ondata montante dei nazionalismi, che agiscono in profondità da forza centrifuga irrefrenabile dello Stato asburgico, e l'irreversibile corrosione interiore, la mancanza di una idea politica aggregante. I circoli politici e culturali asburgici avvertono l'urgenza di proporre una «idea austriaca» per salvare la credibilità dello Stato, anzi più ci si avvicina alla fine, più si sfornano idee austriache vieppiù velleitane, effimere, prive di un ancoraggio storico, di un effettivo radicamento con le varie realtà culturali. Gran parte dell'Uomo senza qualità tematizza con graffiante ironia, amaro sarcasmo e affettuosa nostalgia questa incapacità di sciogliere il nodo gordiano del complicato garbuglio balcanico-danubiano. Il romanzo di Musil rispecchia quella parossistica ricerca di possibili soluzioni che si rivelano subito impraticabili e che sulla movimentata scena politica austroungarica vengono avanzate perfino dagli avversari come da Radic, il leader del partito contadino croato in lotta contro l'ottusa egemonia ungherese. Anche lui finisce per proporre una vaga «idea austriaca» per una monarchia «non più tedesca, né magiara e neppure slava, ma cristiana, europea e democratica» (Taylor, 301), mentre al fautore del risveglio nazionalistico ceco, Frantisek Palacky si deve la famosa, proverbiale affermazione sull'Austria che se non ci fosse, sarebbe necessario inventarla. L'ultimo secolo di vita dell'impero comprende quell'arco di tempo che va dal Congresso di Vienna del 1815, architettato dall'abile regia del principe Metternich, fino alla negazione di quel sistema di delicati equilibri diplomatici, distrutto nel '14 dall'aggressiva politica suicida austriaca. Fino al fatidico attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914, che causa la morte del pretendente al trono asburgico Francesco Ferdinando e di sua moglie, la politica viennese consiste essenzialmente nell'arcanum imperii circoscritto dal 'fortwursteln', dal «tirare a campare», l'unica strategia ancora possibile, secondo i politici viennesi, per evitare la dissoluzione dello Stato. E in compenso siffatta strategia si riverbera in un modo di vita mirato a smussare ogni tensione e a rendere la vita piacevole, o meno ingrata di quanto talvolta possa apparire e in quest'arte i viennesi si sono dimostrati eccellenti maestri, tanto da guadagnarsi per il loro saper vivere l'appellativo di feaci (Magris, 1963, 30-31). Un testimone della garbata eleganza del comportamento civile che connota quel clima di reciproca tolleranza è Stefan Zweig nel Mondo di ieri, quando rievoca malinconicamente la Vienna della propria giovinezza: caratterizzato da un diffuso edonismo, che si sublima in una cultura estetica quale surrogato di una autentica tensione spirituale. Il romanziere ebreo viennese analizza lucidamente lo sfacelo interiore della civiltà austriaca partendo proprio da questa prospettiva, tracciata con ampiezza e con un ironico, graffiante disincanto verso il mito imperiale e verso tutte le leggende che circolavano intorno alla figura del vecchio sovrano: dubbio che i valori etici sui quali ispirava la sua vita fossero in realtà eclettici e privi di una organica coerenza, così come non lo infastidiva l'eclettismo estetico che lo circondava, per il semplice fatto che non lo notava neppure. Tuttavia, fu proprio contemplando una simile mediocrità che il cittadino austriaco riuscì ad avvertire l'esistenza di un fulcro morale, di una autorità etica (cosa presumibilmente incomprensibile per un cittadino inglese che facesse un confronto con il proprio modo di considerare la regina); sicché la semplice esistenza di questo vecchio imperatore bastò a rafforzare straordinariamente non solo i valori etici ma anche quelli estetici. La propensione all'immutabilità di Francesco Giuseppe non poteva, sul terreno tecnico, fermare la vita; ma nella sfera etico-estetica, molto meno necessitante, il suo conservatorisino divenne un orientamento per tutti, perché un organismo sociale che si trova prossimo alla propria fine (e in un'agonia per giunta così bella) segue più facilmente inclinazioni mistiche che suggestioni rivoluzionarie (Broch, 89-93). Viene coniato con la «gaia apocalisse» uno degli ossimori più felici e indicativi del clima culturale viennese, per quella singolare simbiosi creativa di tradizionalismo austriaco di ascendenza barocca e controriformista, di effervescenza intellettuale laica e di mistiche nostalgie ebraiche. La stessa diffusa irresponsabilità e incoscienza che si percepisce nell'estrema politica asburgica è paradossalmente l'esito di quella scelta obbligata per prolungare, con la sopravvivenza della dinastia, l'unica pace ancora possibile come è stato copiosamente confermato quando alla scomparsa dell'impero si è innescata una spirale di violenza che non accenna ancora a esaurirsi, provocando continue crisi. La brutalità in alcuni territori, una volta dominati o influenzati dagli Asburgo, assume nuovi aspetti di intolleranza spinta fino alla pulizia etnica e alla guerra di tutti contro tutti. La saggezza asburgica si riassume nella massima «queta non movere», in un abile e perfino astuto immobilismo, gestito dagli alti funzionari, che della procrastinazione, dello slittamento, dell'insabbiamento hanno fatto la loro filosofia, la ragione di vita, trasformando la prassi del compromesso in un'arte complessa condotta fino alla esaustione di ogni forza, poiché ogni energia si sublima nella negazione di se stessa. Gran parte degli scrittori del secolo d'oro austriaco si confronta con la figura del fedele impiegato, con il burocrate imperialregio, che si esalta e si invera nel pensionato, nel senile custode, nel pedante conservatore di una invisibile metafisica imperiale, di una puntigliosa ortoprassi apparentemente priva di senso vitale, di progetto, di idealità in un'epoca, in cui ogni Stato (e soprattutto l'impero prussiano, l'ultimo arrivato tra le grandi potenze) esibisce una sua Weltanschauung, una sua concezione del mondo interventista. Ogni Stato nazionale si compiace del proprio esasperato particolarismo, proclamato in aggressiva polemica contro i vicini. A Vienna, invece, i conflitti tra le varie etnie si attutiscono negli studi ovattati dei dirigenti dell'amministrazione asburgica, smussandosi per decenni in lotte, più o meno rumorose, per un posto, secondo l'aurea regola del compromesso, collaudata durante l'era di Taafe. I contrasti vengono ridimensionati distribuendo con arbitraria e sagace imparzialità posti e prebende nella burocrazia statale agli esponenti delle varie nazionalità in proporzioni rispettose delle forze e delle pretese più insistenti e politicamente ineludibii. Con una ridondanza di personale amministrativo, altrimenti inspiegabile, la volpina politica asburgica smorza i sacri egoismi delle nazionalità aderendo alle richieste spicciole. La rivoluzione può di nuovo aspettare e soltanto un colpo di testa, difficilmente spiegabile, precipita la diplomazia asburgica, proverbialmente cauta, nella svolta aggressiva dell'estate 1914 in contrasto con il suo tradizionale e salvifico immobilismo. Nella Vienna del potere l'indecisionismo è elevato a sistema politico e a criterio culturale, a estetica della res publica, a poetica dell'impero, che si riflette nella più vistosa realizzazione del pluridecennale regno di Francesco Giuseppe, nella Ringstrasse viennese, archetipo di tante analoghe imitazioni nei vari altri centri minori della monarchia. L'edificazione della monumentale arteria illustra nella pietra i gusti, le tendenze artistiche e i progetti urbanistici dell'epoca francogiuseppina. Priva di un suo stile, priva di una sua architettura, di una sua arte l'epoca tollera, assumendoli, gli stili delle altre età, armonizzandoli in un sincretismo al limite del kitsch e di una babelica contraffazione. Il gusto gotico del municipio riafferma l'alquanto ipotetica radice fiamminga degli Asburgo, così come lo stile neoclassico «finto Atene» del Parlamento esprime il rispettoso culto (solo formale) per le nuove istituzioni politiche di consenso democratico, mentre il neorinascimento del Burgtheater, dell'Università e la classicità illuministica della Opera e dei grandi musei si legano alla volontà di incorporare la tradizione artistica e scientifica della cultura europea. La febbre imitativa ha contagiato i progetti architettonici delle altre grandi costruzioni e inoltre quella costante citazione storica è assunta a estetica della pittura ufficiale esemplata dalle composizioni di Hans Makart e Anton Romako. La superfetazione del decorativismo, la proliferazione dell'ornamento, l'insistita ridondanza di intrecci stilistici hanno evocato per contrasto una decisa reazione con la straordinaria esperienza della Secessione, una autentica insurrezione artistica in nome dell'individuazione di una linea coerente, omogenea e al tempo stesso congeniale al gusto decadentistico del liberty. A sua volta la Secessione e lo Jugendstil vengono criticati e rintuzzati da una nuova svolta nel segno della semplicità, della funzionalità architettonica, che per certi versi si propaga anche nella letteratura e nell'arte. Sono percorsi che possono svolgersi all'interno di una stessa personalità poetica, come in Rilke con la sua sofferta peripezia praghese e cosmopolita che passa da un mimetismo in costante metamorfosi a una esemplare volontà di purezza e nudità simbolica che viene finalmente alla luce nelle Elegie di Duino e nei Sonetti a Orfeo, in cui l'ascolto di una voce elimina il clangore confuso di pur soavissime melodie lontane da un autentico centro di originalità creativa. Del resto Vienna, questa capitale del kitsch, del culto antiquario e senilmente conservativo, è anche la roccaforte culturale del rigore iconoclasta di Adolf Loos e Karl Kraus. Le contraddizioni, i contrasti laceranti di questa cultura sono sempre vissuti al confine tra coraggiose ipotesi artistiche, sottile eleganza formale e disperazione intellettuale ed esistenziale: si pensi ai suicidi di esponenti di spicco di questa cultura come Stifter, von Saar, Weininger, mentre l'ironia, che, onnipresente, prende lo spunto dalla realtà interna e dalla situazione storica, pervade l'intera originalità culturale, dalla letteratura e dalla pittura del decadentismo alla psicoanalisi. Si crea una irripetibile costellazione di uomini, tendenze, opere che non finisce di suscitare la nostra ammirazione per quella età d'oro chiamata della Grande Vienna (Janik-Toulmin). Età asburgica per antonomasia con il vecchio Francesco Giuseppe e l'infelice arciduca Massimiliano, massacrato dai rivoluzionari messicani, lo sfortunato pretendente ereditario Rodolfo, l'inquieta imperatrice Sissi, la scintillante corte imperiale, il fulgore della Ringstrasse, ma è ancor di più l'età di eccezionali scrittori, pensatori e artisti che operano nella città a cavallo tra i due secoli. La città è il palcoscenico di inconciliabili paradossi, di irriducibili contraddizioni. Vienna è la culla del sionismo di Theodor Herzl THEODOR HERZL (Le Rider, 1990) e dell'antisemitismo virulento di Adolf Hitler, dell'ariosofia di Guido von List (Hamann) e dell'austromarxismo revisionista di Victor Adler e del neocorporativismo cattolico di monsignor Ignaz Seipel, nonché dell'estetica decadente e dello sperimentalismo dodecafonico. Infatti a Vienna si può assistere, con saggia leggerezza, alle prove generali di quella tragedia dello spirito europeo, che ancor oggi non accenna a esaurirsi. Lo scenario dove le aporie culturali e le potenzialità formali si distinguono con maggiore nitore è l'attività letteraria, intensa, convulsa, multiforme, che travolge come un fiume in piena i luoghi consacrati alla cultura, dando vita a una temperie spirituale di continua esaltazione e di costante emergenza. Una trasformazione culturale senza sosta ha luogo nei prestigiosi saloni dell'Opera - il massimo tempio mondiale del melodramma - e al foyer del Burgtheater - il più autorevole santuario della drammaturgia in lingua tedesca - per invadere gli eleganti salotti dell'aristocrazia o della borghesia ebraica (famoso quello dei Wertheimstein) per insediarsi stabilmente nei caffè del primo distretto, tra cui il mitico Griensteidl sui cui divanetti di cuoio cremisi sorge la più vivace scuola poetica dell'epoca, lo Jung-Wien, animato da Bahr con Hofmannsthal e Schnitzler. CAFÉ GRIENSTEIDL Al di là della volontà di rottura e innovazione il gruppo rappresenta una esperienza letteraria, vieppiù consolidata, di sostanziale continuità di motivi e stilemi della tradizione artistica austriaca (egemonizzata dalla musica e dal linguaggio teatrale) e di audaci innovazioni, mutuate dagli impressionisti e simbolisti francesi. Gli esperimenti poetici dello Jung-Wien prendono le mosse da quel diffuso gusto neorinascimentale in cui si salda il presente al passato. Con l'assimilazione degli stimoli poetici colti dai drammi crepuscolari di von Saar maturano quelli delicatissimi ed estenuati del giovane Hofmannsthal. ANTON WEBERN nonché, parallelamente, dal fecondo sodalizio tra Richard Strauss e Hugo von Hofmannsthal e dalla straordinaria perfezione tecnica delle esemplari esecuzioni operistiche e concertistiche. All'egemonia musicale si aggiunge l'irripetibile stagione letteraria dello Jung-Wien che, sorto sulle rovine precoci del naturalismo tedesco si protrae fino al fosco tempo della sopraffazione nazionalsocialista (avvenuta con l'entusiastico consenso della maggioranza popolare). L'Anschluss nel marzo 1938 pone fine alla prima repubblica e contemporaneamente alle estreme propaggini della letteratura della Grande Vienna. Dopo di che la letteratura austrotedesca rientra nella «normalità» germanica con l'omologazione estetica e ideologica hidenana in un'Austria smembrata, in cui pur tuttavia opera Josef Weinheber, l'unico autentico lirico del Terzo Reich, che si toglie la vita con tragica coerenza l'otto aprile 1945 alla vigilia dell'occupazione sovietica del paese e nella drammatica consapevolezza di aver legato il proprio destino a una causa sciagurata. Le lettere austriache vengono riscattate in quei sette anni di dittatura dai numerosi scrittori e artisti esuli in tutto il resto del mondo ancora libero. Emblematico tra gli emigrati è il destino di Stefan Zweig, l'autore ebreo viennese che nell'esilio brasiliano, cui pone fine il 23 febbraio 1942 con il suicidio, scrive la più appassionata rievocazione della Grande Vienna con Il mondo di ieri, un intramontabile capolavoro di prosa nostalgica. Sulle ceneri materiali e spirituali del nazismo sorge nel 1945 la seconda repubblica austriaca in cui finalmente gli austriaci si identificano, dismesse le impossibili velleità restauratrici, nonché abbandonate le tentazioni di confluire in una grande Germania. La nuova identità austriaca si costruisce nel riconoscimento della propria storicità, dei propri problemi specifici e della propria tradizione, distinta e autonoma da quella tedesca. Con la seconda repubblica prende le mosse una civiltà artistica di vigorosa vivacità, confermata da una notevole fioritura letteraria, autocritica in quanto maturata nell'amara accettazione della realtà storica contemporanea, segnata dal consenso austriaco al nazismo. Questa nuova stagione letteraria è segnata da esperienze ed esiti significativi con opere e autori di rilievo mondiale come Ingeborg Bachmann, Thomas Bernhard, Peter Handke fino ai più recenti Eifride Jelinek, Christoph Ransmayr, Robert Schindel e Robert Schneider per indicare almeno i più affermati, che non esauriscono l'ampia gamma di scrittori e gruppi attivi nell'Austria attuale, che ha reciso le linfe della nostalgia, assumendo intelligentemente il nucleo vitale della tradizione quando Vienna era il centro della civiltà artistica e letteraria di tutta l'Europa centrale. |