Verdi patriota, ma mai in prima linea

Mazzini prima e Cavour dopo furono i suoi punti
di riferimento politici durante il Risorgimento

[pubblicato sul Giornale del Popolo il 27 gennaio 2001]

Oggi si tende a ridimensionare il ruolo che Verdi ebbe durante il Risorgimento. Fino al 1848 i versi dei cori patriottici di «Nabucco» (1842), dei «Lombardi» (1843), di «Ernani» (1844) e del «Macbeth» (1847) non erano intesi né dal pubblico né dalle autorità occupanti in senso nazionalistico e rivoluzionario. Il celeberrimo coro «Va' pensiero...», per esempio, allude sì a un riscatto nazionale, ma il fatto che esso fosse affidato a Nabucco, il capo dei Babilonesi invasori, attenuava di molto il significato sovversivo che molti versi (come «Sì, fia rotta l'indegna catena») potevano avere. Del resto recenti studi han dimostrato che questo coro non suscitò mai un entusiamo particolare, dal '42 al '48.
Julian Budden, insigne studioso delle opere verdiane, pur ammettendo che la figura dell'austero patriota in lotta contro l'invasione straniera non era del tutto falsa, nega in modo reciso che le prime opere di Verdi abbiano fomentato «deliberatamente le agitazioni che culminarono nei movimenti rivoluzionari del 1848». [1] Questa interpretazione risale, complice Verdi stesso, agli anni Ottanta ed aveva lo scopo di mitizzare un momento eroico della storia italiana nel delicato periodo post-unitario. Nel lustro 1842-1847 vi fu da parte di Verdi e di molti suoi coetanei, una «quasi indifferente accettazione dei governi assolutisti stranieri» (Rostagno): da questo punto di vista non sorprende il fatto che Nabucco e i Lombardi fossero dedicati a due nobildonne degli Asburgo invasori: alla figlia del vicerè del Regno Lombardo-Veneto e a Maria Luigia, moglie separata di Napoleone, duchessa di Parma.
I primi, accesi entusiasmi patriottici di Verdi, sostenitore delle idee mazziniane, risalgono al 1848: «Onore a questi prodi!» - scrisse al suo librettista F.M. Piave durante le Cinque Giornate di Milano - «Onore a tutta l'Italia che in questo momento è veramente grande! L'ora è suonata della sua liberazione. È il popolo che la vuole: e quando il popolo vuole non avvi potere assoluto che la possa resistere. [...] Non c'è, né ci deve essere che una musica grata alle orecchie degli italiani del 1848. La musica del cannone!...» [2] Tuttavia, a differenza di Piave, non si arruolò.
Dopo la sconfitta delle armate italiane a Custoza (luglio 1848) che provocò un'emigrazione in massa da Milano verso il Piemonte e la Svizzera (anche Giuseppe Mazzini dovette cercar rifugio a Lugano), Verdi si recò a Parigi, dove compose* «La battaglia di Legnano», opera che certo contiene un incisivo messaggio politico (si pensi ai versi: «Viva l'Italia! Un sacro patto tutti stringe i figli suoi»); l'analisi della partitura evidenzia però una raffinata ricerca formale che mal si concilia con gli intenti propagandistici.
Dopo il crollo, nel 1849, della Repubblica romana, e per tutto il decennio successivo, non si trovano più commenti politici nelle lettere di Verdi e scompare anche la vena patriottica dalle sue opere (risalgono a questo periodo i tre capolavori «Rigoletto», «Traviata» e «Trovatore»).
Calato il prestigio di Mazzini, Verdi abbracciò le idee di Cavour e si convinse che nel Piemonte potesse esserci un fondamento solido alle speranze della nazione. La guerra contro l'Austria riaccese il suo entusiasmo, ma, anche questa volta, non se la sentì di arruolarsi. [3] Tuttavia il suo impegno per la causa dell'indipendenza italiana fu convinto e generoso: per esempio, aprì una sottoscrizione per i feriti di guerra e anticipò di tasca sua i denari per armare la Guardia Nazionale.

Verdi a Parigi nel 1855

Il Trattato di Villafranca, pur portando la pace, lo disgustò, poiché lasciava in mano austriache Venezia: «E dov'è dunque la tanto sospirata e promessa indipendenza d'Italia? Cosa significa il proclama di Milano? O che la Venezia non è Italia? Dopo tante vittorie, quale risultato! Quanto sangue per nulla! Quanta povera gioventù delusa! [E Garibaldi che ha perfino fatto il sacrifizio delle sue antiche e costanti opinioni in favore d'un Re senza ottenere lo scopo desiderato!] C'è da diventar matti!»

L'incontro di Verdi con Vittorio Emanuele II

Nonostante questa cocente delusione che contribuì non poco a suscitare il nero pessimismo che avrebbe caratterizzato gli anni successivi, Verdi non rinunciò all'impegno civile. Fu a partire dal 1861, quando accettò la candidatura a deputato propostagli da Cavour, che egli divenne una personificazione dell'unità della nazione.
Dal 1865 si ritirò sempre più nella sua arte, affidando ad essa, ai personaggi delle sue opere, la sua Weltanschauung: si pensi per esempio a opere come Don Carlo e al rifacimento del Simon Boccanegra.
Come ho evidenziato in un articolo precedente (GdP, 20 gennaio), in quest'ultima opera, Verdi mette in musica addirittura lo svolgimento di una seduta del Consiglio della Repubblica genovese che viene interrotta da una sommossa: «il popolo come forza politica» scrisse M. Mila «non ha mai avuto una più vigorosa caratterizzazione musicale.»
L'altra grande scena «politica» si trova nel Don Carlo, nel formidabile duetto, vertice dell'ispirazione verdiana, tra Filippo II, figura tra le più complesse e lacerate di Verdi, e l'inflessibile Grand'Inquisitore nonagenario e cieco. In questo possente, violento e drammatico scontro d'idee tra i due personaggi che rappresentano le forze politiche dello Stato e della Chiesa, chi incarna gli ideali di libertà, il Marchese di Posa, viene condannato a morte: sarà infatti proditoriamente ucciso da sicari del Sant'Uffizio. Le ragioni dell'altare prevalgono quindi sulla ragion di stato: il coinvolgimento emotivo dell'anticlericale Verdi durante la composizione di questo duetto fu tale che riuscì a creare una delle scene artisticamente più alte di tutta la storia dell'opera.
Studio di Verdi a Sant'agata
* Su invito di Mazzini, Verdi musicò l'inno patriottico «Suona la tromba». Lo fece recapitare al grande patriota in esilio: «Possa quest'inno fra la musica del cannone essere presto cantato nelle pianure lombarde!» Queste parole mettono per così dire il suggello all'esperienza mazziniana di Verdi.
[1] Certo la musica di Verdi suscitava delle manifestazioni popolari patriottiche, ma esse erano provocate anche da opere di altri autori che contenevano momenti guerreschi, come «Norma» di Bellini e «Belisario» di Donizetti. Il celeberrimo acrostico «VIVA V.E.R.D.I» ha cominciato ad avere il significato di «Viva Vittorio Emanuele Re d'Italia» solo quando fu firmata l'alleanza difensiva fra Piemonte e la Francia e si scatenò la guerra contro gli austriaci, nel 1859.
[2] Ma, nella stessa lettera, questa perentoria affermazione è fortemente ridimensionata, anzi contraddetta da quest'altra:«Io pure, se avessi potuto arruolarmi, non vorrei essere che soldato, ma ora non posso essere che tribuno ed un miserabile tribuno perché non sono eloquente che a sbalzi. Bisogna che torni in Francia per impegni e per affari. Immàginati che oltre la seccatura di dover scrivere due opere, io ho là diversi denari da esigere, e tanti altri in biglietti di banca da realizzare.»
[3] Una lettera a Clarina Maffei contiene «la più patetica confessione dell'imbarazzo di Verdi per la sua assenza dal servizio militare» (Mila): «Oh, avessi altra salute e sarei con lui [Pietro Montanellí] anch'io! Ciò dico a voi, e ben in segreto: non lo direi ad altri, ché non vorrei si credesse vana millanteria. Ma che potrei io fare, che non sono capace di fare una marcia di tre miglia, la testa non regge a cinque minuti di sole [...]. Meschina la natura mia! Buono a nulla!».