Jules Claretie

Una prova del 'Don Carlos'

Ho ascoltato un atto intero del «Don Carlos», che sta per rappresentarsi all'Opéra fra dieci giorni, e ho visto Verdi.
Dal fondo di un palco, nell'ombra, sono riuscito ad assistere a questo spettacolo. Nessuno sapeva che ero là; badavo a non muovermi, e restavo affascinato, ascoltando, guardando, gli occhi fissi su quell'uomo pallido che era il pensiero, che era il creatore, che era il poeta di quel grande dramma musicale.
I lampadari spenti, la grande sala immersa nelle tenebre non aveva per così dire altro di vivo che la scena e quell'orchestra di musìcisti rafforzata espressamente per quest'opera. Al dì sopra delle teste, dei violini, degli ottoni scintillanti, si levava la capigliatura arruffata di Georges Hainl e si vedevano spuntare i suoi ruvidi mustacchi. Il direttore d'orchestra, bacchetta alla mano, come un colonnello prima dell'assalto, contemplava i suoi soldati ammassati nella trincea.
Dirimpetto a lui, quasi magnetizzandolo con gli occhi pieni di lampi, seduto su una sedia, le grandi mani bianche distese sulle ginocchia, immobile, simile a qualche Dio assiro, Verdi, pensoso, con tutta l'anima in ascolto, interamente assorto in quella musica uscita vibrante, vivente dalle sue viscere.
L'uomo è alto, di una magrezza solida, con spalle d'Atlante che sembrano sostenere montagne. I capelli lunghi, ispidi, folti, rigettati sulla fronte in pesanti ciocche, la barba d'un nero di giaietto, lievemente incanutita sul mento. Due rughe profonde lungo le guance, un volto scavato, sopracciglia spesse, pupille elettriche, la bocca larga, amara, sdegnosa, l'aria maschia e fiera, gli atteggiamenti pieni di sfida di un tribuno.
Su una tavola, a destra, in un angolo, alla luce d'una piccola lampada, simili ai membri di qualche tribunale segreto, i musicisti - maestri anchessi - incaricati di far provare i cori, sì curvavano sulla partitura e con gli sguardi interrogavano lo sguardo eloquente di Verdi, leggevano in uno dei suoi lampi, in un aggrottamento di sopracciglia, prendevano subito degli appunti, attenti al minimo gesto, alla minima parola dei maestro. Ed erano pur tuttavia i signori Gevaërt, Victor Massé, Léo Delibes, nomi amati, nomi celebrì, Cormon, Cadot [sic]; sorvegliavano ogni nota, seguivano col dito e con l'occhio i vari pezzi musicali come uno scolaro studierebbe su un libro, luogotenenti arruolati nella compagnia di quel capo, e guidando questi il coro, bacchetta in mano, marciando, andando, venendo, battendo il tempo, conducendo un battaglione di coristi come un un ufficiale alla testa di una sfilata. Che movimento!
Quanti sforzi da ogni parte, dall'autore alla comparsa! Il sig. Perrin nel suo palco si agitava, usciva, andava dai corridoi alle quinte, dalle poltrone alla scena, indietreggiava sino al fondo della sala per ascoltare da un po' lontano, incontrava il sig. Du Locle, che ha firmato il libretto, faceva delle osservazioni, ne riceveva delle altre. Ah! la vigilia delle battaglie! E in nezzo a tutta questa agitazione, solo, al suo posto, meditabondo, Verdi rimaneva fermo e in attesa.
Ma adesso i cori attaccano una grande marcia, di un movimento sorprendente e superbo - una di quelle ispirazioni venute di colpo senza dubbio, trovate come in soprassalto, scaturite d'improvviso, creazioni che dalla sera alla mattina esplodono e diventano popolari, trascinano una sala, galvanizzano una folla.
Verdi ascolta: tutto il suo essere, tutta la potenza di quel suo temperamento di ferro è tesa verso un solo scopo. L'udito si è raddoppiato in lui, triplicato, interroga tutto, afferra in quell'armonia stentorea la nota piú flebile, ascolta a un tempo e i cori e gli ottoni, il canto, l'orchestra, la scena, il retroscena, si alza in piedi, fa un balzo, sprona valorosamente tutti quei gruppi, esclama con quell'accento italiano che dà un fascino alla sua voce:
- C'è un vuoto, là! ... Andiamo!... presto! ...
Si canta sull'avanscena, ma è a due coristi situati sul fondo della scena che egli si rivolge, come d'un balzo: - Eh!... eh! ... C'è un accento su quella nota! Da una parte: - Andiamo, presto! -Dall'altra parte: - Piano! Con amore!
Si è levato in piedi, batte il tempo, fa schioccare il pollice contro il medio con un colpo secco, e quel suono stridente, vivace, nervoso, quel rumore di castagnette domina l'orchestra, domina i cori, li eccita e li trascina come altrettanti colpi di frusta. Poi sono le sue mani, che batte palma contro palma; egli è armonia dai piedi alla testa, lotta con il proprio ideale, infondendo il suo genio d'artista a quegli uomini, a quelle donne, investendoli con la propria fiamma, ardendone egli stesso, battendo il piancito del palcoscenico con i talloni, correndo in fondo alla scena, fermando i coristi, ritrovando la sua vera intenzione in quel caos da cui nasce un mondo.
Questa marcia grandiosa del terzo atto, - eseguita con i nuovi ottoni costruiti da Sax, chiari, dal suono penetrante, con voci talora gravi - cantata poi dai cori provenienti dal retroscena, e dominata dalla voce della signorina Sasser, ripresa poi dall'orchestra, rimarrà come una delle belle ispirazioni dì Verdi. Quei musicisti - i direttori dei cori - accasciati dal susseguirsi di tante prove, vogliono sempre udirla due volte e due volte applaudirla. È già tanto se Verdi saluta e inchina il capo; sembra dire: Proseguiamo!
Gli è che il pezzo che segue è davvero folgorante: I deputati delle Fiandre reclamano da Filippo Il le loro franchigie, protestano contro il diritto violato, lanciano con ardore il loro grido di libertà. Don Carlos li sostiene; il re ordina che venga arrestato; nessuno si muove. Il marchese di Posa si avanza allora verso l'Infante, gli richiede la sua spada. La scena è splendida. Bisogna sentire Morère e Fauré. Schiller non potrebbe davvero lamentarsi di non esser stato compreso.
Ci si ricorda di quella scena del suo «Don Carlos»: «Sire, sono tornato recentemente dalle Fiandre e dal Brabante! ... Province casi ricche e fiorenti! un popolo grande e vigoroso... e anche un buon popolo. Ed essere, dicevo a me stesso, il padre di un tale popolo, dev'essere cosa divina! Ma ecco che il mio piede urta contro delle ossa, delle ossa umane, ossa bruciate!». Nessuna azione drammatica è piú straziante e piú bella. Ebbene, in quel coro di Fiamminghi, coro di bassi che cantano all'unissono, lento come un canto di chiesa, sordo come il brontolio del tuono, minaccioso, tremendo, sublime, Verdi ha messo lo stesso ardore contenuto, la stessa energia decisa a tutto, al sacrificio, alla morte, al martirio. E l'aspro appello alla libertà soffocata che chiede di vivere. D'altronde Verdi ha espresso come nessun altro le grandi sofferenze di quanti sono oppressi. Tutti i singulti della sua Italia sono passati un giorno nella bocca del Trovatore. Vi erano in quest'opera le lacrime di un'intera generazione. La gran madre gridava e supplicava per bocca del suo figlio. Questa volta il singulto s'è fatto minaccia, i lamenti si sono armati, le suppliche si sono trasformate in proteste, e io dubito che i luogotenenti del re di Spagna possano intendere senza emozione queste coraggiose grida di libertà.
Questo terzo atto è un capolavoro. Quante cose vorrei ancora dire; vorrei parlare della Sasse, dai meriti decisamente superiori, di Obin, di Castelmary, molto ragguardevole; di un meraviglioso duetto tra Faure e Morère. Ma ho già detto abbastanza. E quale effetto non produrrà sul pubblico quest'atto che si vorrà udire e udire ancora, giacché pur senza l'apparato dei costumi, in questa penombra, i cavalieri vestiti di camiciotti e gli inquisitori in cappotti a sacco, si è commossi, schiacciati, umiliati.
Si esce in effetti da un tale ascolto piú piccoli e piú grandi a un tempo. Piú grandi, con emozioni nuove, orizzonti aperti, vampe d'eroismo; piú piccoli, perché ci si è misurati con il genio.
Ecco dunque un uomo che è ricco, che è onorato, che è glorioso, che dalla sua arte nulla ha piú a ripromettersi se non nuove fatiche, strapazzi, corone acquistate a caro prezzo, trionfi pagati con dolori, con insonnie, con ire. Egli ha ottantamila lire di rendita, il suo nome è stato per la sua patria un segnale di libertà, un grido di adunata; tale artista si è assiso in Parlamento, lo si è trascinato sul teatro, acclamato, applaudito, abbracciato. Che vuole di piú? Santa passione del bello! Sei tu che egli ha nel cuore e da questo non uscirai piú! Egli vuole il Meglio. Egli va, prosegue, lotta, lavora.
Egli va a sedersi su quella sedia; va, l'orecchio proteso, ad ascoltare i cori per quattro ore, va a prodigarsi fisicamente fino a mezzanotte, a usare i suoi muscoli dopo aver usato il suo cervello; e compiuto questo sforzo prodigioso, venuta la sera della prima rappresentazione, qualcuno dei nostri colleghi, un giornalista che avrà pranzato male, un motteggiatore che vorrà fare un paradosso, un facitore di spiritosaggini che cerca la battuta, esclamerà: - Come! è tutto qui! Don Carlos!..., o ancora: - Oh, a me Verdi non piace!
Fortunatamente, in mezzo a questo rumore che s'è fatto intorno a lui, l'artista, l'artista vero preso dall'idea, non intende che la propria coscienza, e spesso, anche fra coloro che l'attorniano, si trovano delle persone che possono dirgli ciò che di lui penserà l'avvenire. È questa la vendetta degli uomini di genio: rispondono all'Oggi con il Domani.
Verdi, d'altronde, senza attendere la posterità, avrà avuto la gioia suprema di assaporare ciò che Alphonse Rabbe chiamava la gloria in denaro contante. Ma egli porta da atleta il suo fardello. - Io non sono che un contadino, dice, quando gli si parla della sua fama. Sia. Egli è di quei contadini che vincono battaglie o scoprono nuove terre. [2]
[1] François-Georges Hainl (Issoire, Puy-de-Dôme, 1807 - Parigi 1873), già direttore d'orchestra al teatro di Lione, era stato assunto nel 1863, come s'è già visto, in sostituzione di Pierre Dietsch. Della concertazione di Hainl nel «Don Carlos» Verdi non sarà gran che soddisfatto se un anno piú tardi, in una lettera del 14 marzo 1868 a Du Locle, scriverà:

Ah se si potesse persuadere alla vostra orchestra che vi sono degli effetti che essi non sanno o non vogliono rendere! È tutto dire che l'orchestra di Bologna, perché diretta da Mariani, sonava meglio della vostra, ma perfino l'orchestra di Roma (che è una povera orchestra) trovava degli effetti che la vostra non sa trovare! (autografo: Bibliothèque de l'Opéra, Parigi)

[2] Quasi un profeta questo Claretie nell'anticipare alcuni concetti intorno al compito della critica e al dovere dell'artista di saper vedere «nuovi mondi», espressi da Verdi, pochi mesi piú tardi, il 23 dicembre, a Vincenzo Torcili perché li trasmettesse al figlio Achille, commediografo, fresco autore di «I mariti»:

Non lo gonfino le lodi, né lo spaventino i biasimi. Quando la critica, anche la piú onesta, gli si parrà davanti... tiri dritto sempre. La critica fa il suo mestiere, giudica e deve giudicare secondo norme e forme stabilite; l'artista deve scrutar nel futuro, veder nel caos nuovi mondi, e se nella nuova strada, vede in fondo in fondo il lumicino, non lo spaventi il bujo che l'attornia; cammini, e se qualche volta inciampa e cade, s'alzi e tiri dritto sempre. È bello qualche volta anche una caduta in un capo-scuola... (autografo: biblioteca Lucchesí-Palli, Napoli)