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DIE ZAUBERFLÖTE
INTERPRETATA
DA
NIKOLAUS HARNONCOURT
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1988
TELDEC Hans-Peter Blochwitz, Barbara
Bonney, Anton Scharinger, Matti Salminen, Edita Gruberova, Peter
Keller; Orchester der Oper
Zürich, direttore Nikolaus Harnoncourt
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Elvio Giudici
L'OPERA IN CD E
IN VIDEO
Milano, il Saggiatore, 1999,
L.120.000
pp. 840-841
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Quando Harnoncourt
cominciò ad affrontare Mozart (nel 1981, con
«Idomeneo»), le dispute in sede critica toccarono punte
di animosità quali non si riscontravano da anni. Da allora
è passato parecchio tempo. E l'impiego non soltanto degli
strumenti antichi ma - vero fulcro della questione - d'una più
filologica prassi concertante ed esecutiva dell'opera, è
entrato maggiormente nell'orecchio: che se non proprio ancora
assuefatto è per lo meno disposto all'ascolto senza porre una
cortina di fastidio e di preconcetta ripulsa. |
Comprensibili entrambi,
beninteso (come si fa a rinunciare gioiosamente a un suono come
quello di Vienna o di Dresda a contatto con le solari melodie d'un
Mozart?), ma che ci si dovrebbe sforzare di superare perché
sovente quanto si perde da una parte io si recupera - e con gli
interessi - da un'altra. Sovente, ripeto, non sempre: altrimenti
detto, non basta metter su un complesso qualunque di strumenti
antichi, dirigerlo come la va la va, per poi accusare ipso facto chi
non applaude di non capire niente oppure d'essere un parruccone
retrogado o un decadente edonista del suono. |
Al contrario, per proporre
esecuzioni del genere occorre essere non solo fior di musicologi - di
questi ce ne sono in definitiva parecchi - ma fior di musicisti, fior
di conoscitori di teatro fior d'organizzatori: giacché mai
come in casi del genere alla base d'una vera riuscita c'è un
lavoro d'équipe. Condizioni, quest'ultime, che s'applicano
perfettamente al «Flauto» di Harnoncourt e -
qualità del suono o no - ne fanno uno dei niù
stimolanti della discografia. Le sonorità, di prim'acchito, ci
appaiono ancora aspre e acidule ma la consuetudine d'ascolto ci
permette ormai di distinguere l'aspro e l'acidulo espressivo da
quello risultante dall'imperizia. I tempi sono serrati in scansioni
che coprono un vastissimo arco dinamico: dall'inquietudine alla
disperazione, all'angoscia, alla rivalsa, all'allucinazione,
tuttavia, allorché si distendono e s'allargano, sanno alitare
piani disincarnati il cui soffio diviene melanconia, rimpianto, voce
dell'inconscio, poesia celeste, danza delle sfere. |
Tutte le gradazioni
possibili del ritmo e dello spessore sonoro sono esplorate: e tutte,
proprio tutte, sono tradotte in fattore espressivo. |
Così che ancora una
volta occorre intendersi. Mozart è solo un supremo artefice
del 'bello' musicale, espresso in partiture sorridenti, allegre e
scacciapensieri? Oppure è un genio del teatro come nessuno, e
in esso tutti i sentimenti umani sono chiamati a far sentire la
propria forza espressiva nonché quella dei reciproci,
inevitabili contrasti? A me pare che già Klemperer, pur
impiegando un'orchestra capace di suono straordinario come la
Philharmonia, vedesse Mozart da quest'angolatura: l'unica capace di
sondare un universo drammatico sotto i cui veli iridescenti e
leggiadri della pura forma si scopre oggi - giorno dopo giorno,
interpretazione dopo interpretazione - una sostanza di carne e
sangue. |
E di carne e sangue,
appunto, è fatto il Mozart di Harnoncourt, anche quello del
«Flauto». Che per una volta scende «dal cielo che
ha per confini il 'c'era una volta' e il 'vissero felici cent'anni',
il cielo iridescente della fiaba» in cui Labroca e i tantissimi
come lui pensavano potesse esser confinato, per popolarsi di
personaggi vivi, pensanti, che gioiscono lottano e soffrono: che, in
definitiva, sentiamo nostri contemporanei. |
Va da sé come il
risultato cui giunge Harnoncourt non sarebbe stato neppure
ipotizzabile se avesse scelto il cast con gli stessi criteri
impiegati per «Idomeneo». E difatti abbiamo qui una
compagnia che, già buona come somma dei singoli elementi
riceve una marcia in più dal formare un assieme
straordinariamente affiatato, partecipe, e che quindi sprigiona
teatralità elettrizzante. Blochwitz, innanzitutto:
timbro leggero ma capace di tradurre la luminosità in puro
lirismo, articola un fraseggio sfumatissimo, in cui l'energia non
è quella di chi fa la voce grossa ma di chi trova in sé
una ricchezza interiore, e quindi colora di grande poesia tutti i
propri interventi. |
Accanto a lui, Barbara
Bonney offre la sua prova migliore: anche lei piuttosto esile, e
per di più con un registro grave inconsistente, ma anche lei
capace d'un fraseggio chiaroscurato con fantasia e soprattutto una
mancanza d'affettazione che solo di rado saprà ritrovare in
seguito. Con questa sua terza Regina discografica, sembra che la Gruberova
si sia congedata dalla parte: in bellezza, grazie non solo a
sovracuti eccitanti - sterili, però, ove restino confinati a
se stessi - ma all'intensa espressività con cui scava nella
furia e nel dolore della prima aria, laddove porta la seconda al
calor bianco d'una dignità oltraggiata, al centro d'un gelido
turbine orchestrale. |
Buono il Sarastro di
Salminen, che compensa l'evidente carenza di autentico legato
con un'autorità timbrica impressionante in tutti i registri.
Di fortissima connotazione viennese il Papageno di Scharinger,
d'una fluidità e spontaneità così comunicative
che spesso vien fatto di chiedersi se stia cantando o parlando, tanto
disinvolto e nitido è il fraseggio. Bravissimo Thomas
Hampson nei panni d'un Oratore che cerca di ragionare
anziché pontificare. Di viperina cattiveria il Monostato di
Keller eccellenti le Dame, ognuna coi rispettivi timbri ben
differenziati (Coburn, Ziegler e Lipovsek) e dal
bellissimo fraseggio. |
Un Mozart in definitiva che
s'ascolta tutto d'un fiato, che non ti fa mollare l'attenzione e la
fantasia neppure per un secondo: e che lascia emozionati e ammirati
non perché è moderno - cosa che poi non significa
niente - ma per l'enorme vitalità drammatica infusa a un'opera
per troppo tempo considerata, alternativamente un'edizione altrimenti
di fondamentale importanza. |
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