Massimo Mila

Filippo II e il Marchese di Posa

in «L'arte di Verdi»,
pp. 159-160

Filippo II, chiuso tiranno controriformista, e il suo antagonista politico, il marchese di Posa, nel quale il poeta tedesco ha anticipato con geniale anacronismo gli ideali del liberalismo romantico, non si odiano ciecamente, come richiederebbero le consuetudini del teatro dei burattini e del melodramma piú convenzionale: al contrario, un'ammirazione reciproca li attira al di sopra della divergenza politica. Chissà quante volte Posa avrà desiderato in cuor suo che l'infante Don Carlo, conquistato alla causa della libertà delle Fiandre, potesse avere la dura tempra del padre. E Filìppo II ammira la coraggiosa schiettezza di quell'avversario, e lo vorrebbe al proprio seguito: lo apprezza perche non e un cortigiano, e il risultato della sua ammirazione è che vorrebbe farne un cortigiano.
Questo intrico di sentimenti ha la sua punta massima nel gran finale del terzo atto, quando Don Carlo presenta invano al padre l'implorazíone dei deputati fiamminghi e finisce per prorompere in escandescenze, snudando la spada al cospetto del re: e proprio l'amico suo, il marchese di Posa, sarà l'unito fra i presenti che avrà il coraggio di disarmarlo. Gesto drammatico di mirabile complessità, nel quale è impossibile determinare la parte rispettiva dei più disparati moventi: sollecitudine per l'amico che ha perso il controllo di sé, autentico rispetto per il sovrano, cauta strategia politica di cospiratore che non vuol scoprire le carte anzitempo. Nell'esterrefatto silenzio il tema dell'amicizia eroica di Don Carlo e Rodrigo, che avevamo per l'addietro conosciuto come una fanfara, un tantino volgare nella sua marzialità, risuona flebile e interdetto nel querulo timbro dei legni, come la muta interrogazione di Don Carlo che si vede sbarrare il passo dal suo piú fido amico: ed è un momento d'intensa, virile commozione.