Francesco Sabbadini

UNA «LEGGENDA DRAMMATICA»
TRA OPERA E ORATORIO PROFANO


La Damnation de Faust

[Invito all'ascolto di Berlioz , Milano,
Mursia, 1989, pp. 148-162 con tagli]

 

La «Damnation de Faust» op. 24, «leggenda drammatica in quattro parti» completata nell'ottobre 1846 e dedicata a Franz Liszt, fu costruita [...] sulle preesistenti «Huit scènes de Faust» , composte fra il settembre 1828 e il febbraio 1829, con una corposa aggiunta di brani vocali e strumentali che sviluppano un vasto commentario sinfonico, drammatico e lirico, tanto che le vecchie «Scènes» costituiscono cìrca soltanto un terzo della nuova composizione. La prima ispirazione «faustiana» di Berlioz, e la decisione di tentare un confronto con quel grande e celebre testo, è annunciata a Ferrand in una lettera del settembre 1828 in cui Hector parla all'amico della musica già composta, come la «ballata del Roi de Thulé» in stile gotico» (scritta in carrsozza, «en voiture») [...] Queste poche, spontanee e significative parole testimoniano meglio di ogni altra dell'assoluta libertà con cui Berlioz affrontava il capolavoro goethiano, preso da uno stimolo creativo che unificava i due grandi nomi sotto un unico archetipo culturale alimentato dal giovanile entusiasmo dei suoi stati d'animo: basti pensare che accanto e quattro delle otto scènes Berlioz aggiunge citazioni shakespearìane tratte da «Romeo e Giulietta» e da «Amleto» , in lingua inglese.
Il «Faust» lo conobbe invece nella versione francese di Gérard de Nerval, e Nerval e Almire Gandonnière collaborarono con lo stesso Berlioz al testo della definitiva «Damnation» , finché il musicista, come ci informa ºulien Tiersot nel suo saggio dedicato a questa composìzione, a partire dalla seconda scena della Terza Parte si assunse, lui solo, l'onere del testo letterario, motivando questa decisione in una lettera al padre del 16 settembre 1846:
Sono stato obbligato a essere il poeta e il musicista nello stesso tempo, perché la mia partitura, cominciata e continuata attraverso campi in Baviera, Austria, Ungheria, Boemia e Slesia, andava più veloce di quanto potevano i miei facitori di versi di Parigi.
Rimaneva naturalmente il testo della traduzione di Nerval delle precedenti «Huit scènes» mantenute nella nuova versione [...]. Nella definitiva versione del 1846, i quattro personaggi solisti sono Margherita (Mezzosoprano), Faust (Tenore), Mefistofele (Baritono o Basso, con varianti per le due voci), Brander (Basso), e l'orchestra presenta una compagine di notevole ampiezza, ricca di percussioni e ampliata ulteriormente, per gli effetti «dietro la scena», da due corni e due trombe mentre il coro mantiene la tradizionale suddivisione in quattro voci pronte a separarsi e a concentrarsi nelle diverse esigenze espressive e spettacolari.
Nell'Avant-propos che precede la partitura, l'autore afferma che è il titolo stesso dell'opera a dimostrare che non è basata sull'idea principale del Faust goothiano, protagonista alla fine salvato e redento: essa tratta solo di alcune scene dalla «seduzione irresistibile», e per questo Berlioz respinge le critiche di chi lo accusava di aver «mutilato un monumento», poiché non si può mettere in musica un poema senza sottoporlo a una «folla di modifiche», e neppure un testo teatrale. [...] Sull' episodio poi dello sconfinamento di Faust in Ungheria, assolutamente gratuito nella trama narrativa del poema, l'autore ha una risposta pronta: per fare ascoltare la «Marche hongroise» , «lo confessa sinceramente».
Insomma, per questa composizione è ancora piú problematico individuare un preciso genere di appartenenza, nonostante dal 1893, su iniziativa del direttore del Teatro di Montecarlo Raoul Gunsbourg, sia invalsa la consuetudine di realizzarla scenicamente, come opera teatrale: Berlioz, certo mai avaro di parole, non ha lasciato indicazioni in proposito, come aveva fatto, diligentemente, per «Lélio ou le retour à la vie» o, in un certo senso, per la stessa «Fantastique» , mentre manifestò il proprio entusiasmo, in una lettera scritta da Vienna a Ernest Reyer bibliotecario dell'Opéra parigino il 27 dicembre 1867, per una grande esecuzione ivi realizzata (con 300 coristi e 150 orchestrali) sotto la direzione di Johann von Herbeck, «che ha avuto per primo l'idea di allestire per intiero il mio lavoro», in forma di oratorio. [...]
Spettacolo senza scena, dunque, ma condotto in una sequenza, costruito in un «montaggio» quasi cinematografico che unisce episodi raffigurati nella fantasia dell'autore e rivissuti nella complicità onirica di quella dell'ascoltatore, un ascoltatore anonimo, certo, ma partecipe delle stesse motivazioni culturali e della stessa passione, come quella che doveva unire Berlioz e l'amico Ferrand, nella pace della provincia natale, nel settembre del 1828. [...]
<L'efficacia della versione scenografica della «Damnation»> ha avvicinato il grande pubblico del melodramma a questo insolito capolavoro, e che ha dato modo a valenti registi di sbizzarrirsi nella loro inventiva con risultati di indubbio valore e di grande effetto spettacalare, fedeli anche a quel carattere di visionaria rêverie ben riscontrabile nella partitura [...]
Suddivisa in quattro parti e in venti scene, l'opera inizia con un'Introduzione che ci presenta subito «Faust solo nei campi, al levar del sole», un «Andante placido, non troppo lento» nel tempo di 6/8 e nella tonálità di Re maggiore: dopo un breve e discorsivo fraseggio delle viole, Faust canta un motivo di lode alla primavera, dai brevi e distesi nuclei tematici, presto però confrontati con elementi di diversità presenti nelle veloci semicrome dei secondi violini, viole e bassi, cui segue un addensamento orchestrale col controcanto del fagotto e dei primi violini. In una nota alla partitura l'autore sottolinea la necessità di far intendere «senza troppa forza, ma distintamente» nelle parti di ottavino, oboe, fagotto e corno i frammenti del tema della successiva
Ronde des paysans e quelli della «Marche hongroise» , «lontani rumori agresti e guerrieri che cominciano a turbare la calma di scena pastorale»: è la tipica tecnica berlioziana dell'anticipazione e della proiezione in avanti della materia sonora che si estende, dopo la ripresa di un piú continuativo fraseggio tematico del protagonista, nel crescendo orchestrale riproducente l'iniziale idea tematica sino alla seconda scena, la Ronde des paysans, che vede impegnati Faust e il coro a quattro voci (S, A, T, B), riedizione della seconda delle «Huit scènes» originarie. Questa gaia, fresca e arcadica festa di massa («Trala la la...») condotta in un ritmo di 6/8 e in Sol maggiore, si unisce presto al canto solistica di Faust, già però in una situazione di estranea lontananza, rilevabile anche nella contrapposizione dei ritmi di 6/8 e di 2/4, e tra il carattere pensoso e sognatore delpersonaggio e quello coreutico e paganeggiante della «Ronde» ;
attraverso un «Presto» in 2/4 in funzione di Coda, si giunge alla terza scena, quella ove la scenografia immaginaria del protagonista introduce la Marche hongroise previo il gratuito sconfinamento («Une autre partie de la plaine»), preceduta da un « Moderato» col recitativo di Faust improvvisamente attirato da «un éclat guerrier». Quindi «le truppe passano» e l'«Allegro marcato» della Marcia può finalmente iniziare, introdotto da un perentorio squillo di fanfara di corni, trombe e cornetti; Berlioz, in una nota a margine, ricorda che il tema di questa marcia che ho strumentato e sviluppato è celebre in Ungheria sotto il nome di Rakoczy, è molto antico e di autore sconosciuto. È il canto di guerra degli Ungheresi, che prende il nome da quel Ferenc Rakoczy che guidò una sfortunata insurrezione antiasburgica nei primi anni del Settecento raggiungendo la dimensione dell'eroe popolare.
Questo celebre brano sinfonico, regolarmente eseguito al di fuori della «Damnation» , come del resto isolatamente era stato composto, «bis» di repertorio per tante prestigiose orchestre, presenta una sostanziale struttura di «forma-sonata», con una contrapposizione tematica giocata sull'alternanza delle tonalità di La minore e di La maggiore e sul confronto timbrico tra i vari settori orchestrali, in particolare fra gli ottoni e il resto dell'orchestra, rinforzata da una «fila» di percussioni come si conviene al dichiarato piglio marziale del pezzo. Lo sviluppo dei due temi principali (il secondo si compone di due frasi tanto differenziate da far apparire la seconda un vero e proprio terzo tema), porta a un trascinante «crescendo» ampliato ulteriormente da una nuova idea ternatica proposta dai tromboni, l'oficleide e la tuba (qui indicati insieme in partitura), che va a esplodere nella finale enunciazione del primo tema, sino all'accordo conclusivo di La maggiore prolungato enfaticamente dagli ottoni i fagotti e le percussioni («sostenete e gonfiate l'ultimo accordo degli ottoni», ordina Berlioz), e che noi immaginiamo ancor piú sovrastato dalle urla di entusiasmo del pubblico di Pest, in quella trionfale esecuzione della «Marche» ricordata dall'autore nei Mémoires.
La Seconda Parte vede il protagonista nel Nord della Germania, «solo nel suo studio» e nella sua sofferenza («Oh, je souffre») dopo l'estatico contatto con la natura e l'irruzione di estranee presenze, dei contadini e dei soldati. Il «Largo sostenuto» in 4/4, introdotto da un fugato degli archi di grande respiro, propone su di esso il recitativo arioso di Faust in un bellissimo amalgarna voce-strumenti (soprattutto gli archi dapprima, quindi gli archi e i legni) movimentato nell'orchestra da un sapiente uso del sincopato e del crornatismo e caratterizzato da una linea cromatica discendente-depressiva, sino alla perentoria affermazione di Faust «Allons il faut finir!» e all'apparizione, del
«Chant de la Fête de Pâques» (4/4 e Fa maggiore), prima delle «Huit scènes» , un «Religioso moderato assai» che vede il coro a sei parti eseguire il suo motivo ancora lontano dal protagonista («Qu'entends-je?»), come nuova anticipazione di una materia sonora e di una presenza di massa su di una diversa ed estranea dimensione; l'andamento del coro è sobrio, in una struttura omoritmica su cui si pone ancora Faust («Oh souvenirs!») evidenziando la sua isolatezza e il rimpianto per l'innocenza dell'infanzia perduta, ed esaltando l'antica gioia della libera ed errante rêverie («Mon heureuse enfance, la douceur de prier... La pure jouissance d'errer et de rêver»).
Intanto, dopo la conclusione del canto pasquale con l'«Osanna» finale, la declamazione del solista continua sognante e nostalgica fino alla quinta scena, che vede l'apparizione («appare bruscamente») di Mefistofele, annunciata da un effetto di note ripetute degli archi e da un brusco intervento dei tromboni; la parte del nuovo personaggio porta la doppia notazione per basso e per baritono. Dopo il recitativo tra i due e la conclusione del famoso «patto», un «Allegro» in 6/8 e nella tonalità di Mi maggiore introduce un'idea di movimento che si accentua nelle veloci semicrome dei violini («Mefistofele e Faust scompaiono nell'aria») e quindi nel rafforzamento del metro ternario nell'orchestra che porta alla scena successiva, «La cave d'Auerbach» à Leipzig, derivata dalla quarta e dalla quinta delle «Huit scènes» , un «Allegretto con fuoco» con coro maschile proposto dal recitativo di Mefistofele («Voici, Faust, un séjour de la folle compagnie») cui segue il Choeur des buveurs, un «Allegretto» in 3/4 «un po' meno lento del precedente e pesantemente», in Do minore. Berlioz vi riprende l'antica tradizione francese della chanson à boire e vuole accennare a un arcaismo medievaleggiante nel tema dei fiati che precede il coro e che ritorna durante il baldanzoso procedere del pezzo, vera drammatica scena di massa nell'impetuoso scambio di frasi tra i tenori e i bassi che ricorda certi analoghi aspetti del Benvenuto Cellini: questa sesta scena è infatti tra quelle che meglio si prestano alla realizzazione teatrale.
Dal goliardico coro dei bevitori si stacca Brander, con la sua Chanson, la «storia del topo», di andatura strofica, un «Allegro» con vivaci interventi-risposta del coro seguito da una parodistica «coda» sulle parole recitate collettivamente « Requiescat in pace»: è l'anticipazione del successivo, ironico, famoso Amen polifonico sul tema della precedente canzone, dopo un recitativo, però, in cui Mefistofele, indossando per l'occasione i panni di Berlioz, vuole ben evidenziare a chiare lettere («la bestialité dans toute sa candeur») il suo giudizio su un certo tipo di polifonia, riprendendo la vecchia polemica contro l'utilizzo scolastico-contrappuntistico di un testo sacro.
È poi la volta di Mefistofele a prodursi in una nuova canzone, anch'essa di struttura strofica, quella «della pulce», un «Allegretto» in 3/4 e in Fa maggiore seguito dalle crasse risate dei bevitori, perseverando a conservare un'atmosfera che si rende insostenibile per Faust («Assez! fuyons ces lieux») e si annulla in una frase aerea dei violini che porta al delicato, sfumato «Andantino» e alla scena successiva, la settima, con i protagonisti ora in riva all'Elba («Bosquet et prairies du bord de l'Elbe») e decisamente lontani, come osserva il Tiersot, dall'originale goethiano, ove Melistofele si produce in una sorta di immaginaria diavoleria, mentre Berlioz ammanta questo momento, dopo l'aria del demoniaco personaggio «Voici des roses» accompagnata solo da cornmetti, tromboni e contrabbassi in un procedimento di conductus, di una sognante e misteriosa réverie che giunge a cime celestiali nel Choeur de Gnomes et de Sylphes soprattutto sulle parole «Dors, dors! Heureux Faust!», tinteggiate da una contenuta strumentazione caratterizzata in particolare dal timbro della viola. E su questo procedimento corale si staglia l'invocazione di Faust a Margherita, dopo la quale il coro viene ad assumere un marcato accento di danza intercalato da una seconda idea melodica, piú delineata di quella iniziale, per andare alla conclusione con un rinnovato aspetto aereo determinato dalle nuove scalette ascendenti dei violini e dai «puntati» interventi dei flauti e del piccolo: la piú riconoscibile avvisaglia del Ballet des Sylphes (3/8 e Re maggiore), un «Allegro» in «Tempo di Valse» che costituisce uno dei piú noti brani orchestrali berlioziani, quindi anch'esso eseguito a sé, fuori della «Damnation» .
L'autore rispetta una sostanziale forma tripartita, evidenziata dalla deliziosa e breve idea centrale caratterizzata timbricamente da magiche scalette discendenti di flauti, ottavino e violini, in risposta alla famosa melodia iniziale condotta dai violini e impreziosita da delicati interventi a corda vuota dell'arpa e da lievi gocce sonore dei legni, mossa poi da veloci frammenti d'arabesco, in biscrome discendenti, dei secondi violini e delle viole. Il finale è preceduto da un lunghissime pedale di tonica di violoncelli e contrabbassi e ulteriormente innovato nella sonorità dai timpani, dall'arpa e dai clarinetti. Il risveglio di Faust, dopo un cosí raffinato incantesimo, lo induce alla nuova invocazione all'amata e a un nuovo viaggio, verso la città, verso le nuove ed estranee presenze dell'ottava scena: il gagliardo coro dei soldati e la successiva canzone degli studenti, in latino e a esaltazione del gaudeamus igitur, vanno a fondersi e a dar corpo al Choeur des soldats et Chanson des étudiants («ensemble») nella comune tonalità di Si bemolle e ad una vivace e riuscitissima scena di massa, tanto vitale quanto effimera, spegnendosi gradatamente, con un bel fraseggio cromatico discendente del fagotto, sulle terzine ripetute degli archi.
Contadini, soldati, bevitori, fedeli e studenti sono i rappresentanti, in queste prime due parti della composizione, di un mondo estraneo e lontano, «del» mondo che si manifesta al protagonista nel suo inarrestabile e ineluttabile processo, in unmovimento di avvicinamento-allontanamento reso magistralmente, nel suo carattere di raffigurazione mentale e onirica, dalle scelte musicali di Berlioz. Si veda in proposito la compresenza, su due piani diversi, del recitativo declamato di Faust e del canto pasquale, e l'appartato silenzio dello stesso Faust alla taverna d'Auerbach, e come l'efficace connubio, nell'ottava scena senza i due protagonisti, di due elementi (soldati e studenti) che potevano arrischiare ulteriormente la continuità narrativa della «légende» , introducendovi semmai qualche componente di banalità, porta invece a compimento il distacco tra soggetto e mondo in un passo di pura rappresentazione di un oggetto estraneo, in una retorica dell'assenza.
L'inizio della Terza Parte, con l'«Allegro» eseguito da una fanfara «dietro la scena», è eco di un'eco, frammento isolato di marcia militare che si allontana dal clamore digradato del brano precedente, certo nuovo elemento di profonda estrancità nei confronti della scena successiva, l'«Aria di Faust» nella camera di Margherita, un «Andante sostenuto» in 3/4 dal dolce procedimento melodico-recitante («Merci, doux crépuscule») e dal continuo rinnovamento tematico; alla fine dell'aria scrive Berlioz: «Faust, camminando lentamente, esamina con appassionata curiosità l'interno della camera di Margherita», e quest'azione è proposta da una frase dei violini, con brevi incisidel flauto e del clarinetto, che crea una sorta di «immagine erratica», per usare un'espressione cara a Michel Guiomar, autore di uno stimolante saggio sul musicista (1970), sospesa tonalmente e planante in un'ineffabile dimensione; la nota dell'autore può poi spezzare una lancia decisamente a favore di una destinazione teatrale-scenografica della «Damnation» , a meno che, anch'essa citazione « erratica », non voglia sostenere figurativamente un movimento di libera réverie, e fermarla in qualche modo localizzandola in un ambiente e definendo un momentaneo atteggiamento del protagonista, o semplicemente coadiuvare alla ricucitura narrativa delle precedenti «Huit scènes» , le quali, dopo gli agitati e movimentati recitativi di Faust e Mefistofele della decima scena, ritornano nella successiva con la canzone di Margherita «Le Roi de Thulé» («Entra Margherita con una lampada in mano. Faust nascosto, Mefistofele esce»: una nuova preoccupazione «scenografica» di Berlioz).
Il canto di Margherita si manifesta in brevi frasi recitate riempite timbricamente dal suono dei flauti e dei clarinetti, continua in frammenti melodici mesti e pensosi prima di distendersi nella strofica chanson gothique, il cui aggettivo non va preso troppo alla lettera, e non è per rivelare chissà quali tendenze arcaicizzanti dell'autore, essendo usato in Francia nell'Ottocento nel generico senso di «popolare»: la melodia tenue e malinconica della donna va a esalare in un romantico «profond soupir» caratterizzato musicalmente da un'intensificazione cromatica, prima di cedere alla nuova sequenza dell'Evocatione di Mefistofele, agli «spiriti dalle fiamme incostanti» che col loro velocissimo barbaglio ai tre ottavini (che sostituiscono i flauti) e con le rapide scale degli archi preludono al celebre Menuet des Follets (3/4 e Re maggiore), la pagina orchestrale che riempie questa dodicesima scena col suo impalpabile procedimento: il brano segue la struttura, coi ritornelli, del vecchio minuetto, con due distinti nuclei tematici ripetuti e un tema centrale piú distesamente melodico, affidato agli archi, ed è concluso, a mo' di coda, da un «Presto e leggiero» in tempo tagliato dominato dal veloce fraseggio dei legni e dal «pizzicato» degli archi, cui s'inframmette una sola battuta, in 3/4, e «pianissimo», del precedente «moderato» Minuetto: ancora la reminiscenza, il flash-back prima del brillante finale di una pagina che ha suggerito a uno studioso, Jean D'Udine ricordato dal Barzun nel suo monumentale saggio su Berlioz (1950), l'analogia col ballet mécanique, e l'identificazione con la «prima istanza di assoluta inipassibilità conosciuta in musica». Nella rarefatta atmosfera si inserisce Mefistofele col suo recitativo («Maintenant chantons à cette belle une chanson morale, pour la perdre plus súrement») e quindi con la sua Serénade gagliardo motivo strofico echeggiante nei rapidi contrappnti del coro e nei veloci arpeggi ascendenti e discendenti dei legni: l'ultima delle «Huit scènes» .
La scena successiva, la tredicesima, vede finalmente il confronto fra Faust e Margherita e presenta riferimenti a precedenti motivi (la Cpanson de Thulé e un flash-back dei legni dal Menuet des Follets) prima del recitativo di Margherita («Grand Dieu! Que vois-je!») e del successivo «Andante» (3/4 e Mi piaggiore) caratterizzato, nel Duo, da ampi fraseggi dei protagonisti e da escursioni vocali sino ai limiti dell'estensiolle (il Do acuto per il Tenore), con un'orchestra vivacizzata dalle figurazoni dei flauti e dei clarinetti. La graduale, abbreviazione delle frasi tematiche porta quindi a una forte intensità drammatica e a un generalizzato andamento cromatico discendente, in una concentrazione espressiva che si risolve, alla fine, nella semplice parola «Viens!» pronunciata da Faust, ultimo ed isolato frammento, svuotata eselam.azione. Ma la tensione drammatica riprende nella scena successiva (Trio et Choeur), nella compenetrazione dei piani espressivi dei tre protagonisti, cui si aggiunge la presenza estranea e partecipe ad un tempo della massa corale, di una folla qui invadente e violenta. È una stupenda scena di massa in cui si sovrappongono l'ansia amorosa, la fretta sinistra di Mefistofele, il minaccioso commento esterno della folla, con alterni addensamenti-diradamenti delle voci, improvvisi «crescendo», «animando» e ritorni al «piano», il tutto realizzato nella prediletta metrica del 6/8 e nel tono principale di Fa maggiore e con un'orchestrazione semplice ed incalzante: un capolavoro di coovergenze drammatiche che trova la sua piena e autonoma facoltà significante nella dimensione musicale.
La Quarta Parte vede la definitiva divaricazione fra i destini di Faust e di Margherita e il fallimento del protagonista nel perseguimento di un'interazione amore-natura; inizia con la scena quindicesima e la relativa Romance di Margherita («De l'amour l'ardente fiamme»), una bella melodia annunciata, e poi ripresa, dal corno inglese, in una tipica forma tripartita A-B-A col -secondo tema in 9/8 rispetto al 3/4 iniziale: il Mezzosoprano si muove in un'ampia estensione, gioca con il corno inglese concertante senza mai perdersi, come è uso in Berlioz, in divagazioni virtuosistiche. Ma la melodia, in un «Piú animato ed agitato» («je suis à ma fenêtre au dehors tout le jour») si frammenta e si agita, si spezzetta in isolati slanci melici, ed è conclusa dal corno inglese che riprende infine il tema iniziale.
L'atmosfera si estrania nell'«Allegro» seguente con la fanfara invisibile che esegue asettici motivi di «ritirata». La solista rimane a tratti coi soli quattro timpani e il loro ritmo militare, e quindi con un'eco del coro studentesco che introduce momenti di politonalità, essendo il primo intervento del coro in Re sul Si be-molle di base ed il secondo in Do: definitiva e indiscutibile indicazione di due piani situazionali assolutamente incomunicanti. Nella scena seguente Berlioz; raccomanda al direttore d'orchestra di porre in evidenza tutte le sfumature nell'esecuzione dell'«Andante maestoso» in 9/8 che vede protagonista Faust nella sua ultima Invocation à la nature («Nature immense impénétrable»), un grande recitativo arioso, con veementi irruzioni dei bassi e una grande tensione espressiva del Tenore che accentua con grande solennità le sillabe del testo: un uomo solo di fronte a una immensità che gli provoca un panico sgomento, una desolata sensazione d'infinito degna, come ha osservato il Barzun, di Blaise Pascal.
Le tre scene successive si caricano invece di quei sìgnificati «infernali» che Berlioz aveva ampiamente sperimentato nei due ultimi movimenti della «Fantastique» , cosí già nel Récitatif et chasse, dove si decide la sorte di Faust che accetta la sua dannazione in cambio della liberazione di Margherita ingiustamente condannata per l'avvelenamento della madre, cupe sonorità di caccia si traducono in simboli infernali nelle note dei corni col sordino, e l'«Allegro» della Course à l'Abîme è una scena di grande movimento sullo sfondo lontano del coro dei paysans, quasi in forma di Corale, che pregano in lunghe note su cui emergono le angosciate frasi di Faust e quelle trionfanti di Mefistofele, il timbro «infernale» di trombe, tromboni e fagotti, il canto-urlo quasi animalesco di Mefistofele («Hop, hop»), la sonorità falsata del corno che secondo una nota dell'autore deve sforzare il suono in modo da imitare la tromba («cuivrer les sons»). La folle corsa sfocia nel Pandemoníum, un «Maestoso» dominato dal coro dei dannati («il piú numeroso possibile») il cui bramito si traduce in una inventata lingua satanica («Ha! Irimiru Karabrao! Has! Has! Tradioun Marexil firtrudinxé burrudixé. Fory my dinkorlitz... Diff, diff i mérondor, mérondor aysko! Satan! Belphégor! Mephisto! Astaroth! Belzébuth!») che alcuni studiosi Jllien, Barzun) hanno considerato ispirata alla simbologia del mistico svedese settecentesco Emanuel Swedenborg, mentre altri (Ballif) vi hanno visto un'antícípazione dell'oscura teogonia fantastica dei racconti di Howard Philip Lovecraft.
Il pezzo è caratterizzato da una conduzíone medievaleggìante, sia nella semplicità dell'omofonia che nel procedimento polifonico a conductus, su un'orchestrazione ricca di «sforzato», di «crescendo» e «diminuendo» e di effetti «puntati» delle percussioni. L'Epilogue sur la Terre, un «Maestoso quasi recitativo#, è condotto dai bassi omofonicamente, e termina su una bellissima frase, come sospesa, di grandissimo effetto: «Un mystère dhorreur s'accomplit. O terreur!». Dalla Terra al Cielo: «Dans le Ciel», nella ventesima ed ultima scena, sonorizzata da flauti, clarinetti, e dalle arpe che richiamano ancora all'origine chitarristica dell'armonizzazione e dell'orchestrazione berlioziana mentre al coro a quattro voci se ne unisce un altro, ad libitum, di 2 o 300 bambini (vorrebbe Berlioz, se possibile). È l'Apothéose de Marguerite, brano celestiale (ovviamente!) costruito su una melodia tanto bella che potrebbe apparire perfino convenzionale in questa situazione, scritta, è sicuro, a Praga nel cuore della notte.
L'Infernale e il Celestiale rappresentano, ancora e definitivamente, due motivi di un'estraneità e di un'impotenza a un'interazione con la natura evocata panteisticamente, che accompagnano tutta l'opera, sin dalle prime battute: la passione letteraria e l'esplicito riferimento a Goethe divengono pretesti per una sperimentazione musicale che si rivela, nel suo stesso processo di formalizzazione, come manifestazione di una crisi di identità del soggetto e dell'artista, e che pone quindi la composizione fra le piú problematiche ed inelefinibili dell'intero Ottocento musicale.
A questo proposito, vogliamo ritornare sul problema della liceità o meno della rappresentazione scenografico-teatrale. della «Damnation de Faust# riportando un'opinione dello studioso-princìpe di Berlioz, Tacques Barzun, nel suo citato saggio sul musicista. «Simili trasposizioni comportano sempre mutilazioni, interpolazioni, effetti visivi del tutto superflui, e ìnoltre lasciano lo spettatore deluso. Perché il dramma della «Damnation# è simbolico, invisibile, evocativo. Se Berlioz avesse pensato a un'opera, avrebbe progettato un disegno completamente diverso; non si sarebbe limitato a tre parti principali, coro e orchestra, e vi avrebbe inserito altre scene».
E dopo le parole dello studìoso, quelle del musicista, di Claude Debussy, tratte da un articolo del 1903 poi compreso nella raccolta di scritti Monsicur Croche et autres écrits (1921, postuma): «Senza partito preso, si può opporre a questo adattamento [quello di Raoul Gunsbourg] almeno il fatto ínnegabile che, poiché Berlioz mori senza lasciare indicazioni precise sulla sua opportunità, essa appare esteticamente discutibile. Per giunta, mettersi nei panni di un morto senza essere invitati a farlo mi sembra come mandare deliberatamente a quel paese il sentimento di rispetto che nutriamo di solito verso i morti; ancora una volta, però, la fiducia che Gunsbourg non ha mai cessato di avere nel proprio genio gli permette, con la massima disinvoltura, di trattare Berlioz come un fratello, e di eseguire delle volontà che glisono probabilmente, giunte dall'oltretomba. Nel fare ciò Gunsbourg continua quella deplorevole consuetudine secondo la quale i capolavori dovrebbero produrre commentatori, adattatori, rimaneggiatori... razza innumerevole, i cui rappresentanti nascono senza un incarico preciso, salvo quello di avvolgere ìn una fitta nebbia di parole e di epiteti i poveri suddetti capolavorí ».