ROBERTO ZANETTI

LE OPERE DI G. F. MALIPIERO
NEGLI ANNI TRENTA

LA MUSICA ITALIANA
NEL NOVECENTO

pp. 718-727
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Gli anni Trenta vedono nella produzione di Malipiero un profondo rivolgimento. Il fatto forse più evidente, che è facile cogliere ricorrendo all'elencazione che abbiamo fatto più sopra, è il capovolgimento dei rapporti di forza e d'interessi fra il teatro e la musica strumentale. L'importanza assunta dal teatro musicale nel decennio precedente, dalle Sette canzoni fino al Festino (o per meglio dire fino al Torneo notturno), è ridimensionata dal ritorno di consistenti esperienze strumentali, anzitutto in senso quantitativo. Non con questo che il teatro musicale scompaia, come ormai sappiamo, ma indubbiamente esso entra in una fase molto delicata, fortemente critica, che comporterà la ridiscussione globale di tutto quanto fino ad allora perseguito e attuato, e così l'enucleazione lenta e travagliata, per niente rettilinea e graduale, di nuove direzioni e di elementi inediti, in ultima analisi dell'idea stessa di teatro musicale. Sappiamo ormai come da tempo la cosiddetta costruzione «a pannelli» stesse recedendo, lasciando per contro emergere la costruzione di un discorso unico, continuo. Prova ne sono la lavorazione di libretti derivati da lavori preesistenti e quella, nel Festino, di drammi altrui.

Possiamo anche aggiungere un altro elemento, ma non esclusivamente teatrale, come può non esserlo anche il precedente se, ad esempio, poniamo di fronte alla struttura «a pannelli» di Rispetti e strambotti e delle Variazioni senza tema l'architettura a sviluppo dei brani strumentali del Torneo e quella lineare e continua delle sinfonie. Questo secondo elemento, dicevamo, è costituito dalla scomparsa, a partire dal 1930, di quella violenza timbrica che, manifestatasi a tratti fin dai lavori giovanili, era andata via via crescendo e maturando in Pantea e altrove, fino al Torneo notturno compreso. Con tutto ciò - riprendiamo dal D'Amico [1] -
non si vuol davvero affermare... che dopo il 1929 Malipiero abbia compiuto l'impossibile operazione di rinnegare se stesso, e quindi non offra più interesse. Ma soltanto che quel primo periodo ha fissato certi cardini del suo mondo, mantenendo scoperti quei motivi che più tardi s'andranno risolvendo in una nuova sintesi che li supererà e forse annullerà come tali: una sintesi diversa da quella che riscontreremo in tanti dei lavori 1917-29, e capace di nuovissime imprese: per esempio di ritrovare (vedi La Passione) l'aperta disponibilità del declamato monteverdiano...
La qualità cui accenna il D'Amico - e che gli fa poi dire trattarsi di una sorta di «seconda pratica» malipieriana - è già ben visibile anche in altri lavori, nella già citata La cena, ad esempio, o, per restare nell'ambito del teatro, nell'opera che segue di qualche anno il Torneo notturno e che chiaramente, per certi aspetti, ha significato, per il musicista, un mutamento, una voltata di pagina. Intendiamo quella Favola del figlio cambiato a cui abbiamo fatto cenno più volte in precedenza [2] e che riteniamo comunque opera da iscrivere - nonostante la datazione (1933) e nonostante certi suoi caratteri - nel primo periodo malipieriano. Nella Favola - che Malipiero in parte riprovò successivamente e in parte valutò obiettivamente [3] - si ritrova appunto il declamato di discendenza monteverdiana portato a un livello di efficienza drammatico-musicale singolarissima. Come valutò, all'indomani della «prima» assoluta lo Stuckenschmidt [4]:
musicalmente Malipiero ha qui raggiunto la sua mèta in un chiuso stile arioso nell'impiego delle voci, ottenendo la rinunzia al semplice recitativo. Sopra un'orchestra che con un'enorme varietà rimane però sempre uno sfondo (eccezion fatta nei magnifici intermezzi), egli ha composto una partitura vocale di grande forza d'espressione. I canti nostalgici della madre diventano spesso l'anima dell'azione musicale... In nessuna delle sue figure Malipiero è mai riuscito ad ottenere lo stile dell'opera secentesca (verso il quale ha sempre aspirato) con tale profondità e concretamente come nella parte di questa madre. Siamo di fronte a qualche cosa di completamente antiborghese, alla totale rinunzia al materialismo. La passione personale si nasconde come nel dramma antico dietro il tragico della collettività.
Alla Favola, nella quale sono comunque evidenti i sintomi della crisi [5] seguono con certa regolarità gli ampi lavori da Shakespeare, i due drammi in tre atti Giulio Cesare [6] e Antonio e Cleopatra [7] la tragedia euripidea in tre atti Ecuba [8], i tre atti da Calderon de la Barca La vita è sogno [9]. Cioè quei lavori da Malipiero stesso definiti come «una parentesi lirica», che comunque non ripudiava, pur ponendosi essi fuori dal «suo teatro» più autentico, quello rimasto come sospeso col Torneo notturno e che doveva riprendere poi nuovo slancio con gli «hoffmanniani» Capricci di Callot.
Prima di affrontare la produzione strumentale restiamo ancora per un momento in quella vocale-strumentale, così da riferire anzitutto del dittico costituito da due opere lontane nel tempo, essendo nate rispettivamente nel 1927 e nel 1935, ma indissolubilmente legate tra loro: intendiamo La cena e La Passione [10]. Si tratta di due cantate in cui, più che altrove, si espande, completamente dominatrice e superbamente espressiva, una declamazione ariosa che sembra come essere scaturita dalle lontananze monteverdiane per divenire qualità tutt'affatto malipieriana. S'impone una prima osservazione, da tenere nel conto che biograficamente e culturalmente deve avere. E cioè l'apprendere che Malipiero tra il 1926 e il 1942 lavorava alla realizzazione editoriale dell'opera omnia di Monteverdi [11]. Così, riferendosi alla composizione de La cena, anzitutto, il De' Paoli ha rilevato che [12]«proprio in quest'opera egli vive in comunione quotidiana con le opere di Claudio Monteverdi, di cui prepara l'edizione. Questa comunione non è certamente estranea alla riuscita della cantata: non che questa riveli una qualunque idea di imitazione o di pastiche, ma, sia pure attraverso le forme e i linguaggi diversi, l'affinità dei due spiriti appare evidente».
Quanto più colpisce nella Cena risulta essere la continuità melodica, la sua scioltezza, la sua naturalezza e profondità d'espressione, la sua ariosità assolutamente straordinaria. Ed è più sorprendente se si pensa che Malipiero scrive per coro e orchestra, e che, per la prima volta, utilizza proprio in questo lavoro con frequenza anche lo stile imitativo. Ma ciò non osta allo sviluppo della continuità melodica, del canto puro, poiché vi è piegato ogni elemento sonoro a disposizione, il coro ora trattato polifonicamente e ora omofonicamente, e l'orchestra, da cui s'alzano talora ampie frasi. Compare in questo lavoro, per la prima volta, quella che Bontempelli chiamerà «l'ossessione della continuità» [13] ponendola tra i caratteri fondamentali dell'arte del «secondo» Malipiero (la stessa che c'è nella Favola del figlio cambiato, tanto per fare un esempio), e che consiste nel «non tollerare una sosta, quasi la menoma pausa sia la morte; di qui il senso d'implacabile e quello smarrimento lirico di cui le musiche di Malipiero, sono soffuse».
La medesima continuità, naturalmente, nella Passione, di cui lo stesso Malipiero scriveva che «si svolge ininterrottamente, dall'inizio alla fine, traducendo musicalmente con scrupolosa aderenza le emozioni che il testo suggerisce», essendo appunto la Rappresentazione del Castellani «una rappresentazione di sentimenti, mentre l'avvenimento della tragedia non costituisce che un simbolo della realtà, quasi un pretesto per favorire l'occasione di manifestarli» [14]. Differenza sostanziale tra i due lavori sta nel fatto che la Cena ha carattere essenzialmente lirico e contemplativo, e come tale annulla personaggi e vicende per esprimersi direttamente, emblematicamente attraverso il coro. Per contro la Passione svela tendenze più decisamente drammatiche, anche se non ricorre certo a grandi gestì, a violenti contrasti. Anche qui la voce di Cristo è affidata al coro, per rispetto della musica - spiega ancora l'autore - «verso questa raffigurazione che trascende la persona umana, e le altre voci, affidate ai solisti, lo confermano con il loro contrasto» [15].
I vari interventi non sono preparati da alcuno (ecco la differenza dall'oratorio e l'avvicinarsi, per contro, al teatro), ma soltanto in partitura figurano didascalie che specificano i personaggi via via che agiscono vocalmente e a chi si rivolgono. Quanto più colpisce musicalmente della partitura sono la grande, ineffabile dolcezza che emana dagli interventi di Cristo, la sua nobiltà d'eloquio che sembra come avvolgere anche altri personaggi, l'indicibile commozione che pervade l'intervento di Maria, l'intensità emotiva degli episodi strumentali. Tutti pregi che fanno della Passione un autentico capolavoro, un nuovo capolavoro firmato dal compositore veneziano. Se ne accorse anche fl pubblico romano della «prima », nel 1935, tributando al lavoro un successo come mai era accaduto in precedenza per un'opera del Malipiero [16].

L'evoluzione dello stile e del linguaggio malipieriani nel corso degli anni Trenta si può particolarmente cogliere nella produzione strumentale, che è senz'altro l'aspetto dominante di tale decennio [17]. In generale si può rilevare che la via su cui procede il compositore è segnata in profondità dal ripensamento e dall'assimilazione della musica strumentale italiana fine Seicento-inizi Settecento, della grande tradizione concertante veneziana - in analogia, dunque, con quanto avvenuto nella produzione vocale-strumentale, ma più problematicamente per la gran mole di lavori e le differenziazioni formali. In sintesi si può dire che l'esperienza malipieriana degli anni ora in esame corre essenzialmente lungo due direzioni, quella del concerto e quella della sinfonia.

Ad aprire questa duplice produzione, da ritenersi però meglio interattiva che non quella concertistico-sinfonica ottocentesca, è un'opera davvero singolare, i Concerti per orchestra, composti entro l'aprile 1931 e dedicati a Fritz Reiner che ne fu poi l'interprete all'Academy of Music di Filadelfia, il 29 gennaio 1932. L'aspetto straordinario dei Concerti - in certo senso precursori del Concerto bartokiano - è costituito dalla distribuzione, nei venti minuti primi della loro durata, di una serie di episodi, esplicativi dell'intitolazione stessa. E cioè:

I. Esordio; II. Concerto di flauti; III. Concerto di oboi; IV. Concerto di clarinetti; V. Concerto di fagotti; VI. Concerto di trombe; VII. Concerto di tamburi; VIII. Concerto di contrabbassi; IX. Commiato.

Dunque racchiusi tra l'
Esordio e la conclusione, ossia Commiato, sette concerti per strumenti diversi, di volta in volta isolati dall'orchestra, il cui organico - va sottolineato - è più ridotto di quelli delle composizioni sinfoniche precedenti (mancano tromboni e tuba, mentre i legni sono in coppia, con in più l'ottavino e si hanno inoltre quattro corni, due trombe e gli archi, nonché gli ormai consueti tamburi basco e militare, grancassa e castagnette). Dei singoli strumenti viene valorizzata la personalità in senso espressivo, mentre nessuna concessione viene fatta al loro possibile manifestarsi virtuosistico.

Ne esce così un'opera di spiccata natura concertante, dai piacevoli e addirittura brillanti esiti sonori, la quale può ben porsi a fondamento della letteratura concertistica per solisti e della produzione sinfonica. E ciò perché in entrambi questi settori Malipiero studierà modi di essere della struttura concertante, sia con l'utilizzo di un solista e sia con l'uso paritetico delle varie parti, e così pure per la ragione che respingerà il concetto di virtuosismo, sia esso del solista o orchestrale. In proposito precisava il Malipiero medesimo [19]: «vent'anni fa il virtuosismo orchestrale era una minaccia che certamente influiva su certa musica e comprometteva il meraviglioso organismo dell'orchestra stessa».
Né minori rischi vedeva nel virtuosismo solistico, che addirittura diceva d'aver evitato «come malattia contagiosa».
Dopo i Concerti, un'altra composizione ha significato preparatorio: i già citati Inni pure per orchestra (composti nei primi mesi del 1932, poi corretti nel gennaio-febbraio 1934). Una pagina di non grande estensione, poco meno di dieci minuti di durata, costituita da tre episodi distinti, che possiamo significare come segue:

I. Lento non troppo C batt. 1-69
Il. Allegro, ma non troppo mosso 3/4 70-192
III. Solenne 3/4 193-299
Squillante (Coda) 300-316

L'interesse che suscitano gli Inni proviene sia dallo studio che Malipiero vi imposta circa il modo di conduzione dell'orchestra, così da giungere a un grado avanzato di definizione del proprio stile sinfonico, e sia nell'esperire nuove situazioni formali, cioè un modo di portate avanti il discorso con episodi di estensione limitata, ancora, ma certo più ampi di quelli solitamente attuati (si confronti a questo proposito lo schema degli Inni riportato sopra con quello delle Pause del silenzio). È esatto così addossare agli Inni anche il significato di avvio dello «stile lineare e antirettorico», poi liberamente e fantasiosamente prolungato nelle sinfonie. Uno stile, è bene precisare, che consiste in una maggiore chiarificazione e in un miglior equilibrio degli elementi espressivi, in una solidità costruttiva ignota alle opere sinfoniche precedenti, in un'ampiezza di respiro melodico nuova - ch'è poi quella che determina essenzialmente la maggior ampiezza degli episodi.
Composizione coetanea, ma di destinazione solistica, è il Concerto per violino e orchestra, finito il 10 marzo 1932 (e dedicato ancora alla Coolidge). Nel Concerto, come poi in quello due anni dopo destinato al pianoforte e in altri successivi [19] manca l'assunto virtuosistico, tradizionalmente, ottocentescamente inteso, quello che da sempre risultava l'elemento caratterizzante della forma. Per meglio precisare il concerto malipieriano, è stato osservato [20] è
antivirtuosistico, dunque; il che non sta affatto a significare che i concerti solistici del veneziano siano di facile esecuzione tecnica, né tantomeno musicale. Soltanto si deve precisare che le difficoltà sono del tutto incidentali, semplici mezzi funzionali ai fini estetici desiderati e non decorazioni o velleità gladiatorie e spettacolari: nessuna concessione è fatta ad atteggiamenti predisposti per strappare l'applauso, ad uso degli esecutori gigioni e superficiali. Acerrimo nemico del virtuosismo, Malipiero ebbe occasione di spiegare questa sua concezione del concerto solistico quando disse di intendere tale forma come quella in cui una voce particolare si stacca dal contesto per dire qualcosa di assolutamente personale, legato alla voce timbrica e alle disposizioni espressive (unicamente espressive) dello strumento.[21]

Un indirizzo, come accennato, che può estendersi anche alla trattazione dell'orchestra, dunque alle sinfonie, che poco più tardi del concerto cominciano a polarizzare l'interesse del compositore. Prima di passare a queste, qualche cenno ancora a proposito dei concerti solistici scritti negli anni Trenta, anzitutto per rilevarne quanto ne costituisce l'essenza. Ch'è poi, a partire dal Concerto violinistico che si pone in testa a tutti - non solo come datazione, ma anche per risultati musicali -, una formidabile disposizione a mettere a punto del solista le risorse liriche, a dar fondo al potenziale di canto, ma anche, per converso, a dar corso a giochi estrosi, di grande verve ritmica, talora ironici. Dall'intero concerto si emana un indubbio spirito vivaldiano del violino che il Malipiero era andato naturalmente assimilando nel corso delle sue indagini e dei suoi studi sullo strumentalismo veneziano, così come da quelli sul teatro avevano trovato nutrimento le concezioni della vocalità e del declamato [22]. Tale spirito vivaldiano del violino è evidente nel lirismo pungente del tempo centrale lento come nell'irrompere incessante delle figure ritmo-melodiche nei due allegri esterni, e più in generale dalla conoscenza e dallo sfruttamento delle risorse violinistiche, delle sue caratteristiche idiomatiche.

A dimostrazione dell'attaccamento al mondo strumentale veneziano sei-settecentesco viene anche il più tardo Concerto per violoncello e orchestra, completato il 28 ottobre 1937 e dedicato a Enrico Mainardi, che lo divulgò un po' ovunque. Una composizione appunto dove si riverbera ancora lo stile lagunare, non certo quello dello strumento caro al Boccherini. E così pure, infine, il Concerto a tre - composto nell'agosto-ottobre 1938 -, dove semmai rileviamo una ancora maggior chiarezza discorsiva e trasparenza fonica.

Anche il termine stesso di sinfonia, e così il mondo sonoro e la concezione formale della sinfonia malipieriana si riallacciano «a quella che è stata in Italia la musica istrumentale fra il 1680 e il 1780 circa», cioè «una forma libera di poema in più parti che si seguono capricciosamente obbedendo soltanto a quelle leggi inafferrabili che l'istinto riconosce e adotta per esprimere un pensiero o un seguito di pensieri musicali» [23]. Il punto di partenza, in senso formale, può dunque risultare nell'esperienza strumentale precedente del Malipiero, nell'elaborazione libera, «a pannelli» delle Pause del silenzio, dei primi quartetti. Tuttavia c'è il segno di quello che abbiam detto il «secondo» Malipiero, cioè il suo aver superato l'antico ostracismo all'elaborazione tematica, così che nelle sinfonie, come nei concerti e nell'opera, si viene ad attuare una costruzione architettonica meno frammentaria e più continua di quella, ad esempio, delle Pause e di Rispetti e strambotti - ai quali ultimi comunque s'apparentano per certo svagato modo dell'invenzione e della narrazione sonora.

La prima Sinfonia, composta tra il finire del 1932 e il 29 febbraio 1933, reca, come poi le successive, un sottotitolo: «in quattro tempi come le quattro stagioni», spiegatoci dallo stesso autore [24]. I caratteri dei quattro movimenti possono, l'uno dopo l'altro simboleggiare qualche elemento fondamentale dell'allegoria delle stagioni a cui si riferiscono. Vivacità, fresca spigliatezza primaverile nel Quasi andante sereno, d'apertura. Robustezza, veemenza dell'estate nel successivo Allegro. Nel terzo, Lento ma non troppo, assistiamo al ripiegamento su situazioni sonore brumose, appunto autunnali. Infine dal quarto, Allegro quasi allegretto, si sprigiona come una vitalità carnevalesca, ma anche sonorità «algenti», appunto invernali. Già questa sintetica descrizione sembra evocare il nome di Vivaldi e delle sue Stagioni, certo presenti nella mente e nell'esperienza malipieriana, pur sempre come fatto musicale di lontana provenienza di cui non perdere certe pregnanti suggestioni, anche se linguaggio, caratteri, stile sono profondamente mutati: e così affatto malipieriani si possono dire l'estrosa e libera inventiva, la rigogliosa varietà sonora, la tersa e pungente evocazione lirica. Insistiamo, infine, sulla struttura della Sinfonia, perché non sfugga il suo ordinamento in tempi alternatamente lenti e veloci, evidente riferimento all'antica forma della sonata chiesastica [25].
La seconda Sinfonia ha carattere essenzialmente lirico, come esplica già l'aggettivazione, «Elegiaca ». Composta «nei mesi ansiosi e tragici del 1936» (completata l'l giugno del 1936, un anno che Malipiero dice «pieno di tristezza»), la composizione sostanzialmente non risente degli eventi tra i quali vide la luce, ma assume un carattere profondamente elegiaco, maturato da profonde emozioni e espresso in modo diretto, fortemente concentrato, ma perfettamente padroneggiato nei suoi quattro tempi così da farne creazione di indubbio equilibrio, di solidità formale.

Dopo questi due lavori, per un decennio Malipiero non scriverà più sinfonie, filone che riprenderà nel 1944-45, con quella Terza sinfonia «delle campane», di cui si dirà in altra parte. Ma nonostante l'ampia cesura, la Terza sinfonia e le successive, almeno fino alla Settima «delle canzoni» (1948), mostrano di seguire tutte uno stesso indirizzo, di svilupparsi coerentemente e consequenzialmente, l'una dopo l'altra.


NOTE

[1] F. D'Amico, Ragioni umane del primo Malipiero, art. cit., pagg. 110-111.

[2] Abbiamo g
ià dato ragguagli relativi alla prima rappresentazione della Favola in Italia, a proposito della quale si può anche leggere una rievocazione di D'Amico, in Appendice. Per quanto riguarda la collaborazione di Malipiero con Pirandello, lo stesso musicista l'ha rievocata nel volume autobiografico La pietra del bando, Venezia, 1945 (parzialmente riprodotto nell'Opera di G.F. Malipiero, pag. 285 e segg.). Altri particolari si possono leggere in Favoleggiando con Pirandello, in «Scenario», novembre 1940 (riprodotto in appendice al volume di Bontempelli già citato), e nell'articolo dedicato alla Favola, in «Ricordiana», giugno 1957. La «prima» assoluta dell'opera avverine il 13 gennaio 1934 a Braunschweig, sotto la direzione di Hans Simon, con protagonisti Lotte Schrader (la madre), Gusta Hammer (Vanna Scoma), Albert Weikenmeier (il principe) e certo Siegmund (Figlio di Re).

[3] Difatti nel 1952 Malipiero scriveva che «la Favola del figlio cambiato aveva rotto l'incanto del "mio" teatro, ma non quello del teatro» (Catalogo, pag. 201). In data 5 giugno 1952, invece, in una lettera al Ballo, si chiedeva: «Vorrei sapere se senza la Favola del figlio cambiato, offertami da Pirandello (col primo atto che mi entusiasmò), tutto il resto del mio teatro sarebbe mai nato».

[4] H.H. STUCKENSCHMIDT, Il teatro di Malipiero, art. cit., pagg. 74-75.

[5] Soprattutto crisi consistente nel fatto che la «musica abbandonata a se stessa impara ad obbedire esclusivamente ai propri impulsi interiori, osservando nei confronti del dramma un certo superioie distacco». Così il SANTI, nell'articolo più volte citato, pag. 63. Lo studioso vede poi come conseguenza inevitabile di quell'«atteggiamento di sufficienza, quasi parrebbe di indifferenza, ch'egli assume nei confronti del testo letterario... l'accoglimento dei grandi drammi classici nella "parentesi lirica" seguita alla collaborazione con Luigi Pirandello».
[6] A proposito del Giulio Cesare si veda anche il cap. X. Il dramma - completato l'1 febbraio 1935 - andò in scena l'8 febbraio dell'anno successivo al Carlo Felice genovese, sotto la direzione di Angelo Questa.

[7] Finito il 2 aprile 1937, il secondo dramma scespiriano fu portato in scena al Comunale di Firenze, nell'ambito del Maggio musicale, il 4 luglio 1938, sotto la direzione di Mario Rossi. L'anno successivo fu ripreso a Brema. Il trattamento della tragedia originale risulta molto libero e il centro su cui gravita l'intera azione può dirsi l'amore del condottiero romano e della regina egizia. Malipiero stesso lo definiva «tragedia di due soli esseri umani».

[8] Completata il 5 maggio 1940, Ecuba fu rappresentata al Teatro Reale dell'Opera di Roma, l'11 gennaio 1941, diretta da Tullio Serafin.

[9] Finita l'8 febbraio 1941, La vita è sogno fu data in «prima» assoluta all'estero, esattamente all'Opernhaus di Breslavia, il 30 giugno 1943. In Italia venne ripresa l'anno dopo, il 26 aprile, alla Fenice di Venezia. La diresse Armando La Rosa Parodi. A proposito di questo lavoro ha notato ancora il SANTI, art. cit., pag. 73: «spira ne La vita è sogno una desolazione altrettanto profonda che in Ecuba, ma essa non vi regna quale atmosfera che in sé assorbe ogni evento e ogni moto di ribellione, il manto del destino in cui l'umana tragedia si avvolge, bensì da dominatrice, imposta da una volontà proterva, che vi ostenta la propria miseria di contro all'ingiustizia del mondo che ancora l'insidia con le sue mille lusinghe».

[10] Compiute rispettivamente l'11 dicembre 1927 e nel settembre 1935, le due cantate svolgono il testo della Rappresentazione della Cena e Passione di Pierozzo Castellano Castellani (XVI secolo). La Cena fu presentata in «prima» assoluta a Rochester, nell'aprile 1929, da Hermann Genhart, quindi fu ripresa dal Molinari all'Augusteo nel 1933. Ancora il Molinari fece ascoltare, sempre all'Augusteo, La Passione, il 15 dicembre 1935.

[11] Specialmente intensa l'applicazione di Malipiero all'opera monteverdiana tra il 1926 e il 1932, quando trascrisse e pubblicò ben quattordici tomi. Dopo una sosta di nove anni uscirono il tomo XV (1941) e il XVI (1942).
[12] D. DE PAOLI, La trilogia mistica, in «La rassegna musicale», n. 2-3, 1942, pagg. 86-96. Ripubblicato nell'Opera di G. F. Malipiero, pagg. 138-146.

[13] M. BONTEMPELLI, G. F. Malipiero, op. cit., pag. 12.

[14] Nel Catalogo, pag. 213.

[15] Una voce di baritono è destinata a raffigurare ben cinque personaggi, cioè l'Angelo, Giuda, il Pontefice, Erode e il «ladron sinistro», mentre uno dei due tenori darà voce a Pilato, e al «ladron destro», l'altro al Capitano, a un Giudeo, al Centurione. Infine un soprano sarà Maria. Si tenga presente che il coro presta la sua voce a Cristo in modi molto differenziati, ora con i soli bassi (ad esempio quando, all'inìzio, prega il padre e si rivolge quindi ai discepoli) o con i soli tenori (quando parla alla madre e a Giovanni), ora con raggruppamenti di tre voci (ad esempio soprani, tenori, bassi), ora invece con tutte le quattro voci (come nel finale). Talora le voci sono trattate all'unisono, talaltra in modo omoritmico, in certe particolari situazioni poi addirittura in modo imitativo.

[16] Altra composizione di questo periodo il De profundis per una voce, viola, grancassa e pianoforte, terminato il 7 luglio 1937 e dedicato «a Ildebrando Pizzetti». Questi rispose con un altro De Profundis per coro a cappella. I due lavori furono eseguiti insieme al quinto Festival di Venezia, il 12 settembre 1937. L'idea di tali lavori era nata nei due musicisti durante un incontro in cui constatarono le tristi condizioni in cui versava allora la musica italiana. E difatti la dedica malipieriana parla del De Profundis come «lugubre espressione della nostra malinconia e intonato forse per sotterrate le nostre illusioni». L'anno successivo Malipiero scrisse poi una Missa pro mortuis, il cui completamento avvenne il 12 giugno 1938. Dedicata «in memoriam Ariel Musici», ovvero alla memoria di Gabriele D'Annunzio, morto nel marzo precedente quando appunto la composizione era in corso, la Missa è detta dal Malipiero «un'elegia funebre che esprime quei sentimenti che non osiamo confessare od esprimere con parole profane».
Per concludere l'indicazione dei lavori vocali-strumentali degli anni Trenta ricordiamo Il commiato per orchestra e una voce di baritono (finito il 28 luglio 1934): un lungo preludio orchestrale che immette nell'intonazione della poesia leopardiana A se stesso. Nel Catalogo il'musicista la pone tra le opere «senza commenti».
[17] Insufficienti gli studi su tale produzione strumentale malipieriana. Ricordiamo comunque i seguenti lavori: L. SAMINSKY, The Sinfonia of G.F. Malipiero, in «Modern Music», New York, gennaio 1935; R.A. MOOSER, La «Sinfonia Elegiaca» de Malipiero, in «Dissonances», Ginevra, dicembre 1937; E. ANSERMET, Les Sympbonies de Malipiero, programma di sala per i concerti dell'Orchestre de la Suisse Romande, 1946; R.A. MOOSER (Le Sinfonie n. 3, 6 e 7 di Malipiero), in «La Suisse», 1946-50 [questi ultimi due scritti sono riprodotti nell'Opera di G.F. Malipiero, rispettivamente pagg. 158-160 e 151-1571; N. COSTARELLI, Nota sulle sinfonie di Malipiero, in «La rassegna musicale», n. 1, 1951, pagg. 39-42.

[18] G.F. MALIPIERO, Catalogo, op. cit., pag. 227.

[19] E cioè il secondo per pianoforte (finito il 4 settembre 1937), quello per violoncello, il Concerto a tre per violino, violoncello, pianoforte e orchestra. E così poi i concerti scritti nel dopoguerra, quali il Secondo concerto per violino (1963), i quattro per pianoforte (1948-64), il Concerto per flauto (1968).

[20] A. GENTILUCCI, Guida all'ascolto della musica contemporanea, op. cit., pagg. 258-259.

[21] Nel Catalogo, pag. 238, si legge che i concerti sono da considerare come «orazioni», ovvero «una voce si alza e l'orchestra la segue come moltitudine che ascolta "colui che ha qualcosa da dire" o, con più modestia parlando, che vorrebbe dire qualcosa». È ovvio che di qui discende il ripudio del virtuosismo e di qualsiasi atteggiamento retorico.

[22] Va precisato che, mentre l'applicazione alla riedizione dell'opera monteverdiana risale proprio agli anni a cui ci riferiamo (1926-42), quella alla riedizione dell'opera vivaldiana data invece del secondo dopoguerra, avviata nel 1947 per conto dell'Istituto Vivaldi e della Ricordi e completata circa vent'anni più tardi.

[23] Le citazioni vengono dal Catalogo, pagg. 230-231.
[24] Nel Catalogo, pag. 231, si legge: «quando vivevo in campagna, qualche volta sentivo la nostalgia per Venezia [...] leggevo spesso i poeti veneziani e fra questi preferivo il Lamberti per le sue Stagioni, che sono otto, quattro cittadine e quattro campestri. Da principio volevo quasi musicarne qualche frammento, quelli che più mi commuovevano perché mi ricordavano la Venezia della mia fanciullezza, una Venezia ormai sparita per sempre. A poco a poco eliminai, mio malgrado, ogni diretta allusione a Venezia e al Lamberti, e, chi sa come, si mantenne a galla, dopo una delle solite tempeste benefiche, non un relitto, ma la prima sinfonia in quattro tempi, come le quattro stagioni. Non è musica a programma; della poesia lambertiana nulla è rimasto, salvo appunto la nostalgia per quello che è andato perduto». `

[25] Per completezza d'informazione riferiamo brevemente di due altri lavori sinfonici dello stesso periodo, le Sette invenzioni (finite di comporre il 14 aprile 1933) e le Quattro invenzioni (completate nel 1933). Due serie di pagine scritte per il film Acciaio di Walter Ruttmann, su sceneggiatura di Pirandello. Musiche si disse «da ascoltare con la testa fra le mani». Ma solo la prima serie, di sette Invenzioni, fu utilizzata nel film, perché la seconda fu scartata e sostituita da brani di musica leggera. Infine, come unica partitura di musica da camera del periodo, ricordiamo la Sonata a cinque per flauto, violino, viola, violoncello e arpa, datata giugno 1934. Una composizione questa costituita ancora da diversi episodi lenti e allegri, disposti senza soluzione di continuità, con un'idea tematica principale e altre secondarie, prima alternate e poi mescolate contrappuntisticamente.