RUBENS TEDESCHI

GIAN FRANCESCO MALIPÍERO:
IL SOGNO


IN D'ANNUNZIO E LA MUSICA

pp. 108-115
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La primavera del 1913 vede riuniti a Parigi i tre maggiori protagonisti della Generazione dell'Ottanta: Alfredo Casella, Gian Francesco Malipiero e Ildebrando Pizzetti. Il primo è di casa nella capitale dove era giunto tredicenne nel 1896 per seguire i corsi del Conservatorio con Gabriel Fauré; ora, a trent'anni, ben inserito nell'ambiente, è maturo per trapiantare in patria le esperienze di rinnovamento assorbite nel crogiuolo francese. Organizzatore per istinto e per gusto, tende a raccogliere attorno a sé i giovani che condividono l'esigenza di una vivace trasformazione.
La Parigi di quegli anni era - l'abbiamo detto - il centro e la cassa di risonanza di un'arte europea indirizzata a una radicale trasformazione.
Sulla fine del secolo scorso, - scrive Massimo Bontempelli, uno degli artefici del movimento - e poi dal principio di questo sino alla guerra del quattordici, l'arte europea parve impegnata soprattutto nella liquidazione scrupolosa d'un lungo passato ch'era stato molto glorioso. In esso di secolo in secolo la volontà di creare s'era venuta rinnovando con fecondità ininterrotta, ora in pochi decenni rapidamente si disfaceva. Quel dissolvimento non parve un'agonia: era pieno di pudore e di un'ardente dignità. Per questo molti sulle prime lo credettero giovinezza nuova e primordio. [1]
E tale era, per la necessità di una rottura con un passato che era stato sì glorioso, ma che ormai rischiava di ridursi ad accademia. La rivoluzione dei «tre B» - Bach, Beethoven, Brahms - nel campo strumentale, come quella di Wagner sul terreno operistico, erano ormai assorbite a tal punto da venir trasformate in bastioni sul cammino delle nuove leve.
La ricca borghesia, che dettava legge nelle sale da concerto e nei teatri, aveva fatto proprie quelle che in passato apparivano conturbanti novità, e le sosteneva tenacemente contro ogni tentativo di sperimentare gli inevitabili sviluppi. Il fenomeno, diffuso in tutta Europa, si verifica con un aspetto particolare in Italia, dove le istanze di rinnovamento sono più urgenti, dopo la grande stagione melodrammatica, ma si manifestano come ricalco di altre tradizioni ottocentesche: quella tedesca nel risveglio sinfonico di Martucci, Sgambati, Bazzini, o quella francese nell'opera lirica di stampo verista.
Dappertutto, quindi, era ormai indispensabile che l'immobilità, prodotta dalla grandezza del passato, venisse scossa da un'azione tanto più violenta quanto maggiore era il peso dell'ostacolo. Alfredo Casella è, tra i musicisti italiani, il primo a comprendere l'esigenza di radunare le forze per la battaglia che sembra decisiva e che invece si prolungherà - assieme agli sconvolgimenti sociali e politici - per mezzo secolo. L'incontro con Pizzetti e Malipiero è solo il primo passo su una strada irta di ostacoli e di equivoci.
I tre, avvicinati dall'esigenza di un rinnovamento italico, camminano su sentieri, almeno in parte, diversi. Pizzetti, ancorato a vita alla riscoperta del gregoriano, rifugge dalle sperimentazioni che attirano la vivace intelligenza di Casella. Malipiero muove i primi passi tra la Mitteleuropa di Smareglia, suo maestro, e il ritrovamento del «barocco» veneziano: «Nonostante i miei buoni rapporti d'amicizia con Alfredo Casella, - dirà anni dopo - «non esiste nessun mio legame musicale con lui. Molte sue opere mi piacciono, le ascolto volentieri (il che per me non è poco) ma fummo sempre agli antipodi e forse la nostra lontananza musicale ci riuni» [2].
In effetti, anche i «buoni rapporti», specialmente fra Pizzetti e gli altri due, saranno incrinati da astiose polemiche. All'inizio, però, l'esigenza del nuovo, quale esso sia, è prevalente e riunisce le forze. La riprova, sebbene contenga già un equivoco, è nell'ammirazione di Malipiero e di Casella per la Fedra pizzettiana [3] studiata sullo spartito, e poi per la Pisanella rappresentata allo Châtelet; le differenze cominciano invece ad affiorare alla tempestosa prima del Sacre du Printemps di Stravinsky che lascia freddo Pizzetti, mentre entusiasma i sodali al pari di Gabriele D'Annunzio attivissimo sostenitore.
Proprio il poeta sarà in futuro uno dei fattori che contribuirà a mantenere vicini i tre dell'Ottanta. Ma anche qui in modo diverso: con Ildebrando, D'Annunzio ha [...] un profondo legame di collaborazione; con Casella, a parte alcune liriche giovanili, l'unità d'intenti si stabilirà sul terreno delle iniziative editoriali, mentre con Malipiero l'intimità è destinata a fiorire sulla paradossale incomprensione del primo approccio.

TRAMONTO D'AUTUNNO

La storia del rapporto Malipiero-D'Annunzio è un capitolo a sé, rivelatore del vero atteggiamento del vate nei confronti delle collaborazioni musicali. «Non mi è stato facile avvicinare il poeta quando sentivo il desiderio di musicare i suoi versi» [4], ricorda il compositore. Nel 1908, quando D'Annunzio arriva a Venezia per la rappresentazione della Nave, il musicista non riesce a farsi ricevere; due anni dopo invia un amico, il pittore Guido Cadorin, a chiedere l'autorizzazione a musicare I sonetti delle fate. L'ottiene, dopo aver atteso nell'atrio del Grand Hotel, senza venir invitato a salire.
E questo comunque il passo che precede l'avventura del Sogno d'un tramonto d'autunno, destinato a rimanere nel cassetto.
Il bizzarro caso è stato narrato più volte dallo stesso Malipiero con piccole varianti dettate dalla fantasia del momento. Il racconto più esauriente (datato 1952) si trova nel monumentale catalogo della sua opera:
Mi avvenne di scoprire Venezia (non quella d'oggi, bene inteso) dopo aver letto, circa quarant'anni fa, il Fuoco di Gabriele D'Annunzio. Ebbi poi occasione di sostare in una villa in riva al Canale del Brenta, proprio mentre stavo leggendo il Sogno d'un tramonto d'autunno. Suggestionato pure dall'ambiente, me ne invaghii. Mi recai a Parigi (1913) per chiedere al Poeta il permesso di musicarlo; mi rispose, sì, forse, tergiversava insomma. Finalmente da un amico mi venne riferito che Gabriele D'Annunzio non capiva perché, con tanto entusiasmo per il suo poema, non ne avessi scritto nemmeno una nota. Trovai giusto il rimprovero, perciò mi misi immediatamente al lavoro e ben presto lo condussi a termine. Soltanto più tardi (e non dico troppo tardi) scopersi la verità: egli aveva ceduto a un dilettante il diritto di musicare il Sogno d'un tramonto d'autunno e non osava confessarlo. L'opera rimase inedita ed ineseguita. Oggi non so decidere: debbo essere grato a quel ricco dilettante che costrinse a rimanere inedito il mio sogno dannunziano?[5].
Un'altra versione, scritta in precedenza e ripubblicata parzialmente in un'antologia di scritti propri, aggiunge qualche particolare gustoso:
A metà gennaio del 1913 mi recai a Parigi per chiedergli l'autorizzazione [...]. Ero disposto a recarmi ad Arcachon dove il poeta allora dimorava, ma con un telegramma giunto il giorno stesso egli annunciava il suo arrivo per l'indomani. Non arrivò e per quattro mesi quasi quotidianamente i suoi messaggi mi sconsigliavano di partire alla volta di Arcachon. Se l'attesa mi pesò fui ricompensato perché feci la conoscenza di Alfredo Casella e dello scultore Medardo Rosso che mi guidò attraverso Parigi da buon conoscitore [...]. In giugno egli giunse finalmente a Parigi, mi ricevette nella sua abitazione, mi offerse un libro [la recente edizione della Pisanella] con una graziosa dedica ma autorizzazioni niente.
Sorrisi, forse che sì forse che no, arrivederci presto ad Asolo, e basta [6|.
Tornato a Venezia, il musicista continuò a lavorare al Sogno, completando la partitura alla vigilia della prima guerra mondiale.
Sappiamo bene come il memorialista subisca volentieri l'inclinazione goldoniana alla «spiritosa invenzione». Resta da chiedersi sino a che punto si spinga nell'abbellire la verità. D'Annunzio, non v'è dubbio, era tanto ambiguo nei rapporti umani, quanto infallibile nella corsa al profitto. Aveva gran bisogno di contanti e li raccoglieva con un giro convulso di prestiti sostenuti dalla vendita del proprio lavoro. L'unica mercanzia che poteva offrire era il suo genio. Nel campo musicale gli acquirenti non mancavano, specialmente a Parigi dove era in contatto con tutto il gruppo dei novatori, riuniti nella Societé Musicale Indépendante, di cui Casella era segretario. Egli stesso ne era membro dal 1911.
Il Sogno autunnale, scritto nel 1897 e rappresentato nel 1905 dalla Duse, era ben noto in Francia e non mancava di aspiranti compositori. Il «dilettante» che avrà la meglio è in realtà una musicista, madame Germaine Corbin che versa settemila lire per l'acquisto e la riduzione del testo. Malipiero, tornato a Venezia senza aver concluso nulla, non rimase all'oscuro della situazione. Ne fu informato da Toni Antongini, segretario del poeta, ma non volle rinunciare all'impresa, anche se non era in grado di superare l'offerta della concorrente.
I ricordi dannunziani dell'Antongini, per quanto anch'essi fantasiosi, sono abbastanza documentati a questo proposito, grazie alla risposta del Malipiero:
Della musica che da tanti anni mi perseguitava, in quindici giorni ho fissato definitivamente un bel pezzo: un quarto di opera circa; e nemmeno la tua lettera d'oggi mi ha fiaccato. Succeda quel che succeder voglia, io andrò fino in fondo: se mai la mia musica sarà buona, vivrà prima o dopo, ed in ogni caso rimarrà come prova di fede e di entusiasmo verso il Poeta che è uno degli uomini che più mi ha fatto soffrire [7].
Deciso a continuare la composizione a proprio rischio, il veneziano non rinuncia però a bombardare di suppliche il vate che ci si diverte, come prova un biglietto abbastanza cinico spedito al complice segretario: «L'ineffabile Malipiero mi spedisce commoventi cartoline da Asolo» [8]. Tutto l'affare, commenta l'Antongini, è frutto di una doppia incomprensione:
L'artista Malipiero non riusciva a comprendere come, dopo che egli aveva inusicato il «Sogno di un tramonto d'autunno» (ben inteso senza consultarne l'autore), l'artista D'Annunzio (a cui il fatto era noto) potesse trattare con altri il diritto di musicare la stessa opera.
D'Annunzio, dal canto suo, non riusciva a comprendere come il Malipiero, per il solo fatto di aver messo in musica una sua opera senza consultarlo preventivamente, pretendesse di impedire a lui di guadagnare dei quattrini con contratti che gli altri gli proponevano per lo stesso soggetto [9].
Le ragioni finanziarie, come si vede, prevalgono su quelle artistiche. È evidente che lo scrittore, capace di atti di grande generosità - come il dono della Fedra a Ildebrando da Parma -non ha la medesima considerazione per l'altro collega [10]. Soltanto in seguito nascerà l'amicizia che il recluso del Vittoriale celebra, alla vigilia della morte, fantasticando una collaborazione del Malipiero «nel trascrivere e nell'ordinare» le «cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto». In omaggio alla fraterna comprensione, Malipiero racconterà a sua volta, in uno scritto commemorativo, d'aver fatto ascoltare al vate l'opera soppressa: «Fu pochi giorni dopo la battaglia di Gorizia che io gli facevo sentire la musica pel suo Sogno d'un tramonto d'autunno, e la mia esecuzione non la metteva certamente in valore, ciononostante egli colpì in pieno la parte vulnerabile del mio lavoro.» [11]
La rivelazione è omessa nelle successive rielaborazioni dei ricordi malipieriani. Forse appartiene anch'essa alle fantasie funebri ondeggianti tra Asolo e Gardone. Lascia dubbiosi, in particolare, la proclamata infallibilità del censore. Questi avrebbe dovuto rilevare, semmai, l'apporto della musica nel dar vita a un testo così poco teatrale.
Poema, lo definisce D'Annunzio, sebbene sia scritto in prosa. In effetti, nella vicenda della sfiorita dogaressa, tutta tesa a riprendere il giovane amante uccidendo la meretrice Pantea col maleficio della bambola di cera, ciò che emerge è l'abbondanza delle parole e delle immagini in una cornice di crudele sontuosità che richiama, più della pittura veneta, l'oro cartaginese e il sangue di Salammbô.
Il testo fastosamente letterario è volutamente privo di movimento scenico. Il dramma è tutto narrato: prima dalla dogaressa che rievoca il suo amore e l'assassinio del marito, e poi dalle ancelle che riferiscono man mano il procedere del corteo navale della cortigiana sulle acque della Brenta, le scene di lussuria sul bucintoro, l'incendio e la battaglia.
Tocca alla musica garantire varietà ai successivi racconti, offrendo all'ascoltatore la visione di quanto avviene fuori. Malipiero trova affascinante la sfida perché, sin da questa prima prova, il suo teatro è intessuto di visioni, di illuminazioni, tanto più folgoranti, quanto meno legate alla realtà quotidiana e alle consuetudini naturalistiche. In seguito egli si costruirà testi più concisi ed essenziali, ma la forma del «racconto» continuerà a caratterizzare le opere sue più riuscite, dalla Sette canzoni al Torneo notturno.
All'affinità delle fantasie antiteatrali si aggiunge il peso della parola come supporto alla musica. A D'Annunzio - se avesse ascoltato davvero il Sogno - non sarebbe potuta sfuggire l'abilità del musicista nel seguire il movimento di una prosa liberamente poetica.
La prosa, evasa dalle rigide stanghe del quinario-settenario-endecasillabo, procede con un moto vario, suscitando ritmi e colori orchestrali dettati dall'incalzare dell'espressione. V'è già qui, nel bene e nel male, la futura vocalità malipieriana, tracimante per mancanza di argini al pari dell'eloquenza dannunziana, ma non priva di illustri antecedenti musicali: il secentesco recitar cantando del Monteverdi e la moderna parola intonata da Aleksandr Dargomyzskij nel Convitato di Pietra.
È vero che, molti anni dopo, quando scriverà - nel 1963 - un suo scialbo Don Giovanni, partendo dal medesimo testo di Puskin, Malipiero, ombrosamente suscettibile, giurerà di non aver mai conosciuto il modello. Ma fosse anche vero, ed è possibile, egli ha conosciuto tutto ciò che ne è derivato, attraverso Mussorgskij, Stravinsky, Debussy ai quali il Sogno deve parecchio.
I conti tornano. Alle fonti francesi e decadenti del poema corrisponde una musica che ha la sua prima fonte nell'impressionismo, nutrito di modi arcaici, e nelle correnti affini uscite dal Tristano, confluenti tutte nell'estetismo della decadenza. Dal Pelléas alla Salome, per intenderci: rami di un unico tronco che affonda le radici nel movimento preraffaellita e che darà gli ultimi frutti operistici nei prodotti di un art nouveau di marca austrotedesca.
D'Annunzio avrebbe dovuto riconoscersi in queste istanze europee che, legate ad una venezianità d'alta epoca, sono e saranno il pilastro dell'arte di Malipiero. Abbastanza ricco da svilupparsi in modo autonomo, ma legato al dannunzianesimo da innegabili affinità: quelle puntualizzate da Beniamino dal Fabbro, «l'umanesimo letterario e musicale, l'amore per il Medioevo italico risentito con aspetti d'allegoria gotica, una vena rinascimentale che non esita a risolversi in contrasti presaghi d'espressionismo» [12]. E, ancora, il diluirsi del discorso in una verbosità fastosa e disossata, dove l'unico limite è segnato dal gusto e dalla compiacenza dell'autoascolto.

NOTE

[1] Bontempelli, Gian Francesco Malipiero, Milano, Bompiani, 1942, p. 7.

[2] G. F. Malipiero, Da Venezia lontan... Milano, All'Insegna del Pesce d'Oro, 1968, P. 36.

[3] Parigi, 27 marzo 1913. Lettera di Malipiero: «Il Mº Casella mi esprime il desiderio di conoscerti e di avere lo spartito di Fedra che ammira e che ha avuto l'occasione di vedere dalla Signora Goloubeff. Ti metto in comunicazione col Mº Casella...» Segue di mano di Casella: «Maestro, so che a giorni avrò la fortuna, tanto desiderata, di conoscerla personalmente. Da un mese faccio quotidianamente lavorare la Fedra a M.me Goloubeff; ho potuto così conoscere abbastanza profondamente la sua opera, della quale sono ardente ammiratore...» (I. Pizzetti, Cronologia, a cura di Bruno Pizzetti, Parma, p. 108).

[4] G. F. Malipiero, Ariel musicus, in «Scenario», n. 4, aprile 1938, P. 204.

[5] AA.VV., L'opera di Gian Francesco Malipiero, Treviso, Edizioni di Treviso, Libreria Canova, 1952, p. 189.

[6] Ibidem, pp. 294-296, parzialmente ripreso in Il filo d'Arianna, Torino, Einaudi, 1966, p. 268.

[7] T. Antongini, Vita segreta di G. D'Annunzio, Milano, Mondadori, 1938, PP. 492-493.

[8] T. Antongini, Quarant'anni con D'Annunzio, Milano, Mondadori, 1957, P. 330.

[9] T. Antongini, Vita segreta, cit., P. 491.

[10] Un'ulteriore prova si ha nel rifiuto del poeta di cedere a Malipiero la Fiaccola sotto il moggio. «Non posso impegnarmi per la «Fiaccola» gli dichiara nel giugno del 1913; ma pochi mesi dopo la cederà a Pizzetti che gliela chiede. (P. Nardi, Un musicista e un poeta, in «Resto del Carlino», 18 marzo 1962).

[11] G. F. Malipiero, Ariel musicus, cit., p. 204.

[12] B. Dal Fabbro, Musica e verità, Milano, Feltrinelli, 1967, p. 270.