ROBERT SCHUMANN




SCRITTI SULLA MUSICA E I MUSICISTI
1834-1837


PREFAZIONE DI LUIGI RONGA


Verso la fine del 1833, ogni sera e come per caso, si trovò insieme in Lipsia, un certo numero di musicisti giovani in gran parte, dapprima in socievole riunione, e poi per uno scambio di pensieri sull'arte ch'era cibo e bevanda della loro vita, - la Musica. Non si può dire che le condizioni musicali del tempo in Germania fossero molto felici. Sulla scena dominava ancora Rossini, nel pianoforte quasi esclusivamente Herz e Hünten. Eppure erano trascorsi pochi anni soltanto dacché fra noi eran vissuti Beethoven, Carl Maria von Weber e Franz Schubert. A dire il vero, l'astro di Mendelssohn era in ascesa e di un polacco, Chopin, si divulgavano cose meravigliose, ma costoro soltanto più tardi esercitarono una durevole influenza. Allora, un bel giorno, un pensiero attraversò le giovani teste calde: di non starsene a contemplare oziosamente, ma di dar opera perché migliorasse, perché tornasse in onore la poesia dell'arte. Così nacquero i primi fogli di una nuova Rivista Musicale. Ma la gioia per la stretta unione di questa lega di giovani forze non durò a lungo. La morte richiese una vittima in uno dei più cari compagni, Ludwig Schunke. Degli altri, alcuni si allontanarono, via via, per sempre da Lipsia. L'impresa era in procinto di sciogliersi. Allora uno di loro, proprio il "fantastico musicale" della compagnia, che fino a quel tempo aveva trascorso la sua vita più sognando al pianoforte che fra i libri, si risolse a prendere la direzione della redazione, e la tenne per una diecina d'anni fino al 1844. Così nacque una serie di saggi, di cui questa raccolta dà una scelta. La maggior parte delle vedute qui esposte è condivisa ancor oggi dall'autore. Quanto egli sperando e temendo aveva espresso su qualche manifestazione artistica, s'è avverato nel corso del tempo.
E qui sia fatta ancor menzione d'una lega ch'era più che segreta, perché esisteva soltanto nella testa del suo fondatore, la Lega dei Fratelli di Davide. Per portare a discussione diversi aspetti della concezione musicale, sembrò che non fosse fuori luogo inventare opposti caratteri artistici, di cui Florestano ed Eusebio erano i più importanti, e fra loro stava nel giusto mezzo Maestro Raro. Questa Lega dei Fratelli di Davide s'intrecciò attraverso la Rivista come un filo rosso, legando "Verità e Poesia" in guisa umoristica. Più tardi, scomparvero completamente dalla Rivista quei compagni che dai lettori d'allora non eran visti malvolentieri e da quel tempo in cui una "Peri" li sottrasse in piaghe remote, della loro attività di scrittori nulla s'è più venuto a sapere.
Se dunque questi fogli raccolti, che riflettono un tempo assai movimentato, potessero anche concorrere a volger gli sguardi dei contemporanei su qualche manifestazione artistica già quasi travolta dai flutti del presente, lo scopo dell'edizione sarebbe pienamente conseguito.
Poiché, del resto, nella successione dei saggi è mantenuto l'ordine cronologico, questo addurrà agli occhi dei lettori un quadro della crescente vita musicale di quegli anni, che sempre più si elevava e si purificava.


SCRITTI SULLA MUSICA E I MUSICISTI
1834 ED ANNI PRECEDENTI

UN'OPERA II
[Questo articolo apparve nel 1831 nella«Gazzetta universale di musica». Essendo
il primo in cui si mostrano i fratelli di Davide, possa trovare qui accoglienza. Sch.]

L’altro giorno Eusebio entrò leggermente in camera nostra. Tu conosci l'ironico sorriso del suo pallido volto, con cui cerca d'eccitare l'attenzione. Io sedevo con Florestano al pianoforte. Florestano è, come tu sai, uno di quei rari musicisti che presentono tutto ciò ch'è da venire, di nuovo e di straordinario. Ma oggi l'aspettava una sorpresa. Con le parole «Giù il cappello, signori; un genio» Eusebio ci mise innanzi un pezzo di musica: non ci consentiva di vederne il titolo. Io sfogliai, a caso, il fascicolo: questo velato piacere di goder la musica senza suoni, ha qualcosa di magico. Inoltre, mi pare, ogni compositore offre all'occhio i suoi particolari disegni di note: Beethoven, sulla carta appare diverso da Mozart come all'incirca la prosa di Jean Paul differisce da quella di Goethe.
Ma qui mi parve che mi guardassero meravigliati tanti occhi del tutto sconosciuti: occhi di fiori, occhi di basilisco, occhi di pavoni, occhi di ragazze: in più luoghi la cosa diventava più chiara - credeva di vedere il 'Là ci darem la mano' di Mozart, attraversato da cento accordi; mi sembrava che proprio Leporello ammiccasse e Don Giovanni volasse dinanzi a me nel bianco mantello. «Suona, dunque» disse Florestano. Eusebio acconsentì e noi ci mettemmo ad ascoltare nel vano d'una finestra. Eusebio suonava come ispirato facendoci sfilare innanzi innumerevoli forme della più vivace vitalità: così come se l'ispirazione del momento sollevasse le dita oltre l'abituale misura della loro capacità. Veramente, tutta l'approvazione di Florestano, tolto un beato sorriso, consistette soltanto nelle parole che le variazioni potevano essere di Beethoven o di Franz Schubert, se questi fossero stati in ispecial modo virtuosi del pianoforte; ma com'egli voltò la pagina del frontespizio, null'altro vi lesse che: «Là ci darem la mano, varié pour le Pianoforte avec acc. d'Orchestre par Frédéric Chopin, Oeuvre 2» e tutt'e due esclamammo maravigliati: «Un'opera 2!»; allora i visi s'infiammarono di stupore inconsueto e fra le varie esclamazioni si potevano distinguere queste frasi: «Sì, ecco finalmente qualcosa di ragionevole - Chopin non ho mai udito questo nome - chi può essere? - ad ogni modo - un genio - non ridono là proprio Zerlina o Leporello?»
Così avvenne una scena che non voglio descrivere. Scaldati dal vino, da Chopin e dal nostro parlare a dritto e a rovescio, ci recammo da Maestro Raro, che rise molto e mostrò poca curiosità per questa opera 2: «Perché già troppo conosco voi e il vostro entusiasmo moderno! - Ma portatemi pure questo Chopin». Noi glielo promettemmo per l'indomani. Eusebio diede tosto tranquillamente la buona notte: io rimasi un po' da Maestro Raro; Florestano, che da qualche tempo non ha un'abitazione sua, volò a casa mia per la viuzza illuminata dalla luna.
A mezzanotte lo trovai nella mia stanza disteso sul divano, con gli occhi chiusi. «Le variazioni di Chopin» cominciò come in sogno «mi girano ancora pel capo: certo» continuò «il tutto è drammatico e notevolmente "chopiniano"; l'introduzione, per quanto sia conchiusa in se stessa - ti ricordi dei salti di terze di Leporello? - mi sembra che meno s'accordi coll'insieme; ma il tema - perché poi l'ha scritto in si bemolle? - le variazioni, il finale e l'adagio, sono davvero qualcosa! - il genio sbircia qui da ogni battuta. Naturalmente, caro Giulio, Don Giovanni, Zerlina, Leporello e Masetto sono i caratteri che parlano - la risposta di Zerlina nel tema è assai innamorata, la prima variazione si potrebbe forse definire un po' signorile e civettuola - il grande di Spagna scherza qui molto amabilmente con la contadinotta. Ma questo si modifica nella seconda, ch'è già più confidente, più comica, più litigiosa, come quando due innamorati cercano di ghermirsi e ridono più del consueto. Ma come tutto si muta nella terza! qui v'è tutto un chiarore di luna e un incanto di fate; Masetto se ne sta, a dire il vero, lontano e impreca in modo intelligibile, ma Don Giovanni se ne lascia turbare ben poco. - Ora, della quarta, che ne dici? - Eusebio l'ha suonata tutta con purezza - come balza ardita e sfrontata e come va dritta allo scopo, e l'adagio [mi par naturale che Chopin ripeta qui la prima parte] in si bemolle minore, non potrebbe accordarsi meglio con l'insieme, poiché con aria moraleggiante rammenta a Don Giovanni le sue azioni - e certo è male, ma grazioso, che Leporello aguzzi gli orecchi, rida e beffeggi dietro il cespuglio, e che gli oboi ed i clarinetti lusinghino e zampillino magicamente e che lo sbocciante si bemolle maggiore indichi proprio il primo bacio d'amore. Ma tutto questo è niente a confronto dell'ultima variazione - hai ancora del vino Giulio? - questo è il finale tutto intero di Mozart - turaccioli di champagne che saltan tutti, bottiglie che tintinnano, e in mezzo la voce di Leporello, poi gli spettri che ghermiscono, Don Giovanni sfuggente - e poi il finale che s'acquieta magnificamente e suggella l'opera.» In Svizzera soltanto egli aveva avuto, concluse Florestano, una sensazione simile a quella provata in questo finale. Cioè, quando nelle belle giornate il sole al tramonto sale sempre più in alto sulle ultime cime dei monti ed infine scompare l'ultimo raggio, viene un momento in cui pare di vedere i bianchi giganti delle Alpi chiudere gli occhi. Si ha l'impressione d'aver avuto una visione celeste. «Ma ora svegliati anche tu per nuovi sogni, Giulio, e dormi!» «Mio caro Florestano» risposi «questi sentimenti personali son forse da lodare, sebbene siano alquanto soggettivi; ma per quanto poca intenzione abbia bisogno Chopin di ascoltare attentamente il suo genio, io piego egualmente il capo dinanzi a un tal genio, a una tale aspirazione, a una tale maestria.» E su questo ci addormentammo.

Giulio

DAL TACCUINO DI PENSIERI E DI POESIA
DI MAESTRO RARO, DI FLORESTANO E DI EUSEBIO

Come un giovane studente di musica alla prova dell'ottava sinfonia di Beethoven seguiva attentamente la partitura, Eusebio disse: «Dev'esser un buon musicista!». «Nient'affatto» ribatté Florestano «è un buon musicista colui che intende un passo di musica senza partitura, e una partitura senza musica. L'orecchio non deve aver bisogno dell'occhio e l'occhio dell'orecchio [esterno].» «È un'alta esigenza questa» concluse Maestro Raro «ma di cui ti lodo, Florestano!»


DOPO LA SINFONIA IN RE MINORE

Io sono il cieco che sta dinanzi alla cattedrale di Strasburgo, che ode suonar le campane, ma non trova l'entrata. Lasciatemi in pace, o giovani, io non capisco più gli uomini.
Voigt [Appassionato dilettante di musica, in special modo di quella beethoveniana]

Chi biasimerà il cieco, s'egli sta dinanzi alla cattedrale e non sa dir nulla? Basta che si tolga devotamente il cappello quando di sopra suonan le campane.
Eusebio

Amatelo anzi, amatelo moltissimo - e non dimenticate ch'egli è giunto alla libertà poetica per il cammino d'uno studio durato lunghi anni e onorate la sua forza morale che non ha mai avuto posa. Non ricercate in lui l'anormale, ritornate agli elementi primi del suo creare, argomentate il suo genio non dall'ultima sinfonia, per quanto essa esprima cose così ardite e inaudite che nessuna lingua prima ha osato - ma altrettanto bene potrete dedurre il suo genio dalla prima sinfonia o da quella grecamente slanciata, in si bemolle maggiore. Non sollevatevi sulle regole che non avete ancora sviscerato a fondo. Non v'è nulla di più pericoloso di questo, e anche qualcuno di minor ingegno potrebbe umiliandovi trarvi la maschera, in un secondo momento dell'incontro...
Florestano

E quand'essi ebbero finito, il Maestro disse con voce quasi commossa: «Ed ora, basta! Lasciateci dunque amare quell'alto spirito, che guarda in gita, con amore inesprimibile, alla vita, che a lui diede così poco. Io sento che noi oggi gli siamo stati più vicino del solito. O giovani, avete davanti a voi una via lunga e difficile: aleggia in cielo una strana tinta di rosso, non so se di crepuscolo o di aurora. Fate che diventi luce!».
Le sorgenti vengono sempre più avvicinate nel grande corso del tempo. Beethoven, ad esempio, non ebbe bisogno di studiare tutto ciò che aveva studiato Mozart, Mozart non tutto quello che aveva studiato Haendel, Haendel non quello di Palestrina, perché essi avevano già assorbito in sé i predecessori. Da uno soltanto tutti potrebbero attingere di nuovo, da J. S. Bach!
Florestano

Non serve a nulla che voi mettiate ad un giovane scapestrato una veste da camera del nonno e una lunga pipa nella bocca, affinché diventi più posato e piú ordinato. Lasciategli i riccioli svolazzanti e il suo leggero vestito!
Florestano

Non posso soffrire coloro la cui vita non è in armonia con le opere.
Florestano


RECENSORI

La musica eccita gli usignoli al canto d'amore, i botoli a guaire.
Uva acerba, vino cattivo.
Essi segano il legno da lavoro, riducono la quercia superba in trucioli.
Come gli Ateniesi, annunziano la guerra con delle pecore.
La musica parla il linguaggio più universale, da cui l'anima è liberamente, indeterminatamente eccitata; ma essa si sente nella sua patria.


PLASTICI

Magari finirete per udire nascer l'erba nella Creazione di Haydn!
Florestano

L'artista dovrebbe trattare gentilmente con gli uomini e con la vita, come un dio greco; soltanto se si osasse toccarlo dovrebbe scomparire e non lasciar dietro di sé altro che nuvole.
Florestano

E il segno dello straordinario quello di non venir compreso ogni giorno; per comprendere il superficiale i più son sempre disposti: ad esempio, a udire cose da virtuosi.
Eusebio

Accade nella musica come nel gioco degli scacchi. La regina [melodia] ha il massimo potere, ma il colpo decisivo dipende dal re [armonia].
L'artista si tenga in equilibrio con la vita; altrimenti si troverà in una posizione difficile.
Florestano

C'è in ogni bimbo una profondità meravigliosa.


CLARA

Ella ha tratto via presto il velo d'Iside. Il fanciullo alza lo sguardo tranquillamente, - l'adulto verrebbe forse accecato dallo splendore.
Eusebio


IL GENIO

Al diamante si perdonano le punte; è troppo costoso arrotondarle.
Florestano

Una voce che biasima ha una robustezza di suono maggiore di dieci voci che lodano.
Florestano

Purtroppo
Eusebio

Chi una volta s'è posto dei limiti, da lui si richiede purtroppo che vi rimanga sempre dentro.
Raro


I PURITANI DELLA MUSICA

Sarebbe un'arte ben piccola, se risuonasse soltanto e non avesse un linguaggio né dei segni per gli stati d'animo!
Florestano

Gli anticromatici dovrebbero riflettere che c'è stato un tempo in cui la settima faceva specie come adesso all'incirca un'ottava diminuita, e che mediante lo sviluppo dell'armonia la passione prendeva delle sfumature più tini; a causa di ciò la musica veniva allineata fra le arti più alte che per tutti gli stati d'animo hanno scrittura e mezzi d'esprimersi.
Eusebio

Psiche in riposo colle ali ripiegate ha soltanto una mezza bellezza; deve librarsi nell'aria!
Eusebio


CHOPIN

Sono diverse le cose ch'egli osserva, ma come le osserva è sempre nello stesso modo.
Florestano

Accordo perfetto tempi. La terza concilia passato e avvenire come presente.
Eusebio

Audace paragone!
Raro

Perdonate agli errori della gioventù! Ci sono pur dei fuochi fatui che mostrano al viandante la via giusta, cioè quella ch'essi non fanno.
Florestano

Si guarda alle opere di gioventù di coloro che son divenuti maestri con tutt'altro occhio che a quelle di altri, in sé altrettanto buone, ma che hanno soltanto promesso e non mantenuto.
Raro

È sorprendente che ile debolezze, i difetti che da ragazzi già si osservava negli altri, si mostrino più tardi come manifeste mancanze di genio, debolezze d'ingegno, ecc.
Raro

Può l'ingegno prendersi le libertà del genio?
Eusebio

Si; ma quello fallisce dove questo trionfa.
Raro

La testa più insipida può nascondersi dietro a una fuga. Le fughe sono cose dei più grandi Maestri soltanto.
Raro

Si pensi un po' quali circostanze devono riunirsi se si vuole che il bello sorga nella sua più piena dignità e magnificenza! Noi esigiamo per questo: 1º grande, profonda intenzione, idealità d'opera d'arte; 2º entusiasmo della rappresentazione; 3º virtuosità d'esecuzione, insieme armonico come da un'anima sola; 4º intimo desiderio e bisogno di chi dà e di chi riceve, la più felice disposizione d'animo del momento [da ambedue le parti, dell'ascoltatore e dell'artista]; 5º la più felice costellazione delle condizioni del tempo, come pure del più particolare momento delle circostanze secondarie, spaziali, ed altre; 6º direzione e partecipazione dell'impressione, dei sentimenti, delle vedute - riflesso della gioia artistica nell'occhio altrui. - Una tale coincidenza non è un getto di sei dadi con sei volte sei?
Eusebio


OUVERTURE PER LA "LEONORA"

Pare che Beethoven abbia pianto quando essa, eseguita per la prima volta, a Vienna, spiacque, quasi completamente, - Rossini, tutt'al più, avrebbe riso in un simile caso. Egli si lasciò indurre a scrivere la nuova in mi maggiore, che potrebbe esser fatta egualmente da un altro compositore. Tu sbagliasti, o Beethoven, - ma le tue lagrime furono nobili.
Eusebio

La prima concezione è sempre la più naturale e la migliore. L'intelletto sbaglia, il sentimento no.
Raro

Non tremate, voi mestieranti d'arte, per le parole che Beethoven pronunciò sul letto di morte: «Io credo d'esser al principio», o come Jean Paul: «Mi sembra di non aver scritto ancor nulla».
Florestano

L'ingegno lavora, il genio crea.
Florestano


CRITICHE E RECENSORI

L'occhio armato vede stelle, dove quello disarmato scorge soltanto ombre di nebbia.
Florestano

il musicista colto potrà studiare una Madonna di Raffaello colla stessa utilità con cui il pittore studierà una sinfonia di Mozart. Ancor più: allo scultore ogni attore apparirà come una statua tranquilla, a questa le azioni di quello darà forme di vita; al pittore la poesia diventerà immagine, il musicista trasformerà i quadri in suoni.
Eusebio

L'estetica di un'arte è quella delle altre; soltanto il materiale è diverso.
Florestano

Che nella musica, romantica in sé, possa formarsi una speciale scuola romantica, è difficile di credere.
Florestano

Non è sufficiente che il giovane elabori la vecchia forma classica dei maestri nel suo spirito; occorre anche elaborarla nel loro.
Eusebio

La musica è l'arte che s'è sviluppata più tardi; i suoi inizi furono le semplici disposizioni della gioia e del dolore [modo maggiore e minore]; anzi il meno colto non pensa che possano esistere passioni più determinate, perciò gli è così difficile la comprensione di tutti i maestri più individuali [di Beethoven, di Franz Schubert]. Con l'approfondirsi nei segreti dell'armonia si è riusciti ad esprimere le più fini sfumature del sentimento.
Eusebio

Se vuoi conoscere l'uomo, chiedigli chi sono i suoi amici, cosí se vuoi giudicare il pubblico, guarda che cosa applaude, - guarda anzi che fisionomia assume in genere dopo ciò che ha udito...

Il giudizio, o Florestano, per cui tu dici di amar meno l'Eroica e la Pastorale pel fatto che Beethoven stesso le ha denominate così, ponendo dei limiti alla fantasia, mi sembra che sia fondato su una giusta impressione. Ma se tu mi chiedi: perché? non saprei risponderti.
Eusebio


MODESTIA SFACCIATA

Il modo di dire "L'ho messa nella stufa", nasconde nel fondo una modestia molto sfacciata: il mondo non sarà ancora infelice per un'opera mal riuscita... Non posso soffrire gli uomini che metton nella stufa le loro composizioni.
Florestano


SULLA COMPOSIZIONE

Sovente possono esservi due varianti d'uguale valore.
Eusebio

La prima è generalmente la migliore.
Raro

Chi ha troppa preoccupazione di conservare la sua originalità, è quasi sempre in procinto di perderla.
Eusebio

1835
PER L'APERTURA DELL'ANNATA

Il nostro discorso del trono è breve. A dire il vero, ad ogni primo di gennaio i giornali sogliono promettere molte cose, ma senza avere in mano l'annata futura. Il lettore si spieghi il motto di Shakespeare, che già un tempo iniziava questi fogli da noi pubblicati [«quelli, che vengono per sentire soltanto cose dilettevoli, e il rumore degli scudi, o per vedere un uomo in abito variopinto e guarnito di giallo - quelli, sbagliano...» (Prologo dell'Enrico VIII)], in un modo che ci possa conservare la sua benevolenza. Se abbiamo completamente adempiuto alle nostre promesse e abbiamo corrisposto all'aspettazione, che l'ampio progetto doveva invero far crescere di molto, non vogliamo decidere noi. Nel riconoscere il carattere giovanile della nostra impresa forse stanno le obbiezioni che si potrebbero fare. In sostanza, il corpo e lo spirito - e voglia il Cielo regalare quest'ultimo a quello - rimarranno in avvenire i medesimi. Ci resta ancora da spiegare quel che riguarda la continuazione della parte critica di questi fogli.
L'epoca dei complimenti reciproci s'avvia poco per volta verso la tomba; confessiamo che non vogliamo concorrere in nessun modo alla sua rinascita. Chi non ha il coraggio di attaccare a fondo il lato cattivo d'una cosa, difende il bene soltanto a metà. O artisti, specialmente voi, compositori, non potete credere come eravamo felici quando potevamo lodarvi senza misura. Conosciamo benissimo il linguaggio col quale si dovrebbe parlare dell'arte nostra, - quello della benevolenza; ma con tutta la buona volontà non sempre si può lasciar agire la benevolenza, se si deve favorire gli ingegni o tener indietro i non ingegni.
Nel breve tempo della nostra attività abbiamo fatto parecchie esperienze.
I nostri principi erano stati stabiliti sin dall'inizio. Essi sono semplici, e cioè: ricordare con insistenza l'epoca antica e le sue opere, attirare l'attenzione sul fatto, che solo ad una sorgente cosi pura si possano rafforzare nuove bellezze artistiche - in seguito combattere il tempo recentemente trascorso, come un tempo anti-artistico, perché non aveva altro intento all'infuori di aumentare la virtuosità esteriore - preparare e affrettare l'avvento, infine, d'una nuova epoca poetica.
Una parte del pubblico ci ha compreso ed ha riconosciuto che imparzialità e prima di tutto vivo interessamento hanno guidato i nostri giudizi.
Un'altra parte non v'ha nemmeno badato e stava aspettando tranquillamente il principio della fine di tutta questa storia.
Sarebbe, del resto, addirittura inesplicabile, come si pretendeva da noi, discutere di cose che per la critica non esistono più che tanto.
Una terza parte chiamava il nostro sistema indelicato, pedante.
Per ciò che riguarda questa opposizione non vogliamo ammettere delle ragioni basse, ma quelle più nobili e cioè che i nostri compagni d'arte in genere non sono esteriormente i più ricchi e non si dovrebbe amareggiare loro quanto occorre al sostentamento della vita sovente acquistato con tanta fatica, scoprendo un avvenire senza gioia, o che è doloroso sapere, dopo aver fatta una lunga strada, che non si è presa la giusta; perché noi sappiamo benissimo come il musicista, e del resto qualsiasi artista, non dovrebbe dedicarsi, senza danno per la sua arte, a nessun'altra occupazione che nella vita civile potrebb'essergli di sostegno.
Ma non vediamo in che cosa noi dovremmo essere superiori alle altre arti ed alle altre scienze i cui partiti si trovano apertamente in isfida l'uno contro l'altro, né come potrebbe esser compatibile con l'onore dell'arte e con la verità della critica, lo starsene a contemplare tranquillamente i tre nemici giurati dell'arte nostra e delle altre, cioè i privi d'ingegno, gli ingegni dozzinali [non troviamo altra parola migliore], e infine gli scribacchini pieni d'ingegno. Nessuno deve credere che noi avessimo, per esempio, qualcosa contro certe celebrità della giornata. Queste han valore, perché riempiono perfettamente i posti che son loro destinati dal possente genio dei tempi. Esse sono inoltre, come purtroppo bisogna confessare a se stessi, i capitali con cui gli editori [e costoro devono ben esserci] coprono in parte la perdita che spesso subiscono nella produzione di opere classiche. Ma almeno tre quarti delle altre celebrità sono contraffatte, indegne di essere pubblicate. La folla è coperta fino ai capelli di note, si confonde, scambia l'una cosa per l'altra; così si ruba inutilmente il tempo all'editore, allo stampatore, all'incisore, all'esecutore e all'auditore. Ma l'arte deve essere qualcosa di più d'un gioco o d'un passatempo. -
Queste furono le nostre vedute sin dall'inizio di questa rivista, e le facemmo balenare qua e là, senza però esprimerle decisamente, perché speravamo che in parte le opere di qualche giovane e nobile spirito che era nostro dovere proteggere, e in parte un'omissione premeditata di tutti quei "conglomerati" comuni, avrebbero soppresso la mediocrità nel modo più rapido. Confessiamo che più tardi giungemmo ad un dilemma. Molti lettori avranno notato e si saranno lamentati che lo spazio da noi destinato alla critica non stava in relazione al numero delle opere pubblicate; così non erano messi in grado di farsi un'idea di tutte le pubblicazioni, sia buone che cattive. Erano i tre principali nemici, di cui sopra abbiam detto, che rendevano questo difficile. Ma perché il lettore raggiungesse un punto di vista da cui potesse veder tutto intorno a sé come in un cerchio, dovevamo pensare di trovare un modo che non pregiudicasse la discussione del necessario e dell'importante.
Le singole opere di queste tre classi hanno fra di loro tanta somiglianza [appartengono alla prima quelle prive di vita, alla seconda quelle frivole, alla terza quelle dei mestieranti] che, caratterizzando una sola composizione, si potrebbe descrivere tutta la classe nei suoi tratti fondamentali. Quindi, dopo esserci consultati con artisti, ai quali sta a cuore tanto la vita dell'artista quanto l'elevazione dell'arte, vogliamo tener pronte per quelle composizioni che, non secondo una sola opinione, ma secondo il coscienzioso convincimento di tanti si possono registrare in una delle classi suddette, tre uniche recensioni stereotipe, sotto le quali non si metterà altro che i titoli delle composizioni. Non occorre assicurare quanto noi desideriamo che questo elenco sia il più breve possibile e che discuteremo a parte ed in articoli più o meno lunghi tutto ciò che si distinguerà, anche soltanto per un piccolo tratto felice.
Cominci dunque l'annata nuova questa confessione! Si dice sovente: "L'anno nuovo, un anno vecchio", ma noi vogliamo sperare un anno migliore.


DISCORSO DI CARNEVALE DI FLORESTANO
[Tenuto dopo un'esecuzione dell'ultima sinfonia di Beethoven.]

Florestano salì sul pianoforte a coda e disse:
«O Fratelli di Davide qui raccolti, giovani e adulti, che volete morti i Filistei, quelli musicali e gli altri ancora!...
«Io non fantastico mai, ottimi amici! In verità, io conosco questa sinfonia meglio di me stesso. Non spenderò parole su di essa. Ogni parola suonerebbe noiosissima in proposito, o Fratelli di Davide. Ho celebrato dei veri Tristia d'Ovidio, ho seguito corsi d'antropologia. È difficile essere intolleranti in molte cose, è difficile atteggiare molto spesso il volto alla satira, è difficile sprofondarsi abbastanza nella navicella d'un pallone come il Gianozzo di Jean Paul, affinché gli uomini non s'illudano che ci si curi di loro; tanto profondamente, dico, da vedere gli uomini così in basso da sembrare certe figure a due gambe in gola così stretta che tutt'al più si può chiamare la vita.
«Certo non mi arrabbiavo per quel poco che potevo udire. Ho riso soprattutto di Eusebio: è stato un vero briccone a prendersela in tal modo con quell'uomo grosso. Questi gli aveva difatti chiesto pien di mistero: "Beethoven non ha scritto pure una sinfonia di guerra, signore?". "È appunto la sinfonia pastorale, signore" rispose il nostro Eusebio indifferente.
«'Ah, ah, benissimo...'
«L'uomo deve certo aver bisogno d'un naso, altrimenti Dio non gliel'avrebbe dato. Ma, questi pubblici, sopportano molte cose ed in proposito potrei riferirvi i casi più magnifici; ad esempio, quando voi, Kniff, mi voltavate i fogli al concerto, durante un notturno di Field. La metà del pubblico s'era già sprofondata nel suo intimo, cioè dormiva. Per disavventura, in quel pianoforte a coda ch'era uno dei più decrepiti che mai avessero vibrato davanti ad un uditorio, acchiappai invece del pedale il tamburo di marcia turco, abbastanza piano per fortuna per non lasciarmi sfuggire questo suggerimento del caso e far credere così al pubblico che si udisse in lontananza una specie di marcia, che io ripetei di tempo in tempo con colpi leggeri. Naturalmente, Eusebio fece del suo meglio per divulgare l'incidente; ma il pubblico scoppiò in applausi.
«Mi venne in mente una quantità di storielle di questo genere durante l'adagio, quando cominciò il primo accordo dell'ultima parte. "Questo che cos'è poi altro, Cantor"
[Il Cantor è l'organista delle chiese tedesche: quindi, per sua natura, ligio alle vecchie regole] dissi ad un tale che fremeva accanto a me "se non un accordo perfetto con una quinta presentata in un rivolto un po' inconsueto, giacché non si sa se si deve prendere come basso il la dei timpani o il fa dei contrabbassi? Veda un po' il Turk [Daniel Gottlob Turk (1770-1813), reputato trattatista e teorico del suo tempo], cap. XIX, pagina 7!"
«'Ah, signore, Lei parla molto arditamente e scherza di certo!' Con vece sommessa e satanica gli soffiai nell'orecchio: 'Cantor, si guardi dai temporali! Il fulmine non manda innanzi a sé un servitore in livrea prima di scoppiare, tutta! più lo precede un uragano e lo segue poi un colpo di tuono. Questa è la sua maniera'. 'Dissonanze simili però, devono essere preparate...' E in questo momento ne irrompeva già un'altra. Cantor, la bella settima di trombe vi perdona!
«Io era completamente esausto dalla mia dolcezza, tanto aveva accarezzato bene coi miei pugni.
«Poi mi procurasti un bel minuto di gioia, o direttore d'orchestra, quando indovinasti così magnificamente il tempo del tema profondo dei bassi: allora di nuovo dimenticai gran parte della mia collera durante il primo tempo, in cui nonostante il velo modesto della scritta un poco maestoso dice ben tutto il lento incedere della maestà d'un Dio.
«'Che cosa avrà voluto dire Beethoven con questi bassi?' 'Signore' risposi con molta pena 'i genii soglion fare degli scherzi; è come un canto di guardiano notturno.' Il bel minuto era trascorso e Satana nuovamente libero. Ed io guardavo questi beethoveniani che stavano cogli occhi spalancati e dicevano: 'Questo è del nostro Beethoven, è un'opera tedesca nell'ultimo tempo c'è una fuga doppia - gli si rimproverò di non saperne fare di simili - ma come l'ha fatta! - sí, è il nostro Beethoven!'. Un altro coro erompeva: in quest'opera sembra che sian racchiusi tutti i generi di poesia: nel primo tempo l'Epos, nel secondo l'umorismo, nel terzo la lirica, nel quarto [che è il miscuglio di tutti] il dramma. Un altro ancora si mise addirittura a lodarlo: ch'era una opera gigantesca, colossale, paragonabile alle Piramidi d'Egitto. Altri ancora raffiguravano che la sinfonia rappresentasse la storia della nascita dell'uomo - prima il Caos poi il comandamento della Divinità "Sia la luce!" poi il sole che si leva sul primo uomo, rapito da un tale splendore - in breve, ch'essa era tutto il primo capitolo del Pentateuco.
«Io diventavo più furente e più silenzioso. E come li vidi seguire attentamente il testo e alla fine scoppiare in applausi, presi Eusebio per il braccio e lo trascinai fino al fondo della scala rischiarata tutt'attorno da visi sorridenti.
«Sotto, nella penombra delle lanterne, Eusebio disse come fra sé: 'Beethoven - che cosa c'è in questa parola! già la profonda sonorità delle sillabe sembra vibrare come nell'eternità. Sembra che non vi possano essere altre lettere per questo nome'. 'Eusebio' dissi veramente tranquillo 'hai il coraggio di lodare anche tu Beethoven? Egli si sarebbe drizzato come un leone davanti a voi e vi avrebbe chiesto: Chi siete voi dunque, che osate questo? Non parlo a te, Eusebio, tu sei un brav'uomo - ma un grand'uomo deve aver sempre nel suo seguito migliaia di nani? Ma costui che tante aspirazioni ha avuto in vita, che ha lottato in ammirevoli combattimenti, credono proprio di capirlo quando sorridono e applaudono rumorosamente? Proprio loro, che non possono rendersi conto della più semplice legge musicale, vogliono sollevarsi a giudicare nell'insieme un maestro? Costoro, ch'io metto tutti in fuga se lascio soltanto cadere la parola contrappunto - costoro, che dopo aver sentito questo o quel brano gridano subito: oh questo è fatto proprio per il nostro corpus - costoro, che vogliono parlare d’eccezioni, di cui non conoscono le regole - costoro, che apprezzano di lui non la misura nelle forze, del resto gigantesche, ma proprio l'eccesso - superficiali uomini di mondo - dolori di Werther ambulanti - veri sciupati fanciulli presuntuosi - proprio costoro, dico, vogliono amarlo, anzi lodarlo?'
«O Fratelli di Davide, per il momento non conoscerei nessuno che ne avesse più diritto di un certo signorotto slesiano, che scrisse a un venditore di musica la lettera seguente:

«'Egregio Signore,
tosto avrò messo in ordine la mia biblioteca musicale. Dovreste vedere com'è bella. Colonne d'alabastro all'interno, specchi con tendine di seta, busti di compositori, magnifica insomma. Ma per adornarla nel modo più prezioso, vi prego d'inviarmi ancora le opere complete di Beethoven, perché mi piace molto.'
Ma che cosa ancora dovrei dire, proprio non saprei...»


UNA SINFONIA DI BERLIOZ

La molteplice materia che questa sinfonia offre alla riflessione potrebbe in seguito intricarsi molto facilmente, perciò preferisco analizzarla nelle sue singole parti, anche se una di esse sovente, per essere capita, abbia bisogno d'un'altra; e specialmente secondo i quattro punti di vista dai quali si può considerare un'opera musicale: cioè secondo la forma dell'insieme, la composizione musicale [armonia, melodia, disposizione, esecuzione, stile], le idee particolari, che l'artista voleva rappresentare, lo spirito, infine, che ha dominato forma, materia e idea.
La forma è il vaso dello spirito. Per essere riempiti, i grandi vasi hanno bisogno d'un grande spirito. Col nome di "sinfonia" finora s'è designata, nella musica strumentale, l'opera dalle più vaste proporzioni.
Noi siamo abituati, secondo il nome che porta una cosa, a concludere su questa cosa stessa; per una "fantasia" abbiamo delle esigenze, altre per una "sonata".
Per gl'ingegni di second'ordine è sufficiente ch'essi padroneggino la forma tradizionale: a quelli di prim'ordine consentiamo che l'allarghino. Al genio soltanto è permesso di produrre liberamente.
Dopo la nona sinfonia di Beethoven [ch'è l'opera strumentale attuale anche esteriormente più considerevole], ogni misura e scopo sembrò esaudito.
Dobbiamo citare qui: Ferdinand Ries, la cui decisa individualità poté essere oscurata soltanto da un'altra come quella beethoveniana. Franz Schubert, il pittore dalla ricchissima fantasia, il cui pennello era imbevuto tanto profondamente di raggi di luna quanto di fiamme di sole e che dopo le nove Muse beethoveniane avrebbe forse fatta nascere la decima. Spohr, la cui dolce voce non è risonata abbastanza forte sotto la grande volta della sinfonia dove gli sarebbe toccato di parlare. Kalliwoda, l'uomo sereno ed armonioso, che nelle ultime sinfonie, per la profonda serietà del lavoro, manca dell'altezza di fantasia delle prime. Fra i più giovani conosciamo ed apprezziamo ancora S. Maurer, Fr. Schneider, I. Moscheles, C. G. Müller, A. Hesse, F. Lachner e Mendelssohn, che a bella posta nominiamo per ultimo.
Nessuno dei precedenti, che, salvo Franz Schubert, vivono ancora tutti fra noi, aveva osato di mutare qualcosa di essenziale nelle vecchie forme, eccettuato qualche tentativo isolato, come Spohr nella sua ultima sinfonia. Mendelssohn, artista insigne nella creazione come nella meditazione, capì che per questa via a poco o nulla si doveva riuscire e batté allora una strada nuova, su cui già Beethoven veramente aveva cominciato a lavorare nella sua grande ouverture per la Leonora. Con le sue ouvertures da concerto, ove costrinse in un cerchio più piccolo l'idea della sinfonia, Mendelssohn consegui scettro e corona sugli attuali compositori di musica strumentale. Si poteva temere che il nome di sinfonia da allora appartenesse soltanto alla storia.
In tutto ciò i paesi stranieri avevano taciuto completamente. Cherubini lavorò, or son molti anni, ad un'opera sinfonica, e mi si dice ch'egli stesso, forse troppo presto e modestamente, abbia dovuto riconoscere la sua incapacità. Del resto, in Francia ed in Italia non si scrivevan che opere.
Frattanto, in un angolo oscuro della costa francese settentrionale
[è una svista di Schumann: il luogo nativo di Berlioz, La Cote Saint-André, si trova nel Delfinato], un giovane studente di medicina volgeva in mente cose nuove. Quattro tempi son per lui troppo pochi; ne richiede cinque, come nel dramma. Dapprima io credetti (non per quest'ultima circostanza, ché non vi sarebbe alcun motivo poiché la nona sinfonia di Beethoven conta quattro tempi, ma per altre ragioni), dapprima considerai, ripeto, la sinfonia di Berlioz per una conseguenza di questa nona sinfonia; ma essa fu eseguita al Conservatorio di Parigi nel 1820, mentre quella di Beethoven fu pubblicata soltanto dopo questo tempo, cosicché cade ogni supposizione d'imitazione [Così credeva lo Schumann; in realtà avvenne 10 anni più tardi al Conservatorio di Parigi]. Animo ora, avviciniamoci alla sinfonia stessa!
Se noi consideriamo le cinque parti nelle loro relazioni, le troviamo analoghe all'antico ordine dei tempi, eccetto le ultime due, che però, come due scene d'un sogno, sembrano formare egualmente un tutto. Il primo tempo comincia con un adagio cui segue un allegro, il secondo tiene il posto dello scherzo, il terzo quello dell'adagio centrale, gli ultimi due tempi ci danno l'allegro finale. Anche nelle tonalità i tempi sono in giusta relazione fra loro: il largo dell'introduzione è in do minore, l'allegro in do maggiore, lo scherzo in la maggiore, l'adagio in fa maggiore, gli ultimi due tempi in sol minore e in do maggiore. Fin qui niente di speciale. Mi riuscisse almeno di dare al lettore, che vorrei accompagnare in lungo e in largo di questo fantastico edificio, l'immagine d'ogni suo singolo appartamento!
La lenta introduzione al primo allegro differisce poco (parlo qui sempre soltanto delle forme) da quella di altre sinfonie se non per un certo ordine, che colpisce per una successione a poco a poco sempre più frequente dei grandi periodi. Ci sono così veramente due variazioni su di un tema con intermezzi liberi. Il tema principale si presenta fino alla battuta 2, pagina 2
[Le citazioni son fatte dalla trascrizione per pianoforte di Liszt]; l'intermezzo fino alla battuta 5, pag. 3. La prima variazione va fino alla battuta 6, pag. 5; l'intermezzo fino alla battuta 8, pag. 6. La seconda variazione sulla tenue dei bassi (trovo, per lo meno, nel corno obbligato gl'intervalli del tema, sebbene soltanto come reminiscenza) fino alla battuta 1, pag. 7. Anelito verso l'allegro. Accordi preliminari. Passiamo dal vestibolo nell'interno. Allegro. Chi vuol fermarsi a lungo su ogni particolare, non potrà proseguire e finirà per smarrirsi. Scorrete tutta la pagina dal tema iniziale fino al primo animato, pag. 9. Qui tre pensieri sono stati uniti strettamente l'uno all'altro: il primo (Berlioz lo chiama la double idée fixe, per ragioni che vedremo più innanzi) va fino alle parole sempre dolce e ardamente [sic]: il secondo (riprodotto dall'adagio) dal primo sf fino a pag. 9, dove l'ultima idea si collega fino all'animato. Si riassuma quello che segue fino al rinforzando dei bassi senza trascurare il passo che va dal ritenuto il tempo fino all'animato, pag. 9. Col rinforzando veniamo ad un luogo stranamente illuminato (è proprio il secondo tema) da cui si concede un leggero sguardo retrospettivo su ciò che precede. La prima parte finisce e viene ripetuta. Di qui sembra che i periodi vogliano seguirsi più chiari, ma sotto la spinta della musica s'espandono ora più brevemente, ora più largamente, cosi p. es. dal principio della seconda parte fino al con fuoco [pag. 12], e di qui fino al sec. [pag. 13]. Una pausa. Un corno in lontananza. Qualcosa di ben conosciuto risuona fino al primo pp. [pag. 14].. Ora le tracce diventano più difficili da seguire e più misteriose. Due pensieri di 4 battute, poi di nove. Passaggi pure ciascuno di 2 battute. Liberi movimenti e volute. Il secondo tema, in un raccostamento sempre più breve, appare in seguito nella sua più completa chiarezza sino al pp. [pag. 16]. Terzo pensiero del primo tema sprofondantesi in sonorità sempre più basse. Tenebre. A poco a poco gli oscuri contorni si rianimano in forme vive sino al disperato [pag. 17]. La prima forma del tema principale nelle rifrazioni più oblique fino a pag. 19. Adesso il primo tema intero in una pompa inaudita, fino all'animato [pag. 20]. Forme completamente fantastiche, come spezzate, che ci ricordano una sola volta le precedenti. Sparizione.
Berlioz non deve aver sentito maggior ripugnanza a sezionare la testa di qualche magnifico delinquente
[In gioventù egli studiò medicina (Sch.)] che io questo primo tempo. E però ho potuto dar qualche giovamento ai miei lettori con questa dissezione? Ma ho voluto raggiungere tre scopi: primo, mostrare a coloro cui la sinfonia era totalmente sconosciuta come poca luce si sia potuto fare in questa musica mediante una critica analitica; a coloro poi che l'hanno scorsa superficialmente e, perché essi non sapevano a che giudizio riuscire, l'avevano forse messa da parte, richiamar l'attenzione su alcuni punti essenziali; finalmente, a quelli che la conoscono, senza riconoscerne i valore, dimostrare come nonostante l'apparente mancanza di forma in quest'organismo, vi fosse distribuito in larghe proporzioni un ordine regolarmente simmetrico, per non parlare poi della profonda coerenza dell'insieme. Ma nell'inconsueto di questa nuova forma, di questa nuova espressione sta forse in parte la ragione d'un malaugurato equivoco. La maggior parte degli ascoltatori, alla prima o alla seconda audizione, si ferma troppo ai particolari e cosi accade come al lettore d'un difficile manoscritto; chi per decifrarlo si fermi su ogni parola avrà bisogno d'un tempo molto maggiore di chi lo percorrerà nel suo insieme per conoscerne lo spirito e il proposito. Inoltre, come s'è già accennato, nulla produce così facilmente disappunto ed opposizione di una nuova forma che porti un vecchio nome. Se, per esempio, qualcuno volesse chiamar marcia un pezzo scritto in 4/5, o sinfonia una serie di dodici piccoli pezzi seguentisi l'un l'altro, certamente mal disporrebbe contro di sé sin dal principio - s'esamini invece ben bene la natura della cosa. Quanto più strana e ricca di spirito artistico appare un'opera a prima vista, tanto più cautamente si dovrebbe giudicare. Non ci dà forse un esempio l'esperienza su Beethoven, le opere del quale - le ultime specialmente - tanto per le loro strutture e forme caratteristiche, di cui Egli fu inesauribile creatore, quanto per lo spirito geniale che davvero nessuno poteva negare, furono in principio trovate incomprensibili?
Se noi cerchiamo ora d'afferrare nel suo insieme, (senza lasciarci disturbare dagli spigoli piccoli si, ma in ogni modo spesso pungenti) tutto il primo Allegro, esso si presenta a noi chiaramente in questa forma:

Non sappiamo che cosa abbia di preferibile quest'ultima disposizione sulla prima in fatto di varietà e d'armonia: ci auguriamo soltanto, incidentalmente, di possedere una fantasia cosi portentosa, salvo a fare poi come si crederà meglio. - Resta a dire ancora qualcosa sopra la struttura della frase in se stessa.
Senza alcun dubbio il nostro tempo non ha prodotto un'altra opera in cui, come in questa, le relazioni simili di battuta e di ritmo siano state più liberamente unite e usate colle dissimili. La fine della frase non corrisponde quasi mai al principio, né la risposta alla domanda. Tutto ciò è così caratteristico di Berlioz, così naturale al suo carattere meridionale e così straniero a noialtri del Nord, che son ben da scusare e da spiegare la spiacevole impressione del primo momento e l'accusa d'oscurità. Ma con quale mano ardita sia prodotto tutto questo in guisa tale che non si possa aggiungere o toglier via nulla, senza sottrarre al pensiero la sua penetrante efficacia e la sua forza, è cosa di cui ci si può soltanto persuadere attraverso i propri occhi e le proprie orecchie. Sembra che la musica voglia di nuovo ritornare alle sue origini, quando ancora non l'opprimeva la legge del rigore della battuta, e sollevarsi fieramente indipendente al discorso libero d'ogni costrizione, a una più significativa interpunzione poetica (come nei cori greci, nello stile della Bibbia, nella prosa di Jean Paul). Noi ci esimiamo dallo sviluppare più ampiamente questo pensiero, ma ricorderemo alla conclusione di questo paragrafo le parole che l'ingenuo spirito poetico di Ernst Wagner espresse molti anni or sono, come in presentimento: "A chi è riserbato di velare interamente e rendere insensibile nella musica la tirannia della battuta farà quest'arte libera almeno in apparenza; chi le darà allora una coscienza le darà la possibilità di rappresentare una bella idea: e da questo momento diventerà la prima di tutte le belle arti".
Come abbiamo già detto, sarebbe troppo lungo e poco utile se analizzassimo smembrandole, come la prima, tutte le altre parti della sinfonia. La seconda muove in ogni sorta di spirali come la danza che deve rappresentare: la terza, forse la più bella in linea generale, si libra su e giù etereamente come un arco: le due ultime parti non hanno alcun punto centrale e tendono incessantemente alla fine. Attraverso ad una mancanza di forma tutta esteriore si deve dappertutto riconoscere la coerenza spirituale della concezione e si potrebbe qui pensare a quel giudizio - sebbene strampalato - sopra Jean Paul che qualcuno definì 'un cattivo logico e un grande filosofo".

Finora non abbiamo avuto da fare che col vestito, eccoci ora alla stoffa di cui esso è tessuto, alla composizione musicale.
Osservo innanzi tutto ch'io posso giudicare soltanto dalla riduzione per pianoforte, in cui però sono indicati gli strumenti nei passi più importanti. Ma se anche non vi fossero, tutto mi pare così orchestralmente intuito e pensato, ogni strumento è così chiaramente a suo posto, vorrei dire usato nella sua forza sonora, originale, che un buon musicista potrebbe, eccettuate, s'intende, le nuove combinazioni e i nuovi effetti orchestrali, in cui Berlioz si dice sia veramente geniale, riuscire a compiere lui stesso una discreta partitura.
Se mai m'è caduto sott'occhio un giudizio ingiusto, è quello così sommario del signor Fétis, che dice: "Je vis, qu'il manquait d'idées mélodiques et harmoniques". Ammettiamo pure ch'egli possa negare a Berlioz, come del resto ha pur fatto, fantasia, invenzione, originalità - ma ricchezza melodica ed armonica! Non mi passa affatto pel capo l'intenzione di polemizzare contro quella critica, scritta del resto in modo brillante e pieno di spirito, giacché non è ch'io ravvisi in essa animosità personale o ingiustizia, ma addirittura cecità, assoluta mancanza d'un organo speciale per questo genere di musica. Tanto, non occorre che il lettore debba credermi in qualcosa, che non abbia trovato egli stesso. E sebbene, di sovente, esempi musicali strappati dall'insieme finiscano per far nascere prevenzioni, voglio tentare tuttavia di rendere con ciò più evidente il particolare.
Per ciò che riguarda il valore armonico della nostra sinfonia, si riconosce in essa ad ogni modo il compositore diciottenne, impacciato, che non si cura granché di ciò che ha vicino a destra o a sinistra, e corre difilato all'essenziale. Se, per esempio, Berlioz vuoi passare da sol bemolle in re, ci va senza tanti complimenti (si veda a pag. 16). Scuoti pure il capo a ragione per un simile modo di fare! - ma musicisti ragionevoli che hanno sentita la sinfonia a Parigi, mi hanno assicurato che quei passo non si sarebbe nemmen potuto scrivere in un modo diverso: anzi, qualcuno ha lasciato cadere a proposito della musica di Berlioz, queste strane parole: "Que cela est fort beau, quoique ce ne soit pas de la musique". Anche se ciò è un po' campato in aria, in questo caso se ne può comprendere il significato.

Ma passi arzigogolati di questo genere si trovano soltanto per eccezione: infatti sosterrei persino che la sua armonia, nonostante le molteplici combinazioni ch'egli effettua con scarso materiale, si distingue per una certa semplicità e, in ogni modo, per una solidità cd una compattezza quali si riscontrano, molto più compiute naturalmente, in Beethoven. O forse s'allontana troppo dal tono principale? Si prenda senz'altro la prima parte: la prima frase è decisamente in do minore; quindi riconduce fedelmente gli stessi intervalli della prima idea in mi bemolle maggiore; poi si riposa lungamente in la bemolle; e ritorna facilmente in do minore. Si può analizzare, nel passo che ho mostrato qui sopra, come l'allegro sia costruito sul semplice tono di do maggiore, sol maggiore e in mi minore. E così è sempre e dappertutto. Attraverso l'intera seconda parte risuona con insistenza la chiara tonalità di la maggiore; nella terza l'idillico tono di fa maggiore con quelli di do e di si bemolle maggiore intimamente uniti; nella quarta quello di sol minore con quelli di si bemolle e di mi bemolle maggiori; soltanto nell'ultima parte, nonostante il tono prevalente di do maggiore, tutto è disordinatamente variopinto, come ben si conviene a nozze infernali.
Spesso si urta, però, in armonie piatte e comuni, in altre difettose, proibite, almeno secondo vecchie regole, fra le quali intanto alcune risuonano proprio fastosamente, - in altre poi, oscure ed ambigue, o che suonano male, tormentate, contorte. Possa non giunger mai fino a noi il tempo che volesse sanzionare come belli passaggi simili! In Berlioz tuttavia le circostanze sono del tutto particolari: si provi soltanto a mutare o a migliorare un po' qualche punto, e sarebbe un gioco da fanciullo per un armonista un po' esercitato, e si vedrà come al confronto tutto apparirà smorto! Nel primo prorompere d'un vigoroso animo giovanile si trova una forza tutta particolare e intatta; per quanto rude si manifesti, essa agisce tanto più potentemente quanto meno si tenta colla critica d'attrarla nella teoria dell'arte. Ci si affaticherà inutilmente a volerla affinare mediante le leggi dell'arte o a costringerla con uno sforzo entro dei limiti, finché, da sé, non avrà imparato a servirsi dei propri mezzi con maggior riflessione ed a trovare sulla propria via scopo e regola. Berlioz poi, non vuoi affatto passare per garbato ed elegante; egli prende furiosamente pei capelli ciò che odia - soffocherebbe di tenerezza ciò che ama - un paio di gradi più debole o più forte: indulgete almeno una volta ad un giovane ardente che non si deve misurare colla canna da merciaio.
Ma noi vogliam pure rintracciare la molta delicatezza e la bellezza originale che compensano quella rozzezza e quella bizzarria; ecco, ad esempio, per la costruzione armonica, tutta la prima melodia, e la sua ripresa in mi bemolle. Ammetto che il la bemolle dei bassi tenuto per 14 battute sia di grand'effetto, e così pure il pedale nelle parti mediane. Gli accordi cromatici di sesta, che salgono e scendono pesantemente, non dicono nulla in sé e per sé, ma devono fare in quel passo una impressione straordinaria. I passaggi che risuonano attraverso le imitazioni fra il basso (o tenore) ed il soprano, in terribili ottave ed in false relazioni, non si posson giudicare dalla riduzione per pianoforte; se le ottave son ben mascherate, questo passo deve scuotervi fino alla midolla delle ossa. La base armonica della seconda parte, salvo qualche eccezione, è semplice e meno profonda. La terza, come puro valore armonico, si può comparare con qualsiasi altro capolavoro sinfonico: qui ogni suono vive. Nella quarta tutto è interessante e nello stile più serrato. La quinta s'agita e mette a scompiglio un p0' troppo e salvo qualche passo nuovo, è brutta, stridente e repulsiva.
Sebbene Berlioz trascuri il particolare e lo sacrifichi al tutto, egli attende però con molta cura a renderlo ingegnoso e finemente lavorato. Ma non spreme i suoi temi fino all'ultima goccia e non ci toglie, come spesso fanno gli altri, il piacere d'una bella idea con una noiosa modulazione tematica; egli s'accontenta di accennare che saprebbe compiere un lavoro più rigoroso, s'egli volesse, e al momento opportuno, schizzi brevi e ricchi di spirito. Egli esprime le sue più belle idee una volta sola, per lo più, e quasi come di passata.


Il motivo principale della sinfonia, in se stesso poco importante e non adatto allo sviluppo contrappuntistico

acquista sempre più nei passi che seguono. Già dall'inizio della seconda parte diventa più interessante e continua così finché, attraverso vividi accordi, riesce in do maggiore. Nella seconda parte è costruito nota per nota con un nuovo ritmo e con nuove armonie, come trio. Ritorna ancora una volta nel finale, ma infiacchito e rallentato. Nella terza parte, come recitativo, è interrotto dall'orchestra; qui prende l'espressione della più terribile passione fino allo stridente tono di la bemolle, dove sembra ricadere come senza forze. Riappare più tardi soave e tranquillo, sospinto dal tema principale. Nella marche au supplice vuoi far sentire ancora una volta la sua voce, ma è troncato dal coup fatal; nella vision è eseguito da un comunissimo clarinetto in mi e in mi bemolle, appassito, disonorato, insudiciato. Berlioz l'ha fatto di proposito.
Il secondo tema della prima parte scaturisce direttamente dal primo; e sono così stranamente annodati l'uno all'altro, che non si può affatto designare il principio e la fine del periodo, finché finalmente si libera la nuova idea

che ricompare poco dopo, nel basso, quasi inosservata. La riprende ancora in seguito e l'abbozza con estrema ingegnosità; in questo ultimo esempio si chiarisce meglio il modo del suo sviluppo.

I motivi della seconda parte sono intrecciati meno artificiosamente; il tema appare di preferenza nei bassi; è assai fine il modo con cui Berlioz sviluppa una battuta presa dallo stesso tema. In forme graziose egli riporta l'uniforme idea principale della terza parte: Beethoven stesso non avrebbe potuto trattarla più accuratamente. L'intera frase è piena di relazioni ingegnose così una volta egli salta dal do alla settima diminuita; più in là utilizza molto bene questo tratto insignificante.

Nella quarta parte Berlioz contrappunta con gusto il tema principale:

ed anche merita di rilevare com'egli lo trasporti con cura in mi bemolle maggiore:

e in sol minore:


Nell'ultima parte presenta il Dies irae prima in semibrevi, poi in semiminime, in ultimo in crome, mentre le campane suonano, ad intervalli determinati, tonica e dominante.
La fuga doppia che segue (Berlioz la chiama modestamente soltanto un fugato) è, anche se dissimile da una di Bach, di una costruzione ben chiara e regolare.

Il Dies irae e la Ronde du Sabbat son molto bene intrecciati.

Soltanto il tema della 'Ronde' non è sufficiente e il nuovo accompagnamento, fatto su terzine ascendenti e discendenti, è troppo sommario e frivolo. Dalla terz'ultima pagina va a capofitto, come più volte abbiamo già osservato; il Dies irae ricomincia ancora una volta pp. Ma senza partitura le ultime pagine non si possono descrivere che molto malamente.
Se il signor Fétis sostiene che gli stessi amici intimi di Berlioz non hanno osato di prender le sue difese per ciò che riguarda la melodia, allora io appartengo ai suoi nemici: soltanto, non si deve pensare alla melodia italiana, che si conosce già prima che cominci.
È vero, che la melodia principale dell'intera sinfonia, più volte ricordata, ha qualcosa di banale e Berlioz la loda fin troppo quando nel programma le attribuisce un carattere "nobile e timido" (un certain caractère passionné, mais noble et timide); si rifletta però ch'egli non voleva mettervi nessuna grande idea, ma una appunto che s'afferrasse tormentosamente, una di quelle che spesso non si riesce a cacciar via dalla testa durante tutta una giornata; il monotono, il delirante non poteva esser meglio colpito in pieno. Così in quella critica è detto che la melodia principale, nella seconda parte, è comune e triviale, ma Berlioz (come Beethoven nell'ultimo tempo della sinfonia in la maggiore) ci vuole appunto condurre in una sala da ballo, né più né meno. Si tratta ancora della stessa cosa per la melodia iniziale della terza parte, che il signor Fétis, credo, definisce oscura e di cattivo gusto.

Si erri fantasticando un po' sulle Alpi e sui paesaggi di alti pascoli e s'ascoltino i pifferi e i corni alpini: non s'odono proprio così? Ma tutte le melodie della sinfonia sono così naturali e caratteristiche; negli episodi particolari esse si spogliano invece di tutta la loro caratteristica e si sollevano ad una universale e più alta bellezza. In che cosa si può criticare, per esempio, il primo canto che inizia la sinfonia? Oltrepassa forse i limiti d'un'ottava di più d'un intervallo? Non esprime abbastanza la malinconia? Che cosa c'è da ridire nella dolorosa melodia dell'oboe, in uno degli esempi citati? Vien fuori forse a sproposito? Ma chi mostrerà a dito ogni cosa?
Se si volesse fare un rimprovero a Berlioz, sarebbe perché trascura le parti mediane; ma qui si presenta una speciale circostanza, che ho osservato ben raramente negli altri compositori. Le sue melodie si distinguono precisamente per tale intensità di quasi ogni loro suono che, come molte vecchie canzoni popolari, sovente esse non sopportano nessun accompagnamento armonico e anzi perderebbero sovente di pienezza sonora. Perciò Berlioz le armonizza per lo più col basso fondamentale naturale, oppure con accordi di quinte aumentate e diminuite, sui gradi vicini. In verità le sue melodie non si possono sentire con l'orecchio soltanto; esse passano incomprese a coloro che non sanno ricantarle dal loro intimo più profondo, non a mezza voce cioè, ma con tutta l'anima - allora acquisteranno un senso, la cui importanza sembra ché diventi più profonda quanto più spesso sono ripetute.
Per non dimenticare nulla, devono ancora trovar posto qui alcune osservazioni sulla sinfonia come opera orchestrale e sulla riduzione per pianoforte di Liszt.
Virtuoso-nato dell'orchestra, Berlioz esige senza dubbio l'impossibile tanto dal singolo strumento come dalla massa - più di Beethoven, più d'ogni altro. Ma non sono le maggiori abilità meccaniche quelle che chiede agli strumentisti: egli vuole interesse, studio, amore. L'individuo deve trarsi indietro per servire al tutto, e questo a sua volta deve conformarsi alla volontà dei capi. Con tre, con quattro prove non si raggiungerà ancor nulla; come opera orchestrale questa sinfonia può forse tenere il posto che il concerto di Chopin ha come opera pianistica, senza voler del resto comparare le due composizioni.
Al suo istinto di strumentatore lo stesso suo avversario, il signor Fétis, rende piena giustizia; di sopra abbiam già detto che dalla semplice riduzione per pianoforte si possono indovinare gli strumenti obbligati. Anche alla fantasia più vivace sarà d'altro canto difficile di farsi un concetto delle diverse combinazioni, dei contrasti e degli effetti. Berlioz in verità non disdegna tutto ciò che, in qualche modo, si chiama suono, risonanza, voce e timbro - usa i timpani con suoni smorzati, le arpe e i corni con sordina, il corno inglese e persin le campane. Florestano poi ha perfino opinato d'aver molta speranza che Berlioz facesse un giorno fischiare i suoi musicisti in tutti, sebbene allora dovesse inserire delle pause, perché sarebbe troppo difficile trattenere la bocca dallo scoppiare in risa, - e ancora di veder [diceva Florestano] nelle future partiture, canti di usignuoli ed improvvisi temporali. Ma basta, qui bisogna intendere. L'esperienza insegnerà, se il compositore dava fondamento a siffatte richieste e se il puro aumento in piacere sale in rapporto a quelle. Resta da sapere, se Berlioz otterrà mai qualcosa con pochi mezzi. Accontentiamoci di ciò che ci ha dato.
La riduzione per pianoforte di Franz Liszt, meriterebbe un'ampia discussione; la riserbiamo per l'avvenire insieme a qualche parere sopra il trattamento sinfonistico del pianoforte. Liszt l'ha condotta con si grande diligenza ed entusiasmo, ch'essa dev'esser considerata come un'opera originale, come un résumé dei suoi studi profondi, come una scuola pratica di pianoforte per la lettura di partiture. Quest'arte dell'interpretazione, così interamente diversa dalla cura del virtuoso nel mettere in rilievo il particolare, la multiforme varietà di tocco che esige, l’efficace uso del pedale, il chiaro intrecciarsi delle singole parti, il riassunto di tutte le masse, la conoscenza, in breve, dei mezzi e dei molti segreti che ancora nasconde il pianoforte - tutto questo può esser l'affare d'un maestro soltanto, e d'un genio dell'interpretazione, quale Liszt è da tutti considerato. Allora, si può ascoltare senza, timore la riduzione per pianoforte accanto alla stessa esecuzione orchestrale, così come Liszt l'ha infatti suonata in pubblico non molto tempo fa a Parigi, come introduzione ad una sinfonia posteriore di Berlioz ['Melologue', seguito della nostra sinfonia fantastica].
Abbracciamo con un colpo d'occhio, ancora una volta, il cammino fatto fin qui. Secondo il nostro primo proposito, volevamo parlare, in paragrafi particolari, della forma, della composizione musicale, dell'idea e dello spirito. Abbiam visto dapprima, come la forma di quest'insieme non si stacchi molto dal tradizionale, come le diverse parti si muovano per lo più in nuove figurazioni, come periodi e frasi si differenzino dagli altri per i loro rapporti inconsueti. Riguardo alla composizione musicale abbiamo rivolta l'attenzione sul suo stile armonico, sull’ingegnoso lavoro del particolare, dei rapporti e delle movenze, sulla caratteristica delle sue melodie e, incidentalmente, sull'istrumentazione e sulla riduzione per pianoforte. Concluderemo con qualche parola sull'idea e sullo spirito.

Berlioz stesso ha indicato in un programma ciò che desidera che si pensi durante l'esecuzione della sua sinfonia. Ve ne faremo parte, brevemente.
Il compositore ha voluto caratterizzare colla musica alcuni momenti della vita d'un artista. Sembra necessario che la trama d'un dramma strumentale abbia bisogno d'esser chiarito prima colle parole. Si consideri, dunque, il seguente programma come il testo che serve d'introduzione alle parti musicali in un'opera.
Prima parte:
'Rêveries, passions'. Il compositore immagina che un giovane musicista, afflitto da quella malattia morale che un celebre scrittore ha designato con l'espressione: le 'vague des passions', veda per la prima volta una creatura femminile che tutto in sé riunisca ad incarnargli l'ideale che la fantasia gli dipinse. Per uno strano capriccio del caso l'amata figura gli appare sempre accompagnata da un pensiero musicale, in cui egli trova un certo carattere appassionato, nobile e timido, il carattere della fanciulla stessa: questa melodia e questa figura lo seguono senza posa come una doppia idea fissa. La sognante melanconia, interrotta soltanto da alcuni sommessi suoni di gioia, fino a quando cresce al più alto furore amoroso, il dolore, la gelosia, il fuoco interiore, le lagrime del primo amore sono il contenuto della prima parte. - Seconda parte: 'Un ballo'. L'artista si trova in mezzo al tumulto di una festa, in beata contemplazione delle bellezze della natura, ma dappertutto, in città o in campagna, la figura amata lo insegue e gli agita l'anima. - Terza parte: 'Scena campestre'. Una sera egli vede la danza di due pastori che parlan fra loro; questo dialogo, il luogo, il lieve mormorio delle foglie, un barlume di speranza d'amore corrisposto - tutto concorre a dare al suo cuore una inconsueta tranquillità, ed ai pensieri una gioconda direzione. Egli pensa che fra poco non sarà più solo... Ma s'ella s'ingannasse! L'adagio esprime quest'alternativa di speranza e di dolore, di luce e d'oscurità. Verso la fine uno dei pastori ripete la danza, ma l'altro non risponde più. Nella lontananza, tuono... solitudine... silenzio profondo. - Quarta parte: 'La marche au supplice'. L'artista ha la certezza che il suo amore non è contraccambiato e s'avvelena con dell'oppio. Il narcotico, troppo debole per farlo morire, lo sprofonda in un sonno pieno di paurose visioni. Egli sogna d'aver ucciso la fanciulla e, condannato a morte, d'assistere al suo stesso supplizio. Il corteo si pone in movimento; una marcia, ora cupa e selvaggia, ora brillante e festosa, lo accompagna; sordo risuonare di passi, rude rumore della folla. Alla fine della marcia appare, come un ultimo pensiero, l'amata, l'idea fissa, ma soltanto a metà, spezzata dal colpo della scure. Quinta parte: 'Sogno d'una notte di Sabba'. L'artista si vede in mezzo a grinte orrende, streghe, mostri d'ogni specie, che son convenuti pei suoi funerali. Lamenti, urli, risa, gridi di dolore... L'amata melodia risuona ancora una volta, ma come volgare, grossolano tema di danza: è lei che viene. Baccano di gioia pel suo arrivo. Orgie infernali. Campane a morto. Parodia del Dies irae.
Fin qui il programma. Tutta la Germania ne fa a meno: guide simili hanno sempre qualcosa di poco dignitoso e di ciarlatanesco. In ogni modo i cinque titoli principali sarebbero stati sufficienti; i particolari più precisi, che devono certo interessare per la persona del compositore, che ha vissuto egli stesso la sinfonia, si sarebbero pur propagati colla tradizione orale.
In una parola, il tedesco, delicato di spirito, indifferente a qualunque personalità, non vuol essere guidato così grossolanamente nei suoi pensieri; già si offese a proposito della Sinfonia Pastorale, perché Beethoven non si fidò di lasciargliene indovinare il carattere senza il suo aiuto. L'uomo ha una sua particolare ritrosia davanti al luogo di lavoro del genio: non vuol sapere affatto delle cause, dei mezzi e dei segreti del creare, nello stesso modo che la natura manifesta una certa delicatezza, quando ricopre con la terra le sue radici. Si rinchiuda così, l'artista col suo dolore creativo; verremmo a sapere cose spaventose, se potessimo vedere fino al fondo della genesi d'ogni opera.
Ma Berlioz, per intanto, ha scritto per i suoi francesi, ai quali si può imporre ben poco con un'eterea discrezione. Me li immagino durante l'audizione, seguire col programma alla mano ed applaudire il loro compatriota, che ha indovinato tutto così bene; della musica in sé, poco importa loro. Se questa poi risveglia in qualcuno che non conosce le intenzioni del compositore, immagini analoghe a quelle che voleva indicare, non posso decidere io che ho detto il programma prima dell'audizione. Una volta che l'occhio è stato indirizzato su d'un punto, l'orecchio non giudica più con indipendenza.
Ma se si chiede, se la musica possa dare in realtà ciò che Berlioz nella sinfonia esige da essa, si cerchi allora di sostituirle immagini diverse o magari opposte. In principio il programma m'ha offuscato ogni godimento, ogni libera veduta: ma quando se n'è andato sempre più in secondo piano ed ha cominciato ad operare la mia fantasia, v'ho trovato non solo tutto questo, ma molto di più ancora e quasi dappertutto un caldo tono di vita. Per ciò che riguarda la difficile questione in generale, fino a che punto cioè la musica strumentale possa giungere alla rappresentazione di pensieri e di avvenimenti, molti vi si affannano troppo intorno. Si sbaglia di certo, se si crede che i compositori si mettano innanzi penna e carta nel misero proposito d'esprimere, descrivere e colorire questa cosa o quella; ma però non si tengano in troppo poco conto gli influssi casuali e le impressioni dall'esterno. Inconsciamente, accanto alla fantasia musicale continua ad operare sovente un'idea, accanto all'orecchio l'occhio, e questo, l'organo sempre attivo, tiene fermi in mezzo ai suoni ed ai toni certi contorni che col nascere della musica possono prender consistenza e svilupparsi in chiare forme. Ora, quanto più gli elementi affini della musica portano in sé i pensieri o le immagini prodotte con l'aiuto dei suoni, tanto più poetica o plastica sarà l'espressione della composizione, e quanto più fantastica e penetrante è la concezione del musicista, tanto più la sua opera solleverà e commuoverà.
Perché un Beethoven non potrebb'esser preso, in mezzo alle sue fantasie, dal pensiero dell'immortalità?
Perché il ripensare su un grande eroe caduto non potrebbe ispirargli una nuova opera? Perché un altro non potrebb'esser preso dal ricordo d'un felice tempo vissuto? O vogliamo forse essere sconoscenti verso Shakespeare perché ha fatto nascere nel petto d'un giovane compositore una delle opere più degne di sé, - sconoscenti verso la natura, e negare che noi abbiamo attinto per le nostre opere dalla sua bellezza e dalla sua sublimità? L'Italia, le Alpi, lo spettacolo del mare, un crepuscolo di primavera: la musica non ci avrebbe ancora raccontato nulla di tutto ciò? Fin le più piccole, le più precise immagini possono prestare decisamente alla musica un carattere così grazioso, da rimaner sorpresi com'essa possa esprimere dei tratti simili. Così mi raccontava un compositore che mentre scriveva era stato assillato incessantemente dall'immagine d'una farfalla che era trasportata su d'una foglia in un ruscello; e ciò aveva conferito al piccolo pezzo la delicatezza e l'ingenuità che può avere un'immagine simile nella realtà. In questa fine pittura di genere era specialmente maestro Franz Schubert; ed io non posso esimermi di citare secondo la mia esperienza, come una volta durante l'esecuzione d'una marcia di Schubert, l'amico col quale io sonava, alla mia domanda se egli non vedesse dinanzi a sé una qualche figura particolare, mi rispondesse: «Davvero, mi son trovato a Siviglia, ma più di cent'anni fa, in mezzo a Don e Doñas passeggianti su e giù, con vestiti a strascico, scarpe a punta rivoltata, spade a punta, ecc. ecc.». Eravamo stranamente uniti nelle nostre visioni, fin nella stessa città! Nessuno dei lettori mi voglia rifiutare questo piccolo esempio!
Ora, se nel programma della sinfonia di Berlioz vi siano molti momenti poetici, noi lasciamo indeciso. L'essenziale rimane, se la musica senza testo e commento valga in sé qualcosa, e principalmente, se in essa vi sia del genio. Del primo punto credo aver dimostrato qualcosa; nessuno forse può negare il secondo, nemmeno là dove Berlioz ha evidentemente mancato.
Se si volesse combattere contro l'intera direzione di spirito del tempo, che tollera un 'Dies irae' volto al burlesco, si dovrebbe ripetere tutto ciò che si è scritto e detto contro Byron, Heine, Victor Hugo, Grabbe e gli altri. La poesia si è messa nell'eternità, per alcuni momenti, la maschera dell'ironia, per non lasciar veder il suo viso addolorato; forse la staccherà un giorno la mano caritatevole d'un genio.
Ancora vi sarebbero da discutere parecchie cose buone e cattive; ma tronchiamola per questa volta!
Se queste righe dovessero concorrere un po' ad incitare una volta per tutte Berlioz a moderare sempre più l'eccentricità della sua tendenza; poi a far conoscere la sua sinfonia non come l'opera d'arte d'un maestro, ma come un'opera che per la sua originalità si differenzia da tutto quanto esiste; ad eccitare, infine, ad una più fresca attività gli artisti tedeschi, a cui egli ha teso la mano come in lega contro la mediocrità priva d'ingegno, lo scopo della loro pubblicazione sarebbe interamente raggiunto.

FELIX MENDELSSOHN
SEI ROMANZE SENZA PAROLE PER PIANOFORTE
2º fascicolo, op. 30


Chi non si è mai messo qualche volta al pianoforte all'ora del crepuscolo (un pianoforte a coda parrebbe troppo di gala) e in mezzo al suo fantasticare non ha cantato senza avvedersene qualche leggera melodia? Se allora si può unire, a caso, con le sole mani, l'accompagnamento alla melodia e, soprattutto, se si è un Mendelssohn, si compongono le più belle romanze senza parole. La cosa sarebbe ancora più facile se si componesse apposta il testo, si cancellassero le parole e così si rendesse pubblica l'opera; ma ciò non andrebbe bene, perché sarebbe quasi una specie d'inganno - si dovrebbe su questo fare una prova della chiarezza del sentimento musicale e indurre il poeta, di cui si taccion le parole, a sostituire un nuovo testo alla composizione della sua romanza. Se in questo caso il nuovo coincidesse col vecchio, sarebbe una prova di più per la sicurezza dell'espressione musicale. Ma torniamo alle nostre romanze! Esse ci guardano limpide come la luce del sole. La prima eguaglia in chiarezza e bellezza di sentimento quella in do maggiore del primo fascicolo, poiché zampilla più vicina alla prima sorgente. Florestano diceva: «Chi ha cantato una cosa simile deve ancora attendersi una vita lunga, tanto in quella terrestre come in quella d'oltretomba; è la mia preferita, credo». Con la seconda mi viene in mente la canzone di caccia di Goethe: "Im Felde schleich' ich still und wild, gespannt mein Feuerrohr" [Me ne vado per la campagna, silenzioso e selvaggio, col mio fucile spianato]; in delicatezza ed in vaporosità raggiunge quella del poeta.
La terza mi sembra meno importante, e quasi un ritornello in una scena domestica di La Fontaine; è tuttavia un vino schiettamente naturale quello che fa il giro della tavola, se non proprio il più forte ed il più raro. Trovo la quarta romanza molto gentile, un po’ triste e ripiegata in se stessa; ma esprime in fondo speranza e patria. Nell'edizione francese in tutti i pezzi, specialmente in questo, si trovano importanti varianti da quella tedesca, che non mi sembrano appartenere tutte a Mendelssohn. La romanza che segue ha nel suo carattere qualcosa di indeciso, persino nella forma e nel ritmo e produce un effetto di tal genere. L'ultima, una barcarola veneziana, conclude il fascicolo con morbidezza e con dolcezza.
Rallegratevi ancora una volta del dono di questo nobile spirito!

LA COLLERA PER UN SOLDINO PERDUTO
RONDÒ DI BEETHOVEN
Op. 129 [postuma]


È difficile trovare qualcosa di piú giocondo di questa bizzarria. Ho dovuto sbottare in una risata quando recentemente l'ho sonata per la prima volta.
Mi stupii quando, nel ripeterla una seconda volta, lessi la seguente osservazione sul contenuto: questo capriccio trovato nelle carte lasciate da Beethoven è nel manoscritto così intitolato: La collera per un soldino perduto, sfogata in un capriccio. - Oh! è la collera piú amabile, più innocua, simile a quella che si prova quando non ci si può cavar fuori una scarpa e si suda e si pestano i piedi, mentre essa guarda flemmaticamente in su il suo proprietario. Ma vi tengo finalmente nelle mani, o beethoveniani! - È in un modo tutto diverso che vorrei sfogarmi contro di voi e vorrei prendervi dolcemente tutti quanti coi mio pugno piú delicato, quando siete fuori di voi e stralunate gli occhi e tutti esaltati dite: che Beethoven vuoi sempre il solo trascendente, vola di astro in astro staccato dalla terra. «Oggi, eccomi ben sbottonato» era la sua espressione favorita quand'era di buon umore. E allora rideva come un leone, come fuor di sé, poiché egli si mostrava sfrenato in ogni senso. Con questo capriccio, io vi batto. Voi lo troverete comune, indegno d'un Beethoven, appunto come la melodia "Freude, schöner Götter funken" [Gioia, bella scintilla divina] della sinfonia in re minore, lo nasconderete molto in basso, ben sotto alla sinfonia 'Eroica'! E in verità, se ad una resurrezione delle arti il genio della verità tenesse la bilancia e questo Capriccio pel saldino perduto stesse in un piatto e nell'altro dieci delle Ouvertures patetiche più recenti - le Ouvertures volerebbero fino al cielo! Ma una cosa soprattutto vi potete imparare, o compositori giovani e vecchi, una cosa che sembra ben necessario vi si debba ricordare ogni tanto: "Natura, natura, natura!".

CARATTERISTICA DELLE TONALITÀ

Se n'è parlato pro e contro; come sempre, il vero si trova nel mezzo. Come da un lato non si può affermare che per esprimere sicuramente questa o quella sensazione sia necessario tradurla in musica proprio con questa o con quella tonalità (ad esempio, se si determinasse teoricamente, che una forte collera richieda il do diesis minore, ecc.), così non si può convenire con lo Zelter quando opina che si potrebbe esprimere ogni cosa in ogni tonalità. Già nel secolo scorso s'è cominciato ad analizzare questo problema; fu specialmente il poeta Ch. D. Schubart [Christian Friedrich Daniel Schubart [1739-1791], poeta e giornalista dalla vita avventurosa; scrisse Idee per un'estetica della musica, libro fantastico e non sistematico], che pretendeva di aver trovato espressi nelle singole tonalità i singoli caratteri dei sentimenti. Per quanta delicatezza e poesia si possa trovare in questa caratteristica, egli ha in primo luogo completamente trascurato i segni principali della differenza dei caratteri nelle tonalità coi bemolli e coi diesis; poi ha messo insieme troppi epiteti minutamente specializzanti: il che sarebbe eccellente se la cosa fosse giusta.
Così egli definisce la tonalità di mi minore: una ragazza biancovestita con un fiocco rosa al petto; in sol minore egli riscontra dispiacere, disagio, travaglio per un progetto infelice, scontento scricchiolare dei denti.
Si confronti ora la sinfonia in sol minore di Mozart, questa aleggiante Grazia greca, o il concerto in sol minore di Moscheles, e vedete un po'! - Che mediante il cambiamento della tonalità originaria d'una composizione in un'altra, venga raggiunto un altro effetto e che ne risulti una differenza di carattere delle tonalità, è cosa fuori discussione.
Si suoni, per esempio, il "valzer della nostalgia" in la maggiore o il "coro delle vergini" in si maggiore! - la nuova tonalità avrà qualcosa di ripugnante al sentimento, perché la disposizione d'animo normale che ha prodotto quei pezzi deve mantenersi, per così dire, in un ambiente straniero. Il processo che fa scegliere al musicista questa o quella tonalità originaria per l'espressione dei suoi sentimenti, è inesplicabile come l'operare del genio stesso che col pensiero dà nello stesso tempo la forma, il vaso che lo contiene sicuramente. Il musicista colpisce immediatamente il giusto come il pittore i suoi colori, senza troppo riflettere. Ma se in realtà nelle differenti epoche si fossero sviluppati dei caratteri stereotipi delle tonalità, sarebbe necessario raccogliere tutte le opere ritenute classiche scritte nella stessa tonalità e confrontare fra loro la disposizione d'animo predominante; ma qui naturalmente manca lo spazio, per far ciò. La differenza fra il maggiore e il minore dovrà essere ammessa senz'altro.
Quello è il principio attivo, maschile, l'altro il passivo, il femminile. Sentimenti semplici hanno tonalità semplici; quelli complessi si muovono di preferenza in una tonalità dissueta che l'orecchio ode più raramente. Allora si potrebbe vedere benissimo il salire e il discendere nel circolo delle quinte seguentisi l'una nell'altra. Il cosiddetto tritono, la metà da un'ottava all'altra, cioè fa diesis, sembra il più alto punto, la cima, che ricade poi, nelle tonalità bemollizzate, nuovamente a semplice e puro do maggiore.

IL COMICO NELLA MUSICA

Gli uomini poco raffinati sono generalmente inclini a non afferrare nella musica senza testo che dolore o gioia o (cosa che giace nel mezzo) dolce melanconia, ma non sono capaci di trovare le più fini sfumature della passione, come là la collera, il pentimento, qui i momenti d'intimità familiare, il benessere, ecc., perciò è loro difficile anche la comprensione di maestri come Beethoven, Franz Schubert, che hanno potuto tradurre nella lingua dei suoni ogni momento della vita. Così io credo di riconoscere in qualcuno dei 'moments musicaux' di Schubert persino i conti del sarto ch'egli non era in condizione di pagare, tanto chiaro aleggia in essi un dispiacere da borghesuccio. In una delle marce di Schubert, Eusebio dichiarò chiaro e tondo di riconoscere tutto il 'Landsturm' austriaco, cornamuse in testa, prosciutti e salcicce alla baionetta. Questo, però, è troppo soggettivo.
Ma fra gli effetti strumentali puramente comici, citerò i timpani accordati all'ottava nello scherzo della sinfonia in re minore di Beethoven, il passo dei corni

in quella in la maggiore, e soprattutto i diversi incisi in re maggiore, nell'adagio, coi quali si ferma improvvisamente e sorprende per tre volte (come tutta l'ultima parte poi della stessa sinfonia è ciò che di più umoristico può presentarci la musica strumentale), poi il pizzicato dello scherzo della sinfonia in do minore, sebbene li dentro rumoreggi un po' qualche cosa.
Così, ad un passo dell'ultima parte della sinfonia in fa maggiore un'intera orchestra ben nota e abile cominciò a ridere, perché nel disegno del basso

pretendeva di udire nettamente il nome di uno dei suoi membri più stimati [Belcke]. Anche il disegno interrogativo

dei bassi nella sinfonia in do minore fa un allegro effetto. Quello nell'adagio della sinfonia in si bemolle maggiore

nello stesso tempo nei bassi o nei timpani, ci raffigura un vero Falstaff. L'ultima parte del quintetto [op. 29] produce un'impressione umoristica, dal disegno impertinentemente bello

fino all'entrata improvvisa della misura in 2/4 che vuole annientare la misura in 6/4 che la combatte. È certo che Beethoven nell'andante scherzoso entra lui stesso in scena (come Grabbe con la lanterna nella sua commedia) o tiene un soliloquio che comincia così: Cielo! - che scompiglio hai prodotto! - ecco, le parrucche scuoteranno la testa (veramente sarebbe il contrario), ecc.
Ben burlesche poi sono le conclusioni nello scherzo della sinfonia in la maggiore, e nell'allegretto dell'ottava. Sembra proprio di vedere il compositore gettar la penna che probabilmente è stata abbastanza cattiva. Poi i corni alla conclusione dello scherzo della sinfonia in si bemolle, che con ancora una volta vogliono come riprendere lo slancio. E come se ne trova poi in Haydn! (Meno nell'ideale Mozart.) Fra i moderni, Weber eccettuato, non può non essere citato specialmente Marschner, la cui attitudine pel comico sembra esser largamente superiore alla lirica.

Florestano

LETTERE FANTASTICHE
[Queste lettere potrebbero anche intitolarsi "Verità e Poesia"; esse riguardano il primo concerto tenuto al Gewandhaus nell'ottobre 1835 sotto la direzione di Mendelssohn (Schumann).]

I
Eusebio a Clara


In tutte le nostre spirituali feste di musica occhieggia sempre una testa d'angelo, più che somigliante a quella d'una cosiddetta Clara finanche nel tratto binchino intorno al mento. Perché non sei con noi? Ieri sera quanto devi aver pensato a noi, dalla 'Meeresstille' sino all'avvampante finale della sinfonia in si bemolle maggiore!
Io non saprei nulla di più bello dell'ora che precede un concerto (all'infuori, naturalmente, del concerto stesso), quando si fischiettano a for di labbra eteree melodie, quando si passeggia cautamente su e giù in punta di piedi e si eseguiscono sui vetri delle finestre intere ouvertures...
Battono i tre quarti: m'aggiravo con Florestano per le lucide sale. «Eusebio» disse «questa sera pregusto molte cose: in primo luogo la musica in sé, della quale si è assetati dopo l'arsa estate trascorsa, in secondo luogo il fatto che F. Meritis ingaggia battaglia per la prima volta con la sua orchestra, poi la cantante Maria con la sua voce di vestale, e finalmente il pubblico che si aspetta delle intere meraviglie, (il giudizio del quale, come sai, del resto m'importa ben poco)...» Fin dalla parola "pubblico" eravamo dinanzi al vecchio castellano
[Così la fantasia di Schumann designa l'inserviente...], indaffarato colla sua aria di commendatore, che finalmente ci fece passare con dispetto, perché Florestano, come al solito, aveva dimenticato il suo biglietto.
Quando entrai nella sala sfolgorante d'oro, a giudicare dal mio viso, debbo aver tenuto dentro di me il seguente discorso: "M'avanzo con passo lieve: perché mi sembra che qua e là appaiano i visi di quegli esseri unici a cui è data l'arte magica di elevare e d'inebbriare nello stesso momento centinaia di persone. Là vedo Mozart che, dirigendo una sinfonia, pesta talmente i piedi da far saltare la fibbia della scarpa, là vedo il vecchio Hummel che fantastica al pianoforte, là vedo la Catalani che si strappa d'un colpo la sciarpa perché avevano dimenticato di mettere un tappeto per terra, là Weber, là Spohr e tanti altri". Allora pensai a te, Clara, Pura, Limpida - come tu altre volte cercavi dal tuo palco con la lorgnette, che ti sta così bene... In mezzo a questi pensieri, m'incontrò lo sguardo furibondo di Florestano che stava irrigidito al suo solito angolo della porta: nell'espressione irata del suo volto si leggeva press'a poco questo: "Finalmente, o spettatori, vi vedo di nuovo raccolti, e posso aizzarvi l'uno contro l'altro... già da lungo tempo, o pubblico, io vorrei istituire dei concerti per sordomuti, che potessero servirti d'esempio come ci si comporti nei concerti, segnatamente nei più belli... come Tsing-Sing dovresti trasformarti in una pagoda di pietra, se ti saltasse in mente di raccontare ad altri qualcosa di ciò che hai visto nel paese incantato della musica, ecc.". L'improvviso silenzio di morte del pubblico interruppe la mia meditazione. F. Meritis entrò. Da quel momento, migliaia di cuori furono con lui.
Ti ricordi quando di sera, scendemmo da Padova in carrozza lungo il Brenta? L'ardente notte italiana ci fece chiudere gli occhi l'uno dopo l'altro. Al mattino, poi, una voce gridò improvvisa: «Ecco, ecco, signori, Venezia!» e il mare era disteso innanzi a noi, calmo ed immenso, ma all'estremo orizzonte vibrava un suono come se le brevi onde parlassero fra loro in sogno. Ecco, è lo stesso soffio che nella 'Meeresstille'
[Ouverture di Mendelssohn]: come se si sonnecchiasse, e si è più pensiero, che pensierosi. La parola accentuata del coro di Beethoven sulla poesia di Goethe risuona quasi ruvida di contro a quel suono di ragnatela dei violini. Verso la fine si scioglie un'armonia, dove l'occhio seduttore di una Nereide sembra aver guardato il poeta per attirano a sé; ma allora per la prima volta un'onda si solleva, e il mare diventa a poco a poco più rumoroso e poi le vele e le gioconde bandierine sbattono al vento e hallo! via, via!... Quale ouverture di F. Meritis mi fosse più cara, mi domandò un semplicione, e in quel momento s'intrecciavano come in un accordo delle tre Grazie, le tonalità in mi minore, si minore e re maggiore: nessuna risposta mi parve migliore di questa, ottima: «Ciascuna». F. Meritis dirigeva come se egli stesso avesse composto l'ouverture, e l'orchestra suonava in conseguenza; ma mi colpì il detto di Florestano: ch'essa aveva suonato come lui, quando lasciò la provincia per andare a scuola di Maestro Raro. «La mia crisi più spiacevole» proseguì Florestano «fu questo stato medio fra arte e natura; io, che concepisco sempre ogni cosa focosamente, dovetti allora eseguire tutto adagio e chiaro, perché mi mancava ovunque la tecnica: così si produsse un arresto, una rigidità, tanto dubitavo del mio ingegno; fortunatamente la crisi non durò a lungo.» A me personalmente disturbava, tanto nella ouverture come nella sinfonia, la bacchetta del direttore [Prima di Mendelssohn, quando era in auge Matthäi, le composizioni orchestrali venivano eseguite senza che il direttore battesse il tempo (Sch.)] ed io era d'accordo con Florestano che nella sinfonia l'orchestra dovesse stare come una repubblica, sopra di cui non bisogna riconoscere nessun superiore. Era però un piacere vedere come Meritis indicava già prima con l'occhio le diverse sinuosità dello spirito della composizione, dalla più fine alla più forte sfumatura e come beato Meritis si librava innanzi al tutto, mentre, alle volte, s'incontran dei maestri che minacciano di bastonare con lo scettro la partitura, l'orchestra tutta e il pubblico.
Tu sai quanto poco io possa sopportare le discussioni sul "tempo" e come per me si distingua soltanto l'interna misura della commozione. Così l'allegro più accelerato diretto da un uomo freddo risuona più indolente che l'allegro più calmo d'un uomo sanguigno. Ma nell'orchestra bisogna tener conto anche della massa: se questa è più rude, più fitta, può dare, tanto al particolare come al tutto, maggiore espressione ed importanza; con masse più piccole, più fini, invece, come le nostre, occorre venir in aiuto al difetto di sonorità con un tempo più incalzante. In una parola, lo Scherzo della sinfonia mi sembrò troppo lento; ciò si capi anche molto chiaramente dall'inquietudine dell'orchestra che si sforzava di esser tranquilla. Ma ciò non ti preoccupi (tu che sei nella tua Milano) e in fondo nemmeno io me ne preoccupo, perché, in ogni momento, posso ben immaginarmi lo Scherzo come lo voglio. Mi chiedi se Maria abbia suscitato lo stesso interesse, come un tempo a Firenze. E come ne puoi dubitare? - soltanto, ha scelto un'aria che le ha recato onore più come artista, che applausi come virtuosa. Inoltre, un direttore di musica di Vestfalia eseguì un concerto per violino di Spohr bene, ma troppo piatto e senza rilievo. Che fosse avvenuto un cambiamento nella direzione dell'orchestra, ciascuno voleva scorgere dalla scelta dei pezzi; se, altre volte, nei primi concerti di Firenze farfalle italiane svolazzavano intorno a querce tedesche, questa volta esse stavano tutte sole, forti ed oscure. Un certo partito voleva vedere in ciò una reazione: io lo ritengo più un caso che un'intenzione. Sappiamo tutti come sia necessario proteggere la Germania dall'invasione dei tuoi prediletti; intanto, questa difesa avvenga con cautela e piuttosto con esaltazione degli spiriti giovanili della patria che con inutili protezioni contro una potenza, che sorge e tramonta come una moda. A mezzanotte in punto entrò Florestano con Gionata, un nuovo Fratello di Davide, discutendo vivamente fra di loro sull'aristocrazia dello spirito e sulla repubblica delle opinioni. Florestano ha trovato finalmente un avversario che gli dà da spaccare dei diamanti. Su questo potente Fratello di Davide ne saprai di più in seguito.
Per oggi basta. Non dimenticarti di guardare, qualche volta, sul calendario il 13 d'agosto, dove un'aurora lega il tuo cuore col mio.

Eusebio

II
A Clara


Il portalettere m'apparve come un fiore quando scorsi sulla tua lettera il fiammeggiante "Milano". Penso anch'io con delizia il primo ingresso alla Scala, mentre appunto cantava Rubini con la Méric-Lalande. Perché la musica italiana si deve udire fra gente italiana; quella tedesca si gode benissimo sotto ogni cielo.
[...] .. "Arrabbiarsi su cose italiane" pensava Florestano "è da lungo tempo fuori moda, e del resto perché ostinarsi a battere colla mazza nella fragranza dei fiori che vola in qua e in là? Io non saprei che mondo preferire, se uno pieno di Beethoven ostinati, o se uno pieno di cigni di Pesaro danzanti. Mi meraviglio soltanto di due cose; primo: perché le cantanti che non sanno mai che cosa devono cantare, non s'intestano ad eseguire piccole cose, cioè una canzone di Weber, di Schubert, di Wiedebein? - secondo: il lamento dei compositori di Lieder tedeschi, che appaiono così poco nei concerti; perché allora non pensano e non scrivono pezzi, arie e scene da concerto e cose simili?" L'artista (non Maria) che cantava qualcosa del Torwaldo, cominciò il suo: "Dove son? Chi m'aiuta" tremando talmente ch'io in me risposi: "A Firenze, cara! aide-toi et le ciel t'aidera!". Ma poi infilò felicemente ed il pubblico applaudì sinceramente. "Se almeno" osservò Florestano "le cantanti tedesche non si credessero dei bimbi che pensano di non esser visti quando tengono chiusi gli occhi! ma invece si nascondono quatte quatte dietro il foglio di musica cosicché vien fatto di osservare più attentamente il loro viso e allora si scorge quanta differenza passa fra le cantanti tedesche e italiane: queste ultime ho visto cantare all'Accademia di Milano e gettare delle occhiate cosi belle che temevo potesse scoppiare improvvisamente la passione artistica; io esagero, ma ben vorrei leggere negli occhi tedeschi qualcosa della situazione drammatica, qualcosa della gioia e del dolore ch'è nella musica; un bel canto ch'esce da un viso di marmo fa dubitare della sua intima bontà; intendo dir questo in generale." Avresti dovuto veder suonare Meritis nel concerto in sol minore di Mendelssohn!
Egli si mise al pianoforte tranquillo come un bimbo e cominciò a prender prigioniero un cuore dopo l'altro fino a tirarseli dietro a schiere e quando le lasciava libere, si sapeva soltanto che s'era volati davanti a qualche isola dei greci e che felicemente si era nuovamente sbarcati nella sala di Firenze. «Siete un Maestro abile» disse Florestano a Meritis alla fine del concerto, ed aveva ragione... Ieri riconobbi molto bene il mio Florestano, che ancora non m'aveva detto nulla sul concerto. Lo vidi, cioè, sfogliare un libro e far delle osservazioni in margine. Quando se ne andò via, lessi in un punto del suo diario: "Su alcune cose al mondo non si può dir niente, per esempio, sulla sinfonia in do maggiore con fuga, su parecchie cose di Shakespeare, su qualcuna di Beethoven", ed annotato in margine: "su Meritis, quando suona il concerto di Mendelssohn". Ci dilettammo assai ad un'ouverture di gran forza di Weber, la madre di tanti figliuoli zoppicanti, ed egualmente ad un concerto di violino suonato dal giovane ***: perché rallegra profetare con certezza ad un artista così appassionato che la sua via conduce alla maestria
[È omesso un passo su una sinfonia di Onslow, di scarso interesse pei lettori italiani].
Moderatamente entusiasti ce ne andammo ancora, di sera tardi, da Maestro Raro. Tu conosci Florestano, come siede al pianoforte e, mentre fantastica come in sogno, sai come parla, ride, piange, si alza, ricomincia da capo, ecc. Zilia era nel verone, altri Fratelli di Davide qua e là in vari gruppi: si discuteva molto. «Ho dovuto ridere» così disse Florestano cominciando in pari tempo la sinfonia in la maggiore «ho dovuto ridere d'un secco impiegatuccio che trovava in essa una battaglia di giganti, nell'ultimo tempo la loro effettiva distruzione, passando quatto quatto davanti all'allegretto, perché non coincideva colla sua idea - ho dovuto ridere di coloro che parlano eternamente d'innocenza e di bellezza assoluta della musica in sé - (è vero che l'arte non deve ripetere le "infelici quinte ed ottave" della vita, ma deve nasconderle - è vero che trovo sovente, ad esempio, nelle arie dello Heiling di Marschner della bellezza, ma senza verità, e in Beethoven - di rado però - qualche volta quest'ultima, senza la prima). Più di tutto mi sento prudere le dita quando qualcuno afferma che Beethoven nelle sue sinfonie si è sempre lasciato trascinare dai più grandi sentimenti, dai più alti pensieri su Dio, sull'immortalità e sul corso degli astri, mentre l'uomo geniale tende certamente al cielo con la sua vetta fiorita, ma allarga le radici nella sua terra amata. Per tornare alla sinfonia, l'idea non è affatto mia, ma di qualcuno che l'espresse in un vecchio fascicolo della Cecilia
[Rivista musicale fondata nel 1824 da Gottfried Weber] (forse per troppa delicatezza verso Beethoven, che si poteva risparmiare, la scena è trasferita in una distinta sala comitale o qualcosa di simile...): qui non si tratta di giganti, ma delle nozze più gioconde, la sposa è una celeste fanciulla con una rosa nei capelli, ma solo con una. Mi sbaglierei, se nell'introduzione gli ospiti non si riunissero e non si salutassero con tanto d'inchini, mi sbaglierei di molto se dei flauti allegri non ricordassero che in tutto il villaggio pieno di betulle adorne di nastri colorati, regna la gioia per la sposa Rosa, mi sbaglierei di molto se la pallida madre non le chiedesse con lo sguardo tremante: "Sai anche che dobbiamo separarci?" e poi Rosa non si gettasse commossa nelle sue braccia, tirando dietro a sé con l'altra mano il giovine...
«Fuori del villaggio però, v'è molta quiete» Florestano passò qui all'allegretto e ne tolse qua e là dei passi «solo una farfalla lo attraversa a volo una volta, o cade un fiore del ciliegio... L'organo incomincia; il sole è alto, qualche lungo raggio obliquo gioca col pulviscolo nella chiesa, le campane suonano a distesa - a poco a poco giungono i fedeli - le sedie vengono abbassate - qualche paesano guarda molto attentamente nel libro dei canti, altri guardano in alto la cantoria - il corteo s'avvicina - dinanzi i fanciulli del coro con le candele accese e con l'acquasantiera, poi amici che spesso si voltano per vedere gli sposi accompagnati dal sacerdote, i genitori, le amiche e dietro tutta la gioventù del villaggio. Tutti si mettono in ordine ed il sacerdote va all'altare a parlare ora alla sposa ed ora al più felice degli sposi, e poi ad ambedue dei doveri dell'unione e dei suoi scopi e come essi dovrebbero trovare la felicità nella concordia e nell'amore, poi infine chiede loro il "Sì" che tanto impegna in sé pei tempi eterni, ed essa pronuncia fermamente e con un lungo suono...
«Non fatemi continuare a dipingere questo quadro e fatelo a modo vostro nel finale...» troncò Florestano irrompendo nel finale dell'allegretto e suonandolo come se il sacrestano sbattesse la porta, da far rimbombare la chiesa...
Basta. L'interpretazione di Florestano ha eccitato sul momento anche in me qualche cosa, ed i caratteri mi tremano sotto la penna. Vorrei dirti ancora molte cose, ma ho voglia di andar fuori. E così vorrai attendere che passi l'intervallo di tempo fino alla mia prossima lettera nella fede d'un principio più bello!

Eusebio

FELIX MENDELSSOHN BARTHOLDY
Sonate per pianoforte [op. 6]

FRANZ SCHUBERT
Prima grande sonata [in la minore], op. 42. - Seconda grande sonata [in re maggiore], op. 53. - Fantasia o Sonata [in sol maggiore], op. 78. - Prima grande sonata a 4 mani [in si bemolle maggiore], op. 30.

I 'Fratelli di Davide' hanno informato in parecchie riviste delle sonate pubblicate recentemente. Essi non potrebbero chiudere questa catena con più nobili serrature di diamanti, se non colle suddette sonate, cioè con ciò che di più bello dopo Beethoven, Weber, Hummel e Moscheles, è apparso in questo genere di musica per pianoforte, da loro stimato al massimo. Se alfine si è giunti a farsi strada attraverso un ammasso di ciarpame che si accumula intorno ingombrante, opere simili sorgono davvero sul leggio come oasi di palme nel deserto.
Avremmo potuto recensirle a memoria, poiché noi (oggi, per questa solenne finale ci vogliamo incoronare della plural corona del "Noi"), le sappiamo da molti anni a memoria.
Non occorrerà ricordare che queste composizioni sono stampate da otto anni circa, e composte probabilmente da un tempo più lungo ancora, e pensiamo perciò incidentalmente se, in generale, non sarebbe molto meglio di non far conoscere ogni opera prima che sia passato un tempo così lungo.
Si sarebbe stupiti allora al vedere quanto poco vi sarebbe da recensire e come le gazzette musicali diverrebbero di piccolo volume e come si diverrebbe più avveduti. Soltanto ciò che ha in sé spirito e poesia si libra nell'avvenire e tanto più lentamente e più lungamente, quanto più profondamente e più fortemente sono state toccate le corde. E se anche ai 'Fratelli di Davide' la maggior parte dei lavori di gioventù di Mendelssohn appaiono come lavori di preparazione ai suoi capolavori, alle ouvertures, si trova però in ciascuno di essi tanto di così caratteristico, di così poetico da poter prevedere con sicurezza il grande avvenire di questo compositore. Non è che una immagine, quando se lo figurano tenuto per la mano destra da Beethoven, guardando a lui come ad un santo, e dall'altra condotto da Carl Maria von Weber (a quest'ultimo ci si può avvicinare più facilmente); è soltanto un'immagine anche quell'altra dove lo vedono alfine svegliarsi dal più bello dei suoi sogni, dal Sogno d'una notte d'estate, e i due Maestri dirgli: "Tu non hai più bisogno di noi, vola colla tua ala" - ma tanto è quel che è.
Se in questa sonata dunque vi son molte reminiscenze, la prima parte specialmente ricorda la pensosa malinconia dell'ultima sonata in la maggiore di Beethoven, e l'ultima parte lo stile di Weber in generale, questo non è debole imitazione ma affinità spirituale. Come del resto la musica urge, germoglia e zampilla in abbondanza! Tutto è verde e mattutino come un paesaggio di primavera! Quello che qui ci attira e ci commuove non è lo strano e il nuovo, ma proprio l'amabile, il consueto. Nulla c'incombe, nulla ci vuol stupire; alle nostre impressioni vengono suggerite le giuste parole, tanto che crediamo di averle trovate noi stessi. Si veda un po'!
Veniamo alle nostre preferite, alle sonate di Franz Schubert, che molti conoscono soltanto come compositore di romanze e i più soltanto di nome. Qui non possiamo dare che alcune indicazioni. Se volessimo dimostrare nei particolari perché le sue opere debbano essere dichiarate composizioni di altissimo valore occorrerebbero dei volumi, pei quali s'avrà forse da attendere ancora qualche tempo.
Poiché noi dobbiamo chiamare tutt'e tre le sonate, senza migliaia di parole, "magnifiche" a dirittura, ci sembra però che la sonata-fantasia sia la più compiuta nella forma e nello spirito. Qui tutto è organico, tutto respirai la stessa vita. Rimanga lontano dall'ultima parte chi non ha affatto fantasia per scioglierne l'indovinello.
Quella che più gli è affine è la sonata in la minore. La prima parte così tranquilla, così fantastica: potrebbe commuovere fino alle lagrime; inoltre è così lievemente e semplicemente costruita con due pezzi, che si deve ammirare il mago che li sa confondere ed opporre cosi stranamente.
Qual’altra vita gorgoglia nella vivace Sonata in re maggiore, - che afferra e trascina senza posa! E poi un adagio, che appartiene proprio tutto a Schubert, pieno di slancio, esuberante, che quasi non può trovare una fine. L'ultimo tempo, piuttosto burlesco, s'adatta poco coi resto. Chi volesse prender la cosa sui serio, diventerebbe ben ridicolo. Florestano la definisce una satira del noiosissimo
[Nel testo Schlafmülzenstil; letteralmente "stile berretto da notte"] stile di Pleyel e di Vanhal. Eusebio trova nei passi fortemente contrastanti delle smorfie colle quali si vuoi spaventare i bambini. Tutt'e due sboccano nell'umorismo.
Noi stimiamo la sonata a quattro mani una delle composizioni meno originali di Schubert, che qui è riconoscibile soltanto da alcuni lampi. E pure come s'intreccerebbe a molti altri compositori una corona d'alloro con quest'unica opera! - nel serto di Schubert non appare che come modesto ramoscello: tanto siam soliti a giudicare l'uomo e l'artista sempre secondo il meglio che ha prodotto. Schubert nelle sue romanze si mostra forse più originale ancora che nelle sue composizioni strumentali: noi apprezziamo altrettanto quest'ultime come puramente musicali e come in sé indipendenti. Egli ha specialmente come compositore per pianoforte qualcosa in più degli altri autori, e fra questi persino dello stesso Beethoven (che del resto cosi ammirevolmente fin nella sua sordità udiva colla fantasia) in questo senso, cioè, ch'egli sa strumentare più pianisticamente, vale a dire, che tutto risuona così intimamente, dalla profondità del pianoforte, mentre, ad esempio, per Beethoven dobbiamo farci prestare qualcosa per rendere il colore del suono, prima dal corno, dall'oboe, ecc... - Se ancora volessimo dire qualcosa sul profondo di queste sue creazioni in generale, sarebbe questo.
Egli ha dei suoni per i più fini sentimenti, per i pensieri, anzi per gli stessi avvenimenti e circostanze della vita. Così multiformi sono i pensieri e le azioni dell'uomo, altrettanto molteplice è la musica di Schubert. Ciò che egli vede coll'occhio, tocca con la mano, si trasforma in musica; dalle pietre ch'egli getta indietro balzan fuori, come da Deucalione e da Pirra, forme umane viventi. È stato il migliore dopo Beethoven che, nemico a morte d'ogni filisteismo, abbia esercitato la musica nel più alto senso della parola.
Così noi vogliamo che sia Lui quello a cui stringiamo ancora una volta in ispirito la mano, mentre la campana dell'anno sta per battere già l'ultimo colpo. Se vi volete affliggere perché questa mano già da lungo tempo è fredda e nulla può più rispondere, riflettete pure che se ancora vivono artisti simili a quello di cui abbiamo prima parlato, la vita è ancor degna d'esser vissuta. Ma poi, cercate d'esser come Lui sempre all'altezza di voi stessi, a quel "sublime", cioè, che una mano più alta ha posto in voi.

AFORISMI

DEL SUONARE A MEMORIA

Chiamatela pure un'audacia o una ciarlataneria, testimonierà ben sempre la grande forza dello spirito musicale. Perché questa buca di suggeritore? Perché questo peso al piede, se ci sono ali alla testa? Non sapete che un accordo, letto dalla musica, per quanto sia liberamente toccato, non risuona nemmeno per metà così liberamente come uno sonato di fantasia? Oh, voglio rispondervi dalla vostra anima: va bene ch'io sia attaccato alla tradizione, perché sono un tedesco, ma stupirei certamente, se all'improvviso una ballerina, un attore, un declamatore si togliessero le loro parti dalla tasca, per ballare e declamare più sicuramente; io son proprio come quel filisteo che, quando ad un virtuoso cadde la musica dal leggio e continuava ciò nonostante tranquillamente a suonare, esclamò trionfante: «Vedete, vedete un po'! questa è un'arte grande! lo sa a memoria!'».

Florestano

Sarebbe nato senza lo Shakespeare il Sogno d'una notte d'estate di Mendelssohn, sebbene Beethoven ne abbia scritti parecchi (pur anche senza titolo)?
Il pensiero può rendermi triste.

Florestano

Anzi - perché certi caratteri si mostrano indipendenti soltanto quando si sono appoggiati ad un altro lo, come per esempio, lo stesso grande Shakespeare che, è noto, ha preso gran parte della materia delle sue opere da autori antichi o da novelle e simili?

Eusebio

Eusebio dice il vero. Parecchi spiriti creano liberamente soltanto quando si sentono condizionati.

Raro

ROSSINI

Sarebbe troppo unilaterale sopprimere tutto Rossini, se stesse in qualche modo in rapporto al ravvivamento dell'opera tedesca. Rossini è ottimo pittore di decorazioni, ma toglietegli la luce artificiale e la seduttrice lontananza teatrale e vedrete che cosa resta. In generale, quando sento parlare del "riguardo" verso il pubblico, del consolatore e salvatore Rossini e della sua scuola, sussulto fino alla punta delle dita. Si tratta con troppa delicatezza il pubblico: esso comincia ad irrigidirsi nel suo gusto, mentre un tempo ascoltava modestamente da lontano ed era felice d'azzeccare a volo qualcosa dall'artista. Dico questo senza ragione? E non si va al Fidelio per la Schroeder (in un certo senso a ragione) e agli oratori per pura e semplice pietà? Già! Lo stenografo Herz, che ha il cuore soltanto nelle dita, non riceve, dico bene - non riceve per un suo quaderno di variazioni quattrocento talleri, mentre Marschner per tutto il suo 'Hans Heiling' ben poco di più? Ancora una volta - fremo fino alla punta delle dita!

Florestano

VISITA DI ROSSINI A BEETHOVEN

La farfalla volò sulla via dell'aquila, ma questa la scansò per non schiacciarla con un colpo d'ala.

Eusebio

ITALIANO E TEDESCO

Guardate la graziosa farfalla svolazzante: prendetele la polvere colorata e vedrete come vola miseramente e come sarà poco osservata; mentre dopo secoli si ritrovano ancora scheletri di creature gigantesche, che i posteri si mostrano con stupore.

1836

UN MONUMENTO A BEETHOVEN
(4 opinioni in proposito)

I.

Il mausoleo del ricordo futuro sta innanzi a me già finito: una base abbastanza alta, con sopra una lira, l’anno di nascita e di morte, poi il cielo e qualche albero intorno.
Uno scultore greco, a cui s’eran rivolti per il piano d’un monumento ad Alessandro, propose di tagliare il monte Athos per fare la statua di lui; che in una mano teneva una città nell’aria; fu creduto pazzo ma, in verità, lo era meno di questi sottoscrittori tedeschi da un soldino. - Felice te, o imperatore Napoleone, che dormi lontano in mezzo all’oceano, ché noi tedeschi non ti possiamo inseguire con un monumento, per le battaglie che hai vinto contro di noi o con noi: tu sorgeresti dalla tomba col raggiante “Marengo, Parigi, passaggio delle Alpi, Sempione” e il mausoleo crollerebbe in frantumi! Ma la tua sinfonia in re minore, o Beethoven, e tutti i tuoi canti di dolore e di gioia non ci sembrano ancor grandi abbastanza, per risparmiarti un monumento, e non ti sottrarrai in alcun modo alla nostra stima!
Io capisco dal tuo aspetto, Eusebio, come le mie parole t’incolleriscano e come ti lascieresti impietrire, per pura bontà d’animo, in statua in uno Sprudel
[Sorgente bollente] di Carlsbad, se potessi con ciò esser utile al comitato.
Ed io non porto forse in me il dolore di non aver mai veduto Beethoven, di non aver mai premuta la mia fronte ardente sulla sua mano, anche se avessi voluto dare per ciò una gran parte della mia vita?... Salgo lentamente le scale della Schwarzspanierhaus n. 200; tutto è inanimato intorno a me; entro nella sua camera: egli si rizza, simile ad un leone, la corona sul capo, una spina nella zampa. Egli parla dei suoi dolori. Nello stesso momento mille incantati entusiasti s’aggirano fra le colonne del tempio della sua sinfonia in do minore. Ma le pareti potrebbero cadere in pezzi. Egli ha un gran desiderio di andar fuori, si lamenta che lo si lasci così solo, e che così poco si curino di lui. In questo momento i bassi riposano su quel suono profondissimo ch’è nello scherzo della sinfonia; non un respiro: i mille cuori pendono ad un capello su di un abisso insondabile ed ora il capello si strappa e lo splendore delle cose eccelse fa sorgere arcobaleni su arcobaleni, uno accanto all’altro. Noi corriamo per le strade: nessuno che lo conosca, che lo saluti. Rimbombano gli ultimi accordi della sinfonia: il pubblico si frega le mani, il filisteo esclama con entusiasmo: "Questa è vera musica!". Cosi lo festeggiavate nella vita; ma nessun accompagnatore, nessuna accompagnatrice che gli si sia offerta; egli morì nel modo più doloroso, come Napoleone, senza avere un bimbo al petto, nel deserto d’una grande città. Fategli dunque un monumento - forse lo merita; ma allora possano stare un giorno sul vostro piedestallo rovesciato, quei versi di Goethe:

Solange der Tüchtige lebt und tut,
Möchten sie ihn gern steinigen;
Ist er hinterher aber tot,
Gleich sammeln sie grosse Spenden
Zu Ehren seiner Lebensnot
Ein Denkmal zu vollenden.
Doch ihren Vorteil sollte dann
Die Menge wohl ermessen,
Gescheiter wär’s, den guten Mann
Auf immerdar vergessen.

[“Finché l’uomo genialmente operoso vive ed agisce, - lo vorrebbero lapidare volentieri; - ma appena è morto, - subito raccolgono grandi oboli - per innalzare un monumento - in onore della sua lotta per la vita. - La folla però dovrebbe ben - misurare il suo interesse - sarebbe più avveduto, il brav’uomo - dimenticare per sempre.”]

Florestano.


II.

Se qualcuno mai dovesse esser assolutamente sottratto all’oblio, si dovrebbe preferibilmente rendere un po’ d’immortalità ai critici di Beethoven, specialmente a quello che nella Gazzetta musicale universale, anno 1799, pag. 151 prevede: “Se il signor von Beethoven non volesse più smentire se stesso e seguire il corso della natura, col suo ingegno e colla sua applicazione egli certamente potrebbe darci molto di buono per uno strumento, che ecc.”.
Sì, certo, è nel corso della natura e nella natura delle cose! Trentasette anni son passati, frattanto: come un girasole del cielo il nome di Beethoven s’è sviluppato, spiegato, mentre il critico s’è appassito in una soffitta come un’ortica secca.
Ah! vorrei malgrado ciò conoscere il briccone, per aprire una sottoscrizione che gl’impedisse di morire affamato!
Börne dice: "Finiremo per fare un monumento anche al buon Dio". Io dico, già un monumento è una rovina minacciata per il futuro (come la rovina è, a sua volta, un monumento scomparso) ed è cosa che dà da pensare; e non parlo poi di due o tre monumenti…
Posto che Vienna abbia sentito gelosia per Bonn e che insistesse per fare un monumento, che ridere, quando ci si domanderà: ma ora qual è proprio il vero? Ambedue le città ne hanno diritto, il suo nome è nei registri delle due chiese; il Reno si proclama sua culla, il Danubio (triste gloria, veramente) sua tomba. I poeti forse preferiscono quest’ultimo, perché scorre verso l’Oriente e sbocca nel grande Mar Nero; ma gli altri vantano le beate rive del Reno e la maestà del Mar del Nord. Infine, s’aggiunge, quale centro della cultura tedesca, anche Lipsia, col merito speciale, fra i tanti che le ha fatto piovere la grazia del cielo, d’essersi interessata la prima alle composizioni di Beethoven. Io spero dunque su tre monumenti.
Una sera, andai al cimitero di Lipsia per cercare il luogo di pace d’un Grande: cercai per molte ore a destra e a sinistra, non trovai nessun “J. S. Bach” e quando interrogai su ciò l’interratore, egli scrollò il capo per l’oscurità del nome e disse: "Di Bach ve ne son molti!". Sulla via del ritorno mi dissi: come il caso qui opera poeticamente! Affinché noi non pensiamo alla polvere fugace, affinché nessun’immagine della morte comune ci sorgesse innanzi, il caso ha sparso la cenere al vento, e così non voglio più pensare a Bach in altro modo che seduto all’organo, dritto nel suo abito più elegante: e mentre sotto le dita freme lo strumento i fedeli guardano devotamente in su e forse gli angeli guardano in giù. - Al suo posto, o Felix Meritis, uomo dall’anima alta come la fronte, suonasti uno dei suoi corali variato, quello colle parole: “Fatti bella, anima mia”; intorno al canto fermo sono inserte corone di foglie dorate e vi è versata una tale beatitudine che tu stesso mi confessasti: "Se la vita t’ha presa la speranza e la fede, questo solo corale ti ridonerebbe tutto". Su ciò tacqui e tornai di nuovo, quasi macchinalmente, al cimitero e colà sentii un dolore pungente, perché io non poteva deporre sulla sua tomba nemmeno un fiore, così i leipzighesi del 1750 caddero dalla mia stima. Risparmiatemi d’esprimere i miei desideri su di un monumento per Beethoven.

Gionata.


III.

In chiesa si deve camminare in punta di piedi, perciò tu, Florestano, m’offendi col tuo entrare impetuoso. In questo momento mi stanno ascoltando molte centinaia di uomini; il problema è tedesco: è il più alto artista della Germania, il più alto fra i rappresentanti della parola e dello spirito tedesco, non eccettuato Jean Paul, che dev’essere celebrato; egli appartiene all’arte nostra; si lavora faticosamente da molti anni al monumento di Schiller, per quello di Gutenberg si è ancora al principio. Voi meritereste tutte le beffe di Janin, tutte le villanie d’un Börne, tutti i calci d’una sfrenata poesia di Lord Byron, se lasciate cadere la cosa in tal modo o la spingete innanzi così indolentemente!
Voglio porvi un esempio sotto gli occhi. Specchiatevi! - Quattro povere sorelle vennero, un tempo, dalla Boemia nella nostra città: suonavano l’arpa e cantavano. Possedevano molto ingegno, ma di studio regolare non sapevano nulla. Allora un uomo pratico dell’arte [Il Cantor della scuola di San Tommaso, Hiller (Sch.)] si occupò di loro, le istruì ed esse divennero, grazie a lui, donne distinte e felici. L’uomo era morto da lungo tempo e soltanto i più intimi si ricordavano di lui. Un giorno, forse vent’anni dopo, giunse da lontani paesi uno scritto delle quattro sorelle, che dava i mezzi sufficienti perché si potesse elevare al loro maestro un monumento. Questo sta sotto le finestre di J. S. Bach e quando i posteri s’informano di Bach li colpisce anche quel semplice monumen-to che, tanto al benefattore come alla gratitudine, assicura un commosso ricordo. Ed allora perché un’intera nazione di fronte a un Beethoven (che ad ogni pagina le insegna grandezza di sentimenti ed orgoglio di patria), non dovrebbe elevargli un monumento mille volte più grande? Se fossi un principe costrurrei per lui un tempio nello stile del Palladio: vi sarebbero dieci statue; Thorwaidsen e Dannecker non potrebbero crearle tutte, ma almeno potrebbero farle finire sotto i loro occhi; nove sarebbero le statue, come le Muse, per le sue sinfonie: Clio sarebbe l’Eroica, Talia la Quarta, Euterpe la Pastorale e così via, Egli il divino Musagete. Là dovrebbe raccogliersi di tempo in tempo il popolo dei cantori tedeschi, là dovrebbero tenersi gare, feste, là dovrebbero essere eseguite le sue opere nel modo più perfetto. Oppure, un’altra cosa: prendete centinaia di querce centenarie e servitevene per scrivere sul terreno con tale scrittura gigantesca il suo nome. Oppure scolpitelo in una forma colossale come il san Carlo Borromeo al Lago Maggiore, affinché Egli possa, come già faceva nella vita, guardare al di sopra di tutte le montagne, - e quando i battelli del Reno scorreranno e gli stranieri chiederanno che cosa significhi quel gigante, ogni fanciullo potrà rispondere: è Beethoven, - ed essi penseranno che sia un imperatore tedesco. O se volete esser utili ai viventi, fondate in suo onore un’Accademia intitolata “Accademia della musica tedesca”, in cui avanti tutto sia insegnato, il suo Verbo, il Verbo secondo il quale la musica non debba essere coltivata come un mestiere comune da chiunque; ma dischiusa dai sacerdoti come un mondo meraviglioso agli eletti; una scuola di poeti, più ancora, una scuola di musica nel significato greco. In una parola: sollevatevi una buona volta, lasciate la vostra flemma e pensate che questo monumento sarà ben pur il vostro!

Eusebio.


IV.

Alle vostre idee manca... il manico: Florestano manda in frantumi ed Eusebio lascia cader per terra. E’ certo che la più alta testimonianza d’onore come la più pura prova di riconoscenza per i grandi cari morti, è continuare ad operare secondo il loro spirito: ma tu, Florestano, devi ammettere che noi dobbiamo mostrare in un modo qualsiasi la nostra venerazione, sia pur esternamente, e che se non si comincia mai una volta, una generazione si appoggierà alla negligenza dell’altra. Sotto lo sfacciato mantello che tu, Florestano, getti sulla cosa, si potranno anche rifugiare qua e là tanto il senso comune e l’avarizia, quanto la paura d’esser presi in parola se si lodano un po’ troppo inavvedutamente i monumenti. Mettetevi dunque d’accordo!
In tutti i paesi tedeschi dovrebbero organizzarsi delle collette individuali, e accademie, concerti, rappresentazioni d’opera, esecuzioni religiose; ed anche non sembrerebbe inopportuno chiedere un dono in occasione di grandi feste musicali e vocali. Ries a Francoforte, Chéland ad Augsburg, L. Schubert a Koenigsberg hanno già cominciato più che lodevolmente. Spontini a Berlino, Spohr a Cassel, Hummel a Weimar, Mendelssohn a Lipsia, Marschner ad Hannover, ecc. ... - vedete un po’, che serie di degni artisti vi metto sott’occhio, e quali città, mezzi e forze rimangono ancora. E possa allora un alto obelisco o una piramide annunciare ai posteri: che i contemporanei d’un grand’uomo, i quali hanno onorato le opere del suo spirito sopra ogni cosa, si sono sforzati di dimostrare ciò con un segno straordinario.

Raro.

FEDERICO CHOPIN

Primo concerto per pianoforte con orchestra, op. 11.
Secondo concerto per pianoforte con orchestra, op. 21.

I.

Non appena vi trovate dinanzi degli avversari, rallegratevene! o giovani artisti; ciò dimostra la forza del vostro ingegno e stimate questo tanto più importante quanto quelli sono più ostinati. Rimane però sorprendente che in quegli anni così aridi anteriori al 1830, dove si sarebbe dovuto render grazie al cielo per ogni filo di paglia migliore, la stessa critica, che veramente verrà sempre in coda se non proviene da teste produttive, abbia indugiato tanto a lungo, scrollando le spalle, a riconoscere Chopin; anzi vi fu chi ebbe il coraggio di dire che le sue composizioni erano buone soltanto per essere stracciate.
Ma basta di ciò. Anche il duca di Modena non ha ancora riconosciuto Luigi Filippo, e se il trono delle barricate non è su piedi dorati, non è certo a causa del duca. Forse io dovrei qui citare incidentalmente una celebre rivista di ciabattini che, alle volte, come noi sappiamo per sentito dire (poiché non la leggiamo e ci lusinghiamo un po’ di rassomigliare in ciò a Beethoven: v. gli studi di B. ediz. Seyfried), alle volte, dunque, ci sorride di sotto la maschera con occhiate dolcissime come colpi di pugnale: questo, perché una volta ho detto ridendo ad uno dei suoi collaboratori (che aveva scritto qualcosa sulle variazioni di Chopin sul Don Giovanni) che lui, il collaboratore, aveva un paio di piedi di troppo, come un cattivo verso, e stesse attento perché glie li si voleva tagliare all’occasione!
Ma devo ricordare queste cose proprio oggi che ti- torno dall’aver udito il concerto in fa minore di Chopin? Neanche per idea. Latte contro il veleno, fresco latte azzurro! Infine, che cos’è un’intera annata d’una rivista musicale a confronto d’un concerto di Chopin? Il delirare d’un pedante in confronto a quello d’un poeta? Che cosa sono dieci pezzi grossi di redazione per un adagio del secondo concerto? E davvero, Fratelli di Davide, non vi stimerei degni d’un discorso di questo genere, se voi stessi non aveste fiducia di creare delle opere simili a quelle che volete criticare, eccettuate però alcune, come appunto questo secondo concerto, a cui tutti noi riuniti non potremmo accostarci per baciarne il lembo, anche soltanto colla punta delle labbra. Al diavolo le riviste musicali! Anzi, il trionfo e l’ultimo scopo d’una buona rivista dovrebb’essere (e molte lavorano già in tal senso) di sollevarsi così in alto che nessuno per la noia volesse più leggerla, e che il mondo davanti a così eccessiva produttività non volesse più udir nulla di quel ch’è stato scritto; - lo sforzo più alto di critici sinceri (come molti si affaticano a farlo) sarebbe di rendersi affatto superflui; - la miglior maniera di parlar di musica sarebbe di tacere. Allegri pensieri sono quelli dei redattori di rivista, che non dovrebbero presumere d’essere i buoni dèi degli artisti, perché questi li potrebbero lasciar morire di fame. Al diavolo le riviste! Se si eleva, la critica, è sempre un passabile concime per le opere future; ma il sole di Dio fa germinare sufficientemente anche senza di questa. Ancora una volta, perché scrivere su Chopin? Perché costringere i lettori alla noia? Perché non attingere alla sorgente, suonare, scrivere, comporre noi stessi? Per l’ultima volta al diavolo le riviste musicali, quelle speciali e le altre!

Florestano.


II.

Se le cose andassero secondo la testa di questo bel matto di Florestano, egli sarebbe capace di chiamare quanto sopra una recensione e di por fine con essa all’intera rivista. Ma rifletta che noi dobbiamo ancora adempiere un dovere verso Chopin, di cui nei nostri fogli non abbiam ancor notato nulla, e il mondo potrebbe prendere alla fine il nostro mutismo per tutt’altra cosa che venerazione. Se una glorificazione con le parole (la più bella gli è già stata condivisa- da migliaia di cuori) è rimasta in sospeso fino ad ora, è per queste ragioni: per un verso, la tema che coglie uno allorché tocca un soggetto su cui s’indugia spessissimo ed assai volentieri con tutta la sua mente, la tema cioè di non saper parlare con sufficiente proporzione della dignità del soggetto afferrandolo da ogni parte, in tutta la sua profondità ed altezza, - per altro verso, per le intime relazioni artistiche con cui noi riconosciamo di essere con questo compositore; finalmente poi anche perché Chopin nelle sue ultime composizioni non sembra battere una strada diversa, ma più elevata, sulla direzione e sulla presumibile meta della quale noi speravamo di venirne prima più illuminati, per renderne conto ai nostri amati fratelli stranieri...
Il Genio crea regni in cui poi i piccoli stati vengono divisi da un intelletto supremo fra gli ingegni, affinché questi organizzino i particolari portandoli a compimento: cosa che al primo è impossibile di fare nella sua attività mille volte attraente e più straripante. Come un tempo, ad esempio, Hummel seguì la voce di Mozart rivestendo i pensieri del maestro d’un più brillante velo svolazzante, così Chopin segui quella di Beethoven. Oppure, senza immagine: come Hummel elaborò lo stile di Mozart pel godimento di chiunque e pel virtuoso di un determinato strumento, così Chopin condusse lo spirito di Beethoven nella sala da concerto.
Chopin non s’introdusse con un esercito orchestrale come fanno i grandi geni; egli possiede soltanto una piccola coorte, ma gli appartiene tutta intera fino all’ultimo eroe.
Egli formò la sua istruzione sui Grandi: Beethoven, Schubert, Field. Supponiamo che il primo abbia sviluppato il suo spirito nell’arditezza, l’altro il suo cuore nella delicatezza, il terzo la sua mano nell’abilità.
Così egli si trovava fornito di tutte le profonde conoscenze della sua arte, pienamente armato di coraggio nella coscienza della sua forza, quando nel 1830 si sollevò la grande voce dei popoli dell’Occidente. Centinaia di giovani aspettavano il momento: ma Chopin fu uno dei primi a salire sul bastione dietro cui giaceva nel sonno una vile Restaurazione e un nano filisteismo.
Appena caddero i colpi a destra ed a sinistra, i Filistei si svegliarono arrabbiati e gridarono: "Guardate gli sfrontati!". Ma altri, dietro gli assalitori ribattevano: "Che magnifico coraggio!".
Ma oltre a ciò ed alle favorevoli congiunture del tempo e della situazione, il destino fece ancora qualcos’altro per rendere Chopin conosciuto e interessante davanti a tutti, gli diede cioè una nazionalità forte ed originale: quella polacca. E poiché questa povera Polonia va ora in neri abiti a lutto, essa ci commuove ancor più fortemente nell’artista meditativo. Beato lui, cui nel primo momento la neutrale Germania non corrispose troppo favorevolmente e che così il suo genio condusse subito verso una delle capitali del mondo, dov’egli poté liberamente comporre e incollerire. Perché se il possente autocrate del Nord sapesse come nelle opere di Chopin, nelle semplici melodie delle sue mazurke, lo minaccia un pericoloso nemico, egli proibirebbe la musica. Le opere di Chopin sono cannoni sepolti sotto i fiori.
In questa sua origine, nel destino della sua terra riposa dunque la spiegazione dei suoi pregi, come pure dei suoi difetti. Se si parla di fantasticheria, di grazia, o di presenza di spirito, di fiamma o di nobiltà, chi non penserebbe allora a Chopin? ma chi non vi penserebbe pure parlando di bizzarria, di eccentricità morbosa, di odio anzi e di ferocia?
Tale è l’impronta di spiccatissima nazionalità che portano le prime composizioni di Chopin.
Ma l’arte chiedeva di più. Il piccolo interesse della zolla su cui egli è nato, doveva esser sacrificato al cosmopolita, e già si perde nelle sue opere più recenti quella fisionomia sarmatica troppo speciale; la sua espressione s’inclinerà a poco a poco verso quella ideale e universale, di cui i divini Greci già da lungo tempo sono stati da noi considerati come i creatori, cosicché noi, pur seguendo un’altra strada, finiamo per ritrovarci in Mozart.
Ho detto "A poco a poco"; perché egli non rinnegherà completamente la sua origine e non lo dovrà. Ma quanto più se ne allontanerà, tanto più la sua importanza per l’arte in generale dovrà aumentare.
Se dovessimo in qualche modo spiegare a parole l’importanza che Chopin ha già raggiunta in parte, dovremmo dire ch’egli concorre a quel riconoscimento, la cui fondatezza appare sempre più necessaria; e cioè: che un progresso dell’arte nostra deve prima avvenire con un progresso degli artisti verso un’aristocrazia spirituale, per gli statuti della quale non sia solamente richiesta, ma già presupposta, la conoscenza del “mestiere inferiore”, e per cui nessuno vi sarebbe ammesso se non apporta tanto ingegno da effettuare ciò che esige dagli altri, come fantasia, sentimento e spirito... E tutto questo, per far nascere l’epoca più alta d’una cultura musicale universale, dove mai un dubbio qualsiasi dovrà dominare sulla verità, né sulle molteplici forme nelle quali essa potrebbe apparire, e dove, per musicale, dovrebb’essere compreso quel profondo e vivo accordo, quella fattiva simpatia, quella facoltà del presto ricevere e rendere, affinché nell’unione della produttività e della riproduttività della comunità artistica sempre più ci si possa avvicinare ai più alti scopi dell’arte.

Eusebio.

FELIX MENDELSSOHN BARTHOLDY

Tre Capricci, op. 33.

Sovente sembra che quest’artista, che il caso ha dotato fin dal battesimo d’un giusto nome, prenda alcune battute, anzi degli accordi dal suo Sogno d’una notte d’estate per svilupparli e ritoccarli nuovamente in opere staccate, così come press’a poco un pittore riproduce la sua Madonna in ogni sorta di teste d’angelo. In quel Sogno i più cari desideri d’un artista son corsi tutti insieme alla meta; è il risultato della sua esistenza - e quanto sia bello e significativo, noi tutti sappiamo. Due dei citati capricci devono appartenere ad un tempo ormai passato; infatti potrebbero esser scritti anche da altri maestri, ma in quello di mezzo, ch’è di data più recente, sta su ogni pagina come in grandi caratteri: F. M. B.; - questo è il capriccio the amo, amo sopra tutti e vedo in esso un genio furtivamente venuto in terra.
Qui nulla v’è di teso o di sforzato, non apparizioni di spettri, non burle di fate; dappertutto si cammina su solido suolo, un suolo fiorito, tedesco; è un volo estivo di Walt sopra la terra, come in Jean Paul. Sebbene io sia quasi persuaso che nessuno possa suonare questo pezzo con così inimitabile grazia come il compositore stesso, e dia ragione ad Eusebio il quale pen-sa “che (il compositore) con questo potrebbe rendere infedele in pochi momenti la ragazza più innamorata”, credo che nessuno possa sopprimere interamente queste venature così trasparenti, questo colorito ondeggiante, questa delicatissima movenza di tratti. Quanto diversi sono gli altri Capricci e quasi in nessun rapporto con quello di mezzo! Nell’ultimo specialmente si sente come una rabbia muta, trattenuta, che si calma abbastanza verso la fine, ma poi erompe con pieno sfogo. Perché? - Chi lo sa! Alle volte si è cupi, senza saper precisare per quale ragione, e si vorrebbe “con pugno dolcissimo” mandar tutto in frantumi e fuggire dalla terra stessa, se giusto non vi fosse da sopportare ancora di queste cose. Ad altri il capriccio farà un effetto diverso, su di me così: lasciamolo com’è. Invece, saremo d’accordo sul primo: noi proveremo un dolore leggero, che dalla musica, dove s’è gettato, chiede e riceve sollievo. Di più non vogliamo dire. Ed ora il primo sguardo del lettore voli sul fascicolo stesso.

SIX ETUDES DE CONCERT COMP. D’APRÈS
DES CAPRICES DE PAGANINI par R. S., Oe. X.

Assegno un numero d’opera a questi studi, perché l’editore m’ha detto ch’essi “andranno” meglio: una ragione davanti a cui tutte le mie molte obbiezioni dovevano cedere. In silenzio riguardavo questo X (poiché non sono ancora alla nona Musa) come il segno della grandezza sconosciuta: e la composizione (eccettuati i bassi, le parti medie più dense, eccettuati anche i ripieni armonici e qua e là la forma resa più morbida) mi sembrava ancora una vera opera di Paganini. Se è lodevole l’aver ascoltato in se stessi amo-rosamente i pensieri d’un grande, averli lavorati e di nuovo portati alla luce, forse a me spetta quest’elogio.
Paganini stesso deve stimare il suo ingegno di compositore più che il suo genio eminente di virtuoso. Benché si possa, almeno fino ad ora, non essere in ciò completamente d’accordo con lui, nelle sue composizioni però e specialmente nei Capricci per violino (da cui son tratti i sopraddetti studi e che da un capo all’altro sono nati e concepiti con una rara freschezza e leggerezza) vi sono tanti diamanti si che l’incasto-natura più ricca richiesta dal pianoforte potrebbe rafforzarli piuttosto che volatilizzarli. Ma questa volta procedetti ben in altro modo che nella edizione d’un mio precedente fascicolo di studi secondo Paganini, dove io copiai l’originale, forse a suo danno, quasi nota per nota, sviluppando solo la composizione armonica. Mi liberai dunque dalla pedanteria d’una traduzione letteralmente fedele e volli che la presente rielaborazione desse l’impressione d’una composizione per pianoforte affatto indipendente, sì da far dimenticare l’origine violinistica, senza che però l’opera ne avesse a scapitare in idee poetiche. Che io, per ottener questo, abbia dovuto mutare molto specialmente a riguardo della forma
[È necessario sapere in che modo gli Studi siano nati e come rapidamente siano stati messi a stampa, per indulgere a parecchie cose dell’originale. Lipinski ha raccontato ch’essi sono stati scritti in tempi e luoghi diversi e regalati manoscritti da P. a suoi amici e come, quando più tardi l’editore Ricordi richiese da P. la raccolta per un’edizione, questi in fretta li abbia trascritti a memoria (Sch.)] e dell’armonia, tralasciando delle cose o inserendone delle altre, ben si comprende, ma naturalmente l’ho fatto sempre con tutta l’attenzione dovuta ad un così potente e onorabile spirito. M’occorrerebbe troppo spazio per citare tutti i cambiamenti e le ragioni del perché io l’abbia fatto; se poi sia sempre ben riuscito, lascio decidere agli amici dell’arte che vi s’interessano con un confronto dell’originale, cosa che non può non esser fruttuosa.
Coll’epiteto “da concerto” ho voluto distinguere questi studi da quelli sopra ricordati, apparsi precedentemente ed anche perché per il loro carattere brillante s’addicono in ogni modo all’esecuzione pubblica. Ma poiché essi corrono per lo più dritti al loro scopo principale, cosa a cui un pubblico misto di concerto non è abituato, il meglio sarebbe di farli precedere da un libero preludio, breve e adatto.
Desidererei ancora che si facesse attenzione ad alcune osservazioni.
Nel n. 2 ho scelto un altro accompagnamento perché il tremolo dell’originale stancherebbe troppo l’esecutore come gli uditori. Io ritengo del resto questo numero specialmente bello, delicato e sufficiente per sé solo ad assicurare a Paganini un posto di prim’ordine fra i moderni compositori italiani. Florestano lo definisce un fiume italiano che sbocca sul suolo tedesco.
Il n. 3, per la sua difficoltà, non fa abbastanza effetto; chi però se ne sarà ben impadronito, vi troverà molte altre cose.
Per l’esecuzione del n. 4 aleggiò nel mio spirito la marcia funebre della sinfonia Eroica di Beethoven. Ognuno proverà forse la stessa impressione. L’intero pezzo è pieno di romanticismo.
Nel n. 5 ho trascurato apposta ogni indicazione per l’interpretazione, affinché lo studioso ne cerchi egli stesso l’altezza e la profondità. Questo procedimento dovrà apparire molto indicato per esaminare la facoltà di comprensione dello scolaro.
Quanto al n. 6 dubito che chi abbia suonato i Capricci per violino, possa riconoscerlo lì per lì. Eseguito senza errori come pezzo per pianoforte, appare grazioso nella sua onda armoniosa. Osserverò ancora che la mano sinistra incrociante la destra (fino alla 24.ma battuta) ha sempre da toccare soltanto la nota più alta (scritta colla coda verso l’alto). Gli accordi risuonano più pieni, se il dito incrociato della mano sinistra s’incontra proprio nello stesso momento col quinto della mano destra. L’allegro che segue, era difficile da armonizzare. Son riuscito ad addolcire un po’ soltanto quel non so che di duro e di un po’ piatto della ripresa in mi maggiore; altrimenti, si sarebbe dovuta ricomporre interamente.
Gli Studi sono, nessuno eccettuato, di estrema difficoltà e ciascuno ha la sua propria particolare. Coloro che li prenderanno in mano la prima volta, faranno bene a leggerli prima coll’occhio, perché anche degli occhi e delle dita veloci come il lampo sarebbero appena in condizioni di seguire la melodia, in un tentativo a prima vista.
Non bisogna quindi aspettarsi che il numero di quelli che potrebbero padroneggiare magistralmente questi pezzi sia molto grande; essi contengono però troppe cose geniali, perché coloro che li avranno uditi una volta completamente, non debbano ripensarvi spesso con favore.

1837

PRELUDI E FUGHE PER PIANOFORTE DI
FELICE MENDELSSOHN BARTOLDY op. 35

Una testa calda così ha definito il concetto di “fuga”: “È un pezzo di musica, dove una voce scappa davanti a un’altra - fuga a fugere - e l’uditore davanti a tutte” perciò quando andavamo a concerti dove si eseguivano fughe, quel tale cominciava a parlar forte e, ancor più spesso, a dire ingiurie. Ma in fondo egli ne capiva poco e sembrava appunto la volpe della favola, poiché non riusciva a comporne mai alcuna per quanto lo desiderasse in segreto. In ben altro modo invece la definiscono coloro che le sanno fare, organisti, studenti di musica alla fine degli studi, ecc.! Secondo costoro “Beethoven non ha mai scritto una fuga, né avrebbe saputo scriverla; persino Bach s’era prese delle libertà che facevano alzare le spalle; il solo Marpurg [Fr. W. Marpurg, 1718-1795, celebrato teorico del suo tempo, autore d’un famoso Trattato della fuga ancora consultato ai nostri giorni] aveva dato il metodo migliore” ecc. Altri, invece, pensano ben diversamente; io, per esempio, che per lunghe ore posso inebbriarmi delle fughe di Beethoven, di Bach e di Haendel e che ho sempre sostenuto non fosse più possibile farne una che non sia insipida, tiepida, miserevole, e tutta rappezzata; ma queste di Mendelssohn m’hanno ridotto al silenzio. S’ingannano intanto i mestieranti di fughe se credono di ritrovare i loro vecchi magnifici artifizi come le imitationes per augmentationem duplicem, triplicem, etc., oppure cancricantes motu contrario, etc. - e s’ingannano pure i romantici se sperano di trovarvi qualche inattesa fenice che si sia liberata dalla cenere d’una forma antica. Ma se essi avessero gusto per la sana musica naturale, ne troverebbero là a sufficienza. Non voglio lodare ciecamente e so anzi benissimo che Bach ha fatto anche delle fughe d’altro genere. Se ora si levasse dalla tomba forse inveirebbe a destra e a sinistra per lo stato della musica in generale; ma poi si rallegrerebbe che qualcuno coltivi ancora dei fiori sulla terra dov’egli aveva piantato delle gigantesche foreste di querce. In una parola, le fughe di Mendelssohn hanno molto di Sebastiano e potrebbero indurre in errore il più acuto redattore, se non fosse per il canto, per la melodicità più delicata, da cui si riconosce il tempo moderno, e qua e là per quei piccoli, caratteristici tratti di Mendelssohn che lo rivelano fra cento come compositore. Che i redattori lo osservino o no, rimane ben certo che il compositore non ha scritto queste fughe per passatempo, ma allo scopo di richiamare nuovamente l’attenzione dei pianisti su quella vecchia forma magistrale e di riabituarli ad essa. Inoltre egli ha scelto per ciò i giusti mezzi evitando tutte quelle infelici, inutili sottigliezze di frase e di imitationes, facendo prevalere il carattere melodico della frase cantabile. E però il tenersi strettamente alla forma di Bach, è per lui cosa naturale.
Se poi tale trasformazione sia avvenuta con vantaggio, senza che però ne venisse completamente alterato il carattere di fuga, è una domanda a cui più d’uno tenterà di rispondere. Beethoven avrebbe ben voluto farlo, ma era già troppo occupato e compreso nella costruzione delle cupole di molte altre cattedrali, perché potesse trovare il tempo di posare la prima pietra d’un nuovo edificio della fuga. Anche il Reicha tentò, ma la sua forza creatrice rimase visibilmen-te inferiore alla bontà dell’eccellente suo disegno; le sue idee, spesso curiose, non sono però da trascurare interamente. In ogni modo la fuga migliore è sempre quella che il pubblico… prende per un valzer di Strauss, in altre parole, quella che ha l’artificiosa radice coperta come quella d’un fiore, dimodoché noi vediamo soltanto il fiore. Una volta (questa è autentica) un conoscitore di musica, del resto non disprezzabile, prese una fuga di Bach per uno studio di Chopin - ad onore di entrambi; così si potrebbe dare ad intendere a qualche ragazza che l’ultima parte d’una fuga di Mendelssohn (della seconda, per esempio; nella prima l’entrata delle voci farebbe dubitare) sia una romanza senza parole, e simile grazia e delicatezza d’immagini le dovrebbe far dimenticare il quadro cerimonioso e il nome aborrito di fuga sotto cui queste composizioni le sono presentate. In breve, non sono fughe lavorate soltanto con la testa e secondo la formula, ma pezzi di musica balzati e sviluppati dallo spirito d’un poeta. Siccome la fuga offre un felice “organo” tanto per il dignitoso come per il vivace e l’allegro, la raccolta ne contiene anche di quelle in uno stile breve e rapido, di cui Bach ha buttato giù con mano maestra tanti esempi. Chiunque le riconoscerà; queste rivelano in ispecial modo l’artista fatto, pieno di spirito, che gioca colle catene come se fossero ghirlande di fiori. Per dire ancora qualcosa dei preludi, i più (come molti di Bach) non stanno in alcuna relazione originaria con le fughe e sembrano messi innanzi a queste più tardi. La maggior parte degli esecutori li preferirà alle fughe perché lasciano, anche suonati separatamente, un’impressione completa; il primo specialmente afferra sin dal principio e trascina sino alla fine. Ciascuno da sé vedrà gli altri. L’opera parla per se stessa, anche senza il nome del compositore.

Jeanquirit.

12 STUDI PER PIANOFORTE, DI F. CHOPIN Op. 25

Come potrebbe mancare nella nostra Rivista colui che così spesso, abbiamo indicato come- una stella rara nelle tarde ore della notte?
Dove vada e conduca la sua strada, quanto sia lunga e splendente, chi sa dire? Ogni volta si è mostrato sempre con lo stesso ardore profondo, con lo stesso centro di luce, con la stessa finezza, si che un bambino l’avrebbe potuto riconoscere. Ho avuto la fortuna di sentire questi studi per la maggior parte da Chopin stesso. "Li suona molto alla Chopin" mi bisbigliò Florestano nell’orecchio. S’immagini un’arpa eolia che abbia tutte le gamme sonore e che la mano d’un artista le mescoli in ogni sorta d’arabeschi fantastici, in modo però da udire sempre un suono grave fondamentale e una morbida nota alta; s’avrà cosi press’a poco un’immagine del modo di sonare di Chopin. Nessuna maraviglia perciò, se i pezzi che son piaciuti di più sian quelli che abbiamo udito da lui, e così sia citato sopra tutti quello in la bemolle maggiore, ch’è più una poesia che uno studio. Sbaglierebbe chi pensasse ch’egli facesse udire chiaramente ognuna delle piccole note; si sentiva piuttosto una ondulazione dell’accordo in la bemolle maggiore, rinnovato di tempo in tempo dal pedale, ma attraverso le armonie si distinguevano melodie dai suoni ampi, meravigliosi; una volta sola, a metà del pezzo, si sentiva chiara fra gli accordi una voce di tenore, insieme al canto principale. Finito lo studio, si prova l’impressione di chi si vede sfuggire una beata immagine apparsa in sogno e che, già mezzo sveglio, vorrebbe ancora trattenere; dopo di ciò si può dire ancora ben poco in fatto di lode. Chopin passò poi subito all’altro studio in fa minore, il secondo del volume: anche questo, per la sua caratteristica si scolpisce indimenticabilmente nella mente, così grazioso, fantastico e lieve, un po’ come il canto d’un bimbo nel sonno. Seguì poi lo studio in fa maggiore, bello ancora, ma meno nuovo nel carattere che non nel disegno; qui importava soprattutto di mostrare la bravura, la più amabile invero e dovemmo molto complimentare il maestro... Ma a che serve, descrivere colle parole?
Questi studi indicano una volta di più quale audace forza creatrice sia posta in lui: veri quadri poetici, non senza qualche piccola macchia nei particolari, ma nell’insieme sempre possenti ed afferranti. Tuttavia la mia opinione più sincera, a non volerla tacere, è che l’importanza totale mi pare maggiore nella prima grande raccolta. Questo però non può dare il minimo sospetto d’una diminuzione della natura artistica di Chopin o di un indietreggiamento, perché gli studi testé apparsi sono stati composti quasi tutti insieme ai primi e soltanto qualcuno (cui si riconosce una più grande maestria, come il primo in la bemolle magg. e l’ultimo, magnifico, in do minore) è più recente. Che il nostro amico crei ora, in generale, assai poco ed opere di piccola mole, è purtroppo anche vero e ben può dirsi che le distrazioni di Parigi n’abbiano un po’ colpa.
Ammettiamo piuttosto, che dopo tante tempeste un’anima dì artista abbia bisogno di qualche riposo e che poi forse, nuovamente fortificato, tenda ai lontani soli, che il genio sempre ci discopre.

Eusebio.

IL VECCHIO CAPITANO

Quando ieri l’uragano infuriava violentemente contro la mia finestra e sembrava portasse con sé per l’aria corpi gerenti, mi venne per l’appunto in mente la tua immagine, o vecchio capitano, e per te dimenticai ciò che accadeva di fuori.
Già nel 183* frequentava il nostro circolo, appena sapevamo come, un magro e rispettabile personaggio. Nessuno sapeva il suo nome, nessuno domandava dove andasse, di dove venisse: lo si chiamava il “vecchio capitano”. Spesso s’assentava per intere settimane; sovente veniva ogni giorno, se si faceva della musica, si sedeva, in un angolo taciturno, come non visto, affondava profondamente il capo fra le mani e profferiva poi su ciò ch’era stato sonato le riflessioni più profonde, che colpivano giusto. "Eusebio" diss’io "nella nostra vita movimentata manca giusto un arpista come quello di Wilhelm Meister; se prendessimo per ciò il vecchio capitano, lasciandolo pur nel suo incognito?".
Questo incognito egli conservò per lungo tempo. Tuttavia, per quanto parlasse poco di sé, anzi eludesse con cura ogni discorso sulle sue condizioni, si assodò in modo sicuro, secondo tutte le informazioni, ch’egli era un certo signor von Breitenbach, militare congedato dal servizio di *** con tanta sostanza quanta gli abbisognava per vivere, e con tale amore per gli artisti ch’egli avrebbe voluto dare tutto a loro. Il fatto più importante era ch’egli viaggiava da Roma a Londra, da Parigi a Pietroburgo, e il più delle volte a piedi, per vedere e udire i più celebri musicisti, e ch’egli stesso sonava con rapimento dei concerti di Beethoven, ed anche di Spohr per violino, strumento che nelle sue peregrinazioni portava sempre legato nell’interno del soprabito. Inoltre egli dipingeva tut-ti i suoi amici in un album, leggeva Tucidide, coltivava la matematica, scriveva lettere meravigliose, ecc., ecc…
In tutto ciò v’era qualcosa di vero, come ci persuademmo frequentandolo più intimamente. Soltanto riguardo alle sue esecuzioni non potevamo mai riuscire a sentire qualcosa da lui, finché un bel giorno Florestano stette per caso ad ascoltarlo quando studiava; tornato a casa, ci disse in confidenza: "Egli suona così orribilmente che mi chiese molte scuse per il mio origliare". A questo proposito gli venne in mente l’aneddoto del vecchio Zelter che passeggiando, una sera con Chamisso per le strade di Berlino, senti ed ascoltò il suono d’un pianoforte, ma dopo un po’, preso per il braccio lo Chamisso, gli disse: "Vieni! costui fa la sua musica da sé!". Ed era infatti abbastanza naturale che gli mancasse ogni genere di tecnica sicura. Siccome il suo occhio profondamente poetico poteva raggiungere tutte le profondità e le altezze della musica beethoveniana, egli non aveva voluto cominciare i suoi studi musicali con qualche buon maestro e con esercizi e scale, ma subito col concerto di Spohr, chiamato “la scena del canto” e con l’ultima grande sonata in si bemolle maggiore di Beethoven.
Ci veniva assicurato poi che già da dieci anni all’incirca studiava questi due pezzi. Spesso egli se ne veniva allegro e annunciava che tosto sarebbe andato bene: la sonata imparava ad obbedirgli e noi presto avremmo potuto sentirla; ma più d’una volta lo vedemmo abbattuto poiché, già sulla cima, nuovamente era precipitato in basso; eppure non poteva tralasciare di ritentare da capo. Le sue possibilità pratiche, in una parola, non si potevano giudicare molto elevate; invece tanto più alto era il piacere di vederlo ascoltar musica. A nessuno io suonavo così volentieri e meglio che davanti a lui. Il suo modo d’ascoltare sollevava: lo dominavo, lo conducevo dove volevo e tuttavia mi pareva ch’io per primo ricevessi tutto da lui. Quando poi si metteva a parlare con voce chiara e piana sull’alto valore dell’arte, ciò sembrava provenire da un’ispirazione superiore, obbiettiva, poetica e vera. Egli non conosceva affatto la parola “biasimo”. Se era costretto ad ascoltar qualcosa d’insignificante, si vedeva che per lui questo non esisteva affatto; come in un bimbo, che non conosce alcun peccato, la sensazione del volgare in lui non era ancora svegliata.
Era così da molti anni che se ne veniva e andava fra noi, accolto sempre come un buon genio superiore alle cose di questa terra, quando, recentemente, si assentò più a lungo del solito. Noi lo credevamo in qualche grande viaggio a piedi, come egli faceva ogni stagione, quando una sera, leggendo nei giornali, trovammo l’annuncio della sua morte. Eusebio compose a questo proposito il seguente epitaffio: “Sotto questi fiori io sogno, lira silenziosa; incapace di suonare io stessa, divento, fra le mani di chi sa comprendermi, un amico eloquente. Passeggero, prima di lasciarmi, provami. Maggiore sarà la cura che ti prenderai di me, più belli saranno i suoni che ti renderò”.

SEI ROMANZE SENZA PAROLE DI
F. MENDELSSOHN, PER PIANOFORTE
3° fascicolo, op. 38.

Ci limitiamo per questo fascicolo ad un annuncio senza frasi. Per un cespo di rose che fiorisce ed imbalsama tutt’intorno a sé, per un occhio che felice s’affisa nella luna, nessuno può dubitare di che cosa si tratti. Dalle romanze anteriori queste più recenti si differenziano ben poco e stanno, come quelle, fra la pittura e la poesia: per cui facilmente si lasciano aggiungere dei colori o delle parole, se la musica non parlasse sufficientemente per se stessa. Ora, per quanto sian tutte figlie d’una fantasia fiorente, accade però anche alla madre migliore coscientemente o no di preferire l’una o l’altra, e che altri se ne accorga. Cosi vorrei credere che la seconda romanza e il duetto finale siano anche i prediletti del compositore; poi pure la quinta, che è più appassionata, se si può dire così delle rare commozioni d’un cuore puro. La quarta è quella che mi piace meno, sebbene appunto la più intima, ma è d’una natura più prosastica e sembra riposar più su molli cuscini che all’aperto fra i fiori e gli usignuoli. Per il duetto, mi spiace che questa ricca lingua tedesca non abbia una parola per esprimere senza affettazione una cosa simile; qui par di sentire degli innamorati che parlano pianamente con intimità e con abbandono.

FRAMMENTI DA LIPSIA

I.
Gli Ugonotti di Meyerbeer

Oggi mi sento come un giovane guerriero coraggioso che per la prima volta mena la sua spada in una grossa faccenda! Come se questa piccola Lipsia, dove alcune questioni mondiali già sono venute in discussione, dovesse pure spianare quelle musicali, accadde che qui, probabilmente per la prima volta, venissero eseguite insieme le due più importanti composizioni del tempo - gli Ugonotti di Meyerbeer e il Paolo di Mendelssohn. Dove cominciare e dove finire? In una simile rivalità qui non si può parlare di una preferenza d’uno sull’altro. Il lettore sa troppo bene a quali aspirazioni siano dedicati questi fogli e sa bene che se si parla di Mendelssohn non si può parlare di Meyerbeer, tanto diametralmente opposte corrono le loro strade, e sa pur bene che, per dare una caratteristica di entrambi, occorre soltanto attribuire all’uno ciò che l’altro non ha - l’ingegno eccettuato, che è comune a tutt’e due. Spesso dovremmo toccarci la fronte, per sentire se tutto v’è ancora nello stato normale, quando si considera il successo di Meyerbeer nella sana Germania musicale; e’ quando si sente dire da persone onorabili, e persino da musicisti (che vedono pure con gioia la più silenziosa vittoria di Mendelssohn) che la sua musica non è trascurabile. Ancora tutto pieno dell’alta interpretazione della Schroeder-Devrient nel Fidelio, mi recai per la prima volta agli Ugonotti. Chi non si rallegra d’una prima rappresentazione, chi non se n’augura bene? Ries infatti aveva scritto di sua propria mano che parecchi passi degli Ugonotti potevano stare a paro di alcuni di Beethoven! E che cosa dicevano gli altri, e io stesso? Io era addirittura d’accordo con Florestano che, tendendo il suo pugno chiuso contro l’opera, lasciò cadere queste parole: "Dopo il Crociato aveva annoverato Meyerbeer ancor fra i musicisti, dopo Roberto il Diavolo ero rimasto dubitoso; dopo gli Ugonotti lo metto senz’altro fra la gente di Franconia". Di quale disgusto ci abbia riempiti l’opera intera e come sempre abbiamo dovuto difendercene, davvero non posso dire; siam diventati fiacchi e stanchi per la collera. Dopo qualche ripetuta audizione, si trovò qualcosa di più favorevole e di più scusabile, ma il giudizio finale rimase il medesimo ed a quelli che osavano sia pur da lontano porre gli Ugonotti accanto al Fidelio e ad opere simili, dovetti gridare senza posa: che essi non capivano nulla, nulla, ma proprio nulla. Ad un tentativo di conversione del resto, non mi sono prestato: non si sarebbe venuto a capo di nulla.
Un uomo di spirito ha ottimamente designato la musica e il dramma con questo giudizio: che ambedue si svolgono o in un postribolo o in chiesa. Io non sono affatto un moralista; ma fa andar fuori di sé un buon protestante udire il suo canto più caro gridato sul palcoscenico, il vedere il dramma più sanguinoso della sua religione abbassato ad una farsa da giorno di fiera, per riscuotere danari ed applausi, lo fa andar fuori di sé l’intera opera dell’ouverture (col suo carattere sacro ridicolmente volgare) sino alla fine; dopo la quale fine non ci resta che essere bruciati vivi al più presto [Si leggano soltanto le ultime righe dell’opera: Par le fer et l’incendie Exterminons la race impie! Frappons, poursuivons l’hérétique. Dieu le veut, Dieu veut le sang. Oui, Dieu veut le sang! (Sch.)]. Che cosa rimane dopo gli Ugonotti se non giustiziare sulla scena dei criminali ed esporre spettacoli di facili sgualdrine? Si rifletta un po’, si guardi dove tutto va a finire! Nel primo atto, un’orgia di “tutti” uomini e inoltre, cosa molto raffinata, una sola donna, ma velata; nel secondo, un’orgia di donne al bagno e in mezzo, cosa scavata colle unghie per i parigini, un uomo, ma cogli occhi bendati. Nel terzo atto, l’elemento dissoluto si mischia con quello sacro; nel quarto, vien preparato il macello e nel quinto avviene la strage in chiesa; Orgia, assassinio e preghiera: non si tratta d’altro negli Ugonotti; invano si cercherebbe un pensiero puro che duri un po’, un vero sentimento cristiano. Meyerbeer inchioda il cuore sulla pelle e dice: “Vedete, è qui, si può toccare col dito”. Tutto è artificioso, tutto apparenza e ipocrisia. E poi questi eroi ed eroine!... - soltanto due, Marcello e St. Bris, non cadono in basso così miserabilmente. Un francese, perfetto libertino [Parole come: "Je ris du Dieu de l’univers" ecc. sono piccolezze nel testo... (Sch.)], Nevers, che ama Valentina, vi rinuncia, poi la sposa - questa Valentina stessa, che ama Raoul, sposa Nevers, gli giura amore ["D’aujourd’hui tout mon sang est à vous" ecc… (Sch.)] e si lascia sposare a Raoul - questo Raoul, che ama Valentina, la respinge, s’innamora della regina e infine riceve Valentina in isposa - questa regina finalmente… la regina di tutti questi fantocci! E tutta questa roba si lascia passare perché riesce bella agli occhi e viene da Parigi, e voi costumate ragazze tedesche, non chiudete gli occhi? E il più astuto di tutti i compositori si frega le mani dalla gioia! Per parlare della musica in sé, non basterebbero quì dei volumi; ogni battuta è pensata e su ciascuna di esse ci sarebbe da dire qualcosa. Stupire o solleticare è la divisa suprema di Meyerbeer e ciò gli riesce anche con la plebaglia. Per ciò che riguarda quel corale introdotto dappertutto, pel quale i francesi van fuori di sé, confesso che se un allievo mi portasse un contrappunto simile, lo pregherei tutt’al più di non farne pel futuro di peggiori. Com’è scipito con intenzione, com’è calcolatamente superficiale (tanto che la plebaglia stessa se n’è accorta), com’è cosa massiccia da fabbro ferraio quest’eterno gridare di Marcello “Ein fest Burg” ecc.! Si fa un gran caso poi della benedizione delle spade nel quarto atto. Convengo ch’essa ha una linea molto drammatica e qualche movimento ricco di spirito che colpisce; il coro specialmente è di grand’effetto esteriore: situazione, messa in scena, strumentazione si fondono insieme e poiché l’atroce è l’elemento naturale di Meyerbeer egli qui ha scritto con fuoco e amore. Ma si osservi la melodia dal punto di vista musicale, che cos’è se non una Marsigliese raffazzonata? E poi è forse un’arte, produrre dell’effetto in simile luogo con, simili mezzi? Io non biasimo che s’impieghi ogni effetto al suo giusto luogo; ma non si deve gridare alla magnificenza se una dozzina di tromboni, trombe, oficleidi e un centinaio di uomini che cantano all’unisono son capaci di farsi sentire ad una certa distanza. Io qui devo citare un raffinamento di Meyerbeer. Egli conosce il pubblico troppo bene perché non abbia dovuto capire che troppo rumore alla fine non fa più effetto. E come avvedutamente vi pone rimedio! Egli mette subito dopo simili passi rumorosi delle arie intere con accompagnamento d’un solo strumento, come se volesse dire: “Vedete, che cosa posso fare anche con pochi mezzi, vedete, tedeschi, vedete un po’!”. Non si può purtroppo negargli un po’ di spirito.
A rivedere tutti i particolari, come basterebbe il tempo? La tendenza più esteriore di Meyerbeer, la sua immensa mancanza d’originalità e di stile sono conosciute, come il suo abile talento ad apprêter, a render lucido, a trattare drammaticamente, a istrumentare; è noto pure come egli abbia una grande ricchezza di forme. Con leggera fatica si possono trovare reminiscenze di Rossini, Mozart, Herold, Weber, Bellini, Spohr, in breve, tutta la musica. Ma ciò che gli appartiene completamente è quel celebre, fatalmente belante, ritmo sconveniente che attraversa quasi tutti i temi dell’opera; io avevo già cominciato ad indicare tutte le pagine dov’esso compare, ma alla fine mi stancai. L’odio soltanto potrebbe negare, come s’è detto, il meglio, ed anche particolari momenti più nobili e di genere più grandioso; così il canto di battaglia di Marcello è d’effetto, così è soave la canzone del paggio; così interessa la maggior parte del terzo atto per le scene di popolo vivacemente rappresentate, così la prima parte del duetto fra Marcello e Valentina, ed il sestetto, per il loro lato caratteristico, così il coro ironico, per la maniera comica con cui è trattato, così nel quarto atto la benedizione del-le spade per un carattere particolare più spiccato, e, soprattutto, il duetto che segue tra Raoul e Valentina per il lavoro musicale ed il flusso delle idee: ma che cos’è tutto ciò contro il volgare, il contorto, il mostruoso, l’immorale, l’immusicale dell’insieme? Ed ora, il Signore sia lodato, siamo alla fine, non può accadere di peggio, poiché allora si dovrebbe fare della scena una forca, ed all’estremo grido d’angoscia d’un ingegno torturato dal suo tempo, facciamo seguire pel momento la speranza che debba migliorarsi.

II.
Il Paolo di Mendelssohn

Volgiamoci ora con qualche parola ad un più nobile artista. Qui l’animo tuo si volge alla fede e alla speranza ed impari ad amare nuovamente i tuoi fratelli; qui riposi come sotto le palme, come quando, stanco per l’aver cercato, giace ai tuoi piedi un paesaggio fiorente. E’ il Paolo, un’opera di vena purissima, di pace e d’amore. Faresti danno a te e male al poeta se tu lo volessi comparare anche soltanto da lontano a quelle di Haendel o di Bach. Come tutte le musiche di chiesa, come tutti i templi di Dio, tutte le Madonne dei pittori hanno degli elementi comuni, così pure queste opere; ma è vero però che Bach e Haendel, quando scrivevano, erano già uomini fatti, mentre Mendelssohn ha composto il suo lavoro quand’era molto giovane. E’ dunque l’opera d’un giovane maestro, nello spirito del quale aleggiano le Grazie, pieno ancora di volontà di vivere e di fede dell’avvenire; e non bisogna paragonarlo con le opere di quell’epoca più severa dove quei divini Maestri, avendo dietro di sé una lunga e santa vita, guardavano di già col capo fra le nubi.
Il procedere dell’azione, la ripresa del corale che già troviamo nei vecchi oratori, la divisione del coro e dei solisti in masse e personaggi che agiscono e completano, i caratteri di questi solisti stessi; di queste ed altre cose s’è già più volte parlato in questi fogli. Anche s’è detto che a danno dell’impressione d’insieme i momenti principali sono già nella prima parte dell’azione: che Stefano, personaggio secondario, (se non ha addirittura una parte preponderante su quella di Paolo), scerna tuttavia l’interesse per quest’ultimo, che finalmente nella musica Saul fa più effetto come convertito che non come convertente: è stato pure giustamente osservato che l’oratorio nel complesso è molto lungo e che si potrebbe comodamente dividerlo in due. Soprattutto è interessante per la discussione artistica, la poetica concezione di Mendelssohn dell’apparizione del Signore; però mi pare che ragionandoci su con delle sottigliezze si guasterebbe tutto e si offenderebbe aspramente il compositore, che qui ci ha dato una delle sue più belle creazioni. Io penso che Domineddio parla in molte lingue ed anzi manifesta agli eletti la sua volontà per mezzo dei cori degli angeli: così penso che il pittore esprime più poeticamente la vicinanza dell’Altissimo con le teste dei cherubini che in alto guardano fuori dalla cornice del quadro, che non mediante la figura d’un vecchio o il segno della Trinità, ecc… Io non saprei come la bellezza possa offendere là dove non si può raggiungere la verità. Inoltre, s’è voluto sostenere che alcuni corali nel Paolo, per il raro ornamento col quale Mendelssohn li ha rivestiti, perdano della loro ingenuità. Come se la musica corale non avesse tratti tanto per esprimere la gioconda fiducia in Dio quanto per la preghiera supplicante, come se tra la Wachet auf e la Aus tiefer Not non fosse possibile alcuna distinzione, come se l’opera d’arte non dovesse appagare altre esigenze che quelle d’una parrocchia cantante! Infine si è perfino detto che il Paolo non si può considerare come un oratorio protestante, ma solo un oratorio da concerto; una persona avveduta ha poi proposto la via di mezzo: di chiamarlo cioè “oratorio da concerto protestante”. Come si vede, obbiezioni, ed anche fondate si posson fare, e la diligenza della critica dev’essere apprezzata.
Si osservi invece come in questo oratorio, oltre al pregio del sentimento profondamente religioso, che si esprime dappertutto, è indovinata magistralmente tutta questa musica, questo canto sempre alto e nobile, quest’unione della parola col suono, del testo con la musica, sì che noi vediamo tutto, come in una vera profondità, l’incantevole aggruppamento dei personaggi; si osservi la grazia che alita su tutto l’insieme, questa freschezza, questo incancellabile colorito nella strumentazione, senza parlare poi dello stile compiutamente finito, del gioco magistrale di tutte le forme della composizione; io direi che di tutto ciò si dovrebbe esser ben contenti. Una cosa soltanto debbo osservare. La musica del Paolo sgorgata in complesso così chiara e popolare, s’imprime così rapidamente nello spirito, e per lungo tempo, da far pensare che il compositore scrivendo abbia cercato in modo del tutto particolare di fare effetto sul popolo. Per quanto sia bella questa aspirazione, credo che la sua attuazione toglierebbe alle future composizioni forza ed entusiasmo; quella forza e quell’entusiasmo che troviamo nelle opere di coloro che si abbandonavano alla loro possanza senza riguardi, senza meta e senza limiti. Si rifletta infine che Beethoven ha scritto un Cristo al Monte degli Olivi ed anche una Missa solemnis, e noi crediamo che come il Mendelssohn giovane ha scritto un oratorio, il Mendelssohn uomo maturo ne porterà a compimento un altro. Sino ad allora ci accontenteremo di questo imparando e godendo.
Ed ora dobbiamo riuscire ad un giudizio conclusivo sui due uomini e sulle loro opere che caratterizzano all’estremo la tendenza e la confusione del nostro tempo. Io disprezzo dal più profondo del cuore questa gloria di Meyerbeer; i suoi Ugonotti sono l’indice generale di tutti i difetti del suo tempo, pochi eccettuati. Ci si lasci infine apprezzare ed amare questo Paolo di Mendelssohn; egli è il profeta d’un bell’avvenire, dove è l’opera che nobilita l’artista e non il piccolo successo del presente: la sua via conduce al bene, l’altra al male.