GINO RONCAGLIA
MOSÈ IN EGITTO

L'opera è ricca di quadri concepiti con la fantasia di un musicista poeta. Nel 2° atto la scena della morte di Osiride è uno di questi. Lo sbigottimento nell'istante in cui il fulmine lo colpisce è espresso da freddi bicordi appena sobbalzanti dei clarinetti, cui seguono rotti accenti, dal lamento di Elcia (per quanto non esente da qualche vocalizzo superfluo) e infine dallo scoppio impetuoso del suo dolore, mentre il coro mormora sottovoce 'Oh Egitto! oh istante!'.
Ma certamente le pagine più alte dell'opera, quelle in cui la fantasia creatrice del Maestro ha raggiunto la sublimità, non sono quelle amorose, ma quelle sacre. Finora avevamo conosciuto un Rossini tenero, elegante, anche abile costruttore, oppure un Rossini dal riso malizioso o rumorosamente divertito. Il Mosè ci rivela un Rossini insospettato, rapito dalla grandiosità del soggetto biblico, trascinato dalla foga di un'ispirazione sacra verso concezioni dense di religiosità (non nel senso liturgico ma nel senso drammatico della parola) che raggiungono le più nobili e austere vette del pensiero e dell'arte, e dove le vecchie forme si rinnovano, si purificano, e si innalzano su tutto quanto è stato scritto, e rimangono tuttora fra le cose più grandi uscite dal genio d'un uomo. Lettori benevoli o malevoli che siate, non dite che faccio della rettorica; questa è la pura e semplice verità.
In queste visioni sacre campeggia solenne e gigantesca la figura di Mosè, la cui personalità il Maestro scolpisce con due mezzi, in maniera ugualmente felice; con il recitativo e con la preghiera. Forma monumentale di recitativo è l'invocazione di Mosè per il ritorno della luce, inscindibile dal prodigio delle tenebre in cui il personaggio-coro balza subito in primo piano con una forza di espressione senza precedenti. E pari al coro è la potenza emotiva dell'orchestra, sul movimento turbinoso della quale si librano gemiti e grida prolungate, dissonanze paurose. Tutto ciò incute nell'animo un senso di terrore e di orrore, suscita una specie di incubo, di oppressione dolorosa. La scena non è paragonabile che a qualcuna dell'Israel in Egitto di Händel.
Con la scena delle tenebre noi siamo portati di colpo nella terribilità del dramma e nel mistero arcano del prodigio con tale evidenza che potremmo anche dimenticare la scena, gli attori, il teatro, e chiudere gli occhi, e sentiremmo ugualmente il tormento, l'angoscia, il vano girare del pensiero in un carcere senza uscita, il dibattersi inane nello spirito incatenato dallo spavento. E così sarà fino all'invocazione tonante di Mosè a Dio con cui si ripristina la luce e si riprende a respirare e il cuore sembra uscire dal pelago alla riva. Da vedere non c'è nulla, perché non c'è nulla di descrittivo; chiudiamo gli occhi, e la scena, attraverso le voci dei cantanti e i suoni dell'orchestra ci si imporrà come una verità assoluta concepita e attuata con mezzi di una vigoria semplice e illimitata. Il movimento affannoso dell'orchestra, il dolore grave e lo smarrimento del primo gemito del coro, ci piombano in uno stato di ossessione indicibile, alla quale il pianto successivo ci terrà stretti. Qui c'è la vera poderosa arte di un poeta biblico. Il disegno dei violini ha una certa parentela con quello che sottolinea l'entrata di Ottavio, Donna Elvira e Donna Anna nella scena XIX del 1° atto del Don Giovanni di Mozart. Ma mentre il disegno mozartiano è soltanto agitato, quello di Rossini è sconvolto da un senso di tormento ansioso e disperato. Alla pagina rossiniana certamente si ispirò il Saint-Saëns per l'introduzione del Sansone e Dalila, e la sua profonda bellezza se sfuggì a Beethoven (ma forse l'opera datagli dal Carpani egli non l'aveva neppure aperta) non sfuggì invece, come s'è visto, a Wagner che ne ammirò la superba potenza drammatica.
Quando Osiride ed Elcia riprendono a discutere, allora noi torniamo a vedere i personaggi, la scena, e risentiamo (sia pure squisitamente ispirate) le forme dell'aria, e del duetto, non più, come prima, fuori del tempo e dello spazio, ma dentro i limiti del teatro, anzi del palcoscenico.
Nell'invocazione di Mosè c'è la maestà e l'autorità di una fede propria solamente di chi è uso a prendere gli ordini da Dio e sa di potere tutto sperare e ottenere. L'elevarsi della voce su le parole 'Eterno, Immenso', e poi su quelle 'Il Santo, il Giusto, il Forte' sembra un appressarsi sempre più alle soglie del cielo per essere udito. L'ultimo grido 'il lume che sparì rendi alle ciglia', con l'audace salto di decima, fende l'oscurità come un presentimento di luce, come una certezza di miracolo. Questo grande recitativo, con i suoi movimenti così fermi e decisi, senza un segno di dubbio o di incertezza, senza mollezza d'implorazioni, non è la supplica di chi tema di non essere esaudito, ma la domanda di chi sa già che Dio è con lui e lo afferma solennemente e risolutamente in faccia ai nemici di Jehova.
Nulla di simile è mai apparso nella letteratura musicale precedente d'ogni tempo e d'ogni popolo; e bisogna aggiungere che è questa la prima volta che il recitativo è portato a così alta efficacia drammatica, e che acquista tale importanza quale mezzo d'espressione musicale da Monteverdi in poi. Il crescendo successivo, non il solito crescendo rossiniano, ma un semplice aumentare di sonorità di un mormorio che si trasforma in un luminoso arpeggio sotto il grido di meraviglia di tutta la folla degli infedeli e degli stessi correligionari di Mosè, dà pieno il senso del miracolo che sta compiendosi. Su le ultime battute il do acuto del soprano è un grido di gioia e di vita, e insieme un raggio stesso di sole squillante, quello che con termine wagneriano, si potrebbe dire 'odo la luce!'.
Dopo il miracolo, la preghiera di ringraziamento 'Celeste man placata', in un'aureola di candore mistico, in una linea melodica di eccezionale eleganza, che sembra un anticipo della 'Casta diva' belliniana, è proposta dalla voce patetica del corno.
La preghiera è svolta secondo il sistema caro a Rossini, del così detto «falso cànone». Le voci si uniscono a poco alla volta, e sotto la voce che espone il canto ora in un tono ora in un altro, ora in maggiore ora in minore, le altre riproducono la stessa melodia quali in terza quali in sesta, oppure disegnano contrappunti o tengono note d'armonia; e ad ogni ritorno la melodia rinnova e intensifica la sua magia di commozione e appare sempre più tersa e splendente. L'orchestra accompagna con arpeggi, note tenute, accordi, e ripete l'ultima frase in maniera modulante alla fine d'ogni strofa per allacciarla alla successiva. Una quiete fidente, una commossa dolcezza si diffonde da tutto il pezzo.
Anche il concertato dell'atto successivo: 'Mi manca la voce', è costruito secondo questo sistema; però senza cambiamenti di tono nel passaggio della melodia da una voce all'altra. Nella sua ampia linea melodica esprime fortemente l'ansia nuova che tutti invade, specie per la frattura delle frasi cui l'accompagnamento d'arpa conferisce quasi il carattere d'una sottintesa preghiera e il crescendo - crescendo d'intensità, non il crescendo rossiniano (nella 2ª edizione Rossini farà entrare a questo punto anche i cori) porta l'espressione quasi al parossismo della disperazione. «Ce Mi manca la voce - scrive Balzac - est un de ces chefs-d'oeuvre qui résisteront, à tout, mème au temps, ce grand destructeur des modes en musique, car il est pris a ce langage d'âme qui ne varie jamais».
Di fronte a pagine come queste anche altre, pure bellissime, come ad esempio il gioioso ed esultante inno degli ebrei 'All'etra, al ciel, lieto Israel', sembrano quasi attenuarsi.
Ma la preghiera più alta, la famosa invocazione 'Dal tuo stellato soglio', fu aggiunta nella ripresa dell'anno successivo. Chi ha chiesto l'aggiunta di questa preghiera? Si giurerebbe che è stato Rossini medesimo. Il buon Tottola ha fatto miracoli; e la prima strofa

Dal tuo stellato soglio,
Signor, ti volgi a noi;
pietà, de' figli tuoi,
del popol tuo pietà!

nella sua semplicità è per lo meno sufficiente a stimolare l'estro d'un musicista. Ma forse la musica era già nata e il ritmo fu fissato al poeta dal musicista medesimo. Comunque è la pagina-capolavoro dopo altre pagine stupende del capolavoro. E la preghiera di cui il Balzac scriveva: «Cette musique relève les têtes courbées et donne de l'espérance aux coeurs les plus endormis». Essa rientra nel numero dei canti che, con le famose preghiere verdiane, risvegliarono la coscienza nazionale, «rialzando le teste curvate», e dei quali il Giusti diceva che parevano

come di voce che si raccomanda,
d'una gente che gema in duri stenti
e de' perduti beni si rammenti

e non a torto lo stesso Balzac fa dire ad uno dei suoi personaggi: «Il me semble avoir assisté à la libération de l'Italie».

Il motivo della preghiera fermentava già da tempo, più o meno variato, fra le idee particolarmente insistenti di Rossini e care alla sua fantasia. Una di quelle idee che hanno in sé l'afflato dell'universale, e che un autore non si rassegna ad abbandonare, perché sente inconsciamente che da essa può nascere ben altro. E vi ritorna su, e la rimedita, fino a che, libera da ogni scoria, a un tratto fiorisce, definitiva pura perfetta e splendente come si narra che Minerva uscisse dal cervello di Giove. Due delle varianti più prossime all'idea definitiva attuale le si son viste nel Tancredi e nel canto del gondoliere del 3° atto dell'Otello. La sublime preghiera consta di una sola frase nel tono di sol minore, che sembra elevarsi al trono di Dio, e quasi sospira e piange sul cromatismo dell'ascesa ultima col passaggio implorante do-do diesis-re.
Dapprima è la voce sola di Mosé che si eleva, poi quella di Elisero in unione ai clarinetti, poi di Elcia insieme al clarinetto e al flauto, e infine del coro unitamente all'ottavino ai clarinetti e ai violini, in un crescendo di sonorità sempre più sereno, terso, luminoso. La ripresa del coro in si bem. magg. dà alla preghiera un più acceso èmpito di passione e di fede; la quale prorompe piena all'attacco finale in sol maggiore, così luminoso dopo le altre due ripetizioni in so! minore di Elisero e di Elcia. Al di sotto di questa pura linea, niente altro che un semplice arpeggio: inutile ogni arzigogolo di scienza contrappuntistica, ogni dotta complessità armonica, ogni preziosità strumentale di fronte a una tale bellezza e completezza espressiva del canto!
Vigorosa di virtù descrittive l'ultima scena: movimento di cavalli, movimento delle onde, senso di scompiglio e di terrore (tutto ciò reso anche più efficace nella 2ª edizione); cui succede infine quella gran pace serena e luminosa annunziata dal motivo largo e dolce dei violini e dei clarinetti su cui si chiude in una catarsi soavissima la grande creazione del ventiseienne Pesarese, e che sembra additarci da un'eccelsa altitudine la felicità della terra promessa.

(Gino Roncaglia, Rossini l'olimpico, Milano, Bocca, 1946, pp. 352-361).