Blanche Roosevelt

La mia prima intervista a Verdi

«Verdi, Milan and 'Othello',
Being a
short Life of Verdi, with Letters
written about Milan and the new
opera of 'Othello', Ward & Downey, Londra
v. cap. XV: My first in
terview with Verdi.

CONATI, pp. 90-102
[con taglio di quasi
tutte le note]

Marcello Conati

INTRODUZIONE

Blanche Roosevelt, cantante, giornalista, scrittrice, nacque a Sanduski, Ohio, negli Stati Uniti, nel 1853, figlia di un senatore. Definita da Victor Hugo «la bellezza e il genio dei Nuovo Mondo si recò giovanissima a Milano per apprendervi l'arte del canto; a quell'epoca risalgono le sue prime corrispondenze giornalistiche. Esordì al Còvent Garden di Londra nel 1876 nella «Traviata» coi nome di Bianche Rosavella, senza però destare un'impressione molto, favorevole: la sua voce era piuttosto brutta e difettava inoltre nell'intonazione; era peraltro molto avvenente nella persona. In seguito cantò a Milano, in Belgio, a Parigi e negli Stati Uniti. Sposò un italiano, il signor Macchetti, che assunse poi il titolo di marchese d'Alligri. A trent'anni pubblicò ii suo primo libro: «Stage Struck; or, She Would Be an Opera Singer», contenente fra l'aItro, una descrizione dei metodi, spesso esagerati, di alcuni maestri di canto dell'epoca, fra cui quello del famoso Lampertí, «basato sulla teoria che la voce viene dallo stomaco». Mori ancor giovane a Londra nel 1898 in seguito alle ferite riportate alcuni mesi prima a Montecarlo nel rovesciamento della carrozza sulla quale viaggiava.
Al tempo della sua visita a Verdi, Bianche Roosevelt aveva ventidue anni, e da oltre un anno si trovava a Parigi per perfezionarsi nel canto alla scuola della celebre Pauline Viardot. Benché la sua corrispondenza al «Chicago Times» rechi la data del 5 giugno 1875, l'intervista dovette avvenire circa un mese avanti, cioè, come afferma la stessa Roosevelt, prima della partenza del compositore da Parigi per Londra, avvenuta l'8 maggio. Tale intervista si colloca dunque al tempo della ripresa della «Messa di Requiem» alla Salle, Favart di Parigi (sede dell'Opéra-Comique, di cui era direttore a quel tempo il Du Locle), tappa iniziale di una tournée della «Messa» che avrebbe dovuto poi condurre l'autore e i quattro solisti Teresa Stolz, Maria Waldmann, Angelo Masini e Paolo Medini) a Londra, a Berlino e a Vienna. Dopo sette esecuzioni alla Salle Favart (la prima ebbe luogo il 19 aprile), la «Messa» fu eseguita il 15 maggio all'Albert Hall di Londra: vi fu replicata altre tre volte; ma a causa di un piccolo deficit finanziario l'editore Ricordi decìse di annullare la tappa di Berlino suscitando la viva irritazione di Verdi che all'esecuzione berlinese teneva in modo particolare.
La tournée proseguí per Vienna (11 giugno) e si concluse al Teatro Malibran di Venezia (10 luglio), qui assente però Verdi (fattosi sostituire da Franco Faccio) che rientrato nel frattempo a Sant'Agata, e non perdonando a Ricordì la rinuncia alle esecuzioni di Berlino, volle rivedere tutti i contratti editoriali, dal «Rigoletto» in poi: ne nacque una lunga vertenza che alla fine si compose con il pagamento al compositore, ritenutosi danneggiato, di un conguaglio di 50.000 lire da parte dell'editore. Le ragioni che ispirarono quella tournée sono spiegate ìn un memoriale riassuntivo, datato luglio 1875, contenuto nel diario di Giuseppina Verdi, che qui riproduciamo nella succinta trascrizione fornìta dal Luzio (le frasi fra virgolette sono di Giuseppina):
«Lo scopo di Verdi era di far sentire secondo le sue vere intenzioni la musica italiana, con speranza di piantarla all'estero con salde radici», soprattutto in Germania, paese musicale al piú alto grado. «Se l'arte poteva ricavarne onore, l'editore ne poteva avere incalcolabile vantaggio per la parte commerciale.» Ma si preferì di non correre allora un'area malcerta non parendo ancora abbastanza europeo il trionfo d'«Aida»! «La gloriosa riuscita della 'Messa' a Parigi fece rinascere il pensiero della Germania e di Londra. Verdi che accarezzava sempre nel suo cuore di artista il progetto altra volta fallito [1] acconsentì a fare il giro...» «Dopo le splendide esecuzioni di Parigi si andò a Londra. Non si volle o non si seppe conoscere il paese. Invece di star inattivi molti giornì, bisognava dare il maggior numero di esecuzioni possibili, perché una freccia per quanto acuta passerà sempre piú facilmente un corpo di 10 che di 50 cm. In quella sala lontana, nella stagione delle corse e con una popolazione di tre milioni non bastava il successo di quelli che erano accorsi alla prima edizione: bisognava ripeter la «Messa» il maggior numero di volte; il grande concorso alla 4ª ed ultima esecuzione prova la verità delle mie asserzioni.» Invece il piccolo deficit constatato a Londra non solo determinò uno spavento, «che, bisogna pur dirlo, fece sorridere Verdi amaramente», ma provocò la decisione improvvida di sorvolare Berlino con la tournée, dirigendosi in Austria, senz'altro! «Si andò a Vienna, città piú ristretta, meno distratta e musicale per eccellenza. Il successo artistico ha passato quanto mai si possa desiderare (né vi fu luogo a spaventi dal lato materiale)»; il malumore di Verdi non poteva perciò, rientrando in Italia, non rivolgersi agli assuntori dell'impresa con la famosa esclamazione biblica: «homo modicae fidei quare dubitasti?»
Nell'intervista alla Roosevelt, Verdi accenna al miglioramento dell'esecuzione vocale della «Messa» determinato dalla presenza di due nuovi interpreti maschili: il tenore Angelo Masini e il basso Paolo Medini, già primo interprete di «Aida» al Cairo nella parte di Ramfis. L'anno precedente, sempre alla Salle Favart, la «Messa» era stata eseguita subito dopo le prime esecuzioni milanesi (chiesa di San Marco e Teatro alla Scala) avendo a interpreti, oltre alla Stolz e alla Waldmann, il tenore Giuseppe Capponi e il basso Ormondo Maini: se ne fecero otto esecuzioni, di cui la prima aveva avuto luogo il 9 giugno.
La mia prima intervista a Verdi
Parigi, 5 giugno 1875

Durante la seconda stagione della «Messa» di Verdi a Parigi, una mattina mi dissi: «Andrò a far visita al grande compositore, così vedrò com'è da vicino.» Saputo che era sceso all'Hótel de Bade, annotai accuratamente l'indirizzo, con l'intenzione di valermi del gentile invito, ricevuto qualche tempo prima da parte dello stesso maestro, di recarmi in visita da, lui un giorno o l'altro nella sua residenza.

Una frettolosa incursione nel camerino del direttore d'orchestra al termine dell'esecuzione non è di molta soddisfazione, e i complimenti, per quanto calorosi, devono essere molto sinceri per risultare ben detti nella fretta; cosí, dopo l'au revoir sulla porta di servizio del teatro, mi decisi di visitare il maestro prima che partisse per Londra.
L'Hótel de Bade è sempre onorato dalla presenza di numerosi professionisti; non fummo quindi sorpresi, capitando davanti alla porta d'ingresso, nel vedere un certo numero di divi che poltrivano al sole. Il numero 79 si trova al secondo piano, e dopo che il concierge ci ebbe fatto salire, mi venne da chiedere se Verdi era un individuo comune o no. Un cameriere molto sorridente ci faceva strada a gomitate recando un vassoio e in certo qual modo sembrava quasi farci cenno di seguirlo, il che facemmo, e ci fermammo alla fine davanti alla, porta contrassegnata dal numero 79. Il cameriere entrò, e noi consegnammo i nostrì biglietti da visita a un azzimato servitore che uscì da'una stanza interna. La mamma e io ci mettemmo a sedere aspettando di essere ammesse alla presenza dell'autore del «Trovatore».
L'anticamera era piuttosto ampia. Da un lato c'era un tavolo presso il quale stata seduta una donna intenta a scrivere, che non alzava mai gli occhi, e sono certa che non era un tipo molto interessante. La guardai fissamente, poi guardai altrettanto fissamente la parete che sembrava quasi sfiorarle il gomito sinistro. Pur essendo la parete perfettamente spoglia e di colore scuro, in qualche modo vi scorsi partiture musicali sparse qua e, là; poi la parete si trasformò poco per volta in un palcoscenico dove musicisti, coristi e artisti, tutto sembrava mescolarsi in una massa confusa. Osservandoli piú fissamente, cominciavano a prender forma. Sullo sfondo della scena c'erano l'orchestra e le coriste, tutte vestite di bianco, con graziosi pizzi neri sul capo e sulle spalle. Ci fu un mormorio, e due signori vestiti di scuro si fecero avanti con un'espressione come a dire: «Ecco il tenore e il basso solisti». Essi si accomodarono in due sedie poste sul davanti. Poi ci fu un altro fruscio leggero, un altro mormorio, e due donne d'aspetto regale, in lunghe, vesti di raso bianco con lo strascico, si fecero innanzi; i loro volti erano illuminati di fierezza e piacere.
Le seguiva da presso Verdi in persona. E i tre avanzarono verso le luci della ribalta, e il mio palcoscenico immaginario sembrò tremare per i clamori e le grida di benvenuto che risuonarono da ogni lato. Le signore si sedettero. Verdi afferrò la bacchetta; ci fu un silenzio. La musica stava per cominciare. Mi sembrava di essere nel paese dei sogni; potevo sentire le prime dolci note degli strumenti quando attaccarono il pezzo d'apertura; potevo sentire la melodia andare e venire come,le acque chiare di un ruscelletto montano. Osservai la signora Stolz, poi la signora Waldmann, e mi chiesi se potevano esistere davvero dei capelli tanto belli e dorati come quelli che la Stolz dimostrava di possedere, almeno nel suo famoso ritratto. I loro fili, sotto il velo nero veneziano che ella portava, sembravano luccicare e risplendere come luce del sole estivo che si posa su un'arpa dorata. La musica si fece piú dolce e piú forte; il cenno della bacchetta piú vigoroso; il coro stava ormai per intervenire, quando udii una voce di cameriere che in perfetto francese diceva: «Abbiano la cortesia di entrare nel grande salone; il signor Verdi vi arriverà direttamente». Mi mossi e guardai ancora la mia parete, ma i musicisti erano svaniti lasciandola spoglia come prima. Evidentemente avevo solo sognato. La voce dei cameriere mi riportò alla realtà, ma l'immaginazione risultò molto insipida al paragone della realtà che stava per presentarsi davanti a me. Mi alzai ma concessi prima un ultimo sguardo alla nonchalante che sedeva presso il tavolo: stava ancora scrivendo e non volse mai il, capo mentre noi entravamo nel 'grand salon'.
Avete mai sentito di una donna si poco curiosa? Pensavo che avrebbe dato almeno un'occhiata; ma no, non si mosse, mai e ci lasciò tranquillamente entrare nel salotto, coscientì che in quelt'albergo esisteva una persona totalmente ignara della grande importanza e dell'alto onore di fare una visita mattutina a Verdi.
La porta si chiuse e ci trovammo in una stanza riccamente ammobiliata: da un lato un tavolo quadrato sopra il quale era posto un servizio da caffè, e dall'altro un pianoforte Erard. Naturalmente il pianoforte colpì per primo la mia attenzione, poi mi colpì anche la ricca porcellana. Mi stavo chiedendo se il primo fosse bene accordato e che effetto avrebbe sortito la «Traviata» suonata dalle stesse mani del maestro; poi mi chiesi se la porcellana era di Sèvre o di Dresda, , quando sentii vicino a me un «Buon giorno, signorina» e il maestro era accanto a noi.
Sì, sembrava esattamente lo stesso che avevo visto sul palcoscenico dell'Opéra-Comique. Il suo aspetto non ha nulla di eccezionale; Verdi è piccolo [2] ma con ampie spalle, torace pieno, generoso, e un corpo ben modellato. Ha occhi grandi, grigi e ridenti, occhi che mandano lampi e cambiano colore a ogni istante; il viso è energico e mostra pochissime rughe per un uomo della sua età. Le fattezze sono ampie, gli zigomi alti e la parte inferiore della mascella piuttosto incavata; il mento e parte del volto sono ricoperti da una corta e fitta barba, un tempo nera, ora leggermente mista di grigio. La bocca è ampia e gradevole, ma è quasi totalmente nascosta da baffi scuri che conferiscono al volto un aspetto molto giovanile. La fronte, molto ampia e alta, denota forte carattere e rapidità di percezione; le sopracciglìa sono pesanti e anch'esse grigie e nere. I capelli sono molto lunghi, cadono leggermente sulla fronte e sono appena misti di grigio. Si intravvedono una meravigliosa fermezza e una forza segreta nell'espressione del volto di Verdi, tale da farmi pensare a un quadro di Sansone che una volta avevo veduto.
In un certo senso rimasi delusa dal suo aspetto. Ha un'aria e una figura diverse da quelle del compositore ideale. Non so cosa mi aspettassi di trovare: certo, Verdi possiede i modi franchi e socievoli dì un ìndividuo comune piuttosto che quella diffidenza esclusiva, talvolta penosa, che caratterizza gli uomini di grande talento. Non posso dire che egli manchi dì dignità ma c'era una cosí completa assenza di pose nel suo comportamento e un tale lìeto amabile sorriso sul suo volto che rimasi conquistata dal complesso dei suoi modi. Ci alzammo appena entrò nella stanza. Avanzò a braccia aperte e con cortesi parole dì saluto, poí ci pregò di restare sedute. Guardando con un sorriso il servizio della prima colazione, disse: «Non ho ancora preso il caffè; vogliate scusarmi; forse anche voi ne volete una tazza... Si continuerebbe a bere caffè a Parigi».
Declinammo il nettare profferto ma stemmo a osservare il nume in terra. Verdi alzando rapidamente gli occhi disse: «Mademoiselle, vi piace Parigì?»
«Parigi! Diamine, caro maestro, è la piú bella città del mondo. Non lo pensate anche voi?»
«Sì, è troppo bella», disse Verdi; «il mio tempo qui se ne vola via. Non faccio niente e trovo che in un certo modo le ore fuggono proprio mentre sto pensando di lavorare. Sì, il tempo è davvero troppo bello per altro che non sia il pìacere. Qui non riesco mai a comporre. Sono innamorato della città, ma, strano a dìrsi, sono ancor piú innamorato della campagna... dell'agricoltura, vagabondare per i campi, attraverso foreste solitarie dove posso stare tranquillamente ad ammirare ìndisturbato la natura con tutte le sue bellezze. lo scrivo sempre in campagna; in certo modo ognì cosa mì riesce subito, senza sforzo, e ne sono pìú soddisfatto.»
«Però», lo interruppi, «voi andrete presto a Londra; vi piace quella grande città?»
Verdi gemette. «Figuratevi», disse. È troppo triste allo stesso modo che Parigi è troppo gaia. Credo che se dovessi viverci piú di tre settimane, ne morirei.»
Poi mescolò vigorosamente il caffè; io condivisi la sua opinione, solo che mi ostinai nel dire che almeno per la durata della «stagione», per un certo periodo, il soggìorno era molto piacevole.
«Oh! alludevo proprio alla stagione», dìsse Verdi. «Londra però è un luogo triste, cupo in ogni periodo.»
«Siete soddisfatto dell'accoglienza dei parigina?»
«Oh si», disse Verdi, «i francesi sono delle persone amabili e mi dispiace di non poter restare di piú a Parigi, devo andare subito a Londra dove inizieranno le prove della «Messa di requiem» alla Royal Albert Hall».
«Ah, quella Messa», dissi, «corn'è bella! E poi, maestro, voi siete anche fortunato di essere accompagnato da tali artistii.»
«Avete ragione», disse Verdi. «Ogni giorno che passa sono sempre piú riconoscente, che la mia partitura sia in simili mani. Ma come trovate gli interpreti maschili... il nuovo tenore Masini per esempio».
«Trovo che mi piace piú del tenore che cantò lo scorso anno.»
«Oh, si», interruppe Verdi, «penso che possieda la voce piú divina che abbia mai sentito: è proprio come un velluto. E pensare che è ancora molto giovane, e non si trova dei tutto a proprio agio: è alla sua prima apparizione in pubblico e penso che se la cava egregìamente, tutto sommato; trovo che questo tenore, dalla nota piú acuta alla piú grave, è semplicernente perfetto, e ha un grande talento.
E il basso... come vi sembra la sua voce?»
«Oh è magnifica! Mi piace in particolare l'effetto che produce nei pezzi concertati. È davvero trascinante».
«Ah!» disse Verdi sorridendo: «cosí lo avete scoperto anche voi: proprio in questo egli eccelle e per questo mi piace piú deglì artisti dell'anno scorso [il celebre tenore Masini e il basso Medini sostituivano i signori Capproni (sic) e Maini, che avevano cantato per primi la Messa a Parigi]. Come vi sembra questa esecuzione paragonata a quella della stagione passata?»
«Se possìbìle, è ancora piú perfetta di quanto fossero le prime esecuzioni. Trovo impeccabile l'ultimo terzetto; e quanto alle interpreti, ebbene, Signor Verdi, sono sicura che non sono maì state uguagliate in precedenza, e come cantano divinamente! [3]
Verdi alzò gli occhi e il suo sguardo diceva molto di piú di quanto io potrei mai dirvi. «Avete avuto modo di incontrarle» disse poi. «Mi sembra di averle sentite parlare di voi».
«Oh sì» dissi prontamente. «Ebbi un piacevole incontro con la signora Waldmann [la signora Waldmann si ritirò dalle scene dopo le sue nozze con il ricco conte Massari di Ferrara] e mi sembra piú dolce lontana dalle scene che quando le calpesta. Com'è modesta, e tanto giovane! La mamma e io parlammo con la sorella della signora, che ci disse molte cose su di lei: come agli inizi studiò a Vienna dove era nata e come tre anni dopo fece il suo debutto alla Scala di Milano nella «Favorita» [4]; disse pure che ella non avrebbe mai voluto che la ritraessero, che detestava la pubblicità di ogni genere; era innamorata solamente del canto ed era sinceramente compiaciuta del suo prìmo successo a Parigi.»
«Oh, sì», disse Verdi, «è tutto vero: è estremamente riservata ma non può certo nascondere la sua voce e le sue grandi qualità. La dovreste vedere in un'opera.»
«Sì, certo, desideriamo molto vederla nel «Trovatore». Là una stupenda Azucena. La signora Viardot la considera meravigliosa. A proposito, madame vi manda i suoi saluti e io ve li trasmetto.»
«Madame Viardot?» dìsse Verdi. «Ah si, la mia vecchia amica. Vi ha detto che una volta cantò per me? Bene, ve lo ricordo io. Fu durante una delle mie prime visite a Parigi; doveva andare in scena il «Trovatore» a Les Italiens. La Alboni si ammalò all'improvviso il giorno seguente, destinato alla rappresentazione, ero disperato e veramente preoccupato all'idea di doverla rimandare. Era di mattina, e mi venne dì pensare alla signora Pauline Viardot e, sperando di trovarla in casa, mi precipitaí fuori per andare da lei a pregarla dì accettare la parte. La trovai seduta al pianoforte nella sala da musica, e dissi: "Lei deve cantare questo per me. La signora Alboni è ammalata." "Il Trovatore!" esclamò la signora Vìardot; "impossibile! Non ho mai visto lo spartito, e sono molto occupata." "Le dìa una scorsa, dissi con dolcezza. 'Forse le sarà possibile. E pensi a me" Allora madame rise, prese lo spartito, e...»
«E pensò a voi», aggiunsi io.
Verdi sorrise e disse: «Sì, lo stesso giorno, dopo aver imparato tutta la parte in poche ore, la cantò superbamente dopo una sola prova, e non lo potrò mai dimenticare [5]. È una donna di grande talento e notevole sotto ogni aspetto.»
«Madame aspetta anche voi questa sera» dissi »al suo grande ricevimento di addio. Avremo il piacere di vedervi?»
«Oh sì», rispose Verdi, «non vedo l'ora che arrivi questa sera. Ma anche voi studiate con madame, mi sembra abbiate detto.»
«Sì», risposi con orgoglio. È la mia maestra, e un giorno, Signor Verdi, canterò una vostra opera per voi.»
«Bene!» disse il maestro ridendo; «ma voi siete ancora così fanciulla. Quando mai potrò sentirvi?»
«Non per qualche tempo, almeno. Non sono ancora pronta per cantare, e non avrei mai il coraggio di cimentarmi con la vostra musica fino a che non potrò renderle giustizia, anche solo in parte?»
Dopo aver citato un proverbio italìano, Verdi disse: «Voi avete ancora anni di tempo; non abbiate fretta. Gli americani sono così ambiziosi.»
Sentii fremere il mio cuore quando parlò così dei miei compatrioti e dissi con eccitazìone: «Chi non sarebbe tanto ambizioso da desiderare di cantare una musica come la vostra? E sono addirittura fanatici di voi in America. Quando vì andrete?»
«Figuratevi» rispose Verdi «odio l'acqua, e i viaggi per mare sono lunghi; e poi sto diventando troppo vecchio ormai. Devo riposare. Smetterò di comporre e di viaggiare. Considero la «Messa di Requiem» il mio ultimo lavoro.»
«Vi prego, non dìte cosí. Vi lasceremo vìvere dove vorrete; solo non smettete mai di scrivere!»
«Supponiamo che io sia davvero stanco», interruppe; »non credete che dovrei fermarmi davvero dopo tanto...» (e lascìò non detta la parola, indicando con un dito affusolato un bel mucchio di musiche poste accanto al pianoforte).
«No», dissi con fermezza. «Voi non siete, affatto vecchio; voi avete l'aria di non voler dire quello che dite. Non è forse vero che vi piace comporre e che non smetterete mai di farlo?»
Verdi sospirò e disse pensosamente con una scrollatina di spalle: «Que voulez-vous? Forse avete ragione. Sono come tutti gli altri.»
«Ohimè», dissi dando un'occhiata all'orologio, «maestro, siete troppo gentile; e pensare quanto del vostro tempo vi í faccio perdere. Anche se ci farebbe molto piacere, non oso abusare di piú della vostra cortesia.»
Eravamo seduti in tutta amicizia intorno al tavolo. Verdi aveva finìto di prendere il suo caffè. Il vassoio era stato spostato in un angolo del tavolo. Non mi ero resa conto che il tempo era trascorso tanto rapidamente; la visita e la conversazione con Verdi erano state piacevoli, per non dir di piú.
Ci alzammo, e Verdi insisteva dicendo che non dovevamo aver fretta. Anche il maestro si alzò e aggiunse che non aveva nient'altro da fare che recarsi al botteghino dell'Opéra-Comìque, e gli restava quindi un bel po' di tempo prima di mezzogiorno. Ma era appunto già mezzogiorno! L'ora sê n'era proprio volata via. Dopo un frettoloso au revoir al grande compositore, ci stringemmo la mano e partimmo.
Con aria sorridente Verdì ci invitò a tornare qualche volta, assicurandoci che non lo avremmo disturbato. Lascìati i nostri omaggì per la signora Verdi e per gli artisti della Messa, augurammo. il buongiorno e ci allontanammo.
«Che cara per sona!» dissi, raggiunto il boulevard. «È una cosa da non crederci star seduti accanto a un così grande uomo e trovarlo tanto semplice, privo di affettazìone, e poi è così gentile! Ho incontrato molte persone ma.nessuna piú amabile di Giuseppe Verdi.»
Poi ripercorsi la sua vita nella mia memoria: come aveva cominciato scrivendo opere comiche e quanto poco successo ebbe in gìoventú. Era nato nel 1813, e ora dimostrava a malapena cinquant'annì. «Sant'Agata»: qui scrive le sue opere; solo quando dirige l'orchestra, Verdi sembra posseduto da una forza sovrumana, e allora il suo volto mostra la possanza di Mosè allorché percosse la roccia con la sua verga. Sono ispirati ogni suo moto, ogni suo sguardo; sul podìo si comprende la completezza del genio di Verdi.
Delle ventisei opere che ha composto, quelle popolari come «Traviata», «Rigoletto», «Trovatore» ed «Ernani», non saranno mai dimenticate. Dìcono che ben presto scriverà una nuova «Messa» in memoria di Donizetti da eseguìre nella cattedrale di Bergamo, ma lo stesso maestro mi disse che non avrebbe composto piú nulla: non do quindi credito all'on dit.
Qualsiasì mia parola nulla aggiungerebbe alla grandezza di Verdi, che è nota da un capo all'altro del suo paese. Se non dovessimo rivederlo mai piú, conserverò sempre il piú caro ricordo della mia visita a Parigi. Secondo me, anche se non avesse mai scritto altro, l'introduzione all'ultimo, atto della «Traviata» basterebbe da sola a renderlo immortale come operista. Ha dato al mondo piú di quanto esso non abbia dato a lui, e mentre il suo nome sarà sempre un'ispìrazione per i giovani compositori, la sua musica non mancherà mai di suscitare gli stessi sentimenti di ambizione nel cuore dei suoi interpreti.
Quella medesima sera la mia felicità fu al completo quando mì trovai nel salotto della signora Viardot, e vìdi e sentii quello che sì sente e si vede una sola volta nella vita: Gounod, Ambroise Thomas, Verdi e [Charles] Lamouroux [sic] che ascoltavano con attenzione assorta uno dei trii di Mendelssohn. Rubìnstein sedeva al pianoforte, la signora Viardot girava le pagine, e suo figlio, il giovane genio quindicenne, Paul Viardot [In realtà Paul Viardot (Courtavenel 1857 - Algeri 1941) era a quel tempo quasi diciottenne. Divenne concertista di violino di buona fama e fu anche direttore d'orchestra.] suonava il primo violino.*

Blanche Roosevelt

*Corrispondenza particolare, «Chicago Times», 1875.

NOTE
[1] Il «progetto altra volta fallito» cui si riferisce Giuseppina è quello una tournée di «Aida» in Germania e Austria. Esso ricorre nelle pagine del diario di Giuseppina alla data del 21 luglio 1872 (v. A. LUZIO, Carteggi verdiani, p. 37); annunciando a Ricordi d'aver dato l'assalto al marito, e d'aver riportato vittoria, per l'andata sua in Germanìa con l'«Aida», purché invitato dall'editore e garantito da esecuzioni-modello, Giuseppina annotava:
«Verdi dirigerebbe in persona le tre prime sere. Weimar sarebbe il primo teatro, poi Berlino e Vienna. In questo modo sarebbe un vero avvenimento artistico e pianterebbe (spero) la nostra musica solidamente in Germania, con gloria individuale per Verdi e generale per l'Italia. Ma bisognerebbe che le due donne fossero quelle che eseguiscono «Aida» in questo momento a Padova [la Stolz e la Waldmann] e perché tedesche e perché conservando le qualità tedesche vi hanno aggiunto il rimpasto delle qualità italiane. Su queste basi credo, anzi potrei assicurarvi, che Verdi non rispondera:Io a WeimIar? ma siete matto?
[2] Questioni di punti di vista, evidentemente (e chissà che quello della bella Blanche non fosse molto alto ... ). S'è già visto, peraltro, che Escudier definì Verdì di statura simile a quella di Donizetti e si sa che Donizetti aveva statura piuttosto alta [...]. Il corrispondente dell'«Aligemeine musikalische Zeítung» gli attribuì una statura «media»; mentre il Monnier, il Claretie e il Ghislanzonì lo dìcono senz'altro «alto. Vedremo in seguito altre testimonianze, tutte concordanti nel definire Verdi di alta statura. Gabriella Carrara-Verdi m'informa che, in base alle testimonianze di famiglia, Verdi era di poco piú alto dei notaio Angiolo Carrara, padre di Alberto andato sposo alla figlia adottiva di Verdi, e pertanto bisnonno della stessa Gabriella: essendo Angiolo Carrara sicuramente alto m 1,75; Verdi doveva quindi avere la statura di cìrca m 1,78.
[3] Si riporta qui parte della recensione critica al «Requiem» verdiano, datata «Parigi 12 giugno», «che la Roosevelt aveva inviato un anno prima al «Chicago Times» (poi ristampata nel suo volume «Verdi, Milan and 'Othello', cit., pp. 68-74); essa contiene alcune interessanti osservazioni sulle voci della Stolz e della Waldmann:
«Verdi che lo dirigeva [cioè il 'Requiem'] personalmente, era un'attrazione in pìú ed era una gìoìa rendersi conto che l'uomo di fronte a noi era l'autore dì una simile opera: quell'uomo magro, dai capelli grigi che, alzatosi, reggeva la bacchetta con tanta decisione, osservava con occhi tanto ansiosi i movimenti degli artìsti solisti e parlava discretamente mediante i movimenti rapidi e fluidi della mano guantata di bianco. Ora penso che una delle ambizioni della mia vita si è realizzata: aver vìsto Verdi dirigere di persona; aver visto a Parìgi una nuova composizione eseguita sotto la direzione e la concertazione unitaria dello stesso autore. [...] La voce della Stolz è quella di un soprano puro, dotata di grandissima estensione, perfettamente bella dalla nota piú grave a quella piú acuta. Il suo fraseggìo è il piú superbo che abbia mai sentito; impeccabile è poi la sua intonazione. Presa una nota, la sostiene tanto che pare quasi che il suo respiro sta ormai esausto, e invece ha solo cominciato a tenerla. Le note sono belle e nette come il diamante e dolci come un tintinnabolo d'argento; pure, la potenza con cui emette un do sopracuto ha dell'impressionante. Dicono sia la piú grande cantante dei mondo; e penso sia vero, dal momento che non so immaginarne una piú grande di lei. Laddove la natura ha fatto già tutto e l'arte anche píú della natura, che cosa ci si può aspettar di sentire? Dopo averla ascoltata ci si sente completamente paghi. Non si desidera niente di piú. Apre appena la bocca quando prende una nota, senza percettibile sforzo, e la nota diventa sempre piú forte e piena pur mantenendo una squisita purezza d'intonazione, e l'atmosfera sembra alla fine percorsa da grandi ondate appassionate di melodia che mandano in estasi l'ascoltatore tenendolo sotto un magico influsso. La Stolz è una bella donna, vestìta semplicemente di bianco, con un velo di pizzo nero che cade dalla sua testa piena di grazia. Possiede infatti píú grazia e dignità di quanto non si riscontri abitualmente in una donna della sua età. Le sue maniere, poi, sono incantevoli. Ma la Waldmann possiede, se possibile, una voce ancora piú splendida, per un contralto, di quanto la Stolz l'abbia per un soprano. Si sente raramente una voce femminile di tale qualità. Molte volte la si direbbe un tenore e solo quando la si osservi scorgendo un leggero tremito nell'aspetto altrimenti immobile, ci si accorge che è una donna che canta. È una meraviglia che supera ognì altra di cui abbia mai sentito parlare, e possiede una educazione altrettanto perfetta della Stolz, sotto ogni aspetto. È una persona amabilissima con capelli d'oro e un volto di un ovale dolcissimo. Anche lei era vestita di bianco con grande eleganza e buon gusto, ma il vestito contava ben poco... contava solo il canto. Entrambe la Stolz e la Waldmann, potrebbero imbacuccarsì in una coperta indiana e dopo poche note avrebbero comunque il mondo ai loro piedi. [...]
[4] Non è esatto: dopo essersi posta in luce nel «Don Carlos» a Trieste nel settembre del 1869 a fianco della Stolz e dopo una stagione a Mosca, la Waldmann esordi il 7 marzo 1871 alla Scala nei panni di Zerlina nel «Don Giovanni» di Mozart, e pochi giorni dopo in quello di Maffio Orsini nella «Lucrezia Borgia» di Donizetti. Essa non cantò mai la «Favorita» alla Scala di Milano.
[5] Evìdentemente Verdi qui fa un po' di confusione. Prima interprete di Azucena al Théátre Italien dì Parigi (23 dicembre 1854) fu Adelaìde Borghi-Mamo, che riprese il ruolo nel novembre del 1855, ancora sotto la direzione di Verdi, e lo ripresentò in francese all'Opéra (12 gennaio 1857), pure sotto la dìrezione dell'autore. Pauline Viardot subentrò alla Borghi-Mamo al Théátre Italien solo per alcune recìte a partire dal 24-febbraío, 1855, e fu quindi prima interprete di Azucena al Covent Garden di Londra (10 maggio 1855) a fianco del tenore Enrico Tamberlick e del baritono Francesco Grazíani. L'episodio cui si rìferisce Verdi nell'intervista avvenne dunque, con tutta probabìlità, nel febbraio dei 1855 a Parìgi, dove il compositore risiedeva da diversi mesi per attendere alla composizione dei «Vespri siciliani». Pauline Vìardot (Parigi 1821 - ivi 1910), figlia di Manuel Garcia senior e sorella di Manuel Garcia junior e di Maria Malibran, dopo aver studiato pianoforte con Meysenberg e Lìszt, e canto con il fratello Manuel, esordi in teatro come soprano nel 1839 (Desdemona nell'«Otello» di Rossini al Her Majesty's Theatre di Londra e quindi al Théátre ltalien di Parìgi). Scrìtturata all'Opéra, vi esordi nel 1849 con la prima esecuzione assoluta del «Profeta» di Meyerbeer, fornendo nel ruolo mezzosopranile di Fidès un'interpretazione rimasta memorabìle. Non meno memorabile l'interpretazione dell'«Orfeo ed Euridice» di Gluck nel 1856 al Théátre Lyrique dì Parigi. Ritiratasi dalle scene nel 1862 tenne ancora concerti (nel 1872 fu Dalila nella prima esecuzione del «Sansone e Dalila» di Saint-Saëns data in privato nella sua casa di Parigi) e si dedicò all'insegnamento; fra le sue allieve: la Arkel, la Artôt, la Brandt. Fu autrice di alcune operette su libretti di Turgenev, il grande scrittore russo, al quale fu legata da intima amìcizia.