ANTONIO CIRIGNANO


IL TEATRO DI G. F. MALIPIERO

MUSICA IN SCENA
pp. 494-495
------------------------------------------------------------------------
Gian Francesco Malipiero appare come una delle figure più complesse e solitarie del Novecento italiano. Come si è già detto, condivide coi musicisti della sua generazione un sincero interesse per il patrimonio vocale e strumentale preromantico, ma la sua azione di critica e di svecchiamento del costume musicale italiano ha innanzitutto un carattere antiprovinciale, di apertura e di partecipe attenzione verso le nuove tendenze della musica europea, da Debussy a Janácek, da Bartók a Schönberg, da Busoni a Stravinskij. In ciò la sua importanza è ben distribuita fra i vari generi, anche se è quello teatrale il più frequentato: oltre cinquanta lavori (di cui appena dodici non operistici, siano balletti, musiche di scena o ibridi con elemento scenico opzionale) datati per un terzo abbondante al di qua del 1945.
È attivo fin dai primi del secolo, e tuttavia all'indomani della seconda guerra non solo non dà segni di senilità creativa, ma sa ritrovare le radici autentiche della propria ricerca teatrale dopo una breve fase «lirica», com'ebbe a definirla, che dalla metà degli anni Trenta testimoniò forse un suo desiderio di fuga dall'angusto clima culturale del fascismo. Mosso in gioventù da un senso oppressivo di sazietà per tutto il mondo operistico ottocentesco, la sua indole inquieta, ricettiva quanto indipendente, lo aveva spinto molto lontano sulla via di un'acquisizione personale del l'impressionismo francese prima, dell'espressionismo schönberghiano poi.
E questo con esiti di rilievo assoluto come le «Sette canzoni» (1919), un'operina a quadri in cui l'estrema modernità del linguaggio passa attraverso arcaismi poetici e musicali di ascendenza medievale, e come «Torneo notturno» (1929), d'impianto analogo, nella quale gioca però anche un rudimentale intreccio, benché sommerso dal tono spettrale e angoscioso dei simbolismi scenici e musicali. Già nel 1942 Malipiero si riallacciava a queste esperienze con «I capricci di Callot» (su libretto proprio, ispirata visivamente alle incisioni del pittore secentesco richiamato nel titolo e letterariamente alla «Prinzessin Brambilla» di E. Th. A. Hoffmann) e con «L'allegra brigata» (1943, su testi italiani dei secoli XIV-XVI). In entrambe le opere, beninteso, il legame coi lavori precedenti la fase «lirica» non è tanto da ricercarsi nell'idioma musicale, che anzi riflette l'evoluzione strumentale e cameristica recente di Malipiero e mostra un'esuberante chiarezza, un diatonismo fresco e vivace, quanto nella drammaturgia: episodica e surreale, solo vagamente narrativa nei «Capricci», decisamente à tableaux (come per le Sette can:oiii) nell'«Allegra brigata», articolata su sei novelle successive, ciascuna inscenata per suo conto, coi personaggi-narratori che si riuniscono nelle parti di collegamento fra l'una e l'altra, e con un finale delittuoso-passionale in cui alla finzione delle sei storie narrate si sovrappone la «realtà» di quella rappresentata, in analogia col finale dei Pagliacci di Leoncavallo «più di quanto Malipiero non avrebbe mai voluto ammettere» (Waterhouse).
Ristabilito dunque il contatto col proprio passato, il lavoro che per molti versi annuncia una nuova stagione malipieriana, quella che sul piano linguistico sarà dominata da un raffinato cromatìsmo lineare, è «Mondi celesti e infernali» (1949, su libretto proprio). Si tratta ancora di una realizzazione a pannelli - e ancora sono sette, ciascuno dedicato a una diversa figura femminile d'estrazione storico-letteraria - in cui il tessuto di fondo, pur saldamente diatonico, è squarciato in più punti (soprattutto strumentali) da incursioni cromatiche violentemente espressive, e in cui per la prima volta nel teatro di Malipiero si affacciano fuggevoli armonie di dodici note. Con le opere brevi «Il figliuol prodigo» (1952), «Donna Urraca» (1954) e «Capitan Spavento» (1955; quest'ultima, comica e non superiore ai venti minuti, è stata definita da John C. G. Waterhouse «il più perfetto di tutti i lavori teatrali composti da Malipiero dopo la seconda guerra») l'impianto drammaturgico torna alla narrazione consequenziale mentre il eroinitismo del linguaggio s'inasprisce e si estende.
Lo accompagnano altre manifestazioni tipiche del tardo stile teatrale di Malipiero fra cui, nelle tre opere rispettivamente, l'inclinazione a caratterizzare i personaggi attraverso la scrittura orchestrale e timbrica piuttosto che vocale, quella a un recitativo-arioso continuo non sempre ugualmente efficace, quella ad inserire brevi e occasionali procedimenti dodecafonici. Il risultato più alto di questa fase è raggiunto nel 1955 con i due atti di «Venere prigioniera». Ancora una volta il libretto è di Malipiero, che lo ricava dalla novella «Giangurgolo» (1881, e forse precedente) di Emmanuel Conzales. Ma il racconto originale, storia di delitto e vendetta ambientata realisticamente in una Spagna dominata da insondabili principi d'onore familiare, è ripreso con fedeltà solo nel primo e nell'ultimo quadro dell'opera: i due centrali spezzano questa cornice razionalmente narrativa con un'atmosfera assai più indefinita e sfuggente, dove alla logica rettilinea del racconto si sostituisce quella arbitraria e immaginosa dell'interpretazìone teatrale malipìeriana. L'invenzione musicale domina ormai il totale cromatico ma ne fa un uso discreto, che meglio si lascia percepire come un diatonismo più agile, con punte di sapore esatonale; alle ampie sezioni di recitativo, spesso monocorde, si alternano vivide ed efficaci pagine orchestrali. Al recitativo continuo e alle debolezze drammatico-strutturali tipiche del periodo soccombono, in misura direttamente proporzionale alla loro durata, le successive Rappresentazione efesta di Carnasciale e della Quaresima (1961, «da un'edizione fiorentina del 1558»; poco più di un quarto d'ora), «Don Giovanni» (1962, da Puskin; meno di un'ora) e «Le Metamorfosi di Bonaventura» (1965, da «Die Nachtwachen des Bonaventura» di controversa attribuzione; più di un'ora): opere deboli ma non prive di interesse, soprattutto perché al mondo poetico di Malipíero concedono maggiore spazio di quanto non avverrà in seguito col ben più convenzionale «Don Tartufo bacchettone» (1966, da Molière e da Gerolamo Gigli).
Un passo avanti nella caratterizzazione della scrittura vocale è rappresentato da «Il marescalco» (da Pietro Aretino; 1968, ma già quasi terminata fra il 1960 e il61), in cui si riaprono ampie parentesi diatoniche e l'azione sta prevalentemente nella vivacità dei dialoghi. A «Gli eroi di Bonaventura» (1968), ingegnosa e nient'affatto scontata autocitazione da sette lavori precedenti, seguono le due opere ultime, molto brevi: «Uno dei Dieci» (1970) e «L'Iscariota» (1970). Sono centrate tutt'e due su un solo protagonista (con intorno pochi e secondari personaggi) e mettono in scena l'una le vicende di Almorò da Mula, vecchio membro del Consiglio dei Dieci che si rifiuta di credere alla fine della repubblica veneta, l'altra, ispirata a un'anonimo «Iscariots Bitter Love» dei primi del Novecento, i tormenti di un Giuda che ha tradito il Cristo per gelosia, in preda a un amore possessivo. L'ultimo Malipiero si mostra in entrambe col tipico idioma delicatamente cromatico, denso di richiami più o meno velati al passato storico e personale; ma soprattutto traspare, nella prima, lo scoperto autobiografismo polemico del vecchio intellettuale in dissenso con la «ferrea e plumbea etate» (sono le ultime parole del Pedante, uno dei personaggi del Marescalco, in chiusura dell'atto I) in cui deve consumare, senza arrendersi, la sua stagione estrema.