LUIGI PESTALOZZA

GIAN FRANCESCO MALIPIERO

GARZANTI EUROPEA


Di nobile famiglia, compì gli studi a Trieste, Berlino, soprattutto Vienna, e dopo il 1898 nella città natale sotto la saltuaria guida di M.E. Bossi, diplomandosi però a Bologna nel 1904.
L'insofferenza per l'insegnamento accademico, che traspare da questo periodo di formazione, preluse alla sua eccessiva polemica per il rinnovamento musicale italiano, contro forme e linguaggi dell'800, svolta negli scritti teorici apparsi fra il 1910 e il 1920 (si ricordano in particolare: Il pregiudizio della melodia, Orchestra e orchestrazione). In queglii anni Malipiero fu in contatto con fe avanguardie europee (a Parigi nel 1913 conosceva A. Casella e ascoltava il Sacre du printemps di Stravinskij sentendosi «sollevato da un lungo e pericoloso ritardo»), sposò la figlia del pittore Rosa, Maria, dette le sue prime prove significative nella composizione: in campo sinfonico, le Impressioni dal vero prima e seconda parte (1910 e 1915); nel teatro, le Sette canzoni (1920), seconda parte della trilogia l'Orfeide, su testi tratti dall'antica poesia italiana. Seguì una fitta successione di lavori teatrali (la terza parte del ciclo l'Orfeide, le Tre commedie goldoniane, le alte vette del Torneo notturno, 1929) caratterizzati da due tipici motivi malipieriani: quello della «mascherata» e quello della «pervicace inconciliabilità col mondo». Sono atti unici privi di vero sviluppo narrativo, composti di situazioni scollegate o connesse solo dal senso, anch'esso tutto malipieriano, della solitudine. La vocalità si basa in larga misura su una stilizzazione di moduli popolari arcaici ma è riassorbita da un contesto angosciosamente visionario e straniato.
Il gesto volutamente antioperistico di queste pièces senza racconto sottintende anche un trauma esistenziale dell'autore, collegabile in parte agli incubi della guerra (per esempio nel dramma sinfonico Pantea, del 1919, la più «espressionistica» delle partiture teatrali di Malipiero). Il più generale rifiuto di Malipiero d'ogni forma di sviluppo e quindi anche del tematismo, si vede anche nella produzione orchestrale e cameristica che conta, oltre alle citate Impressioni dal vero, l'eccelso quartetto Rispetti e strambotti (1920) e le metafisiche Pause del silenzio (1917), per orchestra, anch'esse ispirate a una dolorosa ripulsa degli eventi bellici.
Esponente, con Casella, Pizzetti, Respighi, della generazione che alle soglie del Novecento avvertiva l'urgenza di porre fine al dominio melodrammatico per schiudersi a una nuova teatralità e per riproporre valori strumentali dimenticati dal secolo che finiva, Malipiero subì l'influsso di un certo nazionalistico richiamo all'antica civiltà musicale italiana, allora in voga, e del dannunzianesimo, con il quale condivise non più d'una estetizzante curiosità per l'archeologia culturale. Ma nel ritrovare le vie della musica italiana preottocentesca, Malipiero seppe sottrarsi alle vitalistiche pretese di restaurazione presenti invece nel nazionalismo dei suoi compagni di strada e riandò al passato piuttosto per riconoscersi in un tempo perduto, per testimoniarne la spettrale sopravvivenza.
Ecco perché la scrittura malipieriana (la sua imponderabilità metrica, i riferimenti alle modalità gregoriane, gli accordi per quarte frequenti in un'armonia senza necessità di concatenazione accordale) evoca e poi smarrisce in fantasie spesso lugubri livide immagini di una musica lontana, incontaminata dalla storia presente. In tal modo fino alla serie dei Dialoghi (1956-57) per strumenti o ad Abracadabra (1963) per baritono e orchestra o alla Decima sinfonia (Atropo) (1967) o alle Rappresentazioni da concerto (1957-60) e agli ultimi atti unici Donna Urraca (1954), Don Giovanni (1963), Le metamorfosi di Bonaventura (1966), Malipiero condivise nella sostanza la crisi di identità linguistica della musica contemporanea, sperimentandone la disgregazione, ma in un atteggiamento personalissimo di scettica sfiducia in ogni ipotesi ricompositiva; talché l'intreccio con la cultura europea si stabili fin dall'inizio sul versante della negazione.
Su di esso avvenne, fra l'altro, la collaborazione con Pirandello, di cui Malipiero musicò La favola del figlio cambiato (1934), lavoro di modello neobarocco, monteverdiano, nel quale gli ossessivi meccanismi dello «scambio» suggeriscono l'idea di una civiltà borghese, non solo musicale, destinata alla fine. Un'idea ricorrente, nelle più alte sinfonie come la Terza (Delle campane, 1945) e la Quarta (In memoriam, 1946), o nei più intensi momenti dell'ampia produzione cameristica, o anche in opere come il Giulio Cesare (1936) troppo superficialmente accusato di cedimento, po la proibizione mussoliniana della Favola, all'apologia di regime. Il pessimismo malipieriano, affidato spesso a un lugubre grottesco o a un'acre spensieratezza, si trova perfino nella sfrenata commedia (ma sul tema inquietante dei travestimento) I capricci di Callot (1942).
Nel 1922 Malipiero, rimasto vedovo, si era risposato con Anna Wright e nello stesso anno aveva acquistato una casa ad Asolo; qui si stabili conducendo una vita appartata, senza tuttavia abbandonare l'attività didattica, avendo fra gli allievi C. Togni, B. Maderna e L. Nono.