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MALIPIERO MUSICISTA VENEZIANO
[ESTRATTO]


FONDAZIONE GIORGIO CINI

CIVILTÀ VENETA

SAGGI - DOCUMENTI


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Nel festeggiare Malipiero per il suo settantacinquesimo compleanno tutti noi che gli siamo amìci e vicini da molti anni intendiamo non solo esaltare la sua opera, ma ricordare anche il suo contributo alla civiltà musicale di oggi, le azioni da lui intraprese e tenacemente sostenute per rifar luce alle musiche più grandi del nostro passato, la sua coerenza, e l'unità che è inscindìbile tra la sua opera e la sua vita.
Malipiero lo conobbi moltissimi anni or sono. Di lui avevamo parlato a lungo con Cesare Vico Lodovici, che gli era amico da tempo, durante la prigionia dì guerra a Theresienstadt negli anni 1917-1918; ma fu solo verso la fine del 1919 che Lodovici finalmente mi condusse da lui. La prima immagine di Malipiero fissatasi nella memoria è quella di un giovane signore con il cappello alquanto sgualcito, il bastone nella mano sinistra, che avanzava trascinato da due piccoli volpini che teneva al guinzaglio.
L'incontro avvenne in via Sistina, nei pressi della pensione dove egli abitava e confesso che i primi momenti rimasi taciturno e impacciato dalla mia timidezza. Malipiero non mi rivolse subito la parola: nel suo accento veneziano iniziò con Lodovici una conversazione apparentemente slegata, spezzettata da parentesi, da soste, da motti di spirito, sicché mi risultò difficile seguire i due amici che mi parve stessero dando fondo a un passato a me ignoto ; si ritrovavano dopo molto tempo e la ricerca degli amici comuni che essi andavano facendo, servendosi ciascuno delle notizie dell'altro, mi parve anche un pretesto per chiacchierare svagatamente. Non mi resi subito conto che l'estro di Malipiero ti è possibile coglierlo immediatamente nelle prime parole che ti dice: esse ti avviano sopra una strada, svicolano di colpo ad altro argomento; ma poi ti accorgi che l'altro argomento e strettamente legato al primo e che le parentesi sono la coloratura del quadro, sicché alla fine tra deviazioni, arresti, falsi scopi, ti accorgi di aver ascoltato un discorso che ti dice molte cose e le dice con un prezioso senso del pittoresco; ti accorgi che l'aria svagata che ti sembra essere la caratteristica di Malipiero non è disattenzione ma un piccolo riparo dietro il quale è nascosta la capacità di comprendere più di quello che non appaia, allo stesso modo di come la sua grande e profonda cultura ti si rivela attraverso i casi che essa è chiamata a risolvere o ad illustrare, e non già, come accade in altri, attraverso esposizioni che sembrano tesi di laurea sempre pronte per chi ha voglia di ascoltarle con pazienza; ti appare smemorato e poi ti si rivela in possesso di una memoria capace di archiviare gli episodi più apparentemente insignificanti.
Naturalmente non fu certo al primo incontro che Malipiero mi si rivelò così come oggi lo descrivo: quella prima volta notai il suo modo di camminare, piuttosto lento, interrotto da soste volontarie o da soste imposte dai cani, da fermate davanti a qualche vetrina (e se la vetrina era di un antiquario sapeva quello che era buono e quello che buono non era), un camminare che sembrava una passeggiata fine a se stessa, senza scopo, ma che poi ti accorgevi essere un percorso prestabilito per giungere a una determinata mèta. E certo, compresi più tardi, tra il suo modo di camminare e il suo modo di parlare esiste un'affinità; ed è quella stessa apparenza svagata che di colpo svanisce di fronte al delinearsi della mèta o al definirsi dell'argomento.
Non ricordo quali furono gli argomenti dei nostri discorsi in quel primo incontro anche perché da quel momento con Malipiero, finché egli rimase a Roma, ci incontrammo almeno una volta al giorno. Egli aveva terminato in quel periodo le «Sette canzoni» e un giorno mi chiese se volevo ascoltarle. Fummo ospitati in una sala dell'Accademia di Santa Cecilìa e li per la prima volta mi si rivelò un aspetto nuovo dell'arte di Malipiero, aspetto che mi convinse ed entusiasmò allora, come mi convince ed entusiasma oggi. Ricordo ancora l'emozione di quel momento: il teatro entrava in un nuovo clima. rompeva gli schemi tradizionali, si metteva sulla via delle sintesi drammatiche e credo anche oggi che quella sia una buona strada per far correre un po' d'aria nel chiuso ambiente.
Molti di voi non conoscono quale fosse la vita musicale in Italia nel 1919: per chi voleva percorrerla, questa strada della musica, si trattava non già di camminare ma di saltare ostacoli; e quando ti sembrava di aver sgombrato il terreno ecco che ti si parava un altro inatteso impedimento ; e fu per anni tutto un tormentarsi in schermaglie che sembrava non dovessero avere mai fine, in polemiche rabbiose e a volte crudeli. Erano gli anni nei quali eseguire Debussy costituiva già un bel colpo di audacia, Strawinski una sfida al buon senso; l'Italia in quegli anni, malgrado l'azione preziosa dell'Accademia di Santa Cecilia e di qualche altra rara istituzione che avevano aperto con i loro concerti qualche finestra sul mondo, voleva assolutamente restare il paese del melodramma, anzi di un certo melodramma, e non tollerava deviazioni dalle abitudini.
Immaginatevi la situazione dei giovani musicisti di allora che dovevano conquistarsi le esecuzioni a furia di battere e ribattere, quando addirittura non dovevano procedere facendosi interpreti di se stessi. A guardarlo adesso, quel periodo ci appare remoto e assurdo ; addirittura disperata la situazione di musicisti quali Casella, Malipiero, Pizzetti, Tommasini ed anche, per alcune opere, Respighi. Eppure fu proprio la necessità di non tradire se stessi che diede a tutti i musicisti di allora la forza per resistere.
È necessario fermarsi un po' sulla situazione di quegli anni perché ancora non è stata attribuita ai giovani musicisti di allora la ricompensa che meritano; perché se oggi è dato a tutti noi di ascoltare e di conoscere senza riserve, lo si deve proprio alla lotta che la giovane scuola sostenne dai primi anni del nostro secolo perché i concerti fossero più numerosi, i programmi più vari, i teatri più ricchi nel repertorio, la scuola di musica più seria e profonda; noi oggi viviamo sulla rendita di un'azione che non sarà mai abbastanza esaltata. Ma l'esistenza allora era spiacevole e ingrata. Per chi, come me, era tornato a casa dall'aver combattuto materialmente la prima guerra mondiale, l'ambiente musicale apparve come un nuovo campo di battaglia: accanite le schiere avverse, duri i colpi quando era possibile assestarli e soprattutto netta e ingrata la divisione che arrivava fino alle forme estreme del non saluto e del voltarsi le spalle; il guardarsi in cagnesco era cosa che entrava oramai negli atteggiamenti ordinari; a parte queste forme esteriori della lotta, quello che davvero pesava era la resistenza accanita di chi non voleva che le nuove espressioni entrassero nella vita della musica.
Spesso gli aggettivi destinati ai traditori della patria erano legati ai nomi dei giovani musicisti, il tradimento perpetrato ai danni dello stile italiano era enunciato a piena voce; ma non riuscivi a comprendere in che cosa certi esaltati facessero consistere lo stile della musica italiana. Per i musicisti giovani si trattava soltanto di reclamare il diritto alla vita: le loro composizioni dovevano entrare nel giro dei programmi normali, la loro attività inserirsi nella scuola, negli studi, nella critica. [...]