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GIUDIZI CRITICI

 

 

FEDELE D'AMICO

La peculiarità della «Tosca» fra le opere di Puccini è che il male vi appare nettamente come entità autonoma, in una sorta di sinistra autoesaltazione. In «Manon Lescaut» il male è soltanto fatalità interna dell'amore, un suo intrinseco destino; com'è nella «Bohème», in altro tono, la giovinezza intesa come irresponsabilità e per questo destinata a irreversibilmente perire; mentre in «Madama Butterfly» il male s'incarna nella futile incoscienza d'un personaggio di comodo, privo di qualunque fisionomia. In «Tosca» è invece una forza propriamente demoniaca, esterna e nemica, e soddisfatta di sé. Beninteso, se invece di considerare lo Scarpia granghignolesco di Sardou badiamo a quello che la musica di Puccini ci mette dinanzi. Senonché questo non genera affatto la situazione romantica: nella quale il 'cattivo' si contrappone all'eroe o all'eroina come il male al bene, intendendosi l'amore stesso simbolo di valori morali.

Perché in Puccini l'amore è invece eros indifferenziato, puro impulso vitale sprovvisto di qualsiasi trascendenza, e non significa altro che se stesso. Donde l'atteggiamento di Puccini di fronte al ricordato addio di Cavaradossi, tanto pregiato da Verdi e donde un completo mutamento, rispetto alla tradizione romantica del rapporto fra i personaggi. A Puccini interessa molto poco che Cavaradossi sia un campione di libertà, interessa soltanto che sia l'amante di Tosca. La quale dal canto suo, contrariamente a quanto pensava Specht è davvero un personaggio, sia pure nel senso finalmente spiegato da Sartori, che in lei vede l'attrice, la primadonna continuamente in vena di esibirsi e atteggiarsi (dunque, in quanto tale, personaggio nient'affatto falso, il quale, potremmo timidamente aggiungere, Puccini e Illica ci avrebbero forse aiutato a identificare meglio mantenendo all'opera il titolo del dramma, che non è Tosca ma La Tosca: come dire 'La Duse', 'la Callas').
Gli amori di Tosca e Cavaradossi non sono dunque quelli di una coppia verdiana o wagneriana. I loro sensi bruciano, questo importa; e bruciano in modo omogeneo alla natura del canto pucciniano: quel canto che, stando a una memorabile definizione di Giacomo Debenedetti, »Puccini sfogava nervosissimamente, distendendo e sillabando le note, sino a renderle, in una specie di irritazione e isteria melodica, tutte laminate e laceranti». È quanto dire che il loro erotismo è diverso da quello di Scarpia solo perché in questo domina la componente sadica: non perché racchiuda un simbolo diverso, perché si ponga come il bene contro il male.
Ciò spiega perché la musica di Scarpia possegga un torbido sex-appeal che nessun «cattivo» dell'opera romantica dai Lysiart di Weber ai Telramund e agli Hagen di Wagner, passando per una folla di baritoni verdiani, si sognò mai di possedere. Tra i cattivi e i buoni, nell'opera romantica, l'abisso è invalicabile; e noi spettatori stiamo fatalmente dalla parte dei buoni, nessuna suggestione dal campo opposto ci arriva. Non così in Puccini, non così nella Tosca dove, svanita una tavola di valori certa, i sedicenti buoni e il sedicente cattivo si riflettono in qualche modo reciprocamente, lasciando intravedere un fondo comune; e mentre gli slanci più felici dei primi son percorsi da brividi e sospetti, quelli biechi del secondo scatenano viceversa in noi un'inquietante dialettica di attrazione-repulsione.
L'epoca piccolo-borghese, quella in cui gli uomini agli ideali morali sostituiscono le ipostasi dei propri appetiti e sensazioni immediate, era cominciata da un pezzo, e sul teatro musicale aveva trovato espressione nell'opera francese della seconda metà del secolo, poi in quella italiana della cosiddetta Giovane Scuola. Ma in una sfera ancora relativamente ingenua, in cui il sentimento spoglio di ambizioni morali non s'era ancora specchiato nell'orrore della sua immagine negativa. Questa è la novità della Tosca; ed è novità, ripetiamolo, affidata alla musica. Pare impossibile oggi che questa partitura sia stata giudicata convenzionale, facilona; ma d'altro canto poco vale scoprire l'astratta novità di questo e quello dei suoi procedimenti, nei termini delle positivistiche categorie dettate dai vari Leibowitz.
Le novità della Tosca sono inseparabili dalle sue scoperte espressive: il primo tema di Scarpia, ossia quei tre accordi che aprono l'opera e, con alcune varianti, concludono sia il primo che il second'atto, offrono un giro armonico certamente inedito; ma la forza inventiva di questo "inedito" è nell'additare un 'monstrum' umano che nessuna musica aveva finora guardato in faccia. E che il Novecento musicale guardò, invece, sempre più volentieri. «Salomè», «Elektra», «Wozzeck»: si dovrà ben trovare il coraggio, un giorno o l'altro, di nominare Tosca nella lista; cronologicamente, verrebbe al primo posto.
Fedele D'AMICO, «Puccini non Sardou», nel Programma di Sala dell'Opera di Roma dedicato a Tosca, 1981-1982, pp. 312-316.

 

 

CLAUDIO CASINI

Da un lato riservò alla musica degli eroi positivi i caratteri storici, per così dire, del suo stile: la proliferazione di idee musicali da nuclei comuni, il riepilogo dei motivi, l'uso di forme di consumo tanto sotto forma esplicita (Te Deum, rullo di tamburi funebri, cantata settecentesca fuori scena, canzone del pastorello, marcia della fucilazione) quanto allusiva (l'inno in «Recondita armonia»?, la danza nell'entrata di »Tosca» al primo atto, la marcia durante l'interrogatorio di Cavaradossi, la preghiera in «Vissi d'arte», ancora l'inno nel duetto del terzo atto), infine la distribuzione dei piani armonici e timbrici in corrispondenza con le procedure dell'invenzione.

Da un lato riservò alla musica degli eroi positivi i caratteri storici, per così dire, del suo stile: la proliferazione di idee musicali da nuclei comuni, il riepilogo dei motivi, l'uso di forme di consumo tanto sotto forma esplicita (Te Deum, rullo di tamburi funebri, cantata settecentesca fuori scena, canzone del pastorello, marcia della fucilazione) quanto allusiva (l'inno in «Recondita armonia»?, la danza nell'entrata di »Tosca» al primo atto, la marcia durante l'interrogatorio di Cavaradossi, la preghiera in «Vissi d'arte», ancora l'inno nel duetto del terzo atto), infine la distribuzione dei piani armonici e timbrici in corrispondenza con le procedure dell'invenzione.
D'altro lato, attribuì a Scarpia, soprattutto col motto d'apertura dell'opera, ma anche nei motivi del secondo atto, una fissità di natura melodica e armonica (il motto è posto su una sequenza ellittica di toni interi, un tetracordo), contro la quale si acutizza la variante, consueta, dei motivi di «Tosca» e di Cavaradossi. Il processo assume aspetti spasmodici proprio nel secondo atto, dove tali motivi sono sottoposti a una estrema mobilità che investe la loro natura intervallare, armonica, ritmica, in una serie di modifiche che urtano contro la stabilità della musica di Scarpia. Di conseguenza l'armonia si estende dal cromatismo esasperato (ma gli stessi fenomeni accadono nel ritmo e nell'orchestrazione) alla modalità impassibile, mentre la vocalità, seguendo le varianti, subisce divaricazioni laceranti. Per questo, il personaggio di Scarpia assume la statura di protagonista assoluto fino a tutto il secondo atto; mentre nel terzo atto, la sua necessaria sparizione ha fatto sì che Puccini restituisse a Cavaradossi e a Tosca l'innocenza di una musica che esce incontaminata dal dibattito torbido e angoscioso, e che risponde simmetricamente al primo atto.
Gli effetti principali di una simile partitura furono molteplici: Puccini fu costretto a formalizzare una struttura così elaborata, quasi serializzata, con l'impiego massiccio di allusioni alla musica di consumo, secondo la sua abitudine di rendere semplice quanto di complicato si trovava ad aver scritto; inoltre, l'impiego di motivi guida rivelò, molto più che in «Manon Lescaut» e nella «Bohème», l'automatizzazione di collegamenti inevitabilmente stretti, nel massimo sfruttamento delle varianti e delle interrelazioni: in ciò chiarendo che il rapporto con l'organizzazione dei Leitmotive wagneriani era puramente esteriore e riduttivo (donde, l'esatta definizione di motivi, per Puccini, in luogo di temi, per Wagner, suscettibili di germinazioni impensabili in qualsiasi musicista italiano); infine, la vocalità di «Tosca» fu condotta a lacerazioni prodotte dalle particolari tensioni cui il sistema pucciniano venne sottoposto, sì che parve avvicinarsi molto al verismo, mentre in realtà, se gli esiti possono sembrare simili, i moventi furono diametralmente opposti e, come al solito in Puccini (non si insisterà mai abbastanza su questo tema) dovuti a ragioni strutturali ignote allo scisso e scoperto vocalismo della scuola verista.
«Tosca» espone un secondo limite, rispetto alla «Bohème», e si riallaccia alle due opere antecedenti soltanto nell'influsso della suggestione letteraria, e in questo caso teatrale, offerta dalla riduzione della pièce di Sardou, sul ristretto materiale impiegato nella partitura. Occorre tener conto di tale influsso fondamentale sulla natura della musica pucciniana.
Claudio CASINI, «Introduzione a Puccini», in A.V., «Il melodramma italiano dell'Ottocento», pp. 528-529.

 

 

MOSCO CARNER

Se «Edgar» fu il primo ma infelice tentativo di Puccini di uscire dalla tragédie larmoyante per quel che riguarda il soggetto e dall'opéra-comique per quel che riguarda lo stile musicale, cioè dal genere a cui appartengono sia le «Villi» sia la «Bohème», «Tosca» rappresenta il primo esempio pienamente riuscito di questa tendenza. Il compositore si spinge ora nella direzione di qualche cosa di eroico, a grandezza maggiore del vero, più ampio della vita, e il risultato è quasi un grand-opéra, un lavoro dominato con poche interruzioni da un tono cupo dalla prima all'ultima pagina. In luogo del miniaturismo della «Bohème» abbiamo qui, sebbene non sempre, una maniera molto più larga.

I temi e i motivi sono per la maggior parte assai più energici e taglienti, e alcuni divengono l'equivalente grafico del gesto d'un attore. Le linee melodiche guadagnano in ampiezza; ed emergono motivi fondati sulla scala diatonica, carichi di un'impetuosa energia. L'orchestra parla in toni più duri e meno flessibili che nella «Bohème», e sebbene non manchino passi di vera musica da camera - perfino da camera di tortura, come nel secondo atto - Puccini tende ora ad opporre le varie sezioni strumentali piuttosto che a fonderle, e assegna alla percussione una parte importante. Il linguaggio armonico è marcatamente dissonante con frequenti e improvvisi spostamenti tonali che quasi strappano la musica da una tonalità per passarla all'altra. Un tratto interamente nuovo è l'impiego diffuso della scala per toni interi nella caratterizzazione di Scarpia, mentre un intenso cromatismo distingue la musica destinata ad Angelotti. Caratteristici sono anche i frequenti segni dinamici «con tutta forza», «con violenza», «ruvido», gli innumerevoli «sfz» e la prevalenza dei «ff» e «fff».
Il prezzo che Puccini dovette pagare per dare veste musicale ad un dramma così violento, con una trama tanto 'teatrale', è palese nella fattura musicale disordinata e a volte sciatta. Il cinematografico susseguirsi di situazioni 'forti' raramente gli permette di sviluppare il suo materiale musicale. Nei suoi sforzi un po' ingenui di applicare con costanza la tecnica wagneriana, inventa 'etichette' per situazioni ed oggetti [La fuga di Angelotti, la ricerca della chiave, il paniere col cibo, il coltello con cui Tosca pugnala Scarpia, e così via] di interesse del tutto secondario e così mette insieme circa sessanta Leitmotive che poi riprende nel suo modo consueto ovvero saldati insieme da un tremolo - questa domestica tuttofare dei veristi. Questo è il lato della «Tosca» (in primo piano anche nella «Fanciulla del West») che meno sopporta un esame critico.
Ma all'esecuzione questi difetti si notano appena, in parte a causa del dramma che si svolge sulla scena, ma soprattutto perché la musica si avvolge e si riavvolge intorno all'azione con la flessibilità di un serpente. «Tosca» è tipicamente un 'dramma musicato' (non un 'dramma musicale'). Si sarebbe quasi tentati di mettere l'accento sul nome più che sull'aggettivo, se in ultima analisi il lavoro non vivesse proprio attraverso la sua musica; tanto è vero che il dramma di Sardou è ormai relegato nel limbo, mentre l'opera di Puccini proclama la sua vitalità un anno dopo l'altro attraverso innumerevoli esecuzioni. In realtà quel che meraviglia è la quantità di pura invenzione musicale impiegata a realizzarla, e sollecitata da un soggetto che a prima vista parrebbe rifiutare un adattamento operistico e da cui un compositore meno dotato sarebbe uscito certamente sconfitto.
Mosco CARNER, «Giacomo Puccini», Milano, Il Saggiatore, 1981, pp. 497-498.

 

 

GIUSEPPE TAROZZI

«Tosca» senza dubbio possiede pagine di alto valore, anche se è discontinua. Ma è un opera che funziona solo quando è in scena lei, la protagonista. È un circolo chiuso questa musica, una torre d'avorio nella quale l'autore si è rinserrato per non vedere e non sentire ciò che gli succede attorno, così come Floria Tosca non vede e non sente nulla che non sia l'amore per il suo Mario. Ma anche se ci sono momenti molto belli, Tosca segna una rottura nel mondo creativo di Puccini. Qualcosa in lui si è spezzato. E non si risalderà che verso la fine della sua avventura terrena.

Giuseppe TAROZZI, «Puccini. La fine del belcanto», Milano, Bompiani, 1972, p. 71.

 

 

CARLO PARMENTOLA

«Tosca» [...] è la prima delle opere della maturità di Puccini in cui entra in gioco con funzione di protagonista uno Scarpia, sordida mistura di bigottismo e lascivia, di vizio e falsa virtù. È il dramma della precarietà: Scarpia, di fronte al quale «tremava tutta Roma», è ucciso dalla fragile attrice; la vittoria di questa è illusoria, le virtù malefiche di Scarpia facendo sentire il loro peso anche dopo la morte; Cavaradossi ha un'impennata d'orgoglio all'ascolto dell'annuncio della vittoria di Napoleone, ma poi, di fronte alla morte, ritorna nelle sue modeste dimensioni di uomo trascinato in cose più grandi di lui. Egli «muore disperato», come morirà Butterfly, poi Liù. È l'abusato tema dei 'grandi dolori in piccole anime', l'unico che tutti trovino concordemente in Puccini.

Ma c'è, forse, qualcosa di più generale, qualcosa che spingeva il pubblico a commuoversi per queste 'piccole anime'», a identificarsi in esse. Un numero sempre maggiore di persone era implicato nel processo di impetuoso sviluppo della civiltà industriale nella piena consapevolezza di esserlo: un tempo la carestia, l'abbondanza, la guerra erano vissute dalla maggioranza della gente come fatti ineluttabili, come il terremoto o la tempesta. Ora le stesse persone sapevano bene che dietro queste cose c'è la mano dell'uomo, ma sapevano anche che non era prossima la prospettiva di entrare a far parte della cerchia ristretta che agiva nella 'stanza dei bottoni'.
Di qui il senso di frustrazione, di piccolezza: al volere divino sono sottomessi anche i re, e i suoi fini sono imperscrutabili, mentre i fini dell'uomo sono comprensibili e criticabili, eppure per la maggioranza essi sono altrettanto ineluttabili di quanto prima non fossero quelli divini. Scarpia non è certo degno della carica che ricopre, ma la ricopre e ciò stesso lo rende arbitro del destino di Cavaradossi e di tutti gli uomini comuni come lui. Nessun disegno superiore ispira il processo al pittore, neppure un disegno umano: ci sono solo le ignobili voglie del magistrato, alle quali ci si può illudere di sfuggire solo col delitto; e poi nemmeno questo basta: le voglie rimangono inappagate, ma i diritti altrui non fanno un passo avanti, e la 'giustizia' fa il suo corso al di sopra del suo singolo ministro.
Il popolano medio del primo Novecento si sente, come Cavaradossi, uomo soltanto nella capacità di soffrire, di amare, di avere una idea del mondo che lo circonda, non nella possibilità di scegliere la causa per cui soffrire, di vivere liberamente il proprio amore, di partecipare a organizzare il mondo con le proprie idee. Puccini, "piccola anima", non comprendeva queste cose, ma, anima d'artista, le intuiva, esprimeva il suo disperato disagio che era il disagio di tutti. Non solo la sua musica esprime una disperazione autentica, ma una disperazione dotata d'una sua universalità.
Carlo PARMENTOLA, «La Giovane Scuola», in «Storia dell'Opera», Torino, UTET, I,2, pp. 546-547.

 

 

GUIDO SALVETTI

[«Tosca»] è un dramma a forti tinte, programmaticamente privo della semplicità 'comica' e sentimentale della «Bohème». Il mutamento di soggetto comportò una ricerca corrispondente di complessità musicale: spicca soprattutto un uso inaudito dei Leitmotive, elaborati, variati e incessantemente sviluppati. Notevole, in tal senso, il tema di Scarpia. L'orchestrazione è ricca e drammaticamente efficace; la vocalità è capace di gesti aggressivi.

Anche l'ingenuità delle piccole ricerche che Puccini compì (chiedendo informazioni all'amico 'pretino' il Panichelli, sulle campane di San Pietro e sulla melodia del Te Deum) denotano uno sforzo non tanto rivolto all'ambientazione, quanto all'allargamento della tavolozza musicale. L'autore ricorre persino a effetti propri del grand-opéra: nel finale dell'atto I si vede sfilare sullo sfondo la processione per il Te Deum con grande ampiezza di cerimoniale; nell'atto III una cantata festiva fuori scena si svolge mentre il capo della polizia Scarpia sta interrogando il pittore rivoluzionario Cavaradossi; infine - modificando persino, in questo punto, il dramma di Sardou - Puccini fa eseguire in scena la fucilazione di Cavaradossi, alla presenza di Tosca: l'effetto viene così tutto costruito sull'illusoria convinzione di Tosca che la fucilazione di Cavaradossi sia finta.
Questi giochi su piani diversi, sia musicali sia psicologici, mostrano una concezione più ampia e ardita della drammaturgia musicale, da cui derivano anche ambientazioni sceniche di grande respiro: interno di chiesa, salone del palazzo Farnese, gli spalti di Castel Sant'Angelo. Né può veramente dirsi che la parte politica del dramma sia del tutto sacrificata rispetto a quella sensuale e sentimentale: la nobiltà d'animo di Cavaradossi viene musicalmente tratteggiata dal canto trionfale che gli sgorga dal petto alla notizia della vittoria di Napoleone. Le peripezie hanno anch'esse un forte rilievo: fughe dal carcere, imprigionamenti e torture, interrogatori, fucilazione vengono motivati da una costante udibilità delle parole.
Anche gli sfoghi lirico-amorosi, danno occasione a due vere arie, tra le più ampie di Puccini («Vissi d'arte», «E lucevan le stelle»), che desumono dall'ambientazione storico-politica e dalla levatura intellettuale della cantante Tosca e del pittore Cavaradossi, una consistenza tragica, lontana dai flebili sentimentalismi della «Bohème»: la protagonista, in particolare, affida a queste grandi effusioni liriche il senso della propria crescita psicologica, in un percorso che l'allontana sempre più dalle piccole gelosie e dai giochi amorosi. Eppure «Tosca» non è grand-opéra, né opera tragica: è un'opera svelta, fulminante, veloce, sintetica: proprio nel gusto verista di quegli anni.
Puccini, per il desiderio di rafforzare e di variare la propria musa, scatena così in «Tosca» una gestualità violenta, che raggiunge il culmine alla fine dell'atto II, quando Tosca reagisce al sadico tentativo di stupro di Scarpia (dal quale sperava di ottenere la salvezza di Cavaradossi) e lo uccide a coltellate, ponendogli poi il crocifisso sul petto. Non a caso i soprani di scuola verista, sulla frase di Tosca »E avanti a lui tremava tutta Roma» scritta per essere cantata su nota ribattuta, ricorsero sempre al «parlato» di Cavalleria.
«Tosca» si presenta così, per più aspetti, come un'opera in cui la musica tende ad incalzare gli avvenimenti, senza rallentarli con forme o situazioni convenzionali. Nel confronto mobilissimo tra Scarpia e Tosca dell'atto II, anzi, si può parlare di un'azione scenico-musicale precipitosa e incessantemente variata, in cui l'unico sollievo ci viene da interferenze esterne di cori e processioni.
Se, però, l'opera nasce dal piegarsi duttile della musica alle esigenze descrittive della vicenda, riesce anche a concedersi alcuni memorabili momenti di decorazione: come quando, nella chiesa dove Angelotti si è nascosto, si affollano piccole figure di sacrestani e chierichetti; o come quando, all'inizio dell'atto III (Scarpia è già stato ucciso e Tosca crede di dover solo aspettare la falsa fucilazione per riabbracciare il suo Cavaradossi), la musica si compiace di descrivere il misterioso momento del passaggio dalla notte all'alba sotto il cielo di Roma, con il canto, da sotto gli spalti del castello, di un pastorello che reca al pascolo il suo gregge, ed infine con l'annuncio dell'alba, con un infittirsi di campane che traduce non poco della magica alba annunciata, nell'atto II del Lohengrin, da simile riecheggiare di trombe. Ed è proprio da questi allentamenti del ritmo scenico che scocca la scintilla fulminante della tragedia, quando - dopo un estenuante ostinato ritmico, timbricamente lugubre, che accompagna l'avvio di Cavaradossi alla fucilazione - nel giro di pochi attimi tutto si risolve, con la morte di lui e con il grido di lei che si getta dagli spalti inseguita dal gesto disperato dell'orchestra in fortissimo.
Guido SALVETTI, «Tra Ottocento e Novecento», in «Musica in scena», vol. II, pp. 425-426.

 

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