RICORDI E PENSIERI DI GIAN FRANCESCO

MALIPIERO RACCOLTI DAI SUOI SCRITTI



II

AMICIZIE E DELUSIONI

L'OPERA DI G. F. MALIPIERO
pp. 294-302

Gabriele d'Annunzio venne a Venezia per le rappresentazioni della «Nave». Non potei avvicinarlo, lo vidi soltanto passare davanti al caffè Florian, in piazza San Marco, preceduto dal gigante Origo, lo scultore, e seguito dal piccolo Treves, l'editore. I tre amici si facevano largo tra le sedie col gesto di chi cammina sulla spiaggia dove l'acqua è bassa e «cerca un mare più profondo».
Nel 1910, al Grand Hotel lo attesi invano. Il pittore Marius de Maria, mio amicissimo, era salito dal poeta per chiedergli, a nome mio, il permesso di musicare i «Sonetti delle fate» e l'ottenne. Avrei preferito parlargli e sentirmi rispondere no.
Alla metà di gennaio del 1913 mi recai a Parigi per chiedergli l'autorizzazione di musicare il «Sogno di un tramonto d'autunno». Mi presentai a un italiano che si occupava dei suoi affari in terra di Francia. Ero disposto a recarmi ad Arcachon, dove il poeta allora dimorava, ma con un telegramma giunto il giorno stesso egli annunziava il suo arrivo per l'indomani. Non arrivò e per quattro mesi quasi quotidianamente i suoi messaggi mi sconsigliavano di partire alla volta di Arcachon. Se l'attesa mi pesò fui ricompensato perché feci la conoscenza di Alfredo Casella e dello scultore
Medardo Rosso che mi guidò attraverso Parigi da buon conoscitore.
Questo singolare tipo di artista volle dimostrarmi la sua riconoscenza (avevo fatto acquistare da una ricca americana, mia amica, una delle sue cere) gozzovigliando. Le grandi città m'incutono sempre un senso di pauroso sbigottimento, di mortale malinconia. Quando entrai nello studio di Medardo Rosso, alle Battignolles, una specie di officina in isciopero, l'angoscia mi prese alla gola, non vedevo più. A poco a poco ecco uscire da vetrine polverose, riposte negli angoli del sinistro ambiente, le sue cere che guardano senza occhi. L'incontro non fu dei più felici ché, avendomi egli presentato per prima cosa La portinaia, non potei fare, a meno di pensare a Tranquillo Cremona e lo dissi, scandalizzandolo. Mi spiegò che non si doveva poter girare intorno alle sculture. Espressi i miei dubbi: la scultura chiusa entro una cornice, come in un quadro, esiste da secoli e si chiama bassorilievo. Il buon Medardo vieppiù si agitava, ma io dopo la prima visita di mezz'ora mi formai l'opinione che mai cambiai, nemmeno per amicizia: Medardo Rosso era un pittore che dipingeva modellando la creta e facendoci colare sopra lacrime di cera.
Non ammiravo la sua vita ostentatamente «bohème», quel suo linguaggio né francese né italiano e quel ripetere sempre le stesse frasi: «sono stanco d'essere stanco» «non c'è che il grande e il piccolo», senza varietà né varianti, mi aveva veramente esasperato, tanto che ben presto ho dovuto mio malgrado aggiungere alle tante una nuova delusione. Le sue opere «Il bambino malato», «La donna velata» (mi pare che anche il Bernini sia riuscito a scolpire una donna velata, quasi da impressionista, eccesso dell'esasperazione barocca: gli estremi si toccano), una ventina in tutto, sono indubbiamente la quintessenza del sentimento umano che restringendosi sempre più, per un voluto sintetismo, ha finito col fare tabula rasa. Difatti Medardo Rosso a quarantacinque anni non scolpiva più e in realtà mai aveva scolpito. Fu costretto a riprodurre meccanicamente sempre le stesse cere, sino alla morte.
Alla fine di maggio lessi su «Comoedia» un'intervista che doveva preparare l'imminente rappresentazione della «Pisanella». Il poeta era dunque a Parigi. Mi precipitai dal suo incaricato d'affari, il quale mi accolse in malo modo: più di venti signore eran già venute a supplicarlo di metterle in comunicazione con l'autore della «Pisanella». Gabriele d'Annunzio non s'era mosso da Arcachon, l'intervista era una spiritosa invenzione di un giornalista. In giugno egli giunse finalmente a Parigi, mi ricevette nella sua abitazione, mi offerse un libro con una graziosissima dedica ma autorizzazioni niente. Sorrisi, forse che sì, forse che no, arrivederci presto ad Asolo, e basta. Più tardi venni a sapere la verità: Gabriele d'Annunzio tergiversava, era riluttante perché tutti i diritti del Poema tragico egli li aveva ceduti a un ricco dilettante e non voleva confessarlo.
Il giorno che gli annunziai che relegavo nel vuoto cassone delle mie opere postume il «Sogno d'un tramonto d'autunno», la sua amicizia si manifestò spontanea, quasi a dimostrare la sua gratitudine per il mio sacrificio che lo liberava da un penoso imbarazzo.
Durante la guerra, a Venezia, lo vidi spesso e fu durante una nostra passeggiata lagunare che gli annunziai la malattia di Claudio Debussy. Non parlò, chiuse gli occhi e per parecchi giorni gli rimase impressa stilla faccia l'immagine del suo dolore. Andai a trovarlo a Gardone.
Sulla sensibilità musicale di Gabriele d'Annunzio non si può dubitare; egli ha sempre saputo ascoltare la musica che poi, negli ultimi anni della sua vita, fu alimento indispensabile al suo spirito.
La zavorra, cioè l'inutile bagaglio del dannunzianesimo, non può pesare negativamente sull'opera di uno scrittore che solo per combattere la malinconia talvolta è ricorso a stravaganze di dubbio gusto. Egli si affidava molto spesso alla musica per curare la sua tristezza e cercò di morire in guerra perché temeva la vecchiaia più che la morte.
La prova della sua amicizia e i temi delle nostre conversazioni notturne non devono uscire dal mistero dei segreti inviolabili ché basta la punta di uno spillo per farli scoppiare come una bolla di sapone.
Una notte gli narrai le vicende della casa di Eleonora Duse ad Asolo. La figlia avrebbe voluto donarla ai Domenicani, perché uno zio fu domenicano, come lo sono i suoi due figli e perché il feretro di Eleonora Duse attese l'imbarco a New York in una chiesa domenicana; ma i domenicani rifiutarono l'offerta. La casa l'acquistò, beneficando molte istituzioni del paese, Lord Iveagh.
La figlia prima di abbandonare la dimora materna al suo destino, volle distruggere le tracce di sua madre. Sono convinto che il suo apparente disprezzo per la donna di teatro nascondesse l'amarezza per la sua tentata e fallita carriera di attrice. Distrusse per prima cosa la corrispondenza, comprese le lettere di Gabriele d'Annunzio, e strappò le pagine delle riviste e dei libri che in margine recavano qualche appunto di mano della madre. Voleva bruciare i costumi già indossati da Eleonora Duse nell'ultimo «giro» che le costò la vita e cancellare tutte le traccie della sua vita teatrale. Riuscii a, salvare i pochi cimeli dusiani ora esposti al museo di Asolo.
Il Comandante non ha voluto credermi: la figlia di Eleonora Duse non poteva aver distrutto le sue lettere, ed escogitò un piano molto ardito per ricuperarle. Mi incaricò di persuaderla a recarsi al Vittoriale. Essa non oppose resistenza perché s'illuse che il desiderio del Comandante fosse il segno della conversione.
S'incontrarono e si lasciarono l'uno deluso per non essere ritornato in possesso delle lettere a Eleonora, l'altra per la fallita conversione.
Non rividi mai più il Comandante.
Non riesco a ricordare perché e come io abbia collaborato al «Messaggero» nel 1918, ricordo soltanto che nella redazione del giornale, romano m'incontravo con Luigi Pirandello, con Rosso di San Secondo e con altri scrittori. Luigi Pirandello fu sempre cordiale con me, ma molto riservato; ciò nonostante non fu possibile evitare la nostra collaborazione. Credo che quasi la temessi.
Nel 1932 egli mi narrava il soggetto della sua «favola». Parlava lentamente ed io l'ascoltavo distratto: non riuscivo ad avvicinarmi, anzi mi allontanavo da lui forse perché sentivo che dovevo evitare le collaborazioni. Ma la sua favola mi prese quando mi lesse integralmente il magnifico primo atto. Assimilai e finii coll'amare anche gli altri due atti, quelli aggiunti per la mia musica.
Con «La favola del figlio cambiato» egli visse la sua prima e ultima avventura musicale, e se fu soddisfatto della nostra collaborazione (ascoltando la sua favola in musica egli si trasfigurava), non riusciva ad abituarsi al caos del periodo di preparazione al Teatro Reale dell'Opera.
Intuì quello che ci aspettava ma non mi assecondò per evitare la disastrosa rappresentazione del 25 marzo 1934. «L'offesa gratuita e brutale che c'è stata fatta mi tiene lontano perfino dai «Giganti della montagna». Quella ch'è forse la mia opera maggiore di teatro m'è restata lì da allora». Così egli mi scriveva quattro mesi dopo la serata ingloriosa. E i «Giganti della montagna» non furono mai condotti a termine.
L'avvilimento di Luigi Pirandello per l'«offesa gratuita e brutale» mi ha stupito perché lo credevo più agguerrito contro le reazioni della folla, la quale folla non è né difficile né capricciosa, ma semplicemente influenzabile. Di fronte a qualsiasi forma d'arte essa si lascia sempre guidare dagli amici o dai nemici di chi si espone ai pericoli dell'incomprensione.
È inutile discutere sulla sincerità dei successi e degli insuccessi. Non v'è dubbio, il melodramma concepito come manifestazione canora, cioè costruito a «pezzi» e ogni pezzo dedicato prima agli interpreti che al personaggio, può entusiasmare o disgustare ché esso dipende da certe valvole che rimangono chiuse a chi non possegga la chiave (del genio) per aprirle.
Per conservare l'egemonia al melodramma canoro, che non dovrebbe essere la sola forma di dramma musicale, si creano artificialmente equivoci e malintesi atti a costruire una barriera fra l'autore e ascoltatori o per meglio dire fra l'autore e quelli che non sanno ascoltare.
Per dare qualche esempio di quello che è l'«ostacolo artificiale» vale la pena di riprodurre due lettere che se non lo fossero non sembrerebbero vere.
Un giornale pubblicava la notizia di un «fiasco» del mio Giulio Cesare nell'America del Sud, cinque giorni prima che andasse in scena. Così si giustificava il direttore del giornale: «Il nostro corrispondente ci aveva comunicato il programma delle rappresentazioni accennando ad alcune previsioni (sic) circa l'esito del «Giulio Cesare» in rapporto al gusto e alla sensibilità di quel pubblico. L'errore è stato commesso in redazione dall'incaricato che, per la verità, non è un suo ammiratore. L'errore è involontario per quanto riguarda l'annuncio della rappresentazione il 6 agosto in quanto si basava sulle notizie ricevute. Per ciò che si riferisce all'esito esso rivela la predisposizione critica cui ho accennato e che risulta tanto più inopportuna in quanto fondata sul semplice preannunzio. In sostanza si tratta di una gaffe, ma non di una montatura in grande».
Un critico per far valere la sua stroncatura di un'opera mia data con successo a Firenze, pubblicava la notizia di contrasti. «Il nostro critico, mi scriveva il direttore, ha seguito l'opera sino alla prova generale, poi ha dovuto abbandonare Firenze per impegni gravi. Di guisa che la critica è sua, ma la cronaca della «prima» era stata affidata al nostro corrispondente fiorentino. Questo vi scrivo affinché vi rendiate conto che se errore c'è stato nel trasmettere al giornale la inesatta descrizione delle accoglienze, non è, tale errore, imputabile al critico bensì al corrispondente, la cui buona fede non può essere messa in dubbio per essere persona completamente estranea all'avvenimento».
Se la coscienza critica s'è ridotta in queste condizioni come si può dare il giusto valore al successo o all'insuccesso?
Fra la nebbia dei ricordi più confusi, nessun richiamo mi aiuta a rievocare l'indefinibile mondo della musica ove sono passato quasi sognando.
Una figura di musicista fa capolino grazie a una caricatura che gli feci nel 1918 e che ritrovo fra le mie carte.
Si andava, io e lui di buon passo, tenendoci sotto braccio, pur sapendo che la mèta non era la stessa e che al bivio dovevamo separarci. Purtroppo qualche anno fa egli si è bruscamente staccato da me come se a un tratto si fosse accorto di essere in ritardo.
Vorrei parlare dei musicisti, ma non trovo il pretesto, nemmeno quello dei miei cani, che non si avvicinavano ai miei camerati, anzi, per quell'istinto che li distingue, si tenevano piuttosto al largo, diffidenti. Nemmeno nel cimitero dei miei più fedeli amici c'è un fiore da cogliere per i miei compagni d'arte. Una eccezione: uno mi fu sempre carissimo e lo sarà sempre. «Certe amicizie resistono alle ingiurie del tempo, perché saldamente tenute da legami invisibili».
La maggior parte dei miei amici è naufragata per aver troppo rapidamente virato di bordo.
Quasi tutti avevano fatto parte di «quell'eroica schiera» che al principio del XX secolo ha determinato un «movimento» sia pure in tempo di marcia funebre, spianando il cammino ai più giovani. Sprovvisti di qualsiasi senso di umanità, si sono lasciati dominare dal senso pratico. Il loro bazar è ottimamente organizzato, c'è di tutto meno che generosità.
L'idillio fra me e i giovani è durato poco.
La nuovissima generazione non è ancora classificabile. Un esempio: mi si presentava nel gennaio del 1942 un giovane, non ancora ventenne, refrattario alla scuola. Egli aveva però al suo attivo alcune opere interessanti, sia per il contrappunto che per l'armonia e la forma. Purtroppo erano dominate da quello spirito schoenberghiano che straziò la musica fra il 1920 e il 1932. Lo considerai un fenomeno (non certo un innovatore, caso mai un ritardatario), e gli dedicai tutta la mia attenzione. Forse, per innato ottimismo, mi son lasciato ingannare da un volgare plagiario che si rivoltò contro di me il giorno che gli accordai un immeritato diploma.
L'importanza di questa dolorosa e miserabile vicenda, sta solo nel fatto che quasi tutti i musicisti giovanissimi son privi di idealità.
Non ho mai cercato l'insegnamento, e se mi sono circondato di discepoli l'ho fatto perché volevo essere ad ogni costo ottimista. Essi han sempre cercato il mio aiuto, come correttore e revisore dei loro lavori, inchinandosi alle mie osservazioni di ordine tecnico; mai hanno ascoltato i miei consigli sulla educazione spirituale e sulla vita che la riflette. Quasi tutti si son messi a posto materialmente, ma il loro spirito è rimasto imprigionato fra la cucina e la camera da pranzo.
Le delusioni non si limitano ai discepoli, ché io conobbi quasi tutti i musicisti del mio tempo.
Maurice Ravel, se avvicinato, respingeva e il suo ingegno non giustificava i suoi modi. Claudio Debussy non era trattabile, lo intravidi appena; ma non importa, la sua musica mi è indispensabile. Igor Strawinsky rappresenta per me il «Sacre du printemps», cioè una profonda impressione (1913) e gli sono grato. Lo incontrai spesso, ma la sua conversazione non ha altro scopo che quello di servire d'introduzione alla sua musica. La nostra corrispondenza durò un breve periodo di tempo, nel 1920, quando voleva trasferirsi a Roma e s'era innamorato di una casa alla Trinità dei Monti che non riuscii a procurargli. Pure Arnoldo Schönberg avrebbe voluto per mezzo mio stabilirsi in Italia, ma indugiando per calcolare le spese del trasloco, rimase in Austria sino al giorno in cui dovette partire per l'America.
La sua conversazione faceva capo agli argomenti musicali in rapporto alle sue teorie e cercava aderenti alla sua riforma della scrittura musicale. Spiegava scientificamente ogni cosa, dalla più piccola alla più grande, diminuendo le grandi e ingrandendo le piccole.
Con Ernesto Bloch per qualche anno ho tenuto un interessante carteggio. Ci divideva allora soltanto l'Atlantico! A Roma (1931) mentre parlavo al portiere del mio albergo qualcuno chiese del Maestro Bloch. Corsi al telefono, fissammo l'appuntamento. L'incontro fu cordialmente freddo. Non lo rividi mai più, mai più mi scrisse. Eravamo fatti per scriverci, non per guardarci negli occhi.
La mia corrispondenza con
Alban Berg è voluminosa ma non riuscendo a ricordare il contenuto delle mie lettere, non comprendo più le risposte di questo musicista che fu sempre fedele a se stesso e ai suoi ideali che andavano più in là del dodecafonico da lui adottato con animo candido, senz'ombra di propositi bellicosi.
Ho conosciuto, più o meno da vicino, tutti i musicisti, da tutti mi sento più o meno lontano.

Venezia, 1944.