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ROBERTO ZANETTI

IL PRIMO DOPOGUERRA
PRIMA PARTE

LA MUSICA ITALIANA
NEL NOVECENTO

pp. 688-702
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Ora possiamo addentrarci nell'esame delle singole produzioni, a cominciare da quella che riteniamo la più significativa, cioè quella malipieriana.[0] Dopo le premesse studiate nei capitoli precedenti e le importantissime affermazioni compositive dell'anteguerra e degli anni di guerra, le due serie di Impressioni dal vero e le Pause del silenzio, da una parte, il dramma sinfonico Pantea [1], dall'altra, Malipiero [2] mette a segno negli anni 1920-23 diversi lavori di enorme rilievo e che vanno ritenuti tra i suoi più originali e decisivi contributi al divenire della storia musicale. Si pensi al significato che assumeranno le Sette canzoni nel teatro musicale o a quello di Rispetti e strambotti nella musica cameristica, nella letteratura quartettistica. Si tratta di una nuova concezione del fare teatro e del fare musica, di cui non si può non tener conto nel tracciare il panorama musicale internazionale novecentesco. A questa nuova concezione del fare teatro e del far musica Malipiero applica il suo linguaggio ormai maturo e personalissimo, le cui componenti riteniamo siano da richiamare qui facendo ricorso ai più importanti studi scritti in materia. Anzitutto il melodismo malipieriano, dai tratti tipici, inconfondibili. Secondo il Gatti [3]
a volte, all'influenza del melodizzare classico si aggiunge quella del canto liturgico, ed in particolare modo del melisma: ma questo il musicista riallaccia con appropriato innesto al canto popolare, e per esso acquista una capacità espressiva che lo diversifica nettamente dal puro arabesco sonoro. Caratteristica della melodia di Malipiero è per l'appunto questa affinità melismatica nel senso più vasto: essa, cioè, non si adorna di fioriture ornamentali che aureolano questa o quella delle sue note nei punti di cadenza e di concentrazione emotiva, ma si distende lungo un'ampia linea che ritorna più volte sulla stessa nota, tenendo fisse una o due note di attrazione, come perni attorno ai quali l'organismo melodico si sviluppa liberamente... Con temi siffatti Malipiero impronta la sua composizione e, in apparenza ossequiente a quel principio modernissimo che va sotto il nome di ellittismo, in realtà obbedendo ad una sua particolare necessità interiore, non si cura di svilupparli: se li ripete, lo fa a volte quasi senza variare l'ambientazione armonica, quasi sempre senza variarli affatto. Conseguenza di ciò è la simpatia del compositore per un tipo di suite, qualche cosa come una successione di pannelli di cui ciascuno vuole avere un carattere ben definito, a volte in prosieguo di quello dei quadretti attigui, più spesso contrastante.
Importantissimo l'accenno conclusivo alla tecnica compositiva«a pannelli», che già abbiamo individuato nelle composizioni precedenti al 1919-20 e che per Malipiero ha significato l'emancipazione dai modi di sviluppo tradizionali [4]. Sempre riferendosi al melodismo malipieriano, va ricordato quanto scritto dal Prunières [5]. E cioè l'osservazione che Malipiero
ama la grande frase melodica della tradizione italiana, non l'aria d'opera ma il canto espressivo e possente dei contadini e dei pescatori. Le sue melodie richiamano anche quelle dei vecchi maestri del XVII secolo, che egli predilige fra tutti. Un curioso equilibrio si stabilisce tra la sua sensibilità d'artista moderno che conosce Debussy e Stravinski e la sua cultura di musicista avvinto dal passato e che non può rassegnarsi a considerare Monteverdi e Luigi Rossi come dei morti. Impiegando i procedimenti armonici più audaci del suo tempo, egli resta sotto certi aspetti un maestro del XVII secolo.
Il che parrebbe un paradosso, quando non si pensi alla discendenza monteverdiana di certo suo declamato arioso, con forme melodiche più floride, e specialmente ricco nelle dimensioni strumentali. Esatto l'accenno alla modernità armonica, che davvero fa di Malipiero uno dei musicisti all'avanguardia del primo dopoguerra, specialmente in Italia dove iniziano i ripiegamenti su posizioni più tradizionali - primo fra tutti, nel corso degli anni Venti, il Casella. Modernissima ma affatto personale la concezione armonica del Malipiero, dunque. Come già sottolineava il Casella: [6]
L'armonia di Malipiero rappresenta una posizione di totale indipendenza paragonata alle varie espressioni europee... Se anche egli ha conosciuto ed approfondito Schönberg, nulla è penetrato nella sua arte (della dodecafonia propriamente detta). [7] Nei riguardi di Debussy e di Ravel, la sua armonia è altrettanto indipendente, non basandosi essa mai sulle none dominanti maggiori e nemmeno sull'undicesimo armonico. E se anche questa musica pratica correntemente la compenetrazione di varie tonalità, rimane però sostanzialmente diversa da qualsiasi Stravinski.
Casella poi esemplifica la concezione armonica del veneziano e il suo allargamento del senso tonale mediante il sempre più frequente uso dei modi antichi (dorico, ipodorico, frigio e misolidio), precisando che con ciò egli si è avvicinato a vari altri compositori, i russi, come pure Debussy e Ravel e Pizzetti, ma senza mai tralignare da una sua inconfondibile procedura armonica. Anche perché, continua il Casella,
il maestro veneziano riesce soprattutto a creare una nuova atmosfera tonale con continui contrasti ed urti fra modalità e gravitazioni tonali divergenti, determinando così un'incertezza tonale, una instabilità modale, che costituisce uno dei lati più potentemente originali di quell'arte.
E afferma poi, perentoriamente e esattamente, che tale concezione armonica «è essenzialmente antiromantica», in quanto priva di ogni residuo cromatico ottocentesco. Nulla vi resta pure dell'armonistica impressionista francese. Ricorrente invece l'uso di accordi per quarte sovrapposte, artificio - soggiunge il Casella - a cui il veneziano ha dato «un'intensità espressiva come forse non ha saputo raggiungere nessun altro maestro». Prevale, dunque, un gusto per la dissonanza, per lo scontro sonoro anche duro, per le opposizioni di agglomerati accordali contigui e di piani tonali contrastanti. Sullo stimolo dell'inventiva melodica, che resta l'elemento emergente, si susseguono situazioni armoniche concepite con la massima libertà, senza vincoli di sorta, ma soltanto dettate dalla necessità di stabilire quello che è stato definito «un grigio, umbratile, 'monotono' discorso in termini arcaizzanti: ma di un arcaismo inquieto, dolce e disperato insieme, che rifiuta di rapprendersi in sagomate strutture neoclassiche». [8] Situazioni armoniche dissonanti, s'è detto, ma anche improvvisi momenti di distensione, apparizioni improvvise di ben definite o sfumate zone tonali, talora con senso - come dire - fantomatico e talora, invece, catartico.[9]
Riaccostandoci alla produzione malipieriana nel suo procedere cronologico e per generi, affrontiamo subito quelle Sette canzoni, seconda parte dell'Orfeide, con cui si apre la prima fase del teatro malipieriano vero e proprio, nella quale via via si iscriveranno le Tre commedie goldoniane, Filomela e l'Infatuato, Merlino mastro d'organi, Il mistero di Venezia, Torneo notturno, Il festino [10]. Una serie di lavori brevi, sintetici, in un atto generalmente, magari raccolti in trittici, ciascuno formante un intero spettacolo (le Commedie e Il mistero di Venezia),[11] o, come nel caso dell'Orfeide, «un'opera sola in tre parti» le quali «possono anche conservare la loro indipendenza». [12] Proprio dall'Orfeide occorre muoversi e anzitutto, definire la sua parte centrale, le Sette canzoni, in realtà la prima ad essere composta tra la fine del 1918 e il febbraio 1919, come uno dei primi lavori postbellici del musicista, unitamente proprio al «balletto» Pantea, suggerito dall'angosciosa partecipazione agli eventi della guerra.
Se Pantea aveva assunto per il compositore veneziano significato di rifiuto dell'opera in musica, del teatro vissuto mediante la vocalità, del concetto stesso, insomma, di «libretto», le Sette canzoni hanno funzione di riaccostare Malipiero a tutto ciò, ma evidentemente non prima di aver ripensato e riformulato ogni singolo elemento. Significativa già l'indicazione di «sette espressioni drammatiche»: non dramma ma espressioni di dramma, i cui diversi spunti sono derivati da «sette episodi da me vissuti e che ho creduto di poter tradurre musicalmente senza contraddire me stesso». Così il Malipiero [13] che dettagliatamente riferisce poi quelle esperienze vissute a Venezia, a Roma e altrove, e aventi come comune denominatore - poi accentuato nella realizzazione drammatico-musicale - il contrasto netto, stridente, tra la realtà e gli atti di uomini che quella realtà non avvertono o ignorano, in modo da determinare una successione di sette duri urti drammatici.[14] Ne è derivato così un «libretto» e poi un lavoro drammatico-musicale assolutamente sganciato dalla tradizione per sostanza e per forma, dai personaggi ridotti a pure allegorie, personaggi senza storia che s'esplicano e si bruciano in una breve scena musicale, nel volgere di una canzone, appunto. Ai congegni preordinati, cari per secoli al teatro in musica, si sostituisce un nuovo modo di essere e di divenire della materia teatrale, come disposta su «pannelli», tra loro contrastanti, che si succedono in modo incessante, in un incalzare continuo di immagini visive e sonore diverse. Ma un riaggancio al passato è evidente, quello all'antica poesia italiana, come riferiscono i testi assunti, ricavati da antichi poeti popolareschi, da Jacopone, da Poliziano, da Lorenzo il Magnifico e altri non meno significativi.
Il fine è quello di risuscitare ritmi e espressioni perdute, in accoppiata appunto con quello di ricerca di un modo autentico di fare teatro sottraendolo ai canoni estetici e al retaggio drammatico-musicale di secoli d'«operismo», dalla storia e dalle forme melodrammatiche. Esplicativo di tutto ciò risulta già la messa al bando del recitativo («più che sazietà per l'opera... fu antipatia per quell'assurdo chiamato 'recitativo'», preciserà Malipiero [15]), e, per converso, la scelta della canzone come forma fondamentale. Quella «canzone» dichiarata dal titolo stesso e simbolicamente raffigurata negli interventi d'apertura e di chiusura assegnati a due personaggi analoghi, il Cantastorie e il Lampionaio, i quali appunto intonano la medesima canzone,«La mi tenne la staffa...», così accentuandone enormemente il rilievo e dandole ruolo protagonistico. [16] Le Sette canzoni sono, pertanto, qualcosa d'altro dal teatro consueto. Risultano sganciate completamente dal teatro fatto di episodi musicalmente definiti, drammaticamente incanalati nelle successioni formali di recitativo e aria, di scena e aria, duetto, concertato, come tipiche del Sette-Ottocento. E così pure da quello dove dramma e musica procedono in modo continuo sempre però differenziando le zone d'«azione»da quelle liriche, come in tanta produzione tardo-ottocentesca e dunque anche verista. Ciascuna delle sette canzoni è in sé isolata, come un «pannello» autosufficiente, sorta di tableau vivant saldamente concatenato al successivo per il fluire incessante della musica e per la scelta, appunto, di quell'unica forma musicale-drammatica, che è la canzone. In modo che - s'è rilevato [17] «l'azione drammatica nasce e si sviluppa col nascere e lo svilupparsi della costruzione musicale».
Ripudiato il recitativo, e così eliminato il contrasto insito nel procedere da forme recitative a forme liriche, il divenire delle Sette canzoni è tutto determinato dallo stretto affiancarsi di«situazioni colte nel momento della loro piena maturazione senza che sia dato di assistere al loro germogliare od al loro svilupparsi».[18]
La musica è profondamente, intimamente coerente nel suo sviluppo. Come in un seguito di canzoni, melodicamente si succedono i brevi flash di vita colta dal vero e sublimata. È stato osservato giustamente dal Santi, [19] che
in ciascuno dei sette episodi la canzone gioca un ruolo di protagonista non tanto in funzione di se stessa, quanto del momento ineffabile evocato dal suo diffondersi dentro un ambiente e dentro una situazione. In ciascuna delle sette canzoni vien colta un'intuizione poetica istantanea di una particolare circostanza sonora... Le sette canzoni hanno prima di tutto un significato vitale, sono un'eco di quell'intimità esistenziale in cui convergono tutti i nostri ricordi e tutte le nostre immagini per confondersi e nuovamente diffondersi nel regno della fantasia. Ogni canzone è una traccia del vissuto, non delle cose e dei fatti vissuti, che sono irrimediabilmente perduti, ma di quanto attraverso ad essi fu dato e ancora si mantiene e si esercita nel loro ricordo: l'umano esperire, l'esperienza di allora e di sempre, che in loro nome si è consumata e ancora si consuma.
Opportuno aggiungere che tale esperienza non è soltanto di Malipiero, compiuta da lui ed esaurita in lui, nel modo che egli stesso ha ricordato. Ma è esperienza sua e di ogni uomo, da lui mediata a chiunque assista al suo lavoro,
perché quel «cieco abbandonato nelle tenebre», quella «donna che cerca conforto nella preghiera», quella«madre in preda al dolore», quella «fanciulla che nel raccoglimento della veglia funebre lotta per non udire il canto dell'innamorato», ecc., sono ormai... dei «personaggi anonimi», che nella musica hanno trovato la loro sublimazione, hanno trasceso l'occasione autobiografica e sono diventati veramente universali, disponibili alla nostra memoria e al nostro mondo interiore.
S'è insistito, più sopra, sul concetto dei «pannelli» contrastanti disposti nelle Sette canzoni. Vi si colgono difatti precisi ed efficaci contrasti espressivi, che è bene precisare. Intanto la canzone d'apertura, I vagabondi, e così pure la quinta, La serenata, risultano essere fondamentalmente «tetre», secondo l'opinione stessa del Malipiero. Per contro «la seconda è sarcastica, la terza drammatica, la quarta buffa, la sesta grottesca, la settima ironica».[20] Il clima scuro, lugubre della prima e della quinta - secondo l'autore - era anche dovuto al fatto che furono scritte nel 1918, «in una lugubre pensione romana», sotto la forte impressione del disastro di Caporetto. Pur senza indulgere nelle singole definizioni e fermo mantenendo il concetto dei forti e funzionali contrasti tra i singoli quadri, possiamo senz'altro accreditare alle Sette canzoni un tono generale espressivo singolarissimo: [21]
la loro segreta malinconia, ancora disposta, nelle Sette canzoni, a sfumare nella propria vaghezza figure e contorni, a librarsi nell'elegia, ad effondersi dolorante, ad accendersi nel grottesco, a compiacersi nel macabro, destinata col tempo a rinchiudersi su se stessa, più sorda ed implacabile:«sotterraneo murmure di malinconia», come mirabilmente la definirà Bontempelli. [22]
Dunque un'opera pessimistica, nella quale si riflette l'umor tipico che Malipiero già aveva espresso in altri lavori, in Pantea, anzitutto, ma anche nelle Pause del silenzio o nei Poemetti lunari, e che poi tornerà frequentemente in seguito, guadagnando la sua migliore espressione nel Torneo notturno, che è poi il culmine dell'intera prima fase produttiva malipieriana. È un sentimento pessimistico che ha dato ampia materia di discussione negli anni Venti e Trenta, per trovare poi la definizione più acuta in D'Amico, che in più l'ha commisurato con quello di un altro grande protagonista della cultura italiana della prima metà del Novecento, Luigi Pirandello. [23] Di quel pessimismo riferisce l'intera angolazione dei sette episodi e, specialmente, quell'ultimo quadro, L'alba delle ceneri, che porta come all'incontro-scontro delle due mascherate, al decadere del tempo di carnevale, con i gaudenti che sciamano delibando gli ultimi istanti spensierati e il carro della morte che sinistramente annuncia il tempo della penitenza. Sbalza così il senso della precarietà della vita, della caducità delle cose e dell'esistere, che tutto condiziona. Sbalza quell'ossessione della morte, quel sottile, insopprimibile e spesso insopportabile malessere esistenziale che talora ghermisce l'uomo, e che certamente ha attanagliato Malipiero in maniera ben diversa dagli altri suoi compagni di strada. Lo dimostra il fatto che tale elemento è molto ricorrente nel suo teatro. Dove - s'è osservato [24] - è
suggerito indirettamente dalla forma e dal contenuto dell'opera, dietro i quali esso si avverte, o direttamente significato nel simbolo, nell'allegoria; vale a dire, o interpretato dal sentimento nelle immagini musicali e rappresentative che lo celano dietro la loro apparenza estetica, oppure dichiarato simbolicamente. Il primo è il caso delle Sette canzoni, delle Tre commedie goldoniane, del Mistero di Venezia; il secondo quello di Pantea, di Filomela e l'Infatuato, di Merlino mastro d'organi. Fatti e personaggi, comunque, nel teatro del primo Malipiero, sono veramente vivi non per sé, anche quando ciò più sembri ma per qualcos'altro che li trascende: «tutte le sue figure potrebbero portare la maschera», ha acutamente avvertito lo Stuckenschmidt. [25]
Proprio il mondo delle maschere sfila sulla scena della prima parte del trittico, quella Morte delle maschere che, in realtà, fu l'ultima ad essere concepita, nel 1921, appunto terminata il 15 gennaio 1922. Le maschere della commedia dell'arte sono assunte in quanto emblematiche del passato, di un teatro fatto di schemi tradizionali: l'uomo mascherato, che improvvisamente irrompe a por termine alle loro esibizioni e che decreta la loro morte, è appunto assertore del rinnovamento radicale, che sarà possibile grazie ai nuovi personaggi presi dalla vita. E questi personaggi sono appunto quelli delle Sette canzoni,[26] ai quali l'uomo mascherato, alias Orfeo, dice:«Bravi! Grazie! Tutti avete risposto all'appello di Orfeo, che vi ha qui riuniti per annunziarvi la «morte delle maschere» e per invitarvi a cantare, come già cantavate al di là di quella porta, nelle vie, nelle vostre case, nelle chiese: quella porta ora non vi deve dividere dalla vita». [27]
Così i personaggi delle Sette canzoni, anzi le stesse canzoni in cui si rapprendono le loro esperienze esistenziali, sfilano gli uni dopo gli altri bruciando nell'intensa vampata melodica la loro brevissima vita. La conclusione del trittico, cioè l'Orfeo ovvero l'ottava canzone - composta rapidamente entro il 14 giugno 1920 -, finisce invece per essere «una satira sulla indifferenza, sull'incomprensione o sullo sterile entusiasmo constatati al primo contatto col pubblico di vari paesi delle Sette canzoni». [28] O, per meglio precisare, una nuova manifestazione del pessimismo malipieriano, che non gli consente di intravvedere soluzione possibile al contrasto tra teatro e realtà, poiché i tentativi per svincolare quello dagli schemi tradizionali non sortiscono gli effetti sperati presso il pubblico: lo stesso uomo mascherato, ormai dichiaratosi Orfeo, sembra ripiegare su modi espressivi e formali meno desueti. L'effetto che ottiene è quello di far addormentare il pubblico, cosa a lui ormai indifferente ma che, addirittura, volge a proprio favore (fuggendo appunto con la regina, sola a sentire il fascino del suo canto).» [29]
Da ultimo è opportuno precisare che l'esperienza delle Sette canzoni, con la repulsa del recitativo per esaltare la canzone come disposizione formale-espressiva e attimo di vita intensa rappresa ai livelli lirico-drammatici più elevati e significanti, risulta essere un'esperienza indubbiamente irripetibile. Tale ce la dichiara l'esame dell'intero trittico, cioè di quelle parti create espressamente con la funzione di incorniciarle. La canzone, cioè, resta protagonista anche di tali episodi, pur non potendo opporsi al ritorno del recitativo. Uno scorrevole«parlando»spunta di quando in quando nella Morte delle maschere e nell'Orfeo. È un recitativo inteso in modo molto personale, dal taglio sintetico, dal procedere essenziale, tale insomma da non farsi elemento di disturbo o di contrasto nello sviluppo a canzoni. Così la costruzione dell'intera Orfeide è determinata da «diciannove canzoni», mentre «cinque sono i recitativi parlati (due di Orfeo e tre, brevissimi, di Nerone)» [30]. Ma non è certo una particolare attitudine critica quella che può far dire che delle diciannove canzoni segnatamente le sette della parte centrale hanno una coerenza superiore, una ricchezza di immaginazione e una felicità d'espressione particolari, insomma una bellezza assolutamente straordinaria.[31]
Pur non potendosi negare efficacia, ad esempio, alle singole canzoni delle maschere, nella prima parte, ciascuna pensata melodicamente con speciale riferimento all'esprimersi dialettale dei diversi personaggi, i cui dati caratteristici sono colti da precisi tratti vocali con grande gusto e sottile ironia. E d'altra parte un canto dolcissimo, massimamente cattivante è quello stesso che Orfeo intona nell'Ottava canzone: un canto, sotto più aspetti, che ricorre ai mezzi dell'arte che proprio Orfeo nella prima parte del trittico aveva condannata. È il segno di una satira amara, un elemento duramente polemico, nel quale è simboleggiato come il destino di chi non crede davvero, fervidamente e completamente al rinnovamento dell'arte, della musica come annunciato dalle Sette canzoni, ma è invece pronto a soluzioni d'accatto, a compromissioni, insomma a sedurre la regina per togliersi dal fallimento pratico che l'arte nuova ha incontrato.
Appartenenti allo stesso momento creativo dell'Orfeide, le Tre commedie goldoniane [32] svelano subito la loro netta differenziazione da quella (e specie dalle Sette canzoni, che abbiamo appreso essere il meglio della trilogia precitata). Tali differenze possono dirsi di genere, come di architettura musicale e di stile. Intanto, per dirla col Bastianelli, sono «tre particole di opere comiche di ultra-raffinato buongusto». [33] Secondariamente esse - a differenza delle Sette canzoni e del più tardo Torneo notturno - nascono dall'osservazione di un mondo esterno, non dall'esperienza esistenziale del compositore medesimo. In quanto ad architettura musicale, poi, questa si attua mediante un ridotto numero di «canzoni», ovvero di momenti lirici, rispetto al precedente trittico, per lasciar spazio al rilancio del recitativo. [34] «Questo ritorno del recitativo parlato (timidamente avanzato, s'è visto, già nelle due parti esterne dell'Orfeide) è quanto più sorprende delle Commedie, e così l'elemento che le distingue stilisticamente. Vi sono certo motivazioni precise per questa scelta, intanto nel fatto che nelle Commedie Malipiero deve adeguarsi a esigenze preesistenti, implicite nei lavori goldoniani e nella definizione di una realtà oggettiva. È questa appunto la Venezia ideale del commediografo settecentesco, che Malipiero intende rivisitare come per trovar riparo dalle intemperie che infuriavano tutt'intorno negli anni 1915-1922, costringendolo a vagare lontano, «da albergo in albergo, senza tetto». [35] Rispunta così, dopo il Sogno d'un tramonto d'autunno, il fascino di Venezia e la nostalgia di Malipiero per la sua città. Venezia diviene, da questo momento, come un mito per lui e tale resterà sempre, intrecciandosi e combinandosi con quell'altro fortissimo mito della classicità. E come questo il mito di Venezia troverà modo di manifestarsi frequentemente, come testimoniano nella fattispecie Il finto Arlecchino, Le aquile di Aquileia, I corvi di San Marco, Il festino, per non dire poi di altri lavori più tardi e dove magari quel mito non è altrettanto nettamente dichiarato nelle intitolazioni. [36] Pur ridotto all'essenziale il recitativo nelle Commedie è ricorrente in modo tale da renderlo predominante.
Così recitativi e brevi canzoni sembrano fungere come da alleggerimento del discorso sinfonico che è parecchio intenso, ricco di motivi tematici che talvolta si assumono compiti conduttori, aderendo pur sempre con libertà e spontaneità a personaggi e situazioni, al punto da aver fatto definire da qualcuno il divenire dell'intero lavoro come assimilabile a quello della «commedia lirica» del teatro musicale naturalistico. Rilevare ciò comporta però un grosso rischio e la possibilità d'essere equivocati: ovvero il lettore potrebbe pensare che le Commedie goldoniane siano l'esatto contraltare, addirittura la palinodia delle Sette canzoni, che resterebbero pertanto un semplice episodio, una proposta «rivoluzionaria» subito rientrata. Nulla di più erroneo, ché nelle Commedie, con le debite correzioni e anche con profondi mutamenti, prosegue l'esperienza precedente. [37] Basti pensare che non si tratta di una riduzione delle diverse commedie originali goldoniane a libretto, bensì di vere e proprie reinvenzioni sulla linea di quelle e da quelle stimolate, tenendo l'occhio fisso su tipi come Don Marzio, Sior Todaro e Isidoro, tipi che Malipiero aveva visto frequentemente nella sua Venezia e dei quali intendeva rievocare e fissare la«naturale musicalità». Ma lasciamo la parola al Santi che ha illuminato con la consueta acutezza la realtà drammatica del lavoro, al punto da rendere vana una puntualizzazione ulteriore. Scrive lo studioso malipieriano: [38]
eppure basta avere assistito ad una rappresentazione (delle Tre commedie goldoniane, n.d.r.) per convincersi come esse siano le mille miglia lontane da ogni modello convenzionale. Nel breve spazio di ciascun atto vediamo snodarsi in sintesi l'intera vicenda di una famosa commedia di Goldoni. L'azione è perciò rapidissima, i fatti incalzano uno dietro all'altro senza lasciar respiro, i discorsi sono ridotti al minimo necessario per permettere di seguire il filo della commedia. [39]
Si tratta insomma, anche qui, di sintesi, come sintesi erano le sette espressioni drammatiche precedenti. Lo stesso Malipiero ha indicato la maniera in cui tali sintesi si realizzano. Scriveva, infatti, nel 1922 [40] che
gli attori cantano quando la situazione lo richiede, tacciono quando il loro silenzio ha significato drammatico, e non ho esitato di adottare personaggi muti (che saranno sempre presenti nella migliore produzione malipieriana, n.d.r.), o di far loro dire anche solo sette parole (come è il caso di Titta-Nane nelle Baruffe chiozzotte) quando, per ragioni drammatiche o musicali, mi è sembrato inutile, se non dannoso, farli parlare di più. Ne è risultato un'azione sintetica che non si deve però esaminare col microscopio.
È un invito da non ignorare, ché si cercherebbe invano qualche procedimento convenzionale delle versioni in libretto per musica di preesistenti lavori teatrali. Pur procedendo sul filo delle singole commedie goldoniane, non v'è certo impegno a puntualizzare i singoli personaggi così come non v'è quello di ricreare l'articolazione di ciascun fatto drammatico. Al contrario, più che la psicologia individuale, realistica, del personaggio, interessa al Malipiero il clima, l'ambiente veneziano, che appunto ama ricreare nel modo di un ricordo di pungente malinconia. Precisava difatti egli stesso, nel presentare i suoi lavori, che «nell'insieme le Tre commedie goldoniane rappresentano il viaggio tra calli, rii, campi, palazzi e nelle lagune di un musicista veneziano che si è lasciato condurre per mano da Carlo Goldoni».
Di conseguenza gli preme creare dei tipi, diciamo così, «universali», ma profondamente veneziani. Dei tipi cioè che possono dirsi «universali» come quelli delle Sette canzoni, ai quali appunto si riaccostano, pur mantenendo una loro autonomia, che potremmo dire tutta conseguente alla rievocazione della Venezia ideale.
La soluzione drammatica adottata nelle Commedie goldoniane deve ritenersi altrettanto rivoluzionaria di quella delle Sette canzoni e si riflette puntualmente e immancabilmente nel linguaggio, nello stile che Malipiero utilizza. Così il recitativo parlato, innestato sul tessuto sinfonico, nasce da precise motivazioni drammatico-musicali e si costruisce con altrettanto precise ragioni musicali. Quasi «stilizzazione musicale del parlare comune», [41] tali recitativi parlati (cioè soltanto intonati) hanno il pregio di ottenere - come ha sottolineato il Rossi-Doria [42] - un
ottimo effetto musicale, effetto che oserei paragonare, con le debite distinzioni, a quello di brevi«cadenze»di soli e che serve al proprio compito drammatico mercé il timbro particolare della voce di questo e di quel personaggio. La divertente insistenza di Don Marzio: «Posso offrirvi quattro castagne secche?» ed il piagnisteo di Placida: «Fate la carità alla povera pellegrina!», nella Bottega da caffè, moltissime «battute» di Sior Todaro nel Brontolon e altri cento esempi possono darne l'idea. I recitativi serpeggiano così nell'opera come le cadenze nel concerto, diradando qua e là il tessuto sinfonico, contrapponendosi ad esso, rialzandone i toni in virtù della loro agile leggerezza e della diversità del loro timbro, ma in nessun momento deviando e intralciando il fluire concitato del torrente musicale che va balzando dall'uno all'altro piano, espandendosi o precipitando secondo la sua propria esclusiva volontà.
Da qui ha proceduto poi il Santi [43] nell'osservare che
sono la vivacità, il ritmo, l'incalzare del recitativo a fornire, nelle Commedie, i metri dei discorso musicale, e l'orchestra vi si adegua altrettanto petulante, ricca di interiezioni e di ammiccamenti, quali le rapide pennellate di un paesaggio veneziano ritratto da De Pisis, interferendo di continuo, ma lasciando emergere perfettamente comprensibili le parole. Quel che è più interessante è che il recitativo, con tutta la sua nonchalance, non costituisce qualcosa di aggiuntivo entro il discorso musicale, ma la sua sostanza effettiva. Si direbbe invertito il rapporto tradizionale, e che sia il recitativo a sorreggere l'andamento sinfonico invece che l'opposto.
A tale riguardo le Commedie goldoniane giungono a rivelarci una nuova e importante caratteristica del teatro malipieriano, che si porrà sempre più in evidenza col passare del tempo: voglio dire la tendenza del discorso sinfonico ad uniformarsi alla vocalità, ad assumerne non solo l'aspetto cantabile, ma la melodica e persino i temi che incidentalmente vi si generano. Molti dei temi e degli incisi delle Commedie hanno difatti simile origine, essendo nati dalla battuta o dall'esclamazione di un personaggio.
La valutazione delle Tre commedie è da sempre stata pienamente positiva, del tipo cioè di quella riservata alle precedenti, e sole (nel trittico), Sette canzoni. Il Prunières, ad esempio, [44] ha dichiarato senza mezzi termini che le Commedie gli apparivano come «l'opera la più completa e più coerentemente sviluppata di Malipiero; non capisco - proseguiva - perché nessuna scena lirica importante l'abbia finora programmata, li successo sarebbe certo, anche presso il grande pubblico. Ci si stupirà in futuro che i Direttori abbiano messo tanto tempo a scoprirlo». [45]
Un giudizio radicalizzato dal De Paoli, e non sapremmo contestarglielo. Per lo studioso italiano, infatti,[46]
le commedie goldoniane sono uno dei pochi esempi«d'opera comica» veramente moderna apparsi nel teatro italiano di questo quarto di secolo. Forma nuova, espressa con un linguaggio originale, che, attraverso la novità, lascia vedere il riallacciamento con una tradizione ben nostra. Le Commedie goldoniane rappresentano anche - nel teatro - il primo saggio d'una musica di derivazione (non di origine) popolaresca, senza che il compositore si senta in dovere di scrivere«imitando lo stile popolare.
Delle tre parti che compongono il lavoro goldoniano, le due esterne sono abbastanza affini. Hanno vita musicale vivacissima, movimentata, ritmicamente alacre, gradazioni sonore esuberanti. La parte centrale presenta invece una scrittura musicale più semplice, più lineare e scorrevole. La parola vi acquisisce spicco maggiore, si realizza con modi più vivi e sinuosi, con fare più melodico, e proprio per tutto ciò domina decisamente sul discorso sinfonico. Sempre questa parte centrale ha una forma singolare, è tagliata cioè esattamente in due da un intermezzo, che Malipiero dice classicamente «sinfonia», con la funzione di separare i due diversi momenti drammatici. Specialmente per questo Sior Todaro brontolon si può parlare di derivazione dal modello dell'opera comica veneziana, alla Galuppi, insomma, piuttosto che da quella contemporanea napoletana. Ed è un elemento d'interesse in più, con il quale si qualifica ulteriormente il narrare malipieriano della sua Venezia ideale.
Visti i significati e i valori dell'Orfeide, e delle Commedie, avanti di procedere nel divenire del teatro malipieriano, spostiamo l'attenzione sulle altre composizioni del primissimo dopoguerra. E anzitutto su Rispetti e strambotti, ovvero il primo quartetto per archi, composto nel 1919-20 (la data di completamento è«aprile 1920»), vincitore nel 1920 del Premio Coolidge.[47]

NOTE

[0] I più importanti contributi storico-analitici dedicati alla produzione di Malipiero sono i seguenti lavori collettivi: Malipiero e le sue «Sette canzoni», con scritti di Alfano, Casella, Castelnuovo-Tedesco, Cilea, Gui, Labroca, Lualdi, Marinetti, Mulè, Nordio, Pratella, Rossi-Doria, Toni, Veretti, Zuelli, Milano-Roma, 1929; n. spec. de «La rassegna musicale», n. 2-3, febbraio-marzo 1942 (con scritti di Bontempelli, Pizzetti, D'Amico, Rossi-Doria, Casella, Colacicchi, Labroca, De Paoli, Della Corte, Piovesan); L'opera di G.F. Malipiero, con il Catalogo annotato dello stesso Malipiero, Treviso, 1952; n. spec. de «L'approdo
musicale», n. 9, gennaio-marzo 1960 (con scritti di C. Rostand, Santi, Mila, Barblan, R. Malipiero, Labroca, N. de Pirro, D. Valeri, Mantelli); n. spec. di «Musica d'oggi», n. 1, 1961, pagg. 2-15. Inoltre ricordiamo particolarmente G. BONTEMPELLI, G.F. Malipiero, con illustrazioni musicali a cura di R. Cumar, Milano, 1942.
[1] Ricordiamo che il dramma sinfonico Pantea, per una sola danzatrice, voce di baritono, coro e orchestra, fu portato dinanzi al pubblico soltanto nell'autunno 1932, nell'ambito delle manifestazioni del secondo Festival veneziano. Di Pantea abbiamo già trattato nel cap. VII dove abbiamo pure illustrato le Pause del silenzio, Per le Impressioni dal vero si veda il cap. IV.

[2] I più importanti contributi storico-analitici dedicati alla produzione di Malipiero sono i seguenti lavori collettivi: Malipiero e le sue «Sette canzoni», con scritti di Alfano, Casella, Castelnuovo-Tedesco, Cilea, Gui, Labroca, Lualdi, Marinetti, Mulè, Nordio, Pratella, Rossi-Doria, Toni, Veretti, Zuelli, Milano-Roma, 1929; n. spec. de «La rassegna musicale», n. 2-3, febbraio-marzo 1942 (con scritti di Bontempelli, Pizzetti, D'Amico, Rossi-Doria, Casella, Colacicchi, Labroca, De Paoli, Della Corte, Piovesan); L'opera di G.F. Malipiero, con il Catalogo annotato dello stesso Malipiero, Treviso, 1952; (con scritti di C. Rostand, Santi, Mila, Barblan, R. Malipiero, Labroca, N. de Pirro, D. Valeri, Mantelli); n. spec. di «Musica d'oggi», n. 1, 1961, pagg. 2-15. Inoltre ricordiamo particolarmente G. BONTEMPELLI, G.F. Malipiero, con illustrazioni musicali a cura di R. Cumar, Milano, 1942.


[3] G.M. GATTI, G.F. Malipiero, in «L'esame», Milano, 31 ottobre 1923. Tale studio, che ha tuttora validità, si può rileggere nell'Opera di G. F. Malipiero, op. cit., pagg. 25-29.


[4] Si veda a questo proposito il cap. II.


[5] H. PRUNIÈRES, G.F. Malipiero, in «La revue musicale», gennaio 1927. Lo si può rileggere nell'Opera di G.F. Malipiero, op. cit., pagg. 40-60.


[6] A. CASELLA, Il linguaggio armonico di G.F. Malipiero, in «La rassegna musicale», n. 1-2, 1942. Lo si trova anche nell'Opera di G.F. Malipiero, op. cit., pagg. 127-132.


[7] Evidentemente Casella, scrivendo nel 1942, fa riferimento alla dodecafonia che proprio in quegli anni cominciava a diffondersi come idea anche da noi. Impossibile annettere valore alla frase anticipatamente al 1940 c. Ma tuttavia valida nella sua più ampia significazione e cioè attestante una realtà indiscutibile; quella che del mondo schönberghiano atonale nulla sia passato direttamente nello stile di Malipiero, se non filtrato opportunamente, rimeditato e riconcepito integralmente.


[8] A. GENTILUCCI, Guida all'ascolto della musica contemporanea, Milano, 1969, pag. 251.

[9] Sulle caratteristiche linguistiche e stilistiche di Malipiero si può leggere con utilità lo studio di L. COLACICCHI, Sulla melodia di Malipiero, in «La rassegna musicale», n. 1-2, 1942, riprodotto nell'Opera di G.F. Malipiero, op. cit., pagg. 133-137.


[10] Sulla produzione teatrale malipieriana si possono leggere i seguenti scritti: G. ROSSI-DORIA, Il teatro musicale di G.F. Malipiero, in «La rassegna musicale», n. 7-8, luglio-agosto 1929; H.H. STUCKENSCHMIDT, Zu Malipieros Bühnenwerke, in «Melos »febbraio 1934 (riprodotto in italiano nell'Opera di G.F. Malipiero, pagg. 71-75); M. LABROCA, Il teatro di Malipiero, in «La rassegna musicale», n. 1-2, 1942; P. SANTI, Il teatro di G.F. Malipiero, in «L'Approdo musicale», n. 9, 1960, pagg. 19-112.


[11] E cioè le
Tre commedie goldoniane sono costituite da La bottega da caffè, da Sior Todaro brontolon, da Le baruffe chiozzotte, mentre nel Mistero di Venezia si succedono Le aquile di Aquileia, Il finto Arlecchino, I corvi di San Marco. Interessante è poi apprendere dallo stesso Malipiero che qualche altra operina «sciolta» del medesimo gruppo sopra citato, nacque come parte di un più ampio lavoro. È il caso di Filomela e l'Infatuato e di Merlino mastro d'organi che «erano state dapprima riunite sotto il titolo di Il mito di Filomela che venne poi abbandonato». Tuttavia «Merlino mastro d'organi sta da sé come opera drammatica, ma si può eseguire, senza interruzioni, come quarto atto dopo Filomela e l'Infatuato. Se [in questa] si fa una sola pausa, dopo la prima parte, le due opere insieme formano un dramma musicale in tre atti e cinque quadri». I passi citati provengono dal citato Catalogo, pagg. 196-197.

[12] Citiamo ancora dal Catalogo, pag. 190.


[13] Ancora dal Catalogo, pag. 191.


[14] Rievoca in proposito Malipiero, ancora nel Catalogo, pagg. 191-192:«A Venezia uno zoppo e un cieco, violinista il primo e suonatore di chitarra il secondo, accompagnati da una donna che era li guida del cieco, sceglievano per i loro 'concerti' gli antri più misteriosi, le calli più anguste, quasi volessero evitare la luce. Non so perché attrassero la mia attenzione non ostante la loro straziante antimusicalità. Difatti un bel giorno il cieco rimase solo a strappare accordi disperati dalla sua vecchia chitarra, la compagna era fuggita con lo zoppo. Questo piccolo dramma mi suggerì la prima canzone: I vagabondi. Una sera, a Roma, verso il tramonto, nella Chiesa di Sant'Agostino, una donna pregava genuflessa dinanzi alla immagine della Madonna. Un frate andava su e giù intento alle faccende che precedono la chiusura del tempio. Spegneva ceri, rimetteva al loro posto le sedie e il rumore di un mazzo di chiavi accompagnava le voci dei monaci che cantavano raccolti nel coro e nascosti dall'altare. A un tratto il frate si avvicinò alla donna e l'invitò a uscire. Questa si alzò e senza aprire gli occhi infilò la porta e disparve. La seconda canzone: A vespro, è nata da questa misteriosa apparizione crepuscolare. Passando vicino ad una casa, alle falde del Monte Grappa, quasi sempre udivo una donna piangere, lamentarsi e intonare delle canzoni infantili. Era una madre impazzita dal dolore per la morte del figlio, ucciso in guerra. Ora cullava e addormentava la bambola, ora la calpestava urlando, imprecando. In questo episodio tragico ho trovato lo spunto per la terza canzone: Il ritorno. L'ubriaco, che interrompe un idillio (la quarta canzone), l'ho veduto a Venezia, e pure a Venezia ho notato il contrasto tra la veglia di un morto e i canti di una serenata. La serenata è la quinta canzone. A Ferrara entrando in una chiesa durante un funerale, mi colpì Il campanaro (sesta canzone) che rinchiuso nella sua cella suonava a morto fischiando «la donna è mobile». Ho sostituito il funerale con l'incendio e per dipingere l'indifferenza del campanaro l'ho fatto cantare una canzone quasi oscena. La settima canzone l'ho sentita più di una volta nell'ultima notte di carnevale. La mascherata del carro della morte è un'antica mascherata italiana che non ha nulla di funebre. Dal suo incontro coi pagliacci ho colto il pretesto per creare una sinfonia di bianco e nero. Se la musica alla fine è un po' solenne, aderisce a quel senso di liberazione che ho sempre provato a «l'alba delle ceneri» quando la quaresima viene a liberare dall'invadente banalità carnevalesca.»


[15] Citiamo sempre dal Catalogo, pag. 192. Molti anni più tardi Malipiero, riferendosi all'esperienza compiuta nelle Sette canzoni dirà di essersi illuso «di aver rivelato, non solo a sé, ma a tutto l'universo, l'assurdo del recitativo». Evidente la «sazietà» di ogni convenzione, evidenziata già dall'adozione della struttura «a pannelli».


[16] Precisa l'autore, sempre nel Catalogo, pag. 192, che si tratta di «sette drammi in cui della vita reale è stata colta la musicalità attraverso un processo diametralmente opposto a quello dell'opera verista». Di ciò si può aver esatto conto leggendo il «libretto» delle Sette canzoni che abbiamo riportato in Appendice.


[17] A. PIOVESAN, Il teatro di Malipiero, art. cit., pag. 76.


[18] ID., ibid., pag. 77. La novità del lavoro fu rilevata immediatamente da taluni critici che assistettero alla contrastata «prèmiere» parigina del 1920. Il critico L. Laloy, ad esempio, auspicava sviluppi prossimi della nuova forma drammatico-musicale, che intanto aveva dimostrato come «l'unità di azione non sia più indispensabile (nonostante Aristotele...) come quella di tempo o di luogo, e che le presentazioni, così utili nella vita mondana..., sono in teatro una formalità superflua». Lo scritto del Laloy è riportato integralmente nell'Opera di G.F. Malipiero, pagg. 3-6. Riteniamo opportuno richiamare l'attenzione del lettore sul legame temporale che è stabilito tra i sette episodi, il cui svolgimento procede dal crepuscolo dei Vagabondi all'Alba delle ceneri.


[19] P. SANTI, Il teatro musicale di Malipiero, art. cit., pagg. 34-35. Dallo stesso saggio provengono le due citazioni successive.


[20] Tali precisazioni Malipiero le propose su «L'Impero» di Roma, rispondendo ad uno scritto di M. Carli che, pur schierandosi a favore del lavoro, aveva definito troppo tetre le Sette canzoni, dopo averle sentite nella sfortunata rappresentazione romana del 1929. Gli scritti a difesa delle Sette canzoni, tra cui pure quello del Carli, si possono rileggere nel volumetto intitolato Malipiero e le sue «Sette canzoni», op. cit., dove figura inoltre una interessante prefazione dello stesso musicista.


[21] Citiamo ancora da «L'approdo musicale», pag. 36.


[22] M. BONTEMPELLI, G.F. Malipiero, Milano, 1942, pag. 10.

[23] F. D'Amico, Ragioni umane del primo Malipiero, nel numero speciale de «La rassegna musicale» già citato, e che si trova riprodotto nell'Opera di G.F. Malipiero, pagg. 110-126. Lo studioso parte dalla valutazione della «negazione malipieriana del sinfonismo a sviluppi e insieme dei luoghi discorsivi e 'd'azione' sul teatro», per delinearne le conseguenze radicali, cioè «l'orrore fisico della "storia", del romanzo, del proustismo» (pagg. 114-115). Il parallelo Malipiero-Pirandello (pagg. 118-119) è suggerito più da opere come le Sette canzoni e Torneo notturno che non dall'unica collaborazione che impegnò i due artisti, La favola del figlio cambiato.

[24] Citiamo ancora da «L'approdo musicale », pag. 37.

[25] H.H. STUCKENSCHMIDT, Zu Malipiero's Bühnenverke, in «Melos », febbraio 1934 (in traduzione italiana, lo si trova nell'Opera di G.F. Malipiero, pagg. 71-75). Lo studioso tedesco fu tra i primi a definire con precisione il limite tra la prima fase del teatro malipieriano - quella che stiamo trattando - e la successiva. Scriveva infatti lo studioso tedesco che «Malipiero ama i soggetti simbolici che rispecchiano molti destini. Ciò a cui egli aspira viene velato dalle gesta reali del teatro epico. I caratteri non si sviluppano, restano fermi nella loro singolarità, costantemente sottolineati e illuminati: in questo senso la sua arte di trasfigurare è singolarissima. Che egli elabori Goldoni, Pirandello, favole della commedia dell'arte o il mito italiano, sotto il suo impulso le situazioni e le figure si immergono nell'atmosfera dell'inverosimile, dell'ultra tipico, dell'al di là.» Emblematica, in questo senso, la doppia mascherata dell'Alba delle ceneri. una mascherata che troverà nuovi modi di riproporsi in seguito, sia in termini allegorici che in termini più astratti.

[26] I personaggi dei vari episodi sono così riassumibili:

I vagabondi - Il cantastorie, baritono; il cieco, la giovane donna e alcuni passanti, non cantano.
A vespro - Una donna e un frate, che non cantano; cinque voci interne (un baritono e quattro bassi)
Il ritorno - La vecchia madre, soprano; il figlio, non parla; otto voci interne (tutte tenorili)
L'ubriaco -L'ubriaco, baritono; l'innamorato, la donna e un vecchio, non parlano
La serenata - L'innamorato, tenore; la fanciulla, non parla; dieci voci interne (cinque soprani, cinque contralti)
Il campanaro - Il campanaro, baritono; coro interno.
L'alba delle ceneri - Il lampionaio, baritono o tenore; le beghine, non parlano; una mascheretta, non parla; la compagnia del carro della morte, quattro tenori, quattro baritoni, quattro bassi; i pagliacci, venti tenori.

[27] Brevemente ricordiamo l'azione della Morte delle maschere, comunque già sunteggiata nel testo. Il soggetto è imperniato sull'impresario (personaggio muto) e sulle esibizioni canore delle principali maschere italiane, e cioè Arlecchino (tenore), Brighella (baritono), dottor Balanzon (tenore), Capitan Spaventa di Valle Inferna (basso), Pantalone (baritono), Tartaglia (tenore), Pulcinella (tenore). A un tratto irrompe Orfeo mascherato (tenore), che mette in fuga l'impresario e «chiude le maschere in un armadio». Vengono quindi presentati i personaggi delle Sette canzoni. Ma prima che inizi la rappresentazione Arlecchino fugge dall'armadio gridando che non vuole morire di fame.

[28] La citazione deriva dal Catalogo, pag. 191. Le esecuzioni a cui si riferisce Malipiero sono quelle delle Sette canzoni soltanto all'Opéra di Parigi, il 10 luglio 1920, e allo Stadttheater di Aachen, il 30 marzo 1924. Accoglienze più attente e obiettive le Sette canzoni incontrarono al Théâtre des Mathurins di Parigi, nel maggio 1925, e al Teatro di Torino, il 18 maggio 1926 - questa fu la «prima italiana »del lavoro. Pure un certo successo riportò l'intero trittico dell'Orfeide allo Stadttheater di Düsseldorf, il 5 novembre 1925. Per contro nuove incomprensioni accolsero la rappresentazione delle Sette canzoni all'Opera di Roma, il 9 gennaio 1929 (e di ciò si può trovare memoria nel già più volte citato volumetto dal titolo Matipiero e le sue «Sette canzoni »). Soltanto a partire dal 1930 si può ritenere che le Sette canzoni si imposero definitivamente, pur senza riuscire a conquistarsi un posto adeguato nel repertorio. Posto che, a dire il vero, non hanno trovato neppure altri capolavori malipieriani successivi.
La rappresentazione integrale dell'Orfeide a Diisseldorf fu diretta da E. Orthmann. Gli interpreti vocali della Morte delle maschere furono: Carl Waldmeier (Brighella), Hanspeter Boquoi (Arlecchino), Carl Bara (dottor Balanzon), Karl Ludwik (Capitan Spaventa), Josef Redenbeck (Pantalone), Bernhard Hackstein (Tartaglia), Hans Faber (Pulcinella), Ludwig Roffmann (Orfeo). Quelli delle Sette canzoni: Ivan Grahl (il Cantastorie), Emmy Senff-Thiess (la madre), Erich Thies (l'ubriaco), Josef Schömmer (l'Innamorato), Berthold Pütz (il campanaro), Ludwig Dobelmann (il lampionaio). Quelli dell'Orfeo, ovvero l'Ottava canzone: Gustaaf de Loor (il cavaliere), Emil Nocken (un venditore), Walter Ries (Nerone), Maria Steinhoff (Agrippina) e Ludwig Roffmann (Orfeo).

[29] L'epilogo del trittico si apre su un teatro colmo di pubblico, tra il quale stanno anche il re e la regina. Un attore raffigura Nerone, esternandone i lati più violenti e crudeli. Un gruppo di vecchi si mostra indignato, mentre i fanciulli ridono e applaudono. Compare Orfeo, rovinato dall'esperienza manageriale, nelle vesti di pagliaccio. Con un canto dolcissimo addormenta il pubblico. Solo la regina resta desta, affascinata da quel canto. I due insieme si allontanano. I personaggi di Orfeo ovvero l'ottava canzone sono così suddivisi: nel primo teatro - il re, la regina, il loro seguito, una donna, dame e cavalieri, che non parlano; un cavaliere, tenore; un venditore di bevande, tenore nel teatro di sinistra - i parrucconi con le relative dame nel teatro di destra - i fanciulli nel teatro di mezzo - Nerone, baritono; Agrippina, soprano; Orfeo, tenore; un servo di Nerone che non parla.

[30] Citiamo ancora dal Catalogo, pag. 192.

[31] Ci piace citare a questo punto un passo di quanto scritto da M. MILA, in «l'Unità », 22 maggio 1948, per la ripresa al Maggio Fiorentino delle Sette canzoni: «A oltre vent'anni dalla prima rappresentazione delle Sette canzoni, appare oggi ben chiaro che la musica di cui è rivestita questa vera e propria "pazzia scenica", è una delle più belle che si siano scritte per il teatro nell'Italia moderna. Musica che è tutta melos ed invenzione continua, senza ripiegamento, tutta immediatezza espressiva, nutrita di fonti italiane ora popolari, ora arcaiche ed illustri, in un amalgama perfettamente omogeneo e disteso».

[32] Nell'ordine le Tre commedie sono La bottega da caffè, Sior Todaro brontolon, Le baruffe chiozzotte. Quasi unanimemente la critica ha valutato quest'ultima parte - in realtà la prima ad essere concepita, nel 1920 - come inferiore alle altre due, composte invece quasi contemporaneamente nel 1922, venendo ultimate nel settembre di quell'anno. L'intero lavoro fu poi rappresentato per la prima volta ancora all'estero, per l'esattezza a Darmstadt, il 24 marzo 1926, sotto la direzione di Joseph Rosenstock. Principali interpreti vocali della Bottega da caffè furono Heinrich Kuhn (Don Marzio), Ruth Hoffmann (Vittoria), Annelies Röbrig (Placida), Leo Barczinsky (conte Leandro) e Gustav Deharde (Eugenio). Di Sior Todaro brontolon: Johannes Bischoff (Todaro) e Paula Kapper (Marcolina). Delle Baruffe chiozzotte, invece, non conosciamo gli interpreti (e pertanto indichiamo i personaggi principali, Toffolo, tenore; Toni, basso; Pasqua, mezzosoprano; Lucietta, soprano; Titta-Nane, tenore).
Riassumendo in breve le diverse vicende diremo che nella prima commedia si assiste ai pettegolezzi e alle maldicenze tipiche di un caffè. Due coppie (Placida e Leandro, Vittoria ed Eugenio) litigano e infine si riconciliano. Ma Don Marzio (baritono) che ha seminato zizzania viene smascherato e cacciato dal locale. Nella seconda commedia vediamo il vecchio, avaro e strambo, sior Todaro (baritono) che per far sua la dote della nipote Zanetta, vuole dare la ragazza in moglie al figlio del fattore Nicoletto. La madre della ragazza, Marcolina (soprano), riuscirà a volgere le cose a favore della giovane e del suo spasimante Meneghetto. Placherà l'infuriato Todaro l'apprendere che la nipote rinunzia spontaneamente alla dote. Infine, nella terza commedia, ambientata a Chioggia, l'intreccio è costituito dai litigi tra le comari e le loro figlie, a cui poi dan man forte i mariti al rientro dalla pesca. Alla fine la generale riappacificazione.

[33] G. BASTIANELLI, G.F. Malipiero, in «Solaria», Firenze, febbraio 1927. Lo scritto è riportato nell'Opera di G.F. Malipiero, pagg. 61-65.

[34] «Ma certe canzoni rinnovano le qualità e la bellezza di quelle delle Sette canzoni, pur in un genere diverso. Tra queste ricordiamo quella che Toffolo canta all'inizio delle Baruffe e l'ampia canzone «dello scrigno» che intona Todaro nella seconda commedia.

[35] Così lo stesso Malipiero in una lettera al Ballo, in data 5 giugno 1959. Ammetteva poi che «dopo l'Orfeide, le Tre commedie goldoniane devono disorientare, quantunque i libretti siano stati ridotti al minimo per evitare inutili e antimusicali recitativi. Certo è - proseguiva il compositore - che nel momento in cui le concepii dovevo combattere la nostalgia di Venezia». Tali precisazioni si trovano in una lettera al Santi, datata 21 dicembre 1959.

[36] Ha scritto in proposito il SANTI, op. cit., pagg. 39-40: «l'affissarsi dell'idealità di Malipiero su Venezia -assunzione questa di una nuova "maschera" ideale - determina, pur sempre nel suo tipico ordine figurativo, un diverso abbigliamento formale, una diversa enucleazione poetica e musicale, destinati a loro volta a sfociare [...] in nuove soluzioni».

[37] Cosa ovvia, naturalmente, in un musicista come Malipiero, che non poteva certo adagiarsi su una strada percorsa e su esperienze compiute. Scrive in proposito il musicista (nel Catalogo, pag. 192): «naturalmente mi resi conto che adottando un sistema mi sarei ripetuto (il ripetersi è uno dei punti deboli dei musicisti) e che correvo il rischio di distruggermi. L'Orfeide - ché a quell'opera si riferisce, n.d.r. - è rimasta un'opera d'eccezione, e ritengo che soltanto il Torneo notturno (scritto nel 1930) sia, nonostante l'unità del soggetto, un discendente diretto delle Sette canzoni». Dunque le Commedie sono certo un'altra cosa da quelle, pur con indubbie affinità nel modo di fare teatro.

[38] P. SANTI, op.cit., pag. 40.

[39] Lo stesso musicista ha precisato che soltanto nella Bottega da caffè ha seguito fedelmente l'azione originale, mentre nelle altre due - come facilmente si può rilevare all'esame - molto era di sua invenzione. A volte si trovano estrapolazioni di versi di altre commedie goldoniane, talora si hanno testi provenienti dalla poesia popolare veneziana del XVI secolo. Occorre precisare poi che l'intero testo è in lingua italiana, tradotto appunto dal Malipiero stesso per ragioni di pronunzia e di comprensibilità.

[40] Stralciamo ancora dal Catalogo, pag. 195.

[41] Così il DE PAOLI, in La crisi musicale europea, op. cit., pag. 227.

[42] G. ROSSI-DORIA, Il teatro musicale di G.F. Malipiero, in «La rassegna musicale », n. 7-8, 1929.

[43] P. SANTI, op. cit., pag. 42.

[44] H. PRUNIÈRES, G.F. Malipiero, op. cit. Si tenga presente che l'articolo apparve nel 1927, ad un anno di distanza dalla «prima» delle Commedie a Darmstadt.

[45] Si pensi che il tempo per scoprire le possibilità di successo delle Commedie è tuttora in corso, ormai a sessant'anni dalla «prima» rappresentazione.

[46] D. DE PAOLI, op. cit., pag. 227. Si tenga presente che lo studioso si esprimeva nei termini che riferiamo sul finire degli anni Trenta.

[47] Non conosciamo la data esatta della prima esecuzione di Rispetti e strambotti. Lo stesso Malipiero nel Catalogo annotato, pag. 244, non la fornisce ma afferma che «quasi tutti i quartetti, la Sonata a tre e la Sonata a cinque, sono stati eseguiti la prima volta nei Festivals Coolidge, in America o in Europa ».