ROBERTO ZANETTI

IL PRIMO DOPOGUERRA
SECONDA PARTE

LA MUSICA ITALIANA
NEL NOVECENTO

pp. 702-709

------------------------------------------------------------------------
Il lavoro [il Quartetto Rispetti e Strambotti] rinnova profondamente la prassi compositiva quartettistica, ancora una volta scoprendo concezioni formali e possibilità costruttive modernissime nell'approfondito studio del far musica del lontano passato, nei canti e nelle danze popolari, nelle prime forme strumentali (o prima che strumentali vocali, così che qualcuno suggerì a suo tempo la derivazione dal mottetto cinquecentesco per la struttura a sezioni), come pure, infine e in modo da spiegare l'intitolazione, dai caratteri formali e ritmici dell'antica poesia popolaresca italiana. Dal Malipiero stesso apprendiamo quale sia la realtà architettonica di Rispetti e strambotti: [1]*
le venti strofe che compongono questo quartetto sono legate fra loro da un tema che ha quasi l'apparenza di un ritornello ma che soprattutto tradisce la gioia di chi ama ascoltare le vibrazioni delle corde vuote e si inebria della loro sonorità. [2] Ogni strofa esprime a sua volta un pensiero musicale dall'aspetto popolaresco e che non si potrebbe realizzare se non con quattro strumenti a corda: due violini, una viola e un violoncello.
Così Rispetti e strambotti si svolgono nel modo di una fitta successione di episodi collegati da ritorni ritmo-melodici. Si tratta di episodi brevi, contrastanti, (ancora la struttura «a pannelli» dunque, escogitata a sostituzione dello sviluppo tematico), nell'insieme formanti un lavoro di piccole dimensioni, ovvero quella situazione formale e contenutistica che molti critici hanno individuato come la più idonea e congeniale alla personalità e al linguaggio del musicista. Riteniamo utile esemplificare la forma del quartetto, indicando la successione delle misure e gli andamenti, nonché il ritorno, anche parziale, di quell'elemento ritmo-melodico costituito sulle corde a vuoto (questo è segnato appunto con una R., come suggerito dall'immagine del ritornello avanzata dall'autore medesimo). Si ponga, infine, attenzione alle due soluzioni di continuità:
I STROFA: Un poco ritenuto - batt.1-6 - R. (vl. I poi vla)
Un poco più mosso - batt. 7-19
Un poco movendo - 20-22 R. (a 4)
Un poco ritenuto - 23-29
II. Calmo - 30-45
Tempo I - R. (vl. I)
III. Alquanto mosso - 50-81
82-84 - R. (vl. I)
IV. Andante - 85-103
104-106 - R. (vlc.)
V. (stesso tempo) - 107-118 R. (modificato al vlc.)
119-122 - R. (al vl. I)
VI. Un poco più mosso - 123-147
(alquanto ritenuto al - 143)
VII. Molto più mosso - 148-180
Un poco meno mosso - 181-186 R. (vl. II)
Poco meno e rallentando - 187-199
200-203 (vuote)
VIII. - Allegro vivace204-230
231-233 - R. (2 violini)
IX. - Lento e triste - 234-257
X. Alquanto mosso258-280
XI. Un poco ritenuto - 281-284
Meno mosso, tranquillo - 285-300
XII. Più lento - 301-318
XIII. Abbastanza mosso, ben marcato il ritmo - 319-363
364-367 (vuote)
XIV. Non troppo ritenuto - 368-369 R. (vl. I)
Più mosso - 370-403
XV. Lento - 404-431
XVI. Più mosso - 432-433 R. (vla)
434-459
XVII. Più lento - 460-469
XVIII. Molto gaio e mosso assai - 470-496
XIX. Un poco meno mosso (sempre vivace) - 497-502 - 503-510 R. (a 4)
XX. Ancora un poco meno mosso - 511-513
Ritenuto - 514-521
È una forma affatto inedita, interessante e personalissima, apparentabile per la repulsa dello sviluppo alle Impressioni dal vero e alle Pause del silenzio, ma certo esplicativa di una più radicale disposizione improvvisativa che poi informerà qualche altra opera successiva.[3] Altrettanto interessante e personalissimo il trattamento degli strumenti ad arco, forse anzi quanto più colpisce all'ascolto. Lo sprigionarsi di una materia sonora costituita dallo sfruttamento delle corde vuote (ch'è poi quanto fa dire al Malipiero che l'opera non si può che realizzare con la formazione dì quattro archi) è l'elemento fondamentale, che s'irraggia all'intera composizione determinando la qualità sonora, quella luminosità assoluta che fissa ogni carattere, sia quelli brillanti e quasi comici, sia quelli ironici, come pure quelli di tenera espressività e, persino, un po' tristi. La luminosità s'espande dal ricorrere frequente, e non solo relativamente ai ritorni dello spunto ritmo-melodico fondamentale, dei bicordi di quinta, dalle molte sovrapposizioni di più quinte, ora disposti in sprazzi sonori rapidissimi che serpeggiano tra i vari strumenti, ora invece utilizzati come pedali tenuti o ritmicamente scanditi nelle diverse voci.
S'aggiunga poi un altro tipico elemento che consiste nell'utilizzo delle zone acute e sovracute degli strumenti, specie dei violini, anche da ciò derivando un senso di chiarore frequente. Inoltre il combinarsi dei vari strumenti in zone particolari e con procedimenti figurali di rara felicità, determina a sua volta una sonorità autonoma, affatto malipieriana. Specialmente negli adagi spicca poi lo stile di canto» personalissimo quello che il D'Amico ha definito nel modo di «stornellante arabesco che è all'origine del canto malipieriano», ovvero «simbolo scoperto della sua estatica, immobile aspirazione alla musica come luogo incantato» e che si scioglie «senza perdere nulla della sua astratta bellezza, in melodia articolata».[4] Insomma tutto concorre a fare di Rispetti e strambotti un capolavoro, piccolo per dimensioni, ma prezioso. Esatta ci sembra l'osservazione di Bastianelli [5] che ammetteva come
a leggerla da sé, quella musica può sembrare nulla o poco. A sentirla eseguita a dovere, ne sprizzano felicità non dissimili - si guardi - da quelle provate nelle feste campestri, quando si miete, si spannocchia, si svina. O pure vi tremano accenni di malinconia lancinanti che solo un autentico ironista sa destare con quella sapienza cortese di chi molto spregiudicatamente irride, ma al momento opportuno dimostra d'aver più cuore di un sentimentalone di borghese che fa professione di buoni sentimenti ed è poi il più angusto egoista che ci sia.
Un discorso molto simile andrebbe riproposto per il successivo quartetto, anch'esso ispirato a forme dell'antica poesia italiana, come dice il titolo di Stornelli e ballate. Completato entro l'11 marzo 1923, questo secondo Quartetto si presenta con una struttura analoga a quella del precedente, ma dove si nota la tendenza dei singoli episodi ad ampliarsi e pertanto si ha una somma complessiva di sole quattordici strofe. Un tema eminentemente violinistico (proprio per il particolare uso delle corde vuote [6] ha carattere di ritornello, pur non ricorrendo con l'assiduità di quello immesso, in Rispetti e strambotti. Anche qui le caratteristiche armoniche, ad esempio il ricorrere delle quinte e delle loro sovrapposizioni, determinano un'atmosfera luminosa, come pure il senso dell'insieme tra l'arcaico e il moderno. Tuttavia v'è qualche procedimento cromatico più ricorrente. Ma v'è anche, per converso, il precisarsi di svariati elementi linguistici affatto malipieriani. E, tra questi, in particolare ci piace ricordare quelli che sostanziano il brano conclusivo, l'Allegro indicato come «rozzo», fortemente dissonante, tutto percorso da una ritmica che Malipiero ha fatto sua e che porterà avanti fino agli ultimi suoi anni. Nel complesso però Stornelli e ballate ci sembrano composizione minore della precedente, non tanto perché incapaci di procedere e perfezionare il già detto, che non corrisponderebbe a verità, quanto invece lavorati più nel dettaglio, più caparbiamente e pertanto un po' meno sinceri e accattivanti di Rispetti e strambotti che restano così, senza possibile smentita, la migliore espressione quartettistica - e tra le migliori cameristiche - del primo dopoguerra malipieriano.[7]
Altri importanti lavori malipieriani dell'immediato dopoguerra li individuiamo nella LIRICA CAMERISTICA. Qui troviamo la successione di Tre poesie di Poliziano, di Quattro sonetti del Burchiello, di Due sonetti del Berni, composti nel 1920-22, dunque in coincidenza con le opere che siamo andati esaminando.[8] Riferendosi alle tre raccolte, Malipiero stesso ha indicato una possibile lettura col dire [9] che esse costituiscono in tutto «nuove canzoni che discendono direttamente dalle Sette canzoni. Musica e parola, armonia e ritmo, qui vanno insieme, Si manifesta una specie di processo chimico appunto che genera la canzone, la quale può assumere centomila aspetti: può diventare persino una sinfonia in molti tempi».[10]
Il mondo delle Sette canzoni, il loro stile sembrano riflettersi in questa nuova serie di canzoni e sono, d'altra parte, quelli tipici malipieriani di questi anni. Lo stile fu subito definito, a suo tempo, antiromantico: sembra miracolosamente combinare gli esempi e le ragioni dell'antico madrigale, della primissima aria, del declamato arioso monteverdiano. Ovvero uno stile vocale - ma che, come già detto, non esclude l'assegnazione anche agli strumenti di un fraseggiare analogo - che Malipiero ha lentamente maturato con lo studio e la sperimentazione, a ciò indirizzato specialmente da quella sua sazietà per i linguaggi e i modi di esprimersi del passato più prossimo. Di qui la qualità stessa del suo rifarsi ad un'epoca classica, così diversa nelle motivazioni e nelle realizzazioni da quelle esercitazioni neoclassiche e estetizzanti di tanti musicisti a lui coetanei e successivi.
Più importanti ancora delle nove liriche [11] ci sembrano essere le quattro della raccolta intitolata Le stagioni italiche. Composte nel 1923 [12] esse hanno un significato preciso e facilmente rilevabile, e con il loro modo di combinarsi come quattro parti di un vasto poema musicale esplicano un valore spiccatissimo per l'uomo e l'artista Malipiero. Difatti «rappresentano un lungo e felicissimo viaggio attraverso la nostra poesia... Corrispondono a ciò che volevo trovare, ma in realtà sono la sintesi (termine che puntualmente ritorna nell'opera di Malipiero, n.d.r.) di centomila altre liriche che agitano e purificano, accendendo i lumi dello spirito». Per chiarire, diremo che i quattro testi possono davvero dirsi momenti di un'antologia poetica italiana come poteva preordinarla la sensibilità e la cultura del Malipiero.
La prima lirica è sul testo della Lauda per un morto del fiorentino Brunetto Latini, che Dante salutava come un maestro: è una specie di canzone e di preghiera allo stesso tempo, dove si succedono frasi ora ampie e ora brevissime. La seconda è sul testo di un anonimo Canto della neve, di cui è esplicativa l'estrazione dai Canti carnascialeschi, sufficiente a spiegare la predilezione del compositore veneziano: notevole il tono popolaresco che la distingue. La terza lirica è un Capriccio dell'arcade Francesco De Lemene, dall'espressività ora briosa e ora sentimentale, mentre l'ultima è il Ditirambo terzo (dell'estate) dalle Laudi dannunziane, svolto con fervido tono lirico-melodico. Per tale excursus poetico Malipiero ha dato fondo a un'inventiva davvero d'eccezione, dalla modernità linguistica indubbia, manifestando un gusto incisivo fatto di segni scabri ma intensi, di nervosa asciuttezza, come tipico della sua personalità. La qualità e la ricchezza inventiva hanno trovato in D'Amico un entusiasta ammiratore. Nell'augurarsi la messa a punto da parte di altri studiosi di tali aspetti e del loro confronto con le qualità di altre opere precedenti, il D'Amico [13] rilevava che la silloge Le stagioni italiche
sembra contenere in boccio tanti e tanto diversi motivi malipieriani, dai più antichi ai più recenti; e vale soprattutto per questo continuo lampeggiare di germi inventivi, che emerge con giovinezza temeraria da un ricchissimo gioco di prospettive, raggiunto dalla pura forza lirica delle trovate armoniche e dalla gagliardia inesauribile di un declamato onnipotente, anziché da un piano architettonico. Data la poetica del teatro malipieriano, nessun inconveniente a considerare le Stagioni una vera opera, in cui il divenire del dramma è sostituito dal misterioso saldarsi di tante illuminazioni diverse in un discorso unico.
Insomma, ancora una volta, il riflesso delle Sette canzoni, per certi versi come ingrandito da speciali giochi di riproiezioni e rilanci. A proposito dell'esame più approfondito - reclamato appunto da D'Amico -, le Stagioni italiche come pure le «nove canzoni» della trilogia Poliziano-Burchiello-Berni, restano ancora in attesa. E certo i motivi stimolanti per un'indagine approfondita non mancano. Si pensi ad esempio al manifestarsi del tema della morte nella prima delle Stagioni, da comparare con altre situazioni analoghe disseminate nei lavori precedenti e successivi, tutte insieme determinanti quello che abbiamo già indicato come il «lato nero» malipieriano.[14] E non sarebbe che uno degli elementi da inseguire nella produzione del musicista che attende ancora, per la parte strumentale e vocale-strumentale, quella analisi in profondità che il Santi ha invece compiuto per la produzione teatrale.
Un lavoro importante deve ritenersi il mistero per soli, coro e orchestra San Francesco d'Assisi composto da Malipiero nel 1920-21 (la data di compimento è il 25 maggio 1921, appunto). Sappiamo, intanto, trattarsi di un lavoro pensato originalmente per la realizzazione in teatro, ma che poi fu più frequentemente eseguito in sede concertistica.[15] Che la sua destinazione primigenia fosse la scena e che le sue caratteristiche siano sostanzialmente drammatiche lo riferiva l'autore stesso nel presentarlo al pubblico. [16] Affermava infatti che le quattro brevi scene che lo compongono, «quantunque siano la riproduzione plastica di quattro affreschi di Giotto,[17] non sono dal mio punto di vista, meno teatrali dei soliti melodrammi, nei quali le vicende drammatiche si spiegano, invece che per mezzo di ciò che vediamo, servendosi del recitativo».
In realtà, nel San Francesco non v'è ombra di recitativo, pur essendo l'espressione interamente assegnata alle voci, mentre la componente sinfonica si muove come uno sfondo di linee sobrie e compatte, integrative e sottolineatrici. L'inventiva melodica è qui contraddistinta dal movimento entro ambiti sonori limitati e dall'impiego di suoni reiterati nel modo di sillabazione. Va da sé il riferimento alle maniere salmodianti gregoriane, ma ricorrenti pure in altre, poco più tarde manifestazioni di canto religioso. Ma non si tratta, come appunto mai per Malipiero, di imitazioni o di volontà di restaurazione, semplicemente. Bensì il linguaggio nasce da naturali analogie, da accostamenti storici, da rimeditazioni stilistiche. Come dire è una conseguenza della stessa scelta tematica, così da indurre con piena legittimità alla rievocazione di un mondo sonoro remoto, molto più lontano nel tempo di quello che fino a quel momento Malipiero era andato rivisitando: il mondo, appunto, del gregoriano ma anche della lauda francescana. Ma va ancora una volta precisato, come altri ha fatto [18], che Malipiero, pur adottando di quel mondo sonoro arcaico la spoglia linearità e la spiccata flessibilità, insomma una semplicità melodica ma anche armonica che difficilmente si riconducono all'autore di Pantea, ha saputo sottrarsi una volta ancora «alla lusinga della loro suggestione, del loro pathos, della loro atmosfera, alla quale sarebbe stato così facile cedere in un'epoca di dannunzianesimi e di gregorianesimo imperanti». [19]
Passiamo ora a un'altra serie di composizioni malipieriane, le quali occupano gli anni tra il 1925 e il 1930 e che si possono appunto raggruppare insieme per svariate ragioni, come vedremo [20].

NOTE

[1] Non conosciamo la data esatta della prima esecuzione di Rispetti e strambotti. Lo stesso Malipiero nel Catalogo annotato, pag. 244, non la fornisce ma afferma che «quasi tutti i quartetti,[I - II] la Sonata a tre e la Sonata a cinque, sono stati eseguiti la prima volta nei Festivals Coolidge, in America o in Europa».

[2] Citiamo dal Catalogo, pag. 244.

[3] Ecco le prime battute del Quartetto, con la presentazione del gioco delle corde vuote, quasi prova d'intonazione, destinato ad avere un ruolo preciso e strutturante nel prosieguo del lavoro:


Alle misure 5-6, il disegno sarà ripreso dalla viola, quindi modificato e differenziato ritmicamente e in quanto a suoni del bicordo e affidato a viola e cello, darà il supporto ostinato allo slanciarsi del tripudiante motivo frigio (battute 7-11) intonato dai due violini.

[4] E pensiamo specialmente alle rapide e sintetiche Variazioni senza tema per pianoforte e orchestra, composte poco più tardi, nel 1923, presentate al Festival di Praga, nel maggio 1925. Le sette parti di questa composizione sinfonica, la migliore del periodo e tutt'affatto malipieriana (specie per il senso aspro della struttura armonica), hanno caratteri di variazioni ma senza che il musicista abbia sentito di dover esprimere un tema.

[5] F. D'Amico, Ragioni umane del primo Malipiero, in «La rassegna musicale», n. 2, 1942. Riproposto nell'Opera di G.F. Malipiero, pagg. 110-126. Il rilievo dello studioso è estensibile a tutte le migliori composizioni vocali e strumentali di quello stesso periodo.

[6] G. BASTIANELLI, G.F. Malipiero, op. cit., pag. 63.

[7] Si confronti il motivo degli Stornelli e ballate che riportiamo sotto con quello di Rispetti e strambotti riferito alla precedente nota [3]:


Altri due quartetti Malipiero li scrisse nel 1931 e nel 1934. Il primo esplicita anch'esso il riferimento all'antica musica italiana nel titolo, Cantari alla madrigalesca, ma nei confronti dei precedenti fa rilevare una maggiore ampiezza di struttura, con una divisione in due parti senza soluzione di continuità, dove si succedono sei episodi contrastanti, lenti e allegri, ciascuno di maggiore ampiezza che non quelli dei due quartetti precedenti. La massa architettonica è molto ben articolata e vi si spiega come un preludiare rapsodico, con un cantilenare ora melanconico e ora invece gaio. A proposito sempre di questo terzo Quartetto, ricordiamo che taluni studiosi, d'inclinazione tradizionalistica, hanno messo in risalto il suo «progredire artistico» rispetto ai precedenti, proprio in quanto dimostrativo della volontà di superamento della costruzione «musiva» di quelli. Tra quanti si espressero in tal senso citiamoil PANNAIN, con I Cantari alla madrigalesca, in «La rassegna musicale», n. 1, 1932, che si può rileggere nell'Opera di G.F. Malipiero, pagg. 68-70.
L'altra composizione per la formazione ad arco è detta semplicemente Quarto quartetto, senza alcuna altra indicazione, ma come i precedenti è dedicato anch'esso a «mrs. Elizabeth S. Coolidge». Diversa la struttura formale, poiché consta di un tempo solo, sullo schema della sinfonia all'italiana, cioè con due allegri che incorniciano un adagio. Vi si osserva così l'abbandono della forma a episodi concatenati, a favore di una costruzione che si suol considerare più solida, e in cui ricorrono talune idee musicali che ne assicurano l'unità (ma anche qui non v'è traccia di sviluppo tematico). L'Adagio centrale è intensamente lirico e perciò una novità nell'opera strumentale malipieriana. Pur avendo nel complesso una naturalezza considerevole e proponendo in più una chiusura davvero straordinaria per fattura e intensità, il Quarto quartetto va comunque considerato composizione inferiore rispetto alle precedenti. E così pure il quartetto Epodi e giambi, dei primi mesi del 1932, al cui attivo è però l'interessante formazione mista di archi (violino e viola) e fiati (oboe, fagotto). Formalmente prossimo ai quartetti, ha così un «suono» tutto proprio, semmai più vicino a quello della Sonata a cinque (1934).

[8] Le Tre poesie di Poliziano sono Inno a nostra Dama, L'eco, Ballata. I Quattro sonetti del Burchiello sono Cacio stillato, Va in mercato, Giorgin, Andando a uccellare, Rose spinose. I Due sonetti del Berni, infine, sono Chiome d'argento fine e Cancheri e beccafichi magri arrosto. Quest'ultima raccolta è una delle prime di Malipiero stampate da Ricordi (1922), mentre le altre apparvero, rispettivamente, presso la londinese Chester e il bolognese Bongiovanni.

[9] Citiamo sempre dal Catalogo, pag. 254.

[10] Evidente riferimento alla sua Settima sinfonia, appunto detta «delle canzoni», composta molto più tardi, nel 1948. Va precisato che Malipiero scriveva la frase citata nel testo nel 1952.

[11] Il DE PAOLI, in La crisi musicale italiana, op. cit., pagg. 94-95, dice l'intera raccolta di liriche «curioso saggio di "musica pura con parole": queste talvolta suggeriscono un'immagine musicale che serve di base alla composizione o ad un episodio di essa; più spesso servono al musicista come sostegno ritmico per l'articolazione della voce».

[12] Dopo essere apparse alla League of Composers di New York furono eseguite l'8 settembre 1925 alla Fenice di Venezia, nel contesto delle manifestazioni del Festival della SIMC. Le interpretarono il soprano Spinella Agostini e il pianista Alfredo Casella.

[13] Ancora dal Catalogo, pag. 255.

[14] F. D'Amico, art. cit. Il passo è ripreso da L'opera di G.F. Malipiero, pag. 121.

[15] Ancora il D'Amico, nell'articolo precitato, pag. 122, indica «la melodia-base di Pantea, e il Cantico del San Francesco ("...per sora nostra Morte corporale..."), e la prima delle Stagioni italiche, e il madrigale delle tre sorelle e il canto del pastore nel Merlino, e il pianto della madre e l'inno a Venezia nelle Aquile di Aquileia» come «i culmini del primo Malipiero», quelli in cui si manifesta in maniera spiccatissirna e poeticamente ineffabile il «senso della morte».
[16] Fu difatti eseguito alla Carnegie Hall di New York, il 29 marzo 1922, quindi riproposto in Italia, durante l'anno francescano, all'Augusteo di Roma, il 28 marzo 1926 - qui diretto dal Molinari. Soltanto nel settembre 1949 fu dato in versione scenica alla Sagra musicale umbra, sotto la direzione del Previtali.

[17] G.F. MALIPIFRO, prefazione all'edizione del suo Teatro, Milano, 1927, pag. 13.

[18] I quattro affreschi (e dunque le parti del mistero) a cui si riferisce sono Il gregge, La predica agli uccelli, La cena di S. Francesco e Santa Chiara, La morte di San Francesco.

[19] La citazione proviene ancora da P. SANTI, art. cit., pag. 43.

[20] Coincidono con la composizione malipieriana altri lavori che facevano ricorso alle melopee e alle modalità gregoriane. Cioè i 3 Preludi su melodie gregoriane per pianoforte e il Concerto gregoriano per violino e orchestra di Respighi, il Poema gregoriano, per pianoforte e orchestra diFrancesco Ticciati, come pure Debora e Jaele e la Messa da Requiem di Pizzetti - le cui attenzioni al gregoriano risalivano al tempo delle musiche per La nave (1908), come pure quelle del Respighi per il modalismo, almeno, trasparivano già nelle Fontane (1915).