H. F. G.

Un'intervista a Verdi

in «Journal des Débats»
Parigi, 5 aprile 1894.

CONATI, pp. 255-261
[con taglio di quasi
tutte le note]

Marcello Conati

INTRODUZIONE

Questa intervista riveste un certo interesse per l'opinione di Verdi (già peraltro manifestata in parte nella precedente intervista) sulla disposizione dell'orchestra nell'opera e sulla posizione del direttore, che evidentemente in Francia, o almeno all'Opéra-Comique, era a quel tempo ancora quella tradizionale, in uso nel primo Ottocento, con il direttore situato dietro la buca del suggeritore e con l'orchestra alle spalle. Già da molti anni Verdi aveva cercato di modificare la disposizione dell'orchestra nell'opera, almeno fin dal tempo del «Simon Boccanegra» da lui posto in scena al San Carlo di Napoli nel novembre del 1858.
Undici anni dopo cercò d'imporre la disposizione per gruppi strumentali anche alla Scala in occasione della prima rappresentazione della nuova versione della «Forza del destino». Il 23 luglio 1869 scriveva al Florimo:
Non credo si potrà combinare per dare la «Forza del Destino» a Napoli [...]. Senza parlare della compagnia, mal adattata, vorrei che il vostro teatro (parlo all'Artista, non al Napoletano) adottasse alcune modificazioni, rese indispensabili dagli spartiti moderni, sia nel modo di mettere in scena, sia nei Cori, e forse nell'orchestra stessa. Come potete, 'per dirvene una' sopportare sianvi ancora le Viole, e Violoncelli fra loro disuniti? Come può esservi così attacco d'arco, colorito, accento, etc. etc.? Oltre di ciò, mancherà il ripieno della massa degli stromenti d'arco. È questo un'avanzo [sic] dei tempi passati, quando Viole e Violoncelli, andavano all'unisono coi Bassi. Maledette abitudini! Ed a proposito d'abitudini voglio raccontarvene una. Quando io andai a Vienna, vedendo tutti i Contrabassi riuniti nel bel mezzo dell'orchestra (io che avevo l'abitudine di vederli sparsi quà e là) feci un grand 'atto di sorpresa, ed un certo risolino che voleva dire 'questi toderi di tedeschi etc... ' Ma quando scesi in orchestra, e mi trovai in faccia di questi contrabassi, che sentii l'attacco potente, la precisione, la nettezza, i piani, i forti, etc... m'accorsi che il 'todero' ero io, e non risi piú. Da questo capirete, cosa io pensi come devono essere collocati Viole, e Violoncelli, che concertano tanto nelle opere moderne. Avran ben riso costì, quando pel Simon Boccanegra io feci riunire quelli stromenti!!.. Tanto peggio, per chi ha riso! E tanto peggio se non han seguito quel mio consiglio.
Alla vigilia dell'«Aida» Verdi ribadiva a Ricordi le sue idee sulla collocazione dell'orchestra in una lettera del 101uglio 1871:
[...] la collocazione degli stromenti d'orchestra sarà fatta come io, fino dall'inverno passato in Genova v'accennai in una specie di quadro? - Questa collocazione d'orchestra, è d'un'importanza ben maggiore di quello che comunemente si crede, per gl'impasti degli stromenti, per la sonorità, e per l'effetto. - Questi piccoli perfezionamenti apriranno poi la strada ad altre innovazioni che verranno certamente un giorno; e fra queste, quella 'di togliere dal palco scenico i palchetti degli spettatori, portando il sipario alla ribalta: l'altra di rendere l'orchestra invisibile. Quest'idea non è mia, è di Wagner: è buonissima. Pare impossibile che al giorno d'oggi si tolleri di vedere il nostro meschino frack, e le cravattine bianche, miste per es: ad un costume Egizio, Assiro, Druidico etc. etc.; e di vedere, inoltre, la massa d'orchestra 'che è parte del mondo fittizio' quasi nel mezzo della platea fra il mondo dei fischianti, o dei plaudenti. Aggiungete a tutto questo lo sconcio di vedere per aria le teste delle Arpe, i manichi dei contrabassi, e il molinello del Direttore d'orchestra.
Infine all'epoca del «Falstaff», anzi pochi mesi prima di questa intervista, Verdi scriveva a Mascheroni l'8 dicembre 1893:
L'orchestra che fa parte del mondo ideale poetico etc. etc. e suona in mezzo al pubblico che applaude o fischia, è la cosa la piú ridicola del mondo. Coi grandi vantaggi dell'orchestra invisibile si potrebbero tollerare anche le mancanze inevitabili di forza e sonorità, il suono nasale ed infantile che assumerebbe l'orchestra stessa, dirò cosi, coi sordini. [...] Per me credo anche che la vostra Cassa armonica sotto l'orchestra non giova a nulla. Vi sia o non vi sia la sonorità sarà la stessa. Credo anche che l'orchestra tal quale è sia ben collocata e distribuita (e non dico questo perché io sia stato il colpevole che cosi la fissai quando diedi l'«Aida») ma perché gl'istromenti s'impastano bene, e gli archi accerchiano e chiudono nel mezzo gli istromenti da fiato specialmente gli ottoni. Cosi non sarebbe se metteste tutti i Contrabassi in una fila sola presso il palco scenico: gli ottoni resterebbero troppo scoperti ed avrebbero, dirò così, un riflesso di suono dalle pareti del Teatro. Lasciando i Contrabassi dove sono stati finora si eviterebbe l'affare del manico!... [...]
Non meno privo d'interesse, e di sorpresa!, il parere del vecchio compositore sui musicisti della cosiddetta «giovane scuola»; contro le sue affermazioni riportate dai «Débats» polemizzò poi, in un articolo non firmato e intitolato «Verdi in Francia», un periodico teatrale milanese assai vicino ai «veristi» e agli interessi della casa editrice Sonzogno: «La Lanterna», Giornale artistico-teatrale-letterario con annessa Agenzia Teatrale. Effettivamente nel leggere quelle affermazioni si avrebbe il diritto di dubitare della sincerità di Verdi, ora che conosciamo la sua intervista a Ehrlich e la sua lettera a Giulio Ricordi relativa all'Amico Fritz. Ma si può anche comprendere l'atteggiamento di fastidio del compositore di fronte alle insistenti notizie di stampa che gli attribuivano parole mai dette, giudizi mai espressi, sentenze (come quella che avrebbe proferito dopo aver esaminato lo spartito della «Cavalleria rusticana»: «Ora posso morire contento!» o qualcosa di simile) mai pronunciate (v. N. XXXV, nota 16, e N. XLV): unica, necessaria difesa per Verdi di fronte a tante dicerie, affermare ormai di ignorare del tutto i giovani compositori italiani e le loro opere...
Un'intervista a Verdi

Come la maggior parte dei nostri colleghi, ieri avevamo visto Verdi all'Opéra-Comique. Ma la folla affaccendata degli artisti e di tutto il personale del teatro non ci aveva quasi permesso di avvicinare l'illustre compositore. Oggi, alle undici, eravamo al Grand Hotel. Dopo i convenevoli d'uso, ci siamo seduti a fianco del grande artista e l'abbiamo subito interrogato sugli interpreti della sua opera:

«Veramente, disse, non ho ancora un'opinione ben precisa. Finora non ho sentito che le donne, di cui due sono, a dir vero, perfette e, cosa essenziale ai miei occhi, vocalmente adatte a interpretare i loro ruoli. Soprattutto mi è piaciuta infinitamente la bella voce della signorina Delna. È ancora giovanissima quest'artista, non è vero?» «Diciannove anni, caro maestro.» «È straordinario... Oggi ascolterò gli uomini», continua il maestro. «Domani l'orchestra. Boito s'è lamentato di non poter ottenere delle sonorità sufficienti. A mio parere la disposizione delle orchestre francesi è difettosa e sarebbe augurabile che in questo si prendesse esempio dalle orchestre italiane. Da noi, prima di tutto, il direttore» (Verdi chiama direttore il capo dell'orchestra) «non sta immediatamente dietro la buca del suggeritore ma davanti alla sua orchestra e presso la prima fila degli spettatori. Può cosi sorvegliare gli orchestrali che, in Italia assai piú ancora che qui, sono spesso molto indisciplinati. Davanti al direttore sono raggruppati gli strumenti che compongono l'armonia - flauti, clarinetti, oboi - e che da noi si chiamano il concerto. Dietro, sono schierati i corni, le trombe e i tromboni, e poi, dall'altra parte e disposti a cerchio in modo da circondare gli altri strumenti, vengono i primi violini, le viole, i violoncelli e i contrabbassi. In questo modo gli ottoni non spengono mai la sonorità piú dolce degli altri strumenti e si giunge a un insieme piú fuso e piú chiaro insieme. Del resto devo dire che, ogni volta che ho potuto ascoltare l'orchestra dell'Opéra-Comique, sono stato soddisfatto dell'eleganza della sua esecuzione, del suo modo delicato e raffinato di interpretare le opere del repertorio.»
E poiché si ritornò a parlare del posto occupato dal direttore d'orchestra nei teatri d'ltalia: «È vero - aggiunse il maestro - che questa disposizione non deve far molto piacere ai cantanti, ma essi sono tenuti a conoscere i loro ruoli, non è vero? Le prove sono fatte perché abbiano il tempo di lavorarle con comodo, e sta a loro ascoltare l'orchestra.»
L'occasione che ci era offerta era troppo bella perché non chiedessimo subito il parere di Verdi su parecchie questioni artistiche di grande interesse.
«Come spiegate, caro maestro, che i giovani musicisti italiani abbiano potuto sottrarsi all'influenza di Wagner, mentre in tutti gli altri paesi tutti gli artisti risentono dello stile e della maniera del maestro di Bayreuth. Bisogna notare in effetti che Mascagni e Leo Cavallo [sic], le cui opere in questo momento sono eseguite dappertutto, hanno conservato nella scrittura musicale una forma prettamente italiana, e del tutto indipendente dalle teorie wagneriane.»
«Vi stupirò - rispose Verdi. - Non crederete alle mie parole, o perlomeno dubiterete della mia sincerità. Non conosco la musica né dell'uno né dell'altro di questi due giovani maestri. Non li ho mai visti di persona e non ho mai ascoltato le loro opere. La ragione di questa... indifferenza si spiega. Quando Cavalleria ottenne il grande successo che voi sapete, mi attribuirono le affermazioni piú straordinarie. Io non conoscevo l'opera nuova in alcun modo e mi si faceva dire, su un gran numero di giornali, che io ero ammirato, che l'ltalia contava su un artista in piú, ecc. ecc. Non ho mai affermato nulla di simile. È stato lo stesso per i primi successi di Leo Cavallo [sic]. Di qui il mio disinteresse per la musica di questi artisti.»
«A proposito di Wagner, caro maestro, posso domandarle le ragioni del recente insuccesso della Walkiria [1] a Milano?»
«Prima di tutto - ci disse subito il nostro illustre interlocutore - l'interpretazione era assai difettosa. Solo la signora Adiny emetteva con slancio superbo il grido selvaggio delle Walkirie. E poi il grosso pubblico ha trovato l'opera francamente noiosa. In capo a otto giorni non ne ha potuto piú.»
In quel mentre entrò il domestico per servire il caffè. Noi ci ritirammo ringraziando il maestro della gentile accoglienza che ci aveva riservato. [2]
NOTE
[1] La «Waikiria» era andata in scena alla Scala per la prima volta il 26 dicembre 1893 in italiano; se ne fecero 14 rappresentazioni. Non si sa se Verdi assistette a una delle ultime repliche in occasione di un suo soggiorno milanese tra la metà di febbraio e il 5 marzo; piú probabile che assistesse a una replica della «Manon Lescaut» di Puccini, nuova per Milano, andata in scena il 7 febbraio. Della «Waikiria» milanese ebbe comunque notizie da Boito, che cosi lo informava in data 31 dicembre 1893:

La stampa milanese s'è scagliata sul Mascheroni come su d'un cane arrabbiato e lo ha fatto responsalbie dell'infinita noja che ha prodotto l'opera ed è ingiusto. La causa prima per cui l'opera non piaque si deve ricercare nell'opera stessa e nel sistema adottato dal Wagner. Un'altra causa è la vastità del palcoscenico che fa parer misera tutta la struttura del dramma. Un'azione insulsa che cammina piú lentamente d'un treno omnibus, fermandosi ad ogni stazione, attraversando una interminabile sequela di duetti durante i quali la scena rimane miserabilmente vuota e i personaggi stupidamente immobilizzati. Tutto ciò non è fatto per dilettare. La cavalcata delle Waikirie e l'implorazione delle stesse, due brani che mi fecero una grandissima impressione a Torino, mi lasciarono freddo alla Scala. E si spiega; pel nostro vastissimo teatro occorrerebbero non già nove Waikirie bensí una trentina e allora l'effetto ottenuto a Torino sarebbe raggiunto. (Carteggio Verdi-Boito, cit., p. 221)

Altre informazioni Verdi aveva ricevuto tre giorni prima da Giulio Ricordi, che in data 28 dicembre gli aveva scritto:

La Waikiria ebbe successo di noja ineffabile!... come prevedevo - e prevedevo pure che i famosi wagneriani, non potendo battere il cavallo, avrebbero battuto la sella... L'esecuzione orchestrale e vocale, contrariamente a ciò che affermano, è magnifica!!... Ma tre ore e mezzo di un peso colossale, non si possono proprio mandar giú!. (autografo: Villa Verdi, Sant'Agata)

[2] Pochi giorni dopo, il 14 aprile, un critico musicale del «Journal des Débats», accennando agli spettacoli dell'Opéra, commentava le dichiarazioni di Verdi su Mascagni e Leoncavallo:

[...] la rappresentazione di Salammbô [di Reyer, su libretto di Du Locle] data in onore di Verdi non sarebbe stata sospesa dall'inizio, avendo Rose Caron troppo presunto dalle proprie forze, se la signora Bosman, sempre pronta a sacrificarsi, non avesse ripreso la parte al secondo atto e salvato l'onore dell'Opéra? Avrebbe ben dovuto desiderare, tuttavia, di arrivare alla fine, l'incomparabile Salammbô, perché, alla fine, è lei e Saléza che la direzione propone al maestro italiano per cantare Desdemona e Otello nel suo «Jago», il quale finirà pure per essere rappresentato a Parigi! Ora, Verdi ha l'abitudine di non riferirsi ad alcuno e di giudicare tutto da sé stesso: sa molto bene ciò che vuole, ciò che desidera, ciò che sente di esigere per l'esecuzione delle proprie opere, e i discorsi piú insinuanti, gli articoli piú belli del mondo non gli proveranno che è soddisfatto se non lo è ancora. Sa anche molto bene quali opere musicali possono interessarlo, procurargli qualche piacere, e quanto alle altre, per quanto rumore vi si faccia attorno, non si disturba per andare a sentirle; non si prende nemmeno la pena di leggerle. Sette od otto anni fa, I'ultima volta che venne a Parigi, desiderò solamente d'ascoltare Sigurd, e questa volta il primo desiderio che ha espresso era di dargli una rappresentazione di Salammbô: ecco di che lusingare infinitamente, in blocco, tutti i compositori francesi. Ma interrogatelo a proposito dei giovani maestri italiani che riempiono il mondo intero del rumore della loro nascente rinomanza, domandategli ciò che pensa e di Pietro Mascagni e di Leoncavallo: né visti né conosciuti. Non li ha mai incontrati, non ha mai sentito le loro opere. «Cavalleria rusticana», che si rappresenta dappertutto in Italia, e «I Rantzau», e «L'amico Fritz» sono per lui come se non esistessero; i «Pagliacci», «I Medici», che hanno testè entusiasmato l'imperatore di Germania, sono passati a lato di Verdi senza che si degnasse accorgersene. Vi fu mai disprezzo piú significativo? E quando gli si fanno domande su l'uno o l'altro di questi due compositori, non solamente afferma, spiega la sua …completa indifferenza» a loro riguardo, l'assoluta ignoranza circa i loro pretesi capolavori; ma ricorda che dovette intervenire altre volte per smentire tutte le parole di elogio che i giornali gli attribuivano sulla «Cavalleria rusticana». Come ultimo colpo di grancassa si era immaginato di annunciare che Verdi non aveva avuto pace finché non si fosse rappresentata la «Cavalleria» e che dopo aver letto, studiato, analizzato, - quale lavoro! - la partitura del giovane maestro livornese, gli aveva scritto: «Ora io posso morire contento!» Parole che spesso sono state attribuite a Méhul a proposito del suo allievo Hérold, spiegando che l'autore di Joseph, presso a morire, aveva tenuto a essere informato, minuto per minuto, degli incidenti della rappresentazione della Clochette, e che apprendendo la notizia del successo finale aveva girato la testa dicendo: «Ora io posso morire: lascio un musicista alla Francia.» Storia commovente quanto si può e che i fatti smentiscono crudelmente, essendo Méhul morto dodici ore troppo presto, cioè la mattina stessa del giorno in cui Hérold fece il suo esordio come compositore all'Opéra-Comique. Per la verità, era un'idea geniale ripubblicare questa favola a proposito di Mascagni, ma si sono fatti i conti senza l'autore di «Aida», il quale non ha mai amato la réclame, né per sé né per gli altri, e si è subito mosso per smentire questo grazioso romanzo. Per modo che non si sa ancora e non si saprà probabilmente mai ciò che egli pensa di questi bei capolavori. Essi si saranno forse evaporati, e cosi pure parecchie opere francesi, prima che Verdi si sia solamente accorto che esistono: egli è un saggio, che non perde il proprio tempo ad ascoltare, a giudicare delle futilità.