CHRISTOPH WILLIBALD GLUCK
Jean-Philippe Rameau [...] non era un drammàturgo: concepiva l'opera come verificazione delle proprie teorie musicali. Pure, indirettamente pervenne a valori drammatici sia curando la fusione di canto e recitazione, l'equilibrio tra voce e orchestra, la connessione tra musica e gesto, sia, soprattutto, per la gravità e profondità dell'armonia (che suscitò molte reazioni): poiché, in sostanza, la concezione drammatica dell'opera è legata allo sviluppo dell'armonia moderna con le sue possibilità di rapidi scorci emotivi, di evocazioni allusive, di suggestive determinazioni degli sfondi sonori.
Ciò trova conferma nell'opera, condotta con consapevole probità artistica, del tedesco Christoph Willibald von Gluck ( 1714-87). Figlio d'un ispettore forestale, conservò sempre, nella vita e nell'arte, una rude semplicità elementare. Protetto dal conte Melzi, fu condotto a Milano (I739) e affidato al sinfonista Sammartini. Compose buone opere in stile italiano, finché, stabilitosi a Vienna, v'incontrò il letterato Ranieri Calzabigi (1714-I795), persuaso della decadenza dell'opera e della necessità di riforma in senso drammatico. Dalla loro collaborazione nacquero: «Orfeo» (1762), «Alceste» (1767), «Paride e Elena» (1770).
Nella prefazione all'Alceste Gluck afferma di aver voluto «restringere la musica al suo vero ufficio di servire la poesia per l'espressione », spogliandola degli abusi introdottivi dalla vanità dei cantanti ed eliminando il «tagliente divario nel dialogo fra l'aria e il recitativo.
Chiamato a Parigi (1774), vi fece rappresentare «Ifigenia in Aulide», rifece, migliorandoli, «Orfeo» e «Alceste», e creò ancora due capolavori: «Armida» (1777) e «Ifigenia in Tauride» (1779).
Errerebbe chi, indotto da tanto parlar di riforma, di dramma, di subordinazione della musica alla poesia, ritenesse la grandezza di Gluck d'altra natura che musicale e non dovuta principalmente alla qualità della melodia armonicamente determinata. Ma egli affrontò la tragicità degli argomenti classici con una dedizione intensa dell'animo appassionato, scuotendo l'accademica tradizione lullista; curò la continua aderenza espressiva della melodia alle situazioni sceniche; riscattò orchestrazione e armonia dalla banale povertà dell'opera italiana, continuando i meriti di Rameau.
Per la prima volta l'opera seria del Settecento mostra una così intima partecipazione del musicista ai sentimenti espressi dal dramma; una cosí robusta figurazione musicale di caratteri; un senso cosí sobrio e solenne di grecità nell'interpretazione dei miti antichi. Specialmente le scene corali rivelano in Gluck questa dote della solennità e della compostezza classica. Le arie, delle quali molte sono celeberrime, eccellono specialmente nell'espressione del dolore e dell'affanno, per mezzo di spunti melodici improntati a una tenerezza che rivela in Gluck, pur cosí rudemente serio e robusto, l'uomo del Settecento.
Tuttavia, non sempre gli ottimi spunti iniziali riescono in Gluck a un felice svolgimento: egli non è musicista facile, spontaneo, di vena fluida e pronta; il che nello stesso tempo gli giova ad una piú profonda e meditata interiorità della ricerca psicologica, ma lo trattiene al di qua di quella classe di musicisti fortunati, cui l'ispirazione melodica nasce spontanea e ricca: d'un Mozart, per esempio, o d'un Pergolesi, degli stessi operisti italiani del Settecento ch'egli per tanti versi supera.
Concludendo, la così detta riforma di Gluck, che scatenò a Parigi memorabili contese letterarie, non fu definitiva: tentennò egli stesso non poco («Eco e Narciso», 1779) e gli operisti che trionfarono dopo di lui furono Mozart e Rossini.
La trasformazione del melodramma
Parallelamente al fenomeno di dispersione della musica strumentale, anche nel campo del melodramma qualche cosa si muove ed avvengono lente ma importanti trasformazioni. La tempesta rivoluzionaria che chiude il Settecento si abbatte anche su questa forma d'arte che aveva deliziato per tutto il secolo l'aristocrazia e le classi colte, e ne mette in causa il tranquillo edonismo. Le biografie di Cimarosa e di Paisiello mostrano tangibilmente l'urto dei tempi nuovi contro le soppravvivenze d'un passato agonizzante.
Travolti nelle alterne vicende politiche che sconvolgono il regno napoletano in seguito alla calata delle truppe francesi, al loro ritiro e al loro ritorno, questi musicisti aderiscono di volta in volta al governo vincente, sopraffatti da avvenimenti piú grandi di loro, e manifestamente incapaci di assumere le proprie responsabilità politiche. Tipici esempi di voltagabbana, l'una e l'altra delle parti in lotta li tiene in sospetto di traditori. In realtà sono semplicemente uomini del passato, che non riescono piú a capire quel che sta succedendo.
Quando la marea rivoluzionaria sembrerà esaurita, dopo trent'anni di agitazioni repubblicane e di guerre napoleoniche, e, inchiodato Napoleone sullo scoglio di Sant'Elena, la Santa Alleanza si sforzerà di risuscitare intatto l'ancien régime, fra le tante cose irrimediabilmente mutate ci sarà pure la funzione sociale del melodramma, il posto che esso occupa nella vita dell'uomo. Per il Settecento l'opera era un passatempo musicale, fondato principalmente sulla bravura dei cantanti: lo spettatore non nutriva alcun vero interesse per le sorti delle Sofonisbe, degli Artasersi, degli Alessandri Magni che erano gli eroi di quegli spettacoli. Nell'Ottocento il melodramma non sarà piú soltanto uno svago mondano.
Si va al teatro d'opera per partecipare intensamente alle appassionate vicende della scena, per mettersi nei panni dei personaggi, soffrire e vibrare con loro, confrontarne idealmente le sventure e il comportamento con le proprie esperienze sentimentali, per imparare da loro una vita piú intensa, piú nobile e piú appassionata. Il «dramma» è penetrato nel melodramma, ed il fatto è tanto piú importante in Italia, dove non esisteva un vitale teatro letterario per svolgere quel compito di educazione sentimentale e di scuola del costume, che esercitavano in Francia Corneille e Racine, Rotrou, Molière, Marivaux, Beaumarchais e Voltaire.
Nella storia della musica questo fenomeno ha un nome: si chiama Gluck. Da vivo, Gluck aveva appena turbato l'egemonia del melodramma italiano, sorvolando da Vienna a Parigi senza lasciar traccia profonda in Italia. Come un sasso gettato in uno stagno, aveva agitato un poco le acque del melodramma, poi queste si erano richiuse su di lui: Mozart, Rossini. Ma quel sasso aveva continuato a lavorare in profondità. Nel teatro d'opera italiano il trapasso dal Sette all'Ottocento si potrebbe definire come l'interregno dei gluckisti. Sebbene da un punto di vista strettamente musicale Bellini debba ben poco a Gluck, e ancor meno Donizetti, tuttavia la differenza sostanziale che corre tra una loro opera e un melodramma settecentesco è anche dovuta al fatto che di mezzo c'è stato Gluck.
Questa trasformazione postuma del melodramma settecentesco in senso gluckista produce un importante mutamento negli scambi musicali fra l'Italia e il resto d'Europa. Durante il Settecento la diffusione europea del melodramma italiano aveva avuto carattere di colonizzazione: si esportava il melodramma come una merce, tal quale come era in Italia, coi suoi libretti in lingua italiana e con tutto il corredo del personale necessario ad eseguirlo, cantanti, maestri di cappella, poeti, costumisti, parrucchieri, ecc. L'Europa chiedeva al melodramma italiano di essere il piú italiano, anzi, il piú napoletano possibile. Gli operisti italiani andavano all'estero per far quattrini, poco preoccupandosi dell'ambiente in cui avrebbero dovuto lavorare. Poteva accadere che dopo molti anni di soggiorno a Londra o a Pietroburgo ritornassero in Italia senza avere imparato una parola d'inglese o di russo, perché avevano continuato a vivere in una fetta d'Italia trasportata all'estero: il melodramma era una specie d'impero musicale superiore alle divisioni politiche, e l'italiano - o qualcuno dei suoi dialetti - ne era la lingua ufficiale.
Col passaggio dal Sette all'Ottocento la penetrazione degli operisti italiani all'estero perde il carattere trionfale di colonizzazione per assumere quello, meno comodo, di emigrazione. Da Vienna, ma soprattutto da Parigi, con i mezzi dell'opera francese, Gluck ha insegnato ai paesi europei a fare essi stessi il teatro musicale, invece d'importarlo bell'e fatto dall'Italia. Ed ora i musicisti italiani che vanno all'estero debbono fare i conti con la concorrenza. Non si importa piú l'operista napoletano in quanto tale; per affermarsi, egli si dovrà adattare al gusto teatrale del luogo, dovrà accettare libretti nella lingua del paese, dovrà dimostrarsi realmente superiore agli operisti locali e vincerne la comprensibile gelosia: in una parola, nell'Ottocento l'operista italiano all'estero ha la sensazione di combattere in campo nemico.
La cervellotica convocazione di Piccinni a Parigi, per contrapporlo a Gluck, era stata una specie di anticipo delle difficoltà che presto gli operisti italiani avrebbero incontrato all'estero; ma i simboli viventi di questa mutata situazione del melodramma italiano in Europa sono Cherubini e Spontini. Dopo avere avuto in patria un inizio di carriera convenzionale, all'estero non potranno rimanere del tutto fedeli alla tradizione nazionale, ma la modificano.nel contatto con l'ambiente e saranno assorbiti dalla cultura dei paesi nei quali svolgono la loro attività. La nuova situazione operistica con cui essi devono fare i conti, a Parigi e a Berlino, è l'esperienza gluckiana, con ie sue conseguenze postume, a cui l'Italia era rimasta refrattaria.
Le semiserie baruffe di Cherubini con Napoleone sono lo specchio delle difficoltà contro cui urtava la riforma gluckiana in Italia. Cherubini con la «Medea» e Spontini con la «Vestale» derivavano da Gluck la severità dello stile tragico per dare all'impero napoleonico l'equivalente musicale del neoclassicismo figurativo di Canova, Appiani e David. Ma in musica Napoleone era rimasto un italiano del Settecento, pieno di nostalgia per le amabili cantilene di Paisiello e Piccinni: la rumorosa orchestrazione di Cherubini e l'energia drammatica della declamazione spontiniana infastidivano l'imperatore, che in teatro voleva distrarsi ed evadere dalle cure dello Stato. Egli non si rendeva conto d'essere stato proprio lui a distruggere il mondo in cui potevano prosperare le dilettose ariette del bel canto settecentesco.
Massimo Mila, Breve storia della musica, Torino, Einaudi, 1977, pp. 162-164; 252-255.