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RITRATTO DEI LIBRETTISTI

ILLICA E GIACOSA

 

 

Giuseppe Giacosa

Luigi Illica

 

Dei due, Giacosa era di gran lunga la personalità più spiccata, l'artista maggiore. Al grosso pubblico non italiano il nome di Giuseppe Giacosa (1847-1906) è oggi noto semplicemente come quello di uno dei principali librettisti di Puccini. Ma Giacosa fu in prima fila nel gruppo di quegli scrittori e autori drammatici italiani i cui lavori alla fine del XIX secolo segnano l'avvento di ispirazioni realistiche e veristiche legate a quelle dei contemporanei francesi; e in Italia è rappresentato ancora. Poeta di talento, saggista e autore di interessanti novelle, Giacosa fu però soprattutto un drammaturgo, dotato di un sottile intuito psicologico. Scrisse più di trenta fra tragedie e commedie, tra le quali «Tristi amori» (1887) e «La Dame de Challant» (1891) - la seconda scritta per Sarah Bernhardt, tutt'e due ripetutamente interpretate dalla Duse - gli valsero successi internazionali.
Altro suo lavoro di primissimo piano fu «Come le foglie» (1900); ma in questa sede occorre ricordare il suo «Trionfo d'amore» (1875) perché tratta il tema di Turandot ambientandolo in Italia, in una cornice medievale carica di significati simbolici; non è improbabile che questo dramma insieme all'opera «Turanda» di Bazzini, attirasse per primo l'attenzione di Puccini su un soggetto che avrebbe affrontato alla fine della sua vita.
Per alcuni anni Giacosa fu anche professore di letteratura drammatica al Conservatorio di Milano e, fino alla morte, direttore della «Lettura», il periodico letterario prediletto dalla borghesia lombarda. Tra gli intimi, che includevano Boito e la Duse, Giacosa era affettuosamente noto come «Pin», mentre Puccini più tardi lo soprannomino «il Buddha giacosiano», per la sua figura bassa, grossa e panciuta, la barba folta e l'espressione meditabonda e patriarcale. Giacosa era venuto in contatto per la prima volta con Puccini nel 1889 [...] e di nuovo in occasione della «Manon Lescaut»; ma con la «Bohème» la loro collaborazione divenne stretta e duratura. Che Ricordi fosse tanto ansioso di assicurare al suo compositore favorito l'appoggio di uno scrittore eminente come Giacosa, sta a dimostrare l'importanza sempre crescente che si dava in Italia alle qualità letterarie di un testo d'opera - una tendenza nuova, senza dubbio, ispirata in gran parte dall'esempio della collaborazione tra Verdi e Boito, se non addirittura da Wagner.
Nei loro libretti per Puccini c'era una specie di divisione del lavoro fra Illica e Giacosa. Compito di Illica era di stendere il canovaccio e sviluppare la trama nei particolari; Giacosa invece versificava il testo, elaborava le situazioni liriche, introduceva un equilibrio maggiore nella successione delle scene, e, in genere, curava le rifiniture letterarie. Mentre Illica affermava che in ultima analisi un libretto era una tela che il compositore doveva riempire, accorciare o allungare secondo le sue esigenze, Giacosa sosteneva che «altro è buttar giù una traccia più o meno distesa di scene, altro è serrare il soggetto in pochi versi cercando di metterne in rilievo tutti gli elementi essenziali, e curare la forma della scena e del verso. Questo lavoro minuto e diligente vuol tempo e pazienza e fatica molta...» [lettera a Ricordi del 23 agosto 1896]. A Giacosa non si poteva e non si doveva mettere fretta.
Al contrario di Illica, lavorava coscienziosamente e faticosamente, cercando di conciliare le esigenze pratiche e relativamente grossolane di un libretto con quelle di un buon livello letterario. Compito arduo per lui, naturalmente incline ad affrontare il problema dal punto di vista del poeta e del drammaturgo, e non a considerare un libretto in primo luogo come un mezzo.
In Giacosa c'era un perenne conflitto tra la sua coscienza d'artista e il suo senso di autocritica da un lato e i desideri dell'editore e del compositore dall'altro. «lo non ho la facilità prodigiosa dell'Illica,» scriveva a Ricordi il 28 luglio 1893, «non posso procedere se quello che mi lascio addietro non mi soddisfa.» E ancora, qualche tempo dopo: «buttar giù purchessia non voglio». Con Puccini e Ricordi, arrivò spesso a scontri e offerte di dimissioni; che naturalmente non furono mai accolte. Quando il libretto della «Bohème» era quasi pronto, la sua irritazione per le continue richieste di modifiche da parte di Puccini aveva raggiunto l'apice; e scrisse a Ricordi (25 giugno 1895): «Vi giuro che a fare libretti non mi ci colgono mai più.» Senza dubbio il fatto di essere uno scrittore acclamato nel suo campo lo rendeva molto suscettibile, per orgoglio professionale, quando doveva sottostare ai desideri di qualcun altro; di qui il suo stizzoso rimprovero a Ricordi (dopo la Bohème): «È certo che gli autori del libretto non ebbero da voi e dalla vostra Casa la centesima parte delle soddisfazioni morali di che foste largo al maestro. E dei due autori, io fui certo il meno considerato.»
Incline a immaginare che gli si mancasse di riguardo, certe volte avanzò per questo richieste irragionevoli [per esempio in occasione della della «Butterfly»]. Ma, essendo in fondo di buon carattere, accomodante e generoso, dopo questi scoppi di indignazione, era incapace di serbare un lungo risentimento, e finiva sempre per tornare all'ovile, piegandosi alle suppliche congiunte del compositore e dell'editore. E lamentava che scrivere libretti non gli si confaceva e intralciava la sua vera vocazione di poeta e drammaturgo - «ho sporcato più carta per queste poche scene [della «Bohème»] e mi sono più stillato il cervello» scrisse una volta a Ricordi «che per nessuno de' miei lavori scenici» - eppure almeno in due occasioni si offrì volontariamente di scrivere un libretto per Ricordi. Ma quel che aveva in mente non era un adattamento da romanzi o drammi altrui, bensì qualcosa di sua completa invenzione: «E vedrete che ne uscirà una schietta opera d'arte» [lettera a Tito Ricordi del 3 febbraio 1900]. Non c'è dubbio che la poesia tenera e lirica e le felici espressioni verbali che si trovano nel testo di «Bohème», «Tosca» e «Butterfly» provengano dalla sua penna.
E Puccini deve aver sentito particolarmente congeniale la comprensione di Giacosa per l'animo femminile, quel "femminismo" caratteristico dei suoi drammi e dei suoi racconti. La misura dell'autorità e del rispetto che Giacosa (una specie di figura paterna) imponeva così a Puccini, più giovane di lui di undici anni, come a Illica e a Ricordi, si scorge dal necrologio steso da Illica per «La Lettura» nell'ottobre 1906:
«Quelle sedute nostre!... Vere lotte dove venivano tagliati a pezzi lì per lì interi atti, sacrificate scene e scene, rinnegate idee, belle e fulgide un momento prima, e rovinato così in un minuto il lungo e penoso lavoro di mesi. Giacosa, Puccini, Giulio Ricordi e io. In quattro, perché Giulio Ricordi, che quelle sedute doveva dirigere, abbandonava sempre la poltrona della presidenza per scendere nell'emiciclo (due metri stretti stretti e che la poderosa persona di Giacosa rendeva più angusti, difficili, faticosi), per divenirvi uno de' belligeranti più ostinati e più vigorosi... Giacosa era par noi l'equilibrio: nei momenti bui, era il sole; nei dì di temporale, l'arcobaleno. . . In quel baccano di diversi modi di sentire e di vedere e di esprimersi, Giacosa era il delizioso e convincente canto dell'usignolo. . . Puccini? Puccini, dopo ogni seduta, doveva correre dal manicure par rifarsi le unghie: se le mangiava via tutte, all'osso!»
 

 

Luigi Illica (1857-1919), drammaturgo, giornalista e polemista era scrittore prolifico ma di minor levatura. La sua importanza nella storia della letteratura e del dramma italiani è di scarso rilievo; pure nella galleria dell'opera post-verdiana a Illica autore di libretti una nicchia spetta senz'altro. Lavoratore rapido, intelligente e pieno di spirito - eccellenti qualità per un librettista - i suoi servizi furono molti ricercati. Ma era una personalità difficile e poco equilibrata e, a giudicare dalla descrizione lasciatane dal suo amico Carlo Gatti, non eccessivamente attraente. Impulsivo e di spirito caustico, poteva essere nobile e generoso - «un galantuomo», disse una volta Ricordi - ma il suo comportamento era imprevedibile. Si abbandonava all'ira alla minima provocazione, reale o immaginaria; specialmente sotto la spinta dell'alcool, a cui indulgeva un po' troppo. Era ostinato, vanitoso e aggressivo - difetti che lo ponevano in situazioni estremamente sgradevoli [...].
Nonostante gli alti compensi che esigeva e i diritti d'autore che gli provenivano dai suoi numerosi drammi e libretti, si trovava di continuo nel bisogno per il suo tenore di vita stravagante. Era spesso difficile rintracciarlo a Milano perché non faceva che trasferirsi da un appartamento all'altro. Come librettista, mancava della visione poetica, della profondità e ricchezza di sentimenti di Giacosa; superava d'altro canto il suo collaboratore, più anziano di lui di dieci anni, nell'abbondanza di trovate teatrali e soprattutto nella capacità di elaborare un dato soggetto in una trama variata e agile. Il suo senso del teatro era sviluppato quanto quello di Puccini (e non è dir poco) e forse di tipo più pratico di quello sia di Puccini sia di Giacosa. Mai a corto di idee, Illica riusciva a trovare - spesso lì per lì - un modo brillante di risolvere difficoltà che gli altri due non riuscivano a superare. [...]
Ci siamo già occupati, brevemente, delle divergenze tra Illica e Giacosa su che cosa dovesse essere un libretto. Una lettera a Puccini, in cui Illica espone le sue idee in proposito, è di particolare interesse e merita di essere largamente citata. La sua posizione rivela la curiosa mescolanza di una conoscenza molto profonda della drammaturgia dell'opera e di un pragmatismo superficiale sulla funzione del verso. Questo atteggiamento pragmatico deriva in gran parte dalla sua ferma adesione ai canoni del teatro naturalista, in completo contrasto con i più "poetici" ideali di Giacosa, e già sul punto di essere superati da una nuova visione dei valori drammatici. La causa immediata della lettera di Illica fu un violento scontro relativo al libretto di una Maria Antonietta, principale pomo della discordia tra lui e Puccini dopo la morte di Giacosa. Illica scrive:
«[...] La forma di un libretto la fa la musica, soltanto la musica e niente altro che la musica! Essa sola, Puccini, è la forma! Un libretto non è che la traccia. E dice bene Méry quando sentenzia: "I versi nelle opere in musica sono fatti solo per comodità dei sordi." Per questo io nel libretto continuerò a dar valore solo al modo di tratteggiare i caratteri e al taglio delle scene e alla verosimiglianza del dialogo, nella sua naturalezza, delle passioni e delle situazioni.
Certo che anche con questo meraviglioso sistema non tutti i libretti riescono. Eh, Puccini, se questo fosse avvenuto, a quest'ora io sarei già stato vittima di qualche attentato! [...] Il verso nel libretto non è che un'abitudine invalsa, una moda passata in repertorio proprio come quella di chiamare "poeti" quelli che scrivono libretti. Quello che nel libretto ha vero valore è la parola. Che le parole corrispondano alla verità del momento (la situazione) e della passione (il personaggio)! Tutto è qui, il resto è "blague". Oggi invece il decadentismo e il dannunzianesimo, col corrompere la semplicità e la naturalezza del linguaggio vengono a minacciare (in teatro) la verità e la logica (che sono i due angioli custodi che ti si mettono a lato quando scrivi musica) soprattutto allorché il decadentismo e il dannunzianesimo snaturano la parola, tentando di imporre la loro martingala al palcoscenico.» [ottobre 1907]
Se questo definisce i limiti ideologici di Illica, quali erano i suoi altri difetti come librettista; Puccini li ha racchiusi in un guscio di noce quando rimpiangeva «l'Illica della buona maniera con fantasia magari preponderante e sovrabbondante, una fantasia suscettibile di riduzione e di selezione» [a Ricordi, 26 gennaio 1912]. E scriveva a Illica stesso: «Tu hai sempre dello spirito! Ma a volte non rifletti e lasci andare il fiume della tua fantasia... [febbraio 1915] Non molto diversamente da Puccini, Illica era incline ad abbandonarsi ad un entusiasmo momentaneo per un dato soggetto o per una sua trovata; e con la sua predilezione per i particolari pittoreschi, indulgeva a voli esagerati. Aveva bisogno di un controllo dal di fuori, di una diga che arginasse il fiume della sua fantasia, indirizzandolo verso canali più tranquilli e sicuri. Questa operazione fu condotta con successo da Puccini, Giacosa e Ricordi, ma solo a prezzo di polemiche incessanti e recriminazioni infuocate. Se alla fine l'indisciplinato Illica si sottometteva, il merito era in primo luogo della grande autorità esercitata nelle deliberazioni finali dal 'Buddha giacosiano'.
La realtà è che Illica da solo non soddisfece mai Puccini. Non è significativo che quando, morto Giacosa nel 1906, con Puccini pronto a continuare il lavoro con lui, tutti i loro progetti fallissero, Tuttavia, l'orgoglioso Illica non voleva accettare un socio. Tutti i tentativi compiuti da Puccini e da Ricordi per persuaderlo (sempre nella speranza di azzeccare una combinazione altrettanto felice come quella della coppia Illica-Giacosa) urtarono contro lo scoglio della sua vanità e della mancanza di autocritica. Convinto una volta per tutte che il suo lavoro era di là da ogni obbiezione possibile, respinse sdegnosamente le proposte di scrivere in collaborazione; al punto che una volta [...] replicò a Puccini in modo offensivo: «Ché, se volessi essere impertinente, potrei, e forse con più verità e migliore giustizia, risponderti consigliandoti di prenderti tu un buon musicista per collaboratore.» [settembre 1907]
Senza dubbio il rifiuto di Illica, dopo la morte di Giacosa, di accettare un socio che probabilmente avrebbe messo un freno alla sua proliferante fantasia, fu la ragione principale per la quale Puccini e lui - per quanto provassero - non riuscirono a mettersi d'accordo. Ma c'è anche il forte sospetto che Puccini, ormai nella piena maturità, cominciasse a superare il naturalismo di Illica e inoltre non riuscisse più a tollerare gli atteggiamenti da primadonna dell'estroso librettista. [...] Con la scomparsa di Giacosa si era chiuso un capitolo importante nei rapporti tra i due membri superstiti della "trinità", e vedendo la cosa a posteriori non possiamo non ammettere che in Illica e Giacosa Puccini trovasse una coppia mirabile di librettisti, che si completavano l'un l'altro alla perfezione. Per quanto potessero essere aspri i suoi litigi con loro, per quanto energiche le maledizioni e le bestemmie ch'egli ebbe a scagliare al loro indirizzo, i due rappresentarono i migliori collaboratori di tutta la sua carriera. [...] Se «Bohème», «Tosca» e «Butterfly» si sono dimostrate le opere di maggior successo di Puccini, il merito, in misura non trascurabile, spetta anche ai due «abili poeti».
Mosco CARNER, «Giacomo Puccini», Milano, Il Saggiatore, 1981, pp. 118-126.
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