Henry Barraud

BERLIOZ

A cura di Paolo Isotta

Milano, Rusconi, 1981

 

 

La «Damnation de Faust»

pp. 385-417

Introduzione

pp. 385-389

Conclusione

Scene finali. Pandemonium

pp. 413-416

 

Abbiamo già visto come Berlioz, da buon romantico, trovi qualcuna delle sue principali fonti d'ispirazione in Shakespeare e in Byron. Con La «Damnation de Faust» , ecco profilarsi sul nostro musicista un'altra ombra gigantesca: Goethe. Il «Faust« del poeta tedesco gli fu rivelato dalla traduzione di Gérard de Nerval, la cui qualità continua a incantarci anche oggi. Traduzione in prosa che conteneva, dice Berlioz nei «Mémoires«, «alcuni brani versificati. Cedetti alla tentazione di metterli in musica; e, non appena giunto al termine di questa difficile impresa, senza aver udito una nota della mia partitura, ebbi l'ingenuità di farla stampare... a mie spese».
Tralasciamo le «Huit scènes« de Faust, opera d'estrema giovinezza e ridotto formato, per considerare il monumento quale fu terminato nel 1846 e battezzato, nelle peggiori condizioni all'Opéra Comique, il 6 e 12 dicembre dello stesso anno, innanzi a una sala all'incirca vuota.
È stato detto che Berlioz si sia mostrato il più goethiano dei compositori che hanno tentato di misurarsi con l'immensa tragedia. Il che è forse vero, ma solo in un certo senso: e occorre precisare quale. In realtà nessuno, nessun musicista ha potuto veramente trattate, e nemmeno avvicinare, quel che fa l'originalità profonda, l'alto valore filosofico dell'opera di Goethe. Nessuno, eccetto Schumann. Ma Berlioz ha colto e musicalmente trasposto meglio di chiunque altro alcuni aspetti del dramma.
I Romantici tedeschi reagiscono al testo da Romantici tedeschi, ossia nel sentimento di una comunione dell'uomo con la natura. La profusione di sentimentalismo, il carattere contemplativo e l'ampia effusione lirica nascono certo, da atteggiamenti già presenti in Goethe (e anche Berlioz li fa suoi), ma sono un po' il prodotto della moda del tempo. Quel che Berlioz sente più sottilmente, quel che riesce, misteriosamente ma al tempo stesso chiaramente, a spandere sulla partitura, è uno stile, appena uno stile, un profumo della Germania gotica che il Romanticismo letterario s'e sforzato oltre Reno di far rivivere, mentre i musicisti sono restati, la gran parte, per il loro linguaggio e per il loro clima poetico, borghesi del secolo diciannovesimo.
La Germania gotica sorge da ogni pagina della «Damnation«, come sorge dai disegni di Victor Hugo dei vecchi borghi renani. V'è, in questi due francesi all'incirca coetanei, un lato visionario, forse più vicino a certe fonti medioevali del Romanticismo tedesco di quel che non lo siano le arti plastiche o la musica di questo stesso Paese. È vero che Goethe non può forse considerarsi un romantico. Ma è problema troppo vasto perché possiamo affrontarlo qui.
D'altra parte, in certe pagine della partitura di Berlioz avvertiamo una presenza luciferina il cui pericoloso contatto probabilmente alcun altro musicista del «Faust« ha sfiorato così da vicino. Anche sotto questo rispetto, forse, Berlioz ha aderito alla fonte più d'ogni altro.
Ma, tal quale i suoi rivali, anch'egli s'e tenuto da banda all'immenso ribollire d'idee che deborda dalle pagine dell'inesauribile libro. Alla fine, ne ha catturato solo l'aneddoto, o, meglio, una scelta d'aneddoti fra i molti. Come tanti altri, ha fatto del suo Faust un vacuo gaudente, a tratti poeta, ma che, come disse Paul Valéry, messo in condizione di penetrare tutti i segreti del mondo, perde il suo tempo a sedurre una sartina.
Ora, il grande movente del dramma, ciò che induce Faust a poco a poco alle peggiori imprudenze, è il dèmone della conoscenza. Sempre il vecchio demone, vecchio come l'umanità: come Adamo, Faust corre il rischio di perdersi per gustare i frutti dell'albero della conoscenza. L'ha tentato per tutta la vita con i suoi propri mezzi. E tenta, nella prima scena del dramma di Goethe, trascurata da Berlioz, d'entrare in contatto con il mondo degli spiriti. Ma non ha né la tecnica né la virtù che menano alla conoscenza mistica: e si lascerà attrarre a una mistica rovesciata, la mistica dell'Inferno.
È questo un argomento alla portata dei musicisti? O forse richiede un'ambizione quasi disperata? Goethe tende loro tuttavia un appiglio sin dalle prime pagine, quando Faust esclama: «Per questo mi son dato alla magia, per veder se per virtù e bocca dello Spirito mi riesca di scoprire certi misteri, sicché non parli più, con acri sudori, di ciò che non so; e venga a conoscere il principio unificatore del mondo, veda tutte le forze attive e i semi, e non traffichi più con vuote parole».
«E non traffichi più con vuote parole.» Ove la parola diviene inutile, non potrebbe la musica aprirsi un cammino verso regioni che le appartengono di diritto? Ma siamo giusti. Non sta a noi rimproverar Berlioz di quel che non ha voluto fare. La sua avvertenza lo dichiara a chiare lettere: «Basta il titolo di quest'opera a indicare ch'essa non si basa sulla principale idea del «Faust« di Goethe: nell'illustre poema, Faust e salvo».
Certo si può ben capire che il pandaemonium da cui Berlioz fa inghiottire il suo eroe abbia esercitato su di lui un'irresistibile attrazione, eppure che grande musica si sarebbe potuto scrivere sulla scena di Goethe in cui gli Angeli strappano ai diavoli l'anima di Faust. Scena che attribuisce tutt'altro senso all'epísodio di Margherita: in essa è dipinta una Margherita non più salvata, ma salvatrice. Alla salvatrice, negli ultimi versi del dramma, la Vergine rivolge queste parole: «Vieni! T'inalza alle sublimi sfere. S'egli ti avverte, con te salirà.»
Ma torniamo a Faust dannato. Avendo indicato, d'altronde in maniera assai incompleta, gl'infiniti e forse troppo vasti orizzonti, che il poema potrebbe offrire al musicista, ma verso cui egli ha preferito non spingersi, mettiamo all'attivo di Berlioz quel che abbiamo detto del suo senso della Germania gotica, del suo satanismo e di quella visione cosmica della natura che s'espande in molti luoghi della partitura ed è, anch'essa, molto goethiana.
Ciò detto, dovremo riconoscere che, costruendo la sua leggenda drammatica per una sorta di proliferazione naturale attorno a quelli ch'egli chiama i frammenti versificati della traduzione di Nerval, Berlioz non ha penetrato l'opera, l'ha piuttosto scalfita. Le ha strappato quel che affiora in superficie: ronde paesane, canzoni di soldati e studenti, grandi bevute alla taverna di Auerbach; tutto quel che, negl'incantesimi di Mefistofele, approda a una sorta di magia bianca, aeree danze di silfi. e folletti; poi, alcune grandi e talora sublimi esplosioni liriche; e la storia d'amore. D'altronde, qui come altrove, a dispetto di tutte le sue affermazioni sui vantaggi di mettere in musica prosa piuttosto che versi, Berlioz disdegnò la bella prosa musicale di Gérard de Nerval e versificò il testo... in modo assai onesto, bisogna riconoscerlo.
In ogni modo, la sola cosa importante e il risultato. Da quel che dell'argomento ha voluto far suo, Berlioz ha ricavato una partitura d'una varietà e d'una ricchezza incomparabili. Tralasciando le prime pagine del Faust di Goethe, comincia l'opera sul testo che succede alla scena davanti alla porta della citta, di cui Gounod farà la kermesse e che Berlioz trasporta in una pianura d'Ungheria. Perche l'Ungheria? Ci risponde egli stesso, nell'avvertenza, con questa lapidaria frase: «Perché desideravo far ascoltare un pezzo di musica strumentale il cui tema è ungherese». Giustificazione così perentoria che non v'era nemmeno necessità di farle seguire quest'altra: «Goethe stesso, nel suo Faust II, non ha forse portato il suo eroe a Sparta, nel palazzo di Menelao?». Sappiamo tutti che l'incontro di Faust e di Elena non ha nulla della gratuità della Marcia Ungherese di Berlioz. Esso è addirittura il punto culminante della cerca di Goethe, dedicatosi, attraverso il suo personaggio, a realizzare la sognata unione della Germania gotica e della Grecia classica.
La tragedia giunge alla conclusione. Il suo movente drammatico è povero: un ricatto e un basso inganno; tale la trappola che consegnerà Faust all'Inferno. La madre di Margherita è morta, avvelenata dal narcotico che la figlia le propinava per assicurar sicurezza alle sue notti d'amore. Questa tragica svolta è anche in Goethe, e conduce egualmente Margherita alla prigione e alla condanna a morte. L'invenzione propria di Berlioz è il ricatto di Mefistofele: libererà Margherita se Faust apporrà la sua firma sulla pergamena che in quel momento gli vien tesa - ed ecco il finale inganno: non verso Margherita Mefistofele trascina il suo compagno a galoppo di due fantastici cavalli, ma verso il soggiorno dei dannati ove l'attende il pandaemonium che Berlioz sta cuocendo a fuoco lento sin dall'inizio dell'opera.
Siamo assai lontani dal patto immaginato da Goethe: «Se dico all'attimo fuggente: 'Ferma dunque', allora puoi circondarmi di legacci! Allora acconsento ad annullarmi!». E, alla fine del Faust II, l'ultima frase pronunziata dall'eroe giunto al culmine della potenza al momento di morire:
«Merita libertà, merita vita
solamente colui che, in ogni giorno,
con aspra lotta conquistar le deve.
[...] Potessi un dì mirar queste contrade
brulicanti d'un simile fervore
ed abitar sovra il ridente suolo
fra un popolo redento;
potrei gridare, allora:
«Resta! Sei bello!» all'attimo fugace.
La traccia, qui, dei miei terreni giorni
non può svanir negli Eoni infiniti.
Nel presagir questa letizia eccelsa
io godo, adesso, l'attímo supremo. »
E Mefistofele conclude:
«Nessun piacere e valido a saziarlo!
Bene non v'ha che lo sodisfi mai.
Egli, così, vagheggia senza posa
labili forme di cangiante aspetto.
E l'ultimo, mediocre attimo insulso
arrestar lo vorrebbe, il disgraziato!
Eccolo lì, colui che fieramente
mi contrastava in vita!
Il Tempo l'ha domato. »
Ma la partita non e aticor terminata, e il demonio, che così medita, lo sa bene:
«Il corpo giace: e se sfuggirmi, adesso,
lo spirito vorrà, senza esitare
innanzi gli porrò, steso col sangue,
il patto a cui s'avvinse.
Ma son purtroppo tanti, al giorno d'oggi,
i mezzi per carpire a noi demòni
le anime defunte!»
E qui comincia l'ultima battaglia, in cui le legioni celesti strapperanno ai suoi infernali creditori l'elemento immortale di Faust che la stessa penitente «un tempo chiamata Margherita» presenterà alla Mater gloriosa.
Berlioz ha ben intuito quanta potenza drammatica l'opposízione del Cielo e dell'Inferno avrebbe apportato al suo finale. E così ne ha salvaguardato il principio, facendo seguire il pandaemonium dall'Apoteosi di Margherita.
La prima scena del finale è il dialogo in cui si dispiega il ricatto di Mefistofele. È da cima a fondo, un recitativo drammatico punteggiato qua e là dagli echi di una caccia lontana che sembra vagamente proiettare sui personaggi un'ombra wagneriana. E, giacché per la seconda volta evochiamo Wagner, facciamolo una terza a proposito della corsa all'abisso che segue. Non per paragonarla all'altra celebre cavalcata, quelle delle Valchirie, ma proprio allo scopo di contrapporre la massiccia e irresistibile volonta di potenza del musicista tedesco all'instabilità e all'angoscia espresse dal musicista francese. La stessa influenza della lingua parlata dall'uno e dall'altro si fa qui sentire. Il ritmo ternario della cavalcata delle Valchirie risponde a quella ripartizione dei potenti accenti tonici e delle sillabe che rapidamente scivolano, propria del tedesco, mentre il ritmo binario di Berlioz quasi sopprime gli accenti tonici. E certo quest'aspetto non sara modificato dalla sinuosa linea melodica, così berlioziana, ne dalla litania delle donne raccolte dai cavalieri nel corso della loro folle cavalcata. Cavalcata il cui carattere assolutamente piano non si smentirà nemmeno per un istante, mentre quella immaginata da Wagner per le sue Valchirie è vivamente slanciata.
Il crescendo sonoro e la progressione drammatica sono del maggior Berlioz. Sul fortissimo finale, l'orchestra s'arresta di botto e il duplice grido d'orrore e di vittoria di Faust e Mefistofele risuona nel silenzio del precipizio.
Sul che, senza interruzione, s'innesta il pandaemonium, fatto di bizzarre onomatopee che Berlioz - sospettiamo con un sorriso all'angolo della bocca - assicura di ricavare da Swedenborg. Questo non certo trascurabile teosofo e filosofo svedese del secolo diciottesimo fu ossessionato verso la sessantina da visioni mistiche grazie alle quali ritenne di derivare precise conoscenze linguistiche sul vocabolario e la sintassi impiegate all'Inferno dai dèmoni e dai dannati.
In effetti, mettendo in musica frasi come «Tradioun marexil Trundíxé burrudixé» e altre dello stesso genere, Berlioz non faceva che applicare con un secolo d'anticipo la tecnica applicata da Messiaen nei Rechants o da jolivet nell'Epithalame, i quali né sentirono il bisogno di chiamare in proprio soccorso Swedenborg, né quello di chiamare in soccorso a quest'ultimo l'autorità di Isidore Isou, gran maestro d'un letteratume contemporaneo già molto fuori moda.
Musicalmente, il coro del pandaemonium ha un po' di quella salvatichezza primitiva che fa pensare alla scuola russa: la quale è, come sappiamo, figlia spirituale di Berlioz. Bisogna prenderlo per quel che è: un commento non gli aggiungerebbe nulla. Segnaliamo solo il passaggio, al centro, dal ritmo binario a un ritmo ternarío tagliato con l'accetta, e le assai poco accademiche concatenazioni armoniche che lo chiudono.
Un breve recitativo di non grande interesse collega il pandaemonium all'Apoteosi di Margherita, in cui si dispiega tutto l'apparato di arpe, violini frementi, strumentini all'acuto e voci aeree, donde sono sortite generazioni di «In paradisum«, ottimistiche conclusioni di molti «Requiem«, compreso quello di Fauré.
Poiché questo coro e alquanto lungo, Berlioz ha voluto giuocare su una certa diversità di tessiture. Perciò, in tutta la prima metà del pezzo i primi soprani vengono lungamente tenuti nel grave del loro registro. La desiderata trasparenza è così raggiunta solo nella seconda parte, quando si può disporre anche del «nutritissimo» (specifica Berlioz) coro infantile che, nella gran parte delle esecuzioni, brilla per la sua assenza. [...]