CARLO MOSSO

IL TEATRO DI
GIAN FRANCESCO MALIPIERO

Diverso [rispetto a Casella] e singolarissimo il caso di Gianfrancesco Malipiero, l'autore italiano che vanta la più copiosa, e significativa, produzione operistica del nostro secolo. E può apparire compito non facile stabilirne una sistemazione storica organica, poiché nel corso degli anni - e si tratta di oltre sessant'anni di inarrestabile attività teatrale - le tendenze e gli umori del grande musicista veneziano mutarono. La grande fantasia musicale, unita all'incessante vena compositiva non solo nel campo che qui interessa, sembrerebbe mettere a dura prova l'indagine dello studioso. Ma lo sforzo di questi viene presto compensato dalla scoperta d'una continuità di pensiero stupefacente, continuamente rinnovata dall'evolversi della materia musicale, in cui scatti estrosi e perfino bizzarrie apparentemente incomprensibili trovano la loro giustificazione. Tendenze e umori mutarono sì, nel lungo corso della sua attività, ma fermo restò sempre il suo obiettivo artistico, sorretto da una concezione morale sofferta e vissuta interamente senza pentimenti di sorta.
Nel 1918, dopo più di un decennio di esperimenti teatrali su libretti altrui, Gianfrancesco Malipiero compone il dramma, sinfonico 'Pantea' «per amore del teatro e per evitare il melodramma». Sappiamo di una vagheggiata e mai realizzata «Schiavona»; «Elen e Furlano» (tre attì, 1907-09) e «Canossa» (un atto, 1911), entrambe su libretto di Silvio Benco, vennero ripudiate dall'autore e distrutte, mentre il Sogno di un tramonto d'autunno (1913), su testo di D'Annunzio, rimase inedita per motivi estranei alla musica. Certamente in queste esperienze Malipiero bruciò i residui del teatro ottocentesco e verista.
La rivelazione parigina della prima del «Sacre du Printemps» sembra sia stata determinante: «Mi svegliai da un lungo e pericoloso letargo la sera del 28 maggio 1913», scrisse molti anni dopo lo stesso Malipiero. Sta di fatto che con Pantea e con le seguenti Sette Canzoni (1919), il compositore veneziano pone le basi di un teatro musicale estremamente originale e personalissimo le cui conseguenti e pur svariatissime manifestazioni giungono fino ai nostri giorni.
In Pantea, dove una danzatrice «interpreta la lotta disperata, per conquistare la libertà di un'anima che alla fine, dopo infinite sofferenze, non trova che la morte e il nulla» (P. Santi, Il teatro di G. F. Malipiero, in «L'approdo musicale», n. 9, 196o), l'orchestra è protagonista del dramma. Il pessimismo, ch'è alla base di tutta la poetica malipieriana, è la diretta conseguenza del rifiuto degli ideali del mondo ottocentesco.
Malipiero è uomo del Novecento e, in quanto tale, vive drammaticamente il crollo delle illusioni beate di una cultura che, troppo ottimistica, aveva fiduciosamente posto il singolo individuo, quasi divinizzandolo, in una dimensione metafisica che, in definitiva, lasciava campo libero a qualsiasi avventura. Le conseguenze di una tale filosofia sono note. E, come sappiamo, furono funeste. Di qui, attraverso la tragica esperienza della vita, «la scoperta della vacuità d'ogni sistemazione intellettuale del destino umano» (P. Santi, cit.) e il rifugiarsi, per non soccombere, in un mito di pura musica.
Per prima cosa occorreva bandire il convenzionale. Così nell'«Orleide» (1919-22), trilogia di cui le «Sette canzoni» costituiscono la seconda parte (la prima s'intitola «La morte delle maschere», la terza «Orfeo ovvero l'ottava canzone»), «le maschere vengono rinchiuse, come balocchi fuori uso, in un armadio» e Orfeo invita «a cogliere la vita semplice, dal vero».
Nelle 'Sette canzoni', «la sazietà di ogni elaborazione morale dei fatti bruti umani, soprattutto se condotta attraverso una storia, un progredire psicologico: descritta nel suo divenire» (P. Santi, cit.) obbliga il compositore a una struttura 'a pannelli' in cui i singoli episodi di vita, colti e fermati nell'attimo del loro apparire, si concretizzano musicalmente nel breve giro di una «canzone».
Lo sviluppo tematico è di conseguenza abolito e il recitativo messo al bando. I personaggi sono ridotti a pure allegorie, uomini senza storia, fantasmi assurdi di situazioni incomprensibili in cui la morte può assumere le sembianze di una mascherata grottesca.

Le Sette canzoni sono dette episodi da me vissuti e che lio creduto di poter tradurre musicalmente senza contraddire me stesso.
A Venezia uno zoppo e un cieco, violinista il primo e suonatore di chitarra il secondo, accompagnati da una donna che era la guida del cieco, sceglievano per i loro ' concerti' gli antri più misteriosi, le calli più anguste, quasi volessero evitare la luce. Non so perché attraessero la mia attenzione non ostante la loro straziante antimusicalità. Difatti un bel giorno il cieco rimase solo a strappare accordi disperati dalla sua vecchia chitarra, la compagna era fuggita con lo zoppo. Questo piccolo dramma mi suggerì la prima canzone: «I vagabondi».
Una sera, a Roma, verso il tramonto, nella Chiesa di Sant'Agostino una donna pregava genuflessa dinanzi alla immagine della Madonna. Un frate andava su e giù intento alle faccende che precedono la chiusura del tempio. Spegneva ceri, rimetteva al loro posto le sedie e il rumore di un mazzo di chiavi accompagnava le voci dei monaci che cantavano raccolti nel coro e nascosti dall'altare. A un tratto il frate si avvicinò alla donna e l'invitò a uscire. Questa si alzò e senza aprire gli occhi infilò la porta e disparve. La seconda canzone: «A vespro», è nata da questa misteriosa apparizione crepuscolare.
Passando vicino ad una casa, alle falde del Monte Grappa, quasì sempre udivo una donna piangere, lamentarsi e intonare delle canzoni infantili. Era una madre impazzita dal dolore per la morte del figlio, ucciso in guerra. Ora cullava e addormentava una bambola, ora la calpestava urlando, imprecando. In questo episodio tragico ho trovato lo spunto per la terza canzone: «Il ritorno».
L'ubriaco, che interrompe un idillio (la quarta canzone), l'ho veduto a Venezia, e pure a Venezia ho notato il contrasto fra la veglia di un morto e i canti di una serenata. La serenata è la quinta canzone.
A Ferrara, entrando in una chiesa durante un funerale, mi colpì il campanaro (sesta canzone) che rinchiuso nella sua cella suonava a morto fischiando «la donna è mobile». Ho sostituito il funerale con l'incendio e per dipingere l'indifferenza del campanaro l'ho fatto cantare una canzone quasi oscena.
La, settima canzone l'ho sentita più di una volta nell'ultima notte di carnevale. La mascherata del carro della morte è un'antica mascherata italiana che non ha nulla di funebre. Dal suo incontro coi pagliacci ho colto il pretesto per creare una sinfonia di bianco e nero. Se la musica alla fine è un po' solenne, aderisce a quel senso di liberazione che ho sempre provato a 'l'alba delle ceneri' quando la quaresima viene a liberare dall'invadente banalità carnascialesca.
Il testo delle «Sette canzoni» è preso dall'antica poesia italiana, perché in essa si ritrova il ritmo della nostra musica, cioè quel ritmo veramente italiano che a poco a poco, durante tre secoli, è andato perdendosi nel melodramma.
Le «Sette canzoni» nacquero dalla lotta fra due sentimenti: il fascino per il teatro e la sazietà per l'opera, ma più che sazietà fu antipatia per quell'assurdo chiamato 'recitativo'.
Se le «Tre commedie goldoniane» (1920-22) e «Il mistero di Venezia» (1925-28) continuano idealmente per alcuni versi la poetica delle «Sette canzoni», Filomena e l'Infatuato (1925) e Merlíno mastro d'organi (1927) ci riportano al clima acceso e ai cupi bagliori espressionistici dì Pantea: ma questa volta il mito del Canto sembra vincere la morte: «Un viandante sordo e muto uccide Merlino, ma l'incanto di Filomena non muore, le fiamme fanno nascere un nuovo cantore: la musica rivive dopo che il fuoco l'ha nuovamente purificata».
Fedele D'Amico fu forse il primo a definire i precisi termini della poetica malipieriana individuando i personaggi di questo teatro quali «due proiezioni di due poli, di due forze, le sole forze esistenti: l'una, il sogno di una incantata bellezza, l'altra la distruzione di questo sogno, il suo insensato e inevitabile destino di morte».
La reazione al verismo e la necessità di scavalcare il melodramma ottocentesco portarono Malipiero a ricercare gli archetipi del proprio linguaggio musicale nell'antica tradizione italiana e l'ideale di una classica, pura bellezza trovò configurazione nel canto gregoriano e nella musica - soprattutto veneziana - del Cinquecento e del Seicento.
Ciò che per gli altri musicisti della sua generazione fu motivo - spesso mascherato da una pretesa e ingannevole modernità - di esercitazioni neoclassiche o estetizzanti, fu per Malipiero un'intima necessità. La scoperta dell'universo sonoro monteverdiano gli indicò la strada giusta e l'antica poesia italiana gli fornì il materiale per i libretti che si costruì da sé a partire dalle «Sette canzoni».
La sintesi di tutti gli elementi poetici e musicali che Malipiero era venuto sviluppando nel suo teatro dalle Sette canzoni in poi si concreta nel «Torneo Notturno». La prima rappresentazione di questi «sette notturni» ebbe luogo al Nationaltheater di Monaco di Baviera il 15 maggio 1931, ma la composizione era già terminata nel 1929. Benché si tratti senz'ombra di dubbio di un altissimo capolavoro del teatro musicale del nostro secolo, non si può dire ch'esso goda di una notorietà eccezionale. Inspiegabilmente le scene italiane lo hanno per lo più ignorato.
Lasciamo ancora una volta la parola all'autore:«Il Torneo notturno è stato scritto seguendo, se non le teorie, ché le teorie non esistono, lo stesso ordine di idee delle Sette canzoni. Pure in questi 'sette notturni' è ridotto a quasi nulla il recitativo e la musica sinfonica si alterna colle canzoni. Una di queste canzoni (la Canzone dei tempo) ritorna sette volte, ma sempre trasformata dalla situazione drammatica, ed è il centro del dramma.
Come nelle opere precedenti, i personaggi del «Torneo» sono figure astratte, senza nome e individualità singola. Il Disperato e lo Spensierato non sono che due aspetti simbolici dell'assurda condizione umana: «Il Disperato non potrà vivere senza lo Spensierato, sono una sola persona, sono l'uomo stesso sempre spensierato e sempre disperato» (P. Santi, cit.). Due temi li rappresentano: strumentale, quello del Disperato, mentre la «Canzone del Tempo» è la sigla dello Spensierato: onnipresente, questa canzone ritorna di continuo nei sette episodi dell'opera e in tutti gli intermezzi strumentali; si svolge in un ambito melodico ristretto, poche note che ritornano ossessivamente su se stesse, accompagnate nell'orchestra da un «pedale» ora medio, ora superiore e da un movimento perpetuo nei bassi. È l'invito a cogliere l'attimo, a non lasciarsi sfuggire ciò che viene una sola volta, vive appunto un attimo ed è tosto distrutto dal tempo:
Chi ha tempo e tempo aspetta, il tempo perde,
Il tempo fugge come d'arco strale:
Dunque per fin che sei nel tempo verde
Accogli il tempo che pentir non vale.
Il tempo fugge e mai non si rinverde
E mena alfin le tue bellezze frale:
A dunque cogli dei tuo tempo il fiore... [...]
Pensa, Madonna ben che 'l tempo fugge
Né mai ritorna a noi poi ch'è passato....
«Di grande efficacia, per un certo senso di vertigine, d'ineluttabile e perpetuo moto, un trasformarsi e divenire continuo in un'immutabile ed eterna diversità, come l'acqua, come il tempo che va, fugge, ritorna e sempre fugge di nuovo» (M. Mila), questa canzone, ha ben notato Piero Santi, «è destinata a restare una delle più profonde e memorabili intuizioni del teatro musicale contemporaneo».
Il richiamo all'espressionismo, più volte fatto, è pertinente. In questa sede preme far notare quanto la musica di «Torneo notturno» sia tuttavia lontana da altri stili musicali sorti dal clima espressionistico. La melodia malipieriana, sorta dai ceppi antichi del gregoriano e dall'arioso canto dei veneziani, è essenzialmente diatonica. Il clima spesso allucinato, ossessivo, ch'essa produce, nasce dal suo perpetuo fluire e rinnovarsi: in tutto il «Torneo» c'è una sola battuta «vuota», non si trova un solo «punto di corona»! i
Il canto nasce spontaneamente dalla parola; trae la sua vita e la sua giustificazione dal metro dell'antica poesia italiana in cui «si ritrova il ritmo della nostra musica, cioè quel ritmo veramente italiano che a poco a poco, durante tre secoli, è andato perdendosì nel melodramma» (Malipiero). L'orchestra amplifica il canto, ne raccoglie spunti ed echi, nasce sempre, anche quando ha temi propri, da una segreta anima vocale. È sintomatico che già nel 1910, in un articolo su «La sinfonia italiana dell'avvenire», Malipiero affermasse che «dalla musica corale italiana ha origine la sinfonia italiana».
La melodia di «Torneo» è una melodia nuda, spoglia, che non concede nulla al decorativismo, pura lirica. Indicarne alcuni squarci sarebbe fare un torto all'intera partitura che non conosce neppure un sia pur minimo momento di cedimento.
È stato detto bene che nel «Torneo» l'irrequietezza e l'insofferenza del primo Malipiero si placano in una superiore visione in cui i violenti contrasti vengono composti e trascesi in lirica contemplazione. Ma il dramma della vita non cessa - il pessimìsmo è irriducibile -- e ignorarlo significherebbe la rinuncia stessa agli ideali che da esso nascono, da esso muoiono e ancora rìnascono. I sogni e le illusioni muoiono e sempre rinascono assurdamente.
Il Disperato uccide lo Spensierato e Madonna Aurora muore nella prigione in cui l'ha rinchiusa lo stesso Disperato. Esce il buttafuori e ammonisce: «Non è finito!».
L'orchestra - lento, triste assai - riprende il tema del corteo, in minore; esso si allaccia e sovrappone al tema che si potrebbe chiamare del pellegrinaggio senza meta, a quello del Disperato, si alterna alla Canzone del Tempo. Canto puro. Disincantata e malinconica meditazione sul destino dell'uomo. Del resto, il senso di questo cantare ci è stato rivelato dal Disperato nel quinto episodio: Il locolare spento:

E canto dall'affanno e dal dolore,
Ma no che voglia mia sia di cantare:
Lo fo per isvagar questo mio core,
Tanta malinconia, né tanta doglia
Sebben io canti dì piangere ho voglia...
Tanta malinconia né tanto affetto.
Sebben io canti la pena ho nel core....


«Oggettivare i fantasmi nella realtà », tale lo scopo di tutto il teatro malipieriano. Un teatro popolato da figure musicali che non ubbidiscono a schemi preconcetti e che nascono da «una memoria di ricordi che non hanno volto». Dunque l'affermazione dell'irrazionale e della Storia (e anche della storia).
Una svolta importante si produsse dopo il «Torneo notturno» con «La tavola del figlio cambiato» (1933), su testo di Pirandello («che tende a risolvere logicamente una situazione paradossale») e le successive opere: «Giulio Cesare» (da Shakespeare, 1935), «Antonio e Cleopatra» (id., 1937), Ecuba (da Euripide, 1940), «La vita è sogno» (da Calderón de la Barca, 1942). L'autore le considerò «una parentesi lirica». In queste opere v'è un ricupero del recitativo, fatto « con parsimonia », ché il teatro resta interpretato per la maggior parte in modo melodico, quantunque risulti quasi una rottura formale con lo stile operistico precedente.
Con «I capricci di Callot» (da E. Th. A. Hoffmann, 1942), Malipiero rompe la sua «parentesi lirica» e ritorna praticamente, anche se sembra ripudiare il secco schematismo, alla concezione del suo primo teatro. È certo un momento di profondo ripensamento e l'autore pare interrogare se stesso: «Il mio teatro [...] rappresenta per me una specie di miraggio evanescente. L'«Orfeide», «I capricci di Callot», il «Torneo notturno» [...] riesco a guardarli quasi fossero stelle fisse, ma tutte le altre mie opere teatrali come classificarle? pianeti, stelle cadenti?». Seguiamo il compositore nella sua descrizione dei Capricci:
Nel prologo, otto delle maschere si presentano uscendo da un istrumento musicale che è per se stesso una sorgente di ritmo, e danzano.
Il primo atto si svolge fra montagne di vestiti e Giacinta non è semplice sarta, ma una fata: le sue mani non lavorano d'ago ma creano vestiti meravigliosi, come per incanto. Giglio, l'innamorato (un attore piuttosto straccione), è colpito dal ricco vestito di velluto che Giacinta ha indossato perché non ha resistito alla tentazione di provarlo. È per il vestito che Giglio farnetica; egli non vede Giacinta ma 'la principessa' dei suoi sogni.
Il secondo atto è il carnevale di Roma, una ridda di maschere e di vestiti di ogni foggia. Il Ciarlatano è un cavaliere travestito e la folla cerca, con gli occhiali meravigliosi dell'indiano Ruffiamonte (e che il ciarlatano vende 'per pochi soldi'), un principe assiro, cioè un uomo vestito da principe assiro che s'è confuso nella folla del carnevale.
Passa un fantastico corteo, vestiti che camminano, ed è una finzione teatrale (dunque di vestiti) la tragedia che il Poeta canta ampollosamente.
La prima scena del terzo atto è la burla. Rivediamo i personaggi del corteo carnevalesco: le donne lavorano ai merletti (sempre lo stesso tema) ed è finzione il sacrificio delle dodici fanciulle. Il vecchio che legge nel grande libro è il poeta travestito.
Giglio assiste esterrefatto a questo dramma grottesco e quando gli sembra che si voglia uccidere pure Giacinta, che appare fra le maschere di Callot, reagisce, ma viene preso, rinchiuso in una gabbia ed esposto, fra la ilarità generale, sul balcone che dà sul Corso.
La seconda scena del terzo atto si inizia (la stessa stanza del primo atto) con la follia di Giacinta che ormai crede di appartenere al principe, ed essa vede la stanza trasformata in reggia.
Giglio essa lo ritrova entro la gabbia, lo libera ed in lui si risveglia il commediante. Giacinta, con enfasi melodrammatica, lo segue. Il vecchio e il ciarlatano di nascosto assistono a questa metamorfosi e si liberano delle loro palandrane apparendo quelli che sono: il poeta e il cavaliere che ha beffato Giglio.
Tra i vestiti, e le maschere di Callot che danzano come nel prologo, si imbandisce la tavola e allegramente si celebrano le nozze dei due nuovi eroi della finzione ».
Una bizzarria, perfettamente coerente è «L'allegra brigata» (1943), «sei novelle in un atto» come le definisce lo stesso Malipiero. Fantasia e realtà continuano a mescolarsi, a sovrapporsi in una specie di Decamerone moderno: da una parte l'azione del dramma, dall'altra l'evasione attraverso le «novelle» che si svolgono in secondo piano. E ancora si rifanno palesemente alla concezione fondamentale del teatro malipieriano i «Mondi celesti e infernali» (1949), «sette aspetti di sette donne» che sono in realtà «l'aspetto eterno della donna. Passano i secoli, ma essa rimane fedele ai sentimenti che la governano al di sopra di tutte le vicende umane. Che il mondo sia celeste o infernale, esso non cambia».
L'ulteriore teatro di Malipiero sembra tentare una sintesi tra i due modelli strutturali che esso propone nel corso della sua lunga parabola. Il recitativo o declamato, mai secco, anzi tendente all'arioso, sembra prevalere in lavori quali «Don Giovanni» (da Puskin, 1963), mentre la forma prediletta e concisa della «canzone» riappare prepotentemente anche negli estremi saggi quali «Il Capitan Spavento» (1963). La fantasia, anche nella ricerca degli argomenti, non viene mai meno, come testimoniano i titoli de «Il figliuol prodigo» (1953), «Donna Urraca» (1954), «Venere prigioniera» (1957), «Il marescalco» (1960), «Le metamorfosi di Bonaventura» (1966), «Don Tartufo Bacchettone» (1967), «Gli eroi di Bonaventura» (1969, silloge da altre opere), «Uno dei dieci» (1971), «L'Iscariota» (1971).
L'essere stato pienamente uomo del Novecento conferisce a Malipiero la statura europea che è mancata ai suoi coetanei. Il suo irrazionalismo viscerale lo salvò da facili conclusioni pseudo-moralistiche e lo coinvolse totalmente nel turbinoso dramma del nostro tempo, mentre la sua distaccata ironia sembra porlo al di sopra degli stessi drammi da lui impietosamente cantati, in una razionale e dissacrante visione delle vicende umane. La dimensione europea del teatro malipieriano si rivela cosi incontestabile