RICORDI E PENSIERI DI GIAN FRANCESCO

MALIPIERO RACCOLTI DAI SUOI SCRITTI


Le pagine di ricordi tratte dal libro «La pietra del bando», stampato a Venezia nel 1945, possono dirsi inedite perchè l'edizione non fu divulgata e giace sepolta in un magazzino. Il capitolo «Alla ricerca di Asolo» fu pubblicato la prima volta, con altro titolo, da Renato Simoni ne «La lettura» del gennaio 1941; «Un collezionista» apparve sulla Gazzetta del popolo di Torino nel 1936.
Da volumi e articoli pubblicati in vari tempi, e da un fascio di fogli inediti, sono stati trascritti i passi riuniti sotto il titolo «Musica e musicisti ». Secondo l'ambizione del raccoglitore, essi dovrebbero tracciare la cerchia abituale dei concetti e dei giudizi in cui si muove il pensiero dell'Autore quando considera l'arte sua o rievoca il suo passato di musicista. [GINO SCARPA]

I.

LA PIETRA DEL BANDO

«Di me parlando
mi metto al bando.»

L'OPERA DI G. F. MALIPIERO
pp. 285-294


I
SE SI POSSA RACCONTARE DI SA E DI CIÒ
CHE DICONO LE COSE CHE VIVONO CON NOI

Non ho mai scritto né mai scriverò le mie memorie, ché mi ripugna mettermi alla berlina. E poi chi potrebbe accettare la verità come tale se la inverosimiglianza dei fatti li rende inaccettabili come realtà pure da chi vi è stato travolto, cioè nemmeno io riesco a convincermi che certe cose sono veramente accadute.
È da poco che ho annotato quegli episodi che temevo dimenticare. E poi, che si può ricordare di quello che si vede quando gli occhi sono ancora chiusi? Spesso penso alla mia prima giovinezza come se un altro l'avesse vissuta, o m'illudo di aver veduto quello che ricordo solo. perché mi è stato descritto e poi deformato dalla mia immaginazione.
È vero che a due anni, seduto sulle ginocchia di mio nonno, guardavo dalla finestra e vedevo nella casa di fronte alla nostra, attraverso i pertugi di un focolare veneziano, il fuoco acceso e un gatto rosso andare su e giù con la coda diritta come un cero? Perché questo insignificante episodio mi commuove e invece rimango indifferente di fronte a certi fattacci come la visita dei ladri, un principio d'incendio, e altri più gravi e di cui tanto parlò la gente di casa mia?
Ho veramente udito una folla acclamare nel 1887 il padre di mio padre dopo il trionfo di un suo melodramma?
Ville case, campagne, un rispettabile patrimonio egli aveva già sperperato per rappresentare le sue opere teatrali: alla vigilia della sua morte, sperando ancora che «la fortuna» lo assistesse, egli volle sacrificare l'ultimo residuo delle nostre ricchezze.
Come mai a diciassette anni ho scelto quegli studi che poi mai ho abbandonato? Perché rimasi sempre straniero nei paesi ove mi trascinarono per forza e dove vagai alcuni anni? Obbedendo a quale istinto ritornai a Venezia da mia madre? Con terrore penso a quello che sarebbe accaduto se una forza misteriosa, e che certamente doveva essersi alleata al mio destino, non mi avesse spinto verso una mèta ben precisa. Lottai, sicuro di me, contro tutti e anche contro quelli che volevano aiutarmi ma non per fare di me quello che io dovevo divenire.
Non amo le recriminazioni, né accusare, però di quanti ammaestramenti convenzionali, assurdi, errati, veri scogli contro i quali s'infrangono le migliori energie giovanili, potrei lagnarmi se non ritenessi più opportuno dimenticare un insieme di fatti e misfatti che offenderebbero la memoria di quelli che facevano professione di insegnanti e che nulla mi hanno insegnato salvo a guardarmi dai falsi insegnamenti?
Molto tardi ho compreso il valore di tutto ciò che era mio prima ch'io nascessi, intendo dire ciò che ereditai e che spari nel disordine, mentre ero ancora sotto tutela.
Nel 1909, appena ritornato a Venezia, scoprivo, gettate alla rinfusa in un ripostiglio, alcune opere musicali e sulla musica. Il padre di mio padre, pur essendo un musicista squisitamente ottocentesco, aveva raccolto molta musica della buona epoca e so che egli l'aveva studiata. Disgraziatamente la biblioteca venne gettata sui banchetti della fiera di Natale a Rialto, dove andarono vendute le opere migliori per poco o nulla. I miei tutori nulla seppero conservare perché non comprendevano il valore delle cose che mi appartenevano. Io credo invece che sarei capace di scrivere la loro vita che sarebbe la vera storia della mia vita.
Se m'indugio a fissare un oggetto che mi è vicino, posso ricostruire l'avventura della quale spesso è l'attore principale. Tutto ricordo e cerco questa gioia crudele e che mi fa soffrire, perché mi trasporta in un mondo che domina la mia fantasia.
Alzo gli occhi, poso lo sguardo su una antica maiolica di Bassano, decorata con fiori e frutta, bella di forma e di colore. In quattro andavamo, trent'anni fa, alla scoperta di Asolo. Percorrendo una strada campestre entrammo in una taverna. Da una vetrina, confusa fra le stoviglie, la bella maiolica si fece sentire ed ora vive con me in buona compagnia. Ad un tratto essa sparisce e riappare come per incanto la bella casa dove allora abitavamo e i viottoli delle passeggiate preferite. Boschi di castagni, capricciosi ruscelli, fattorie ove regnava il benessere. Vita patriarcale. I contadini coi calzoni corti e il cappello a pan di zucchero. Odo ancora i sonagli delle diligenze, vedo brillare i focolari delle osterie e, raccolti nella farmacia (il cervello del paese), gli uomini rispettabili. Vita d'altri tempi. Esistono ancora i boschi di castagni? E i ruscelli zampillavano forse soltanto nella mia fantasia?
La sensibilità di allora non era quella d'oggi, ch'è fatta di rimpianti e di nostalgie e che fa mutar d'aspetto alle cose reali e irreali, tanto che dubito dei miei sentimenti di trent'anni fa e in particolar modo se penso alle mie opere di quel tempo: due melodrammi informi e qualche piccolo sprazzo di luce. Forse soltanto oggi raccolgo il frutto di quello che allora sentii e non riuscii a esprimere, oppure tutto quello che ora ricordo è un'illusione e la vita che rimpiango non l'ho mai vissuta?
La vecchia maiolica di Bassano è dinanzi a me e mi accusa di ingratitudine. Trent'anni fa in quattro andavamo alla scoperta di Asolo e i miei tre compagni non ci sono più.
Il 9 ottobre 1910, vigilia del mio matrimonio, stavo facendo le valigie per il «viaggio di nozze». Improvvisamente una voce gridò: scappa. Mi voltai, ero solo, ebbi quasi paura. Non riuscii a muovermi e rimandai di ora in ora la fuga, sino alla mattina del 10 ottobre, quando mi trovai in chiesa e poi a colazione fra gente estranea. Nel pomeriggio partii, ma non solo. Un paio di giorni a Verona, dieci giorni sul lago di Garda. Alberghi miserabili. Nessun ricordo piacevole. Più tardi compresi che fu il mio angelo custode a gridarmi di scappare mentre mi preparavo ad intraprendere un lungo e doloroso viaggio.
Un piatto delle Nove decorato con frutta e fiori, che ho ritrovato dopo tanto tempo e che s'era smarrito fra le mie maioliche, mi ha costretto a rifare trentatré anni di vita a ritroso.
Infatti nel giorno dei morti del 1910 ci recammo in una villetta di parenti ai piedi del monte Grappa. Presso gli eredi di un prete trovai un'autentica e completa camera da letto del settecento veneziano e un servizio da tavola delle «Nove», del quale mi è rimasto il superstite piatto.
Una piccola villa del XVIII secolo con sobrie decorazioni a stucchi, pavimenti a mosaico, ecc. ecc., che vide molto da vicino l'epica lotta sul monte Grappa. La protesse una chiesetta, un piccolo capolavoro di architettura del Massari.
La villa è degenerata in casa rurale e la chiesetta, presa d'assalto da orde di grossi topi, si sfascia. Ho potuto salvare il fregio dell'altare che conservo come una reliquia e che mi ricorda la strada che conduce al cimitero, dove riposa un'intera famiglia che avrebbe potuto diventare la mia famiglia.
Dipende dal modo come si è presentato la prima volta a noi, l'importanza che noi attribuiamo a un oggetto insignificante, com'è il caso di un volume delle Satire di Lodovico Ariosto (Bassano 1771), che acquistai per quattro soldi da un rigattiere. Nonostante il posto che occupano nella mia biblioteca, fra i libri di poco valore, queste satire dell'Ariosto rappresentano un documento del mio soggiorno a Bologna nel 1904.
Rivedo la libreria Zanichelli sotto il Pavaglione:
Giosuè Carducci sempre muto, col cappello in testa e il bavero alzato sfoglia qualche libro o rivista. Rivedo l'Università durante l'ultima tragica lezione. Il devoto Severino Ferrari soffrire in silenzio accasciato su una seggiola. Giosuè Carducci vorrebbe parlare sul sonetto del Petrarca «Tu che di ciel vestita» ma la paralisi gli ha tolto l'uso della parola. Egli soffoca, batte i pugni sulla cattedra, guarda intorno smarrito e finalmente, calcandosi il cappello sulla testa e barcollando, esce per l'ultima volta dall'aula che fu per tanti anni il centro delle lettere italiane.
Spesso non vediamo le cose più vicine, difatti dimenticavo il tavolo sul quale scrivo. È un vecchio tavolo ovale, molto semplice, né bello né brutto.
Lo trovai in un casolare ai piedi del monte Grappa e lo acquistai sollevando la indignazione del parentado. Di nascosto lo feci partire alla volta di Venezia in cima a un carro carico di bauli e di masserizie. Non so come non si sia sfasciato durante il viaggio, tanto era sgangherato. Un abile artigiano lo restaurò senza nulla sacrificare dell'originale, vale a dire di quel poco che i tarli non s'eran degnati di divorare.
Devo molto a questo tavolo e invece lo onoro della mia indifferenza. Uno straniero, appassionato di antichità, lo vide mentre stavano rimettendolo a nuovo e invaghitosene si presentò a me per chiedere se glielo cedevo. Nonostante il mio rifiuto, ci legammo d'amicizia ed egli mi fece conoscere quelle persone che divennero poi gli arbitri della mia esistenza. Il tarlo ora ha ripreso il suo lavoro, forse per tenermi compagnia.
Non so come si siano potute salvare fra le cose inutili alcune fotografie di Venezia prese nel 1865. Un concerto della banda austriaca in Piazza San Marco imbandierata e gremita di soldati; l'I. R. Accademia di Belle arti, l'I. R. Arsenale, e i cannoni chiusi entro cancelli di ferro, nei portici del Palazzo Ducale. Queste immagini di Venezia sotto il dominio austriaco le ho conservate gelosamente perché hanno sempre prodotto su di me una strana e indefinibile impressione: vi ritrovavo i miei «vecchi» e illustravano tanti loro racconti veramente eroici.
Molto lontano da noi è il carnevale veneziano. Morì prima dell'altra guerra, ma fino ai primordi del XX secolo fu una delle più caratteristiche feste cittadine. Piattaforme in piazza San Marco, danze, fiaccolate. Grandi mascherate, caffè rigurgitanti di una folla spiritosa, gaia, e mai scostumata. Non sudici coriandoli di carta, ma profusione di confetti veri. Nel carnevale veneziano si rispecchiava la gentilezza e la generosità di un popolo giocondo e sereno.
Mi rendo conto che certi episodi della mia vita non valgono per gli estranei quello che valgono per me. Vorrei scoprire la ragione della commozione quando mio malgrado, li rievoco, spesso in silenzio, dentro di me.
Per esempio un amo che da parecchio tempo tengo sul mio tavolo mi richiama alla mente una strana bottega che si trovava sulla via che conduce ai giardini pubblici, a Castello. Certo doveva essere come la videro i nostri antichi uomini di mare. Quand'ero bambino vi passavo delle ore, fra le reti, cordami, carrucole, sugheri, fanali, ecc. Di quando in quando acquistavo qualche amo per illudermi di pescare. L'odor di catrame faceva bene ai miei polmoni. Questo sentimento si può definire nostalgia. Non la nostalgia degli esiliati, ché questi soffrono ma sperano di tornare. La Venezia della mia infanzia non ritornerà mai più.
Da Venezia lontan do mile mia,
no passa di che no me vegna in mente
el dolce nome de la patria mia,
el linguaso e i costumi de la gente.

Non ho mai potuto comprendere come
Carlo Goldoni, il venezianissimo Carlo Goldoni abbia voluto abbandonare la sua città per Parigi, e in età più che matura egli si sia adattato a una vita che tanto contrastava con quella della sua Venezia. Nella commedia «Una delle ultime sere di carnevale» egli si congeda da Venezia con parole patetiche che esprimono la sua malinconia.
La sua morte nell'abbandono e nella miseria mi ha sempre rattristato, ma mi ha anche irritato perché l'ha voluta. Dopo molte delusioni sono riuscito a possedere l'edizione originale di tutte le opere di Carlo Goldoni. Durante certi miei prolungatissimi soggiorni asolani, rileggevo le commedie più veneziane, come «Il campiello», perché, nonostante il mio amore per la campagna, la nostalgia per Venezia di quando in quando si faceva sentire. La lettura di una commedia goldoniana mi calmava istantaneamente.
Le mie «Tre commedie goldoniane» sono nate da un forte sentimento nostalgico quando, pur non essendo «da Venezia lontan do mile mia», fra il 1920 e il 1922 non vedevo la possibilità di un ritorno in patria. Nella prefazione alle «Tre commedie goldoniane» scrivevo allora: «La nostalgia per Venezia, per quella Venezia che va scomparendo, è stata la vera origine delle mie tre commedie goldoniane...»
Ho sotto gli occhi il ritratto di uno scrittore mio amico: in piedi, appoggiato al tavolo di lavoro esamina un libro ed ha dietro di sè la libreria. Non riesco a riconoscerlo, nonostante la rassomiglianza, perché l'ambiente contrasta col suo stile. Egli non sembra nella sua casa, ma ospite provvisorio, un intruso quasi, se non osa ribellarsi contro il cattivo gusto che lo circonda e che dovrebbe impedirgli di vivere in armonia con se stesso.
Quando
Gabriele d'Annunzio, ai tempi della Capponcina, come tutti gli appassionati raccoglitori di oggetti antichi, li accatastava nella sua dimora, l'esuberanza corrispondeva un po' al suo stile d'allora. Nel Vittoriale invece, cioè dopo l'avventura di Fiume, egli applicò la sua rettorica alle idee politiche che lo tormentavano, e gli abbondanti tendaggi, i cuscini, le comode poltrone assorbivano la sua voce senza eco. Il Vittoriale è stato, dal giorno in cui entrò a Cargnacco, la tomba di Gabriele d'Annunzio.
Spesso mi tormento per lo stile della mia casa. Se ho amato la musica, la poesia, tutta l'arte nostra antica, è logico che anche l'interno della casa di un Poliziano o del Mantegna o di Gesualdo da Venosa dovessero piacermi, ma questo senso decorativo antiquato poteva corrispondere alla mia sensibilità che pur è dei nostri giorni? Mentre aspettavo il decoratore capace di costruirmi tutto ciò che mi è necessario quale complemento alla mia vita quotidiana, non potevo che rivolgermi al passato che per me rappresenta il presente e l'avvenire inquantoché segna il ritmo della nostra vita spirituale senza compromettere quello che fummo o quello che saremo. Sono convinto che tutti gli sforzi decorativi dei miei contemporanei sono falliti perché non hanno capito che l'architettura corrisponde al clima di un paese e che gli interni delle case corrispondono allo stile esterno degli edifici. In ciascuna epoca lo stile si è affermato senza distruggere la tradizione. Dai greci sino a tutto il XVIII secolo la forma delle lesene, delle cornici, dei listelli, golette, baccelli, trabeazioni, non ha mai sostanzialmente mutato; tuttavia la varietà degli stili si è imposta, ma attraverso la personalità di quegli architetti che hanno navigato seguendo il corso degli astri.
Le colonne del Partenone e quelle del tempio di Vesta sono state certamente tornite dai Ciclopi. I tornitori in legno hanno poi, sino a circa due secoli fa (dagli armadi delle sacristie, agli arcolai, e in mille altri oggetti), conservato pura un'arte che anche nel più piccolo particolare ricordava le sue antichissime origini.
Trent'anni fa avevo raccolto parecchi oggetti antichi, i più comuni per l'uso domestico, cioè pentole, spiedi, piatti, posate, zappe, tenaglie, martelli, lambicchi e ferri chirurgici, fra i quali una tenaglia per strappare i denti e che rappresentava un drago con le fauci spalancate. Volevo che questi oggetti servissero ad illustrare le mie teorie sull'artigianato; ero pieno di buone intenzioni, o meglio d'illusioni, ma una mano rapace m'involò la cassa con tutti i miei tesori. Non mi rincresce d'aver rinunziato a una fatica inutile.
I libri della mia biblioteca vivono con me, in me. Mai ho potuto catalogarli né dividerli per materia ordinatamente, sempre si sono ribellati a qualsiasi umiliazione, imponendosi alla mia volontà e valendosi dei loro incontestabili diritti sul mio spirito. Spesso, senza che io li tocchi, essi cambiano di posto o, mentre li cerco, sono là a portata di mano ma non si fanno scoprire. M'avviene di vederli scendere dagli scaffali, rincorrersi, acciuffarsi. Assisto ad autentiche discussioni accademiche. Ecco Aristarco Scannabue che attacca briga con tutti i suoi contemporanei. Goldoni, l'abate Chiari, Carlo Gozzi si guardano in cagnesco. Un intero palchetto è occupato da Jean Jacques Rousseau, il precursore dei letterati dilettanti di musica. Egli per il «Devin du village» darebbe i 38 volumi delle suo opere letterarie. Quegli uomini di teatro che non hanno resistito più della moda del loro tempo, si sono ritirati in un angolo della biblioteca: l'Aretino, l'Albergati, il Fagioli, il Trissino, ecc. ecc. si sono rassegnati alla vita degli scaffali che certo non vale quella della scena. Gli eruditi (Muratori, Tiraboschi) accendono i loro fari, sono sempre pronti ad illuminarvi. Han fatto lega fra di loro certi scapestrati come il Baffo che ascolta le facezie del Burchiello e dei berneschi pur trovandole insipide. Un libretto anonimo del XVIII secolo intitolato Capricci (con illustrazioni del Longhi) rivela, e non è il solo esempio, lo spirito di un'epoca argutissima e da molti male giudicata. Varrebbe la pena di ripubblicarlo ché il tempo non l'ha intaccato. Malinconico il reparto dei libri con dedica: amicizie morte prima di nascere, promesse non mantenute. L'ultima opera, le cento e cento pagine di Gabriele d'Annunzio, reca una dedica (solstizio 1935) che fu il congedo: «a Gianfrancesco Malipiero che trascrisse e ordinò questo libro con la sua amicizia perpetuata oltre la morte».
Se scorro i 250 volumi della magnifica raccolta dei classici italiani (Milano, 1803-1815), mi ritrovo a Parma dove la scopersi vent'anni fa, acquistando i tre volumi della vita di Benvenuto Cellini. Devo a questo incontro col Cellini la conoscenza di molte opere che mai sarebbero entrate a far parte della mia biblioteca se non mi fossi proposto di completare la raccolta. A tal scopo peregrinai per tutta Italia; se prendo in mano qualche volume: Siena, Bologna, Milano, tutte le città d'Italia coi loro singolarissimi librai antiquari, mi passano davanti agli occhi e non trovo che rimpianto.
Quando solo «La Zucca» di Antonfrancesco Doni si citava come una curiosità stravagante, raccoglievo quasi tutte le opere di questo bizzarro spirito fiorentino. Non le raccoglievo soltanto, pure le leggevo e vi trovavo sentenze, motti, immagini stupende ed un senso musicale veramente degno del Rinascimento. E poi strani discorsi sulla musica, racconti di concerti e rappresentazioni che quasi disorientano cronologicamente e storicamente.
La musica nella mia biblioteca è rappresentata da poche opere, ché io ho evitato il contatto con gli autori che non amo. Posseggo alcuni codici rarissimi, ma sono teoria, scienza del contrappunto, storia della musica. Fra questi il più raro mi è costato il sacrificio di un piccolo libro miniato, del XVº secolo, Nonostante l'importanza dell'acquisto, non ho potuto mai consolarmi di aver rinunziato alla più musicale fra le opere della mia biblioteca.
Le librerie talvolta si muovono, si allungano, si allontanano da me quasi volessero abbandonarmi. Le fermo perché so che se molti libri ci aiutano a vivere, altri possono anche aiutarci a morire.

Venezia, 1943.